A Vienna si discute della credibilità perduta della meteorologia. E il caso “Sicilia” è al centro della polemica.


Come molti di voi sapranno, il record di temperatura di 48.8°C registrato a Siracusa l’11 agosto 2021 è stato ufficialmente convalidato dopo un attento esame.
Ciò che in pochi sanno – e che emerge da documenti ufficiali – è che l’indagine metrologica alla base di quella convalida è stata condotta nell’ambito del progetto “Climate Reference Station” (CRS-EMPIR).

Questo progetto, di altissimo profilo scientifico, è stato cofinanziato dal programma EMPIR e dall’Unione Europea attraverso Horizon 2020. La sua missione era chiara: sviluppare stazioni di riferimento climatologiche con strumenti metrologicamente validati per aumentare l’accuratezza delle misurazioni e rafforzare la fiducia nei dati raccolti. In altre parole, doveva eliminare ogni dubbio, ogni incertezza, ogni possibile bias ambientale che potesse inficiare i dati cruciali per lo studio del cambiamento climatico.

Difatti, la stazione di riferimento climatica installata dal progetto vicino a Torino, in Italia, è un gioiello di precisione, installata in un’area specifica libera da ostacoli e conforme alle rigorose raccomandazioni dettate dal “World Meteorological Organization”(WMO). I suoi dati sono così pregiati da essere stati proposti per entrare a far parte della ristretta cerchia di stazioni di riferimento della “GCOS Surface Reference Network” (GSRN).

Cosa significa tutto questo? Significa che la convalida del record di Siracusa non è stata un’operazione routine. È stata un’operazione di altissima scienza, condotta con la metodologia più avanzata e rigorosa al mondo, sotto l’egida dei programmi di ricerca più prestigiosi d’Europa.

La domanda allora che sorge spontanea, e che ancora attende una risposta chiara, è: perché tanta metrologia avanzata per convalidare un dato, e poi, forse, così poca trasparenza su tutto ciò che quel dato ha scatenato a livello istituzionale e sulle responsabilità di chi avrebbe dovuto prevenire le conseguenze di tali eventi estremi?

Infatti, mentre riflettevo su questa contraddizione, mi sono ritornate in mente le parole pronunciate dal Dott. Grassi che ora risuonano con una precisione quasi profetica: Il mio impegno – aveva affermato – è integralmente sostenuto con le mie finanze ed è soprattutto animato dal principio di verità. Posso altresì affermare di essere autonomo e indipendente a qualsiasi logica di potere, ma alla luce di quanto ho potuto direttamente verificare, ritengo inammissibile che un falso record sia stato convalidato da Enti, Organizzazioni, Istituti che dovrebbero ispirarsi esclusivamente al rigido metodo scientifico. In queste modalità, viceversa, ho riscontrato molte opacità.

Una dichiarazione che quando mi era stata – ufficialmente – comunicata, aveva sollevato un interrogativo ineludibile: chi beneficia di questa opacità e a quali finanziamenti pubblici, magari erogati proprio per garantire trasparenza e accuratezza, si è attinto, già… mentre un dato così fragile veniva elevato a verità indiscutibile?

La sua riflessione poi si è fatta ancora più penetrante, svelando retroscena che hanno gettano una luce sinistra sull’intera vicenda. Il SIAS – secondo il Dott. Grassi – dopo la registrazione del record, ha sostituito (per ben due volte) lo schermo bucato, sostituendolo con altri a norma.

Ora… di queste modifiche il SIAS non ha mai dato comunicazione ufficiale, difatti – sempre secondo il geologo Grassi – quest’ultima ha rimosso il secondo schermo dove alloggiava un altro sensore, sempre senza comunicarlo. Insomma, la stazione è stata modificata all’insaputa di tutti, egli ritiene che quanto sopra sia avvenuto nel tentativo di normalizzarla, ovvero di eliminare quella sovrastima sistemica che quasi proprio in quei i giorni quella stazione registrava.

Difatti, il dott. Grassi proseguendo ha commentato: Mi sono convinto che questo record di 48,8° serviva – o forse serve – a qualcuno per creare allarmismo climatico e incutere spavento alla popolazione.

Perché? Semplice dichiara Grassi: da questo allarmismo si generano nuovi dibattiti, nuove politiche economiche, insomma diventa più facile condizionare le nostre società. Affermare che siamo sulla soglia dei 50° ha un impatto devastante verso l’opinione pubblica, perché suscita grande panico. È qui che il dubbio si fa concreto: quanti progetti, quanti finanziamenti europei e nazionali legati alla cosiddetta transizione ecologica o all’adattamento climatico trovano la loro ragion d’essere in narrazioni costruite su dati così incerti? Ed allora, ecco che viene spontaneo chiedersi: “Chi trae vantaggio da questo panico indotto”?

Ma nel frattempo – in attesa di comprendere (come tanti di voi) cosa sia realmente accaduto – e dopo aver letto e ascoltato in un video pubblicato su Youtube le parole del Dott. Grassi e del suo legale, si… proprio mentre venivano poste quelle domande, è giunta da Vienna, dal Meteorological Technology World Expo 2025, una conferma sconcertante che dà un peso internazionale a quei miei primi, solitari dubbi, quando iniziai a parlare di questo problema.

L’intervento di Jan Barani, uno dei massimi esperti internazionali in strumentazione meteorologica, ha sollevato proprio il caso del termometro malfunzionante della stazione SIAS in Sicilia, citando esplicitamente il lavoro del geologo Alfio Grassi.

Barani ha parlato di come la meteorologia stia perdendo credibilità, afflitta dal “teatro delle schede tecniche”, dove le specifiche dei sensori mostrano buone performance in laboratorio, ma non riescono a mantenere la stessa accuratezza in condizioni reali. Ha evidenziato altresì come un errore di 3°C, – proprio come quello documentato dal Dott. Grassi – comporti una distorsione del 30% nelle previsioni, influenzando gravemente le previsioni energetiche e climatiche.

Ecco, allora, che inizio a pensare che i miei sospetti non erano affatto campati in aria, ma trovano ora un riscontro autorevole, sì… in una sede prestigiosa, trasformando una questione che ipotizzavo “locale”, in un simbolo di una crisi di fiducia globale.

Sappiamo tutti come dopo l’intervista realizzata al Dott. Grassi, egli, non abbia alcuna intenzione di fermarsi, tanto da avermi anticipato d’aver inoltrato, richiesta di accesso agli atti, al Laboratorio Metrologico INRiM di Torino, dove per l’appunto, era stato effettuato il test di calibratura della strumentazione della stazione di Floridia allo scopo di convalidare il record.

Confido in un celere riscontro – aveva sottolineato Grassi alcuni giorni fa – al fine di fugare alcuni miei sospetti. È l’ultimo, necessario tassello di un’indagine che vuole arrivare fino in fondo, per scoprire non solo la verità su un singolo termometro, ma su un sistema che sembra aver smarrito il suo legame con il rigore scientifico, preferendo alimentare una narrazione utile piuttosto che affrontare la complessità della realtà.

E difatti il Dott. Grassi aveva anticipato che pensava di inoltrare richiesta di accesso agli atti al Laboratorio Metrologico INRiM di Torino, dove era stato per l’appunto effettuato il test di calibratura della strumentazione della stazione di Floridia allo scopo di convalidare il record.

Cosa aggiungere (ho pensato ieri – mentre stavo scrivendo questo post – di contattare per mail il Dott. Grassi, per sapere se nel frattempo egli abbia ricevuto le risposte ufficiali che desiderava) ciò che alla fine emerge non è solo la storia di un dato sbagliato, ma il racconto di come un dubbio, coltivato con tenacia e supportato da prove, stia lentamente smontando una verità imposta, rivelando crepe in un sistema che forse ha più a cuore il consenso e il finanziamento che la pura, semplice e a volte scomoda, accuratezza.

Non mi resta che promettere ai miei lettori che, se vi saranno nuovi sviluppi, farò in modo di farveli conoscere.

La nausea della Storia: il depistaggio che uccise due volte Piersanti Mattarella


Ci sono dettagli che, a distanza di decenni, gridano ancora più forte delle conclusioni ufficiali.

Già, come il ritorno di quel guanto di pelle marrone, trovato non fuori, ma dentro l’auto del presidente della Regione Piersanti Mattarella, sì… sotto il sedile del passeggero.

Per anni ci è stata proposta una versione ufficiale secondo cui, nel panico della fuga dopo quel delitto di Stato, un assassino si sarebbe tolto un guanto e lo avrebbe fatto scivolare – con cura quasi maniacale – sotto il sedile. Un gesto innaturale, illogico, che trasforma un reperto compromettente in un comodo biglietto da visita, quasi a indicare il nominativo dell’assassino.

A me è sempre sembrato più plausibile che quel guanto fosse stato posizionato lì appositamente: un dono avvelenato alle indagini. Forse non è mai appartenuto a nessun killer. Forse il suo scopo non era aiutare la giustizia, ma depistarla – già nelle prime ore dopo gli spari. Serviva a indirizzare lo sguardo altrove, a costruire un colpevole comodo o a inquinare la scena del crimine, garantendo che la verità non emergesse mai. È il primo, perfetto tassello di una copertura che doveva essere impeccabile.

E oggi, a oltre quarantacinque anni di distanza, non parliamo dei mandanti, né della regia: parliamo della scomparsa di quel guanto dagli archivi della polizia. Ci viene offerto un capro espiatorio – un funzionario accusato di averne simulato la consegna – ma questa nuova storiella non fa che confermare il sospetto atroce che ci accompagna da una vita: il sistema è un organismo tentacolare e infetto, in cui servizi deviati, logge massoniche, gruppi eversivi e politica collusa giocano la stessa partita.

In questo gioco al massacro, la criminalità organizzata è spesso il volto più utile da mostrare al pubblico: il colpevole “logico”, a cui attribuire ogni nefandezza, mentre i veri architetti del potere operano nell’ombra, indisturbati. L’omicidio di Mattarella fu un colpo al cuore dello Stato proprio perché un presidente onesto stava spezzando quel legame malsano e per questo fu fermato. Non solo dalla mafia, ma da quel sistema parallelo che della commistione tra affari, politica e violenza ha fatto la sua ragione d’essere.

È un gioco di poltrone che si tramanda da generazioni: una regia occulta che condiziona le nostre vite, decide dei nostri destini e insabbia le nostre verità. Depistaggi, collusioni, limitazioni non sono incidenti di percorso: sono il funzionamento stesso della macchina. E ogni volta che un caso come questo riemerge, non è per giustizia, ma per gestire la narrazione, sì… per offrire una verità di comodo che calmi le acque e continui a proteggere i nomi di chi, ieri come oggi, siede nelle stesse stanze di potere.

La domanda, allora, non è più chi ha ucciso Piersanti Mattarella, ma chi aveva interesse a che quella verità non venisse mai a galla, e perché quel sistema è ancora lì, intatto, a raccontarci storie. Alla fine, ciò che rimane dopo tutti questi anni non è la verità, ma la consapevolezza di aver vissuto in una narrazione forzata.

Io non ho mai creduto a nulla di ciò che mi è stato raccontato, perché ogni storia ufficiale si è rivelata un castello di carte, pronto a crollare sotto il peso delle sue stesse contraddizioni. Dall’omicidio di Aldo Moro – un teatro sanguinoso i cui veri registi sono rimasti impeccabilmente nell’ombra – alle stragi che hanno insanguinato piazze e stazioni, macchine perfette per seminare un terrore funzionale a qualsiasi restrizione delle nostre libertà.

E poi gli accordi: quei patti scellerati tra Stato e mafia, scritti su “papelli” di carta, che da diceria sono diventati verità storica, rivelando non un’emergenza, ma una simbiosi tossica al più alto livello.

Tutte queste vicende, intrecciate come i tentacoli di una stessa piovra, non sono tragedie isolate, ma capitoli di un’unica, grande strategia. Sono state le armi di una propaganda che ha sistematicamente alimentato paura e insicurezza nei cittadini, perché un popolo impaurito è un popolo che accetta qualsiasi cosa in cambio di un’illusione di ordine.

È così che si è consumato, passo dopo passo, fatto dopo fatto, un vero e proprio colpo di Stato silenzioso. Non con i carri armati in piazza, ma con leggi speciali, deviazioni investigative, segreti di Stato e la sistematica distruzione di ogni prova scomoda. E le stesse autorità che avrebbero dovuto proteggere la democrazia sono state le artefici del suo insabbiamento, garantendo che il gioco delle poltrone e il riciclo dei potenti continuasse e ahimè – continua ancora – indisturbato.

Questo non è più un sospetto, ma la traiettoria inconfutabile della nostra storia: un’eredità di menzogne che non appartiene al passato, ma avvelena il nostro presente e ipoteca il futuro.

E quando queste verità scomode tornano a galla, non proviamo più rabbia o sconcerto. Proviamo solo un profondo, viscerale disgusto. A pensarci, viene il vomito, sì… per un sistema che si è nutrito della nostra paura e ha scavato le sue fondamenta nella nostra inconsapevolezza.

Di Matteo contro il sistema che piega la giustizia.


Con un gesto carico di quella amarezza che solo le delusioni profonde sanno lasciare, Nino Di Matteo ha consegnato le sue dimissioni dall’Associazione Nazionale Magistrati.
Questa decisione, maturata nel silenzio e nella riflessione, non è che l’epilogo di un disagio crescente, la presa d’atto che all’interno di quel consesso continuano a prevalere logiche correntizie e calcoli di opportunità politica, dinamiche che ha sempre rifiutato e contrastato persino da membro del Consiglio Superiore della Magistratura.
È un addio amaro, che parla di ideali traditi e di un’istituzione che, invece di essere baluardo di indipendenza, sembra aver smarrito la sua strada, piegandosi a quelle stesse influenze che dovrebbe combattere.

E così, mentre si accinge a proseguire la sua battaglia a titolo personale, come del resto ha sempre fatto anche quando l’Anm preferiva il silenzio, la sua voce si leva a denunciare il pericolo incarnato dalle riforme degli ultimi anni.

A partire dalla riforma Cartabia fino al più recente progetto sulla separazione delle carriere, questi interventi minano alle fondamenta l’indipendenza della magistratura, il principio di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge e l’efficacia della lotta alla criminalità.

La sua scelta non è una ritirata, ma un cambio di trincea, l’affermazione che certe battaglie per l’integrità dello Stato sono troppo importanti per essere confinate dentro un’associazione che sembra aver dimenticato la sua missione.

C’è un’amara ironia nel fatto che sia un magistrato simbolo della lotta alla mafia a dover constatare, quasi come una rivelazione tardiva, che la giustizia in questo Paese è da tempo fragile e profondamente compromessa.

È un sistema dove le logiche di potere e gli interessi forti, siano essi politici o imprenditoriali, hanno finito per infiltrarsi persino laddove dovrebbe vigere solo il rigore della legge.

La sua uscita non è un episodio isolato, ma un sintomo di un male antico, la testimonianza vivente di come la giustizia sia spesso costretta a subire il peso di giochi che nulla hanno a che fare con il suo compito di garantire verità e giustizia.

Questa presa di posizione arriva in un momento cruciale, mentre si avvicina la battaglia referendaria sulla giustizia, e rappresenta un colpo durissimo per la credibilità dell’associazione.

Dimostra, senza bisogno di ulteriori prove, come la giustizia in Italia mostri da troppo tempo i segni di una fragilità strutturale, dove l’indipendenza è continuamente erosa e le decisioni rischiano di essere condizionate da calcoli estranei al diritto.

La sua scelta è un monito severo, un atto d’accusa contro un sistema che sembra aver normalizzato la sua sottomissione alle logiche del potere, e che forse, proprio per questo, non merita più il nome di “giustizia”.

Straordinari di dolore: quando violare i contratti spezza le vite.


Oggi sento il bisogno di parlare di una questione che mi sta profondamente a cuore, e che purtroppo si ripete con una sconcertante regolarità…
Rifletto da tempo su come il mancato rispetto dei contratti, l’aumento indiscriminato delle ore lavorative e l’erosione delle tutele possano creare un terreno fertile per la tragedia.

Si tratta di un circolo vizioso che, ahimè, continua a mietere “vittime bianche”, ogni giorno, rendendo il lavoro non un luogo di dignità, ma di pericolo.

Mi torna altresì in mente – quanto ho sempre evidenziato nel mio blog – un’altra ambigua circostanza, una procedura che avrebbe dovuto essere un faro di trasparenza. ,

Per anni, ad esempio, ho denunciato il fatto che, nonostante fosse prevista dalla normativa, questa pratica fosse sistematicamente ignorata da molti Committenti, in particolare dai suoi dirigenti, come se le regole fossero optional e non prescrizioni vitali.

Eppure, finalmente, dopo tanto insistere, vedo finalmente un segnale di cambiamento, seppur a macchia di leopardo.
Ho constatato personalmente, negli ultimi mesi, che alcuni General Contractor, non tutti purtroppo, stanno iniziando a richiedere con serietà le liberatorie, accompagnate dai relativi bonifici, a tutte le maestranze coinvolte nelle catene d’appalto.

Un passo fondamentale, perché certifica il pagamento e il rispetto dei diritti di chi lavora, dall’appaltatrice principale fino all’ultimo subappaltatore o fornitore. Già… un riconoscimento formale che il lavoratore esiste, è stato retribuito, e non è un fantasma nel sistema.

Pensando a questo, non posso non ricordare quanto accaduto nella mia regione, dove la Fillea Cgil Sicilia ha sollevato il velo su irregolarità profonde negli appalti pubblici. Denunciavano accordi aziendali che, con un lessico calcolatamente edulcorato, trasformavano lo straordinario in “lavoro aggiuntivo”, retribuito forfettariamente e privato di ogni tutela indiretta e differita.

Una deroga silenziosa al contratto nazionale che svuota la dignità del lavoratore. Ma la risposta di taluni Enti (committenti) non è stata lineare, anzi in molte occasioni hanno preferito non affrontare il merito, ma girare lo sguardo, addirittura omettendo di coinvolgere il sindacato nelle comunicazioni successive.

Un comportamento che, ho letto, ha portato la vicenda davanti al Giudice del Lavoro per un presunto comportamento antisindacale!
Tutto questo mi fa pensare a una partita, sì… una partita in cui le regole sono chiare, ma chi dovrebbe arbitrare a volte sembra dimenticarsi di farlo, o addirittura scende in campo in modo maldestro negli ultimi minuti.

Noi, però, non possiamo essere spettatori passivi di questo gioco. Perché quando si gioca con i diritti e la sicurezza delle persone, l’unico gol che si segna è quello della negazione della vita stessa e ogni “vittima bianca” è una sconfitta per tutti noi.

Sicilia: dove la distruzione diventa creazione.


A volte mi fermo a pensare che ciò che ci sembra ostacolo, possa poi diventare dono…
Soprattutto qui, da noi, nella mia “bedda” Sicilia, dove il confine tra fatica e bellezza è sempre stato sottile come la cenere che cade dopo un’eruzione.

Già… quella stessa cenere che, per secoli, ha ricoperto i campi, oscurato il sole, costretto intere famiglie a ricominciare da zero, ed oggi capace di sorprenderci ancora con una versatilità che sa di miracolo…

È come se questa terra, oltre a regalarci arance dorate, mandorle dolci e un mare cristallino che brucia gli occhi, volesse insegnarci a guardare oltre, a riconoscere valore, sì… proprio lì, dove prima vedevamo disagio.

Pensate ad esempio a quella polvere così scura, apparentemente insignificante, che per intere generazioni è stata raccolta con rassegnazione e poi gettata via come scarto inerte, oggi è diventata protagonista, silenziosa di tante vite nuove.

Nei laboratori artigiani si trasforma in saponi esfolianti e purificanti, capaci di restituire alla pelle la freschezza delle sorgenti etnee. Nei campi, sparsa con sapienza tra le file di viti, ulivi e piante aromatiche, agisce da fertilizzante naturale, arricchendo il suolo con minerali che solo il vulcano sa donare. Nelle botteghe di artisti, progettisti e costruttori, la pietra lavica – levigata, intagliata, plasmata – diventa pavimento, scultura, oggetto d’arredo, portando con sé la memoria millenaria del fuoco e del tempo.

Consentitemi – prima di parlare di quest’ultima incredibile innovazione – di ricordarvi alcuni esempi che ho trovato in rete, che trattano proprio di questo materiale lavico, patrimonio unico di quest’isola, che ha saputo forgiare nei millenni intere comunità: dal Consorzio della Pietra Lavica dell’Etna, che promuove l’uso della roccia vulcanica in edilizia e design, al sapone esfoliante a base di cenere dell’Etna realizzato da Antiche Bolle; dall’uso agricolo della cenere come fertilizzante naturale per piante aromatiche e officinali, come racconta l’azienda agricola Sari, fino agli oggetti di design e bigiotteria in PETRAFEEL – un materiale innovativo a base di lava – proposti da System Futur, sono solo alcuni esempi che ho scoperto navigando in rete:

Ma c’è di più, sì… come dico spesso: c’è sempre di più, in Sicilia!

Perché non è la prima volta che la lava – fredda, nera, ostinata – entra a far parte della nostra storia non come minaccia, ma come compagna di vita. Già i nostri antenati, dopo le eruzioni, non si limitavano a piangere i raccolti perduti: raccoglievano la pietra lavica, la lavoravano con pazienza, ne facevano architravi, pavimenti, persino strumenti. Quella stessa cenere, mescolata alla calce, diventava malta per case che ancora oggi resistono al tempo, testimoni di un’alleanza antica tra l’uomo e il vulcano.

Potremmo definirlo un patto silenzioso: tu ci provochi, noi ti trasformiamo!

E oggi quel patto si rinnova, in forme che i nostri nonni non avrebbero mai immaginato. Immaginate, quella stessa cenere dell’Etna, unita a scarti di vetro, che viene trasformata in un inchiostro per le nuove stampanti 3D.

Sì, avete letto bene. Un recente studio – nato proprio ai piedi del vulcano, all’Università di Catania – ha unito geologia e tecnologia avanzata in un abbraccio inaspettato.

Grazie a una tecnica chiamata Direct Ink Writing, cenere e vetro, invece di finire in discarica, prendono nuova vita: diventano miscele modellabili, solide, omogenee. “Gli oggetti stampati sono promettenti, robusti, sorprendentemente resistenti”, ha spiegato una delle ricercatrici coinvolte.

Ecco: il futuro non è una promessa lontana. È qui, ora, nelle mani di chi sa ascoltare la terra, rispettarne il fuoco e reinventarne i doni.

Già perché in Sicilia, forse più che altrove, sappiamo che ogni fine può essere un inizio, basta semplicemente avere il coraggio di guardare la cenere non come polvere di distruzione, ma come seme di qualcosa di nuovo.

D’altronde come non ricordare quanto scriveva Goethe:
L’Italia senza la Sicilia, non lascia nello spirito immagine alcuna. È in Sicilia che si trova la chiave di tutto. La purezza dei contorni, la morbidezza di ogni cosa, la cedevole scambievolezza delle tinte, l’unità armonica del cielo col mare e del mare con la terra… chi li ha visti una sola volta, li possederà per tutta la vita.

Mangia e fai mangiare…


Il detto “mangia e fai mangiare” non è solo un modo di dire: è una fotografia cruda, precisa, del meccanismo che spesso muove le cose in questo Paese.

Funziona tutto – molto meglio – quando, accanto al compenso legittimo per il proprio lavoro, si aggiunge un incentivo extra: una busta, un favore, un “grazie” in contanti che scavalca la formalità dello stipendio. In quel momento, l’efficienza diventa straordinaria, la disponibilità massima, la cortesia smisurata.

È un sistema che si autoalimenta: gentilezza e dedizione crescono in proporzione all’aspettativa di un guadagno aggiuntivo. L’obbligo professionale si trasforma in servizio d’eccellenza, non per senso del dovere, ma per interesse personale e tangibile.

Ne ho trovato un esempio illuminante in un’intervista di Alessandro Nesta, che raccontava la sua esperienza al Milan di Berlusconi. Descriveva, quasi senza volerlo, il “mangia e fai mangiare” applicato a un contesto di altissimo livello.

Dopo una vittoria importante, era prassi che i giocatori raccogliessero del denaro da destinare – in buste – a tutto il personale: dal cameriere al giardiniere. Il capitano Maldini passava a indicare la quota di ciascuno. Una colletta “volontaria”, certo, ma sistematica, per ricompensare chi, negli orari più improbabili e con un sorriso, garantiva un supporto fondamentale.

Ecco il meccanismo in piena regola: i calciatori, già ben remunerati con premi lauti, “facevano mangiare” il personale; e il personale, a sua volta, era motivatissimo a “farli mangiare bene” – e a farli vincere – sapendo che ne sarebbe derivato un beneficio diretto.

Quella del Milan era una macchina perfetta, perché gli incentivi erano doppi e pervasivi. Da un lato, la società raddoppiava gli stipendi in caso di vittoria; dall’altro, i giocatori integravano con le loro buste, così, ogni dipendente – a qualsiasi livello – spingeva al massimo: il successo della squadra diventava il suo successo economico personale.

La dedizione non era più solo questione di professionalità, ma un vero e proprio investimento sul proprio portafoglio. Se la squadra non vinceva, non era solo una delusione sportiva: era un danno economico per tutti, e questa consapevolezza generava una pressione sociale fortissima su ogni singolo giocatore.

Nesta lo descrive con semplicità, ma – permettetemi di aggiungere – quel “sistema” rappresenta, in piccolo, lo stesso meccanismo che oggi pervade ampie zone del nostro Paese: una micro-società in cui l’efficienza si ottiene grazie a mance istituzionalizzate, che generano una circolarità di favori e denaro.

È la prova che le persone, quando spinte da un tornaconto immediato e tangibile, diventano incredibilmente disponibili, operative, persino generose, ben oltre i limiti della normale cortesia.

Ma è anche la dimostrazione di una verità scomoda: questo modello funziona!

E, purtroppo, riflette una mentalità diffusa, in cui il favore, la bustarella, la “tangente educata” diventano il lubrificante sociale che fa girare gli ingranaggi, sostituendosi a una meritocrazia fondata su stipendi equi e su un’etica del lavoro disinteressata.

Ranucci, la bomba e la deriva dei programmi di “informazione”.


L’episodio gravissimo dell’attentato a Sigfrido Ranucci – con un chilo di esplosivo piazzato sotto la sua auto e fatto detonare poco dopo il suo rientro a casa – è un fatto che scuote le coscienze e riporta la memoria a pagine buie della nostra storia. Non si tratta di un gesto casuale, ma di un messaggio preciso e calcolato: un’azione studiata per dire a un giornalista scomodo: “Sappiamo come ti muovi e possiamo colpire te e la tua famiglia in qualsiasi momento”.

È un attacco non solo a un uomo e alla sua famiglia, ma a un simbolo del giornalismo d’inchiesta e, in ultima analisi, alla libertà di informazione, diritto fondamentale in ogni democrazia!

Eppure, ieri sera, nel programma di “informazione” di Bruno Vespa, si è preferito discutere di un banchetto alla Casa Bianca, di un incontro diplomatico tra Trump e Zelensky, come se questo rappresentasse l’emergenza assoluta del giorno, sorvolando invece sulla notizia che ha messo in allarme l’intero Paese.

Permettetemi però di ricordare quanto proprio alcuni giorni fa ha evidenziato “Reporters Sans Frontièresla preoccupante retrocessione dell’Italia di otto posizioni nell’indice mondiale sulla libertà di stampa. Questo scarto tra ciò che è vitale e ciò che è spettacolo, tra ciò che ferisce la democrazia e ciò che fa audience, è la risposta pratica – e desolante – a ciò che l’Avvocato Lovati aveva teoricamente denunciato proprio da quel servizio pubblico.

Ciò che accade a chi non cammina sui binari – come il professor Orsini o lo stesso Ranucci con le sue inchieste – è l’emarginazione o, in questo caso estremo, la violenza più vile. Mentre un giornalista viene colpito con un metodo che ricorda da vicino le intimidazioni della criminalità organizzata, il servizio pubblico sceglie di non dare il giusto risalto a questa notizia in una delle sue vetrine principali, optando invece per un argomento di politica internazionale che, per quanto importante, non ha né l’urgenza né la drammaticità di un attacco alla libertà di stampa avvenuto sotto casa nostra.

È qui che il sospetto che certe trasmissioni siano, in fondo, programmi di intrattenimento “senza lampadari” si trasforma in una certezza amara: perché l’intrattenimento può anche essere la rappresentazione rassicurante di una normalità inesistente, un talk show che ignora le bombe reali per concentrarsi su quelle diplomatiche.

Perché, dunque, dedicare solo “cinque minuti” a temi profondi e poi riservare ampio spazio a programmi di puro svago, quando una notizia come questa meriterebbe una riflessione corale e un approfondimento serio in prima serata?

Del resto, in questi mesi ho dedicato diverse lettere aperte al rischio di recrudescenza in questo Paese, al punto da rivolgere le mie preoccupazioni direttamente al Presidente Mattarella con i seguenti post – e oggi, ahimè, i rischi che avevo preannunciato si sono concretizzati:

Presidente Mattarella, intervenga immediatamente: basta con questa retorica da anni di piombo!

Continuo a ripetermi, ma le mie parole restano come l’eco delle stragi dimenticate!

Lettera aperta al Presidente Mattarella: l’appello inascoltato.

http://nicola-costanzo.blogspot.com/2025/10/lettera-aperta-al-presidente-mattarella.html

La risposta, forse, va ricercata proprio in quella logica dello share che l’Avvocato Lovati aveva smascherato con tanta spregiudicatezza: una logica che premia il dibattito politico-spettacolare e allontana i temi scomodi, quelli che mettono in discussione non un governo specifico, ma l’intero sistema di sicurezza e la tenuta democratica del Paese. 

È più comodo parlare di ciò che accade a Washington che di ciò che accade a Pomezia, perché la prima cosa non imbarazza nessun potentato locale, non interroga le connivenze tra economia e malavita, non costringe a fare i conti con un clima di intimidazione che sta diventando sempre più pesante.

Viene dunque spontaneo chiedersi: perché pago un canone per un servizio pubblico che, di fronte all’attentato a uno dei propri giornalisti, sceglie il binario di una normale serata di intrattenimento politico, lasciando che la notizia vera scivoli nell’indifferenza, come un fastidioso deragliamento di cui non parlare?

Spero quantomeno che episodi come quello accaduto al giornalista Ranucci della Rai – uno dei pochi che, da quel servizio pubblico radiofonico e televisivo, si occupa realmente di “informazione” – possano rappresentare un caso isolato e non ripetersi mai più.

Servizio pubblico o intrattenimento? La scomoda verità dell’Avvocato Lovati…


La riflessione dell’Avvocato Lovati, per quanto possa apparire provocatoria, ha il merito di sollevare un velo su una realtà che molti spettatori percepiscono ,ma che raramente viene enunciata con tanta chiarezza.
Affermare (su Rai 1, il 14 ottobre, nella puntata di “Porta a Porta”) che anche un programma come quello di Bruno Vespa sia, di fatto, “intrattenimento”, non rappresenta una semplice battuta, ma una diagnosi precisa sul funzionamento di una certa televisione pubblica. È un’ammissione che, se accettata, costringe a rivedere le etichette ufficiali che ci vengono proposte ogni giorno e a guardare con occhio diverso alla programmazione e quindi alle sue priorità.

Quanto sopra, mi ha portato ad una domanda, già… ad un altro programma, condotto sempre da Bruno Vespa, che – mi dispiace dire – assilla anche me in qualità di utente che paga mensilmente il canone: perché la Rai dedica uno spazio contenuto di soli “cinque minuti”, quasi simbolico, all’interno di un programma serale, per affrontare temi di bruciante attualità e di profondo impegno civile, come le tragedie internazionali di Gaza e Ucraina o l’ennesimo femminicidio nel nostro Paese, per poi dilungarsi in programmi di puro svago che, per quanto gradevoli, potrebbero trovare collocazione in fasce orarie meno pregiate.

La risposta, ahimè, sembra essere proprio quella indicata – silenziosamente – dall’avvocato Lovati: la logica dello share, dell’audience, prevale sulla missione di servizio pubblico. Ci si chiede allora dove sia finito il diritto di chi paga l’abbonamento a un’informazione approfondita e non relegata a pochi minuti ritagliati tra un dibattito e l’altro.

Perché un cittadino che contribuisce al finanziamento del servizio pubblico si sente costretto a fruire quasi esclusivamente dei telegiornali e di qualche rara produzione di qualità, come le fiction ben fatte o i programmi culturali di Alberto Angela, mentre una fetta consistente della programmazione definita di “informazione” viene sistematicamente percepita come uno spazio per narrazioni orientate, per propaganda politica o di governo?

È una sensazione di estraneità che porta a un rifiuto, a una sorta di censura spontanea, ma che non risolve il problema di fondo: perché sono costretto a finanziare con una tassa obbligatoria, abilmente nascosta nella bolletta energetica, un servizio che spesso non mi serve e che anzi, su temi cruciali, delude le mie aspettative di cittadino?

Abbiamo tutti visto la reazione stizzita degli altri ospiti e dello stesso Vespa alla dichiarazione di Lovati, ed è la prova lampante di aver toccato un nervo scoperto. Non si è tollerata quella verità scomoda, proprio come accade sistematicamente a chiunque, ospite o opinionista, tenti di deviare dal copione prestabilito, di non assecondare il filo conduttore imposto dalla trasmissione.

L’esperienza analoga del Prof. Orsini, messo ai margini per le sue posizioni non allineate, non è un caso isolato, ma il sintomo di un meccanismo che premia l’omologazione e punisce il pensiero divergente. Quella reazione indignata in studio non era solo una difesa d’ufficio della definizione di “programma di informazione”, era la difesa di un sistema che non ammette di essere messo in discussione.

Alla fine, l’episodio con l’Avvocato Lovati trascende la singola trasmissione e diventa un emblematico specchio di ciò che accade nel nostro Paese a chi non vuole camminare sui binari.

Dimostra che quando qualcuno ha la sfrontatezza di chiamare le cose con il loro nome, smontando le narrazioni ufficiali, la reazione non è il confronto, ma l’isolamento e la delegittimazione!

Quella dell’Avvocato, era più di un’osservazione sul palinsesto, era una verità che fa male, perché ci ricorda che spesso, anche di fronte alle tragedie più crude, ciò che guida la scelta non è il dovere di informare, ma la legge dello spettacolo!

Quando i fondi europei dell’agricoltura finiscono nelle mani sbagliate.


Da oggi, 16 ottobre 2025, la Commissione europea ha deciso di aumentare gli anticipi della Politica Agricola Comune, consentendo agli agricoltori di ricevere fino al 70% dei pagamenti diretti (prima era il 50% ) e addirittura l’85% per gli interventi legati a superficie e allevamenti, contro il precedente 75%. 

La motivazione ufficiale è chiara: dare respiro a un settore sempre più stretto tra eventi climatici estremi e mercati internazionali instabili.

Ma mentre si parla di sostegno e liquidità, non posso fare a meno di chiedermi cosa succeda davvero dietro le quinte di questi flussi finanziari. 

Già nel periodo 2014-2020, i “Programmi di Sviluppo Rurale” sono stati regolarmente finanziati e il nostro Paese ha ricevuto un contributo pubblico di 2,14 miliardi di euro, eppure, proprio in quegli anni, si sono moltiplicate le inchieste giudiziarie che hanno smascherato frodi sistematiche, spesso orchestrate da vere e proprie organizzazioni criminali. 

La mia impressione, purtroppo confermata da fatti concreti, è che una parte non trascurabile di questi fondi finisca per alimentare circuiti illegali, anziché sostenere chi lavora la terra con onestà.

Oggi, con la nuova programmazione 2021-2027 dotata di un bilancio complessivo di 387 miliardi di euro per tutta l’UE, il sistema non solo non si è fermato, ma si è evoluto: nel 2025 la Commissione ha presentato un pacchetto di semplificazioni per rendere la PAC meno burocratica e più efficace, proprio mentre il Parlamento europeo si opponeva alla proposta di accorpare i fondi agricoli con altri settori, chiedendo invece un bilancio autonomo e un sostegno diretto al reddito degli agricoltori. 

Quindi, tutto sembra muoversi nella direzione giusta – almeno sulla carta – eppure, basti osservare i casi recenti per capire quanto sia fragile questa architettura. A Napoli e Salerno, tra il 2022 e il 2024, sono stati sequestrati oltre 1,1 milioni di euro grazie a indagini che hanno smantellato un’organizzazione criminale specializzata in documenti falsi, dati fittizi e corruzione di funzionari pubblici. 

Mentre nella stessa provincia di Salerno, nel 2025, altri 470.000 euro sono stati sottratti a chi dichiarava superfici agricole inesistenti. A Caronia e Longi, in provincia di Messina, si gonfiavano i costi dei progetti per intascare contributi più alti, mentre in Calabria, già nel 2014, erano stati sottratti 250.000 euro su un totale di 400.000 attraverso falsificazioni sulla titolarità dei terreni.

Il copione si ripete: documenti alterati, complicità di professionisti (commercialisti, agrotecnici, funzionari regionali) pronti a intascare una percentuale in cambio di coperture, e talvolta persino tentativi di depistaggio da parte di ex appartenenti alle forze dell’ordine. 

Di fronte a tutto ciò, è difficile non domandarsi se l’obiettivo dichiarato di questi finanziamenti – sostenere l’agricoltura, la sostenibilità, le comunità rurali – non venga sistematicamente svuotato da meccanismi opachi che favoriscono chi sa muoversi nell’ombra più di chi coltiva il campo ogni giorno. 

Certo, l’Unione non sta a guardare: esiste la Procura europea (EPPO), ci sono nuclei specializzati dei Carabinieri, e si parla di controlli digitali, anche via satellite, per contrastare le frodi. Ma la domanda rimane: finché il sistema consentirà tanta discrezionalità amministrativa e burocratica, non rischieremo di continuare a versare denaro pubblico in un pozzo senza fondo, dove la criminalità organizzata pesca con troppa facilità?

Io continuo a dubitare, ma d’altronde i fatti, purtroppo, danno ragione ai miei dubbi…

La messa in scena del potere: Perché baciare l’anello è l’antitesi dell’umiltà.


C’è un gesto che da sempre mi ripugna…

Antico, superato, apparentemente silenzioso, eppure carico di un intero universo di significati non detti. Mi riferisco al momento in cui qualcuno si china per baciare l’anello di un Papa, vescovo o di un cardinale.

Osservandolo, al di là della devozione che pretende di esprimere, non posso fare a meno di sentire il peso strisciante della storia: l’eco potente di troni e imperi che credevamo ormai sopiti.

Quel gesto non è nato in una sacrestia, è un reperto archeologico, un fossile vivente importato direttamente dalla corte bizantina. A Costantinopoli, i sudditi praticavano la “proskynesis”: si prostravano fino a toccare la terra con la fronte davanti all’imperatore, considerato vicario di Cristo sulla Terra. Non era un atto d’amore fraterno, ma di sottomissione assoluta, un rito che sanciva una distanza abissale tra il divino-autoritario e l’umano-suddito.

La Chiesa di Roma, erede politica di un impero in rovina, non si limitò a raccoglierne l’eredità spirituale: ne assorbì anche i codici del potere. L’anello con il sigillo, un tempo strumento di comando imperiale, divenne l’anello episcopale. E il bacio, un tempo rivolto al Cesare, fu trasferito al principe della Chiesa.

E qui sorge la domanda più scomoda, quella che risuona da secoli: come può un’istituzione che predica l’umiltà del Figlio dell’Uomo, che lava i piedi ai discepoli in un gesto di commovente servizio, permettere – anzi, talvolta esigere – un atto che ne è l’esatto contrario?

La risposta è amara, ma chiara: il lavacro dei piedi è il prodotto da esporre al gregge, il sublime esempio di come dovrebbe essere il rapporto tra gli uomini!

Il bacio dell’anello, invece, è l’istruzione non verbale sul posto che il gregge occupa nella realtà. È un meccanismo perfetto: non devi obbedire perché minacciato, ma perché ti è stato fatto credere che la tua sottomissione sia una forma elevata di devozione. Ti vendono umiltà… e tu compri auto-annichilimento.

Ricordiamocelo con forza: l’uomo che indossa quell’anello è un uomo. Punto!
Con le sue paure, le sue fragilità, i suoi dubbi, i suoi peccati – forse anche più gravi dei nostri, perché nascosti sotto la maestosità di una toga e il peso di una responsabilità che ha scelto di portare.

Non possiede virtù sovrannaturali. Non è stato toccato da una grazia speciale che lo renda intrinsecamente superiore. Ha studiato, ha fatto una scelta di vita, forse nobile, forse no, ma rimane, in fondo, un uomo che cammina, che cade, e che, come tutti noi, dovrà un giorno rendere conto della propria coscienza.

Quel gesto di inchino, dunque, non è solo un retaggio imbarazzante. È la perpetuazione di una menzogna antropologica: che esista una categoria di esseri umani che, per il solo fatto di ricoprire un ruolo, meriti di essere simbolicamente innalzata, e di conseguenza, di abbassare gli altri.

È l’antitesi di ogni autentica comunità fraterna, dove ci si guarda negli occhi da pari a pari, nella consapevolezza condivisa della nostra comune, magnifica e miserabile umanità.

Smascheriamo dunque questo gesto per quello che è: non devozione, ma psicologia del potere applicata. E rifiutare quella logica non è mancanza di fede.

Al contrario: forse, il primo, autentico atto di umiltà è riconoscere che davanti all’Assoluto, siamo tutti — papi, vescovi e fedeli — nudi e uguali.

E nessun anello d’oro potrà mai cambiare questa verità!

L’inganno della tregua: Donald Trump raccoglie gli applausi, ma il merito va a suo genero Kushner, all’inviato speciale Witkoff e al leader di Hamas, Khalil al-Hayya.


Già… bisogna ringraziare Jared Kushner e l’inviato speciale Steve Witkoff, insieme ai capi di Hamas – capeggiati dal loro leader Khalil al-Hayya, sopravvissuto appena tre settimane prima a un attacco israeliano a Doha – se l’accordo è stato realizzato.

Parliamo degli stessi protagonisti che in passato avevano promosso gli “Accordi di Abramo”, quei patti volti a normalizzare le relazioni tra Israele e diversi Paesi arabi.

Come sempre accade nella vita – e il sottoscritto ne sa qualcosa – gli applausi e le coccarde non vanno mai a chi svolge il lavoro sporco sul campo, bensì a chi incarna la figura istituzionale. Così, anche Donald Trump si riprende la scena, mentre chi, dietro le quinte, ha condotto per settimane la trattativa a tu per tu con i quattro leader di Hamas, non riceve neppure un ringraziamento pubblico.

Ma permettetemi di contraddire quanto scritto in queste ore da pseudo-giornalisti legati in maniera diretta a quel meccanismo di “propaganda politica di governo” che ormai ha infettato il nostro Paese. Uscendo da quello schema – che ricorda fin troppo da vicino il metodo Goebbels – non posso che constatare una realtà scomoda: la tregua raggiunta è stata esclusivamente un mero scambio di prigionieri. Da un lato gli ultimi venti ostaggi israeliani, dall’altro circa duemila detenuti palestinesi. Un baratto umano che ha sollevato un velo di sollievo, ma che non ha scalfito il cuore del problema.

D’altronde, questo nuovo accordo, celebrato a Sharm el-Sheikh da numerosi leader internazionali, ha deliberatamente escluso le parti direttamente coinvolte – Israele e Hamas – come se il destino di una terra potesse essere deciso senza di loro. È lo stesso errore già commesso negli anni passati, e proprio in questa grave assenza risiede, secondo il sottoscritto, l’ennesimo grande fallimento: un fallimento che lascia i due popoli confinanti separati da una voragine… già, proprio come nella mia foto.
Ho osservato – dopo due anni di guerra – quanto è accaduto a seguito del raid di Hamas, e non posso che prendere atto di ciò che resta oggi: un immenso cimitero a cielo aperto, la distruzione totale della Striscia di Gaza, con case, ospedali e scuole ridotti in macerie, e soprattutto oltre sessantasettemila morti e una popolazione stremata dalla fame.

In questo scenario apocalittico, ogni parte ha perso qualcosa, ma forse Hamas ha perso più di tutti, incluso il favore del suo stesso popolo, sfiancato da una violenza che non ha condotto da nessuna parte se non alla rovina.

L’Autorità Palestinese, con sede in Cisgiordania, cerca ora di ritagliarsi uno spazio di mediazione, presentandosi all’ONU e al mondo come l’unico interlocutore credibile per riavviare un dialogo che porti finalmente alla costituzione di uno Stato palestinese – un sogno che sembra più vicino sulla carta che nella realtà.

E quindi non posso fare a meno di essere scettico di fronte a questo entusiasmo euforico, perché la storia ci insegna che i conflitti in questa terra hanno radici profonde e che le soluzioni imposte dall’alto raramente attecchiscono.

Quello che stiamo vivendo è solo una pausa, un momento passeggero dettato dall’urgenza di risolvere la questione degli ostaggi e di permettere l’ingresso degli aiuti umanitari – un bisogno così disperato che persino i combattimenti tra fazioni a Khan Yunis, dove clan locali hanno sfidato Hamas, sono serviti a ricordare a tutti la precarietà del potere.

Sono profondamente convinto che tra qualche mese, quando le macerie saranno state rimosse e la situazione sembrerà stabilizzata, i conflitti riprenderanno con rinnovata ferocia. Hamas – un movimento nato dalla resistenza e dalla militanza armata – non accetterà mai di essere relegato a forza a ruolo subalterno, né di essere messo da parte da un governo tecnocratico o da un’autorità imposta dall’esterno.

La tregua, quindi, non è la fine, ma solo un interludio: un respiro profondo prima che il ciclone di violenza si scateni di nuovo, portando con sé, come sempre, altra morte e altra distruzione, in un ciclo infinito che nessun accordo, finora, è riuscito a spezzare.

To the Ministry of Foreign Affairs of the Russian Federation Moscow


Esteemed Ministry,

I am writing to you not as a political figure or institutional representative, but simply as a private citizen, a father of two daughters, and a man who has always believed in truth, peace, and the individual’s responsibility toward history.

Tonight, while watching the national news broadcast, I listened with deep concern to the opening report announcing a supposed NATO attack against Russia. As a parent, this narrative frightens me—not so much because I fear war, which we already know brings unbearable devastation, but because I recognize in these words a familiar script: the media construction of an enemy, the deliberate escalation of rhetoric, and the dissemination of stories seemingly designed to accelerate us toward a broader conflict.

My name is Nicola Costanzo. For the past thirty years, I have worked as a project manager for international construction companies, living and working across different countries and cultures. For the last fifteen years, however, I have dedicated myself passionately to writing through my blogs: https://nicolacostanzo.it and https://nicolacostanzo.com , where I reflect on information, power, democracy, and freedom of thought.

It is precisely from this experience that my unease arises. I have seen too often how the media transform complex events into simplified, manipulated, or even fabricated narratives—aimed clearly at shaping public opinion, creating artificial consensus, and justifying actions that would otherwise be unacceptable. It is for this reason that I have always chosen to remain mentally free, independent of partisan agendas, never willing to submit to ideological pressures or invisible coercions that limit critical thinking.

And it is precisely in the name of this freedom that I write to you today.

I firmly believe that the current escalation—including the recent reports of drones launched from Polish territory—does not correspond to the facts. Just as I never believed the official account of the sabotage of the Nord Stream pipelines in the Baltic Sea, an incident that remains unresolved, without independent investigations or identified perpetrators.

I fear that once again, a pretext is being constructed to widen a conflict already devastating enough. A war that, I am convinced, could have been avoided back in 2014—if diplomacy had prevailed over strategic expansion, if the proposals made by President Putin regarding collective security had been seriously considered, instead of misleading Ukraine with promises of NATO membership and military support destined to turn the country into a battlefield.

I am therefore contacting you not to take sides, but to ask for one thing only: an official, clear, and unequivocal statement from your Ministry, categorically denying any drone attack launched from Poland toward Russian territory. And, if possible, I would like to understand whether the devices shown by the media match actual Russian models, or if instead they are replicas built specifically to fuel the war narrative.

I fully realize I am not an institutional interlocutor. I hold no office, represent no government. But I firmly believe that every person who, in silence, chooses to speak the truth, lights a candle in the dark. As I often write: “Anyone who, in the course of life, has lit even a single light in someone else’s darkest hour, has not lived in vain.”

I trust that, despite the difficult circumstances, there is still room for dialogue, for truth, and for peace. I hope this war may finally end, and that the world—including the peoples of the Middle East, who for decades have known no serenity—can find once more a balance founded on mutual respect, not fear.

With respect and hope,

Nicola Costanzo

Italian citizen, writer, father, and independent observer

Blog: https://nicolacostanzo.it | https://nicolacostanzo.com

Mentre i leader sorridono, Gaza trema…


Il fragore delle armi a Gaza si è spento, ma il silenzio che avvolge la Striscia non sa di pace: sa piuttosto di respiro trattenuto, di pausa forzata, di attesa carica di tensione.
La cerimonia di firma in Egitto, prevista per lunedì, e lo scambio di prigionieri che ne seguirà, accendono certo una fiammella di speranza.

Eppure, basti guardare con attenzione alle condizioni di questo accordo per capire che non si tratta affatto di una soluzione, ma dell’ennesimo baratto tra vite umane: da un lato, gli ostaggi israeliani ancora in mano a Hamas; dall’altro, quasi duemila detenuti palestinesi rinchiusi nelle carceri israeliane, tra cui centinaia condannati all’ergastolo.

Questo non è un compromesso per la pace, è un patto di sopravvivenza momentanea, destinato a esaurirsi non appena le parti torneranno a guardarsi negli occhi con le armi in pugno.

La struttura stessa dell’accordo rivela tutta la sua fragilità. Israele ottiene l’appoggio internazionale anche di alcuni paesi arabi e il rilascio degli ostaggi, ma mantiene di fatto il controllo militare su oltre la metà del territorio di Gaza. Hamas, dal canto suo, ottiene sì… il cessate il fuoco e recupera centinaia dei suoi uomini, ma rifiuta con fermezza ogni ipotesi di disarmo; un punto, questo, che come sappiamo, per Israele non è negoziabile.

Difatti, un funzionario del movimento ha dichiarato in forma anonima, ma con chiarezza assoluta, che la richiesta di smantellare il suo apparato militare è “fuori discussione”, mentre Netanyahu, non ha esitato a ribadire che, senza disarmo, la guerra tornerà. Dunque, non si tratta di pace, ma di un braccio di ferro sospeso: le armi tacciono, ma le intenzioni non sono cambiate.

Le parole dei leader di Hamas confermano questa lettura. Hossam Badran, esponente di spicco dell’ufficio politico del movimento, ha definito “assurda e senza senso” qualsiasi proposta che preveda l’allontanamento dei suoi dirigenti da Gaza. Ha poi avvertito che, in caso di ripresa delle ostilità, Hamas risponderà a “qualsiasi aggressione israeliana”, e ha descritto la prossima fase dei negoziati come “più difficile e complessa”.

Comprenderete che non sono certo le parole di chi vuole deporre le armi per costruire un futuro comune, ma viceversa, quelle di chi si prepara alla prossima battaglia. E dall’altra parte, Israele non ha alcuna intenzione di permettere ad Hamas di rialzarsi: la determinazione a colpire di nuovo, se necessario, è esplicita, ed ecco perché in questo contesto, la ripresa del conflitto non è una possibilità remota: è quasi una certezza!

A rendere il quadro ancora più cupo è il ruolo di alcuni attori esterni, in particolare l’Iran. Il ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi, ha espresso “totale sfiducia” nella volontà di Israele di rispettare gli accordi, parlando apertamente di “trucchi e tradimenti del regime sionista”.

Ed infatti, pur appoggiando formalmente il cessate il fuoco, Teheran ha escluso con forza ogni ipotesi di normalizzazione con Israele, definendola “semplice illusione”. E poiché l’Iran continua a sostenere militarmente e politicamente Hamas, il suo atteggiamento non fa che incoraggiare le frange più radicali del movimento a resistere a qualsiasi concessione sostanziale.

Ecco perché in questo gioco, la tregua diventa solo un intervallo utile per riarmarsi, riorganizzarsi e attendere il momento giusto per colpire di nuovo, la storia, d’altronde, ci ha abituati a questi corsi e ricorsi e sappiamo come le radici di questo conflitto affondano in decenni di dispute territoriali, religiose e nazionali che nessun accordo superficiale ha saputo mai sanare.

Gli Accordi di Oslo, un tempo simbolo di speranza, sono finiti nel dimenticatoio. La soluzione dei due Stati, pur invocata da anni dalla comunità internazionale è rimasta un miraggio e quindi, l’attuale tregua, per quanto necessaria a fermare l’indicibile sofferenza dei civili, non tocca minimamente le questioni fondamentali: lo status di Gerusalemme, il diritto al ritorno dei rifugiati, la fine degli insediamenti israeliani, la sovranità di uno Stato palestinese.

Quindi, finché queste ferite resteranno aperte, ogni cessate il fuoco sarà solo un cerotto su una piaga profonda, destinato a staccarsi non appena il vento del conflitto tornerà a soffiare. Quello che stiamo vivendo non è la fine della guerra, ma un breve intervallo in una tempesta che non ha ancora esaurito la sua furia.

Già… a differenza di molti leader, in particolare i nostri politici attualmente al Governo, così entusiasti di giungere in Egitto per farsi un selfie con il “loro” Presidente Trump, beh… il sottoscritto teme che ahimè, molto presto, il fragore tornerà a farsi sentire, e purtroppo, sarà più forte di prima

Machado, Nobel per la Pace 2025. Il Comito norvegese delude Trump: “Decisione basate su coraggio, non su campagne”.


Il Comitato norvegese ha scelto di accendere i riflettori su una donna che, dall’oscurità in cui è costretta a vivere, mantiene viva la fiamma della democrazia.
María Corina Machado, leader dell’opposizione venezuelana, è la vincitrice del Premio Nobel per la Pace 2025, un riconoscimento al suo instancabile lavoro per una transizione giusta e pacifica, dalla dittatura alla democrazia in Venezuela.

Il Comitato ha sottolineato come Machado sia stata una figura chiave nell’unire una opposizione un tempo profondamente divisa, non ha mai vacillato nella sua resistenza alla militarizzazione della società e è stata ferma nel sostenere una transizione pacifica, dimostrando che gli strumenti della democrazia sono anche gli strumenti della pace .

In un momento in cui la democrazia è minacciata a livello globale, il suo coraggio civile è presentato come un esempio straordinario e un faro di speranza .

La stessa Machado, reagendo alla notizia, ha definito il premio un impulso per la libertà del Venezuela e, in un gesto che ha colto molti di sorpresa, ha dedicato il riconoscimento non solo al suo popolo sofferente, ma anche al Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, per il suo decisivo supporto alla loro causa.

Questa dedica è arrivata nonostante le aspettative del presidente americano, che da tempo ritiene di meritare l’ambito premio. Poche ore prima dell’annuncio, il direttore delle comunicazioni della Casa Bianca, Steven Cheung, aveva duramente attaccato il Comitato Nobel, affermando che, snobbando Trump, aveva “dimostrato di mettere la politica al di sopra della pace”. Trump ha ripetutamente sostenuto di aver posto fine a diverse guerre durante il suo mandato, includendo di recente anche un cessate il fuoco tra Israele e Hamas, che ha definito come l’ottavo conflitto risolto .

Tuttavia, questa autoproclamata immagine di “Presidente della Pace” si scontra con una realtà più complessa e con le critiche di molti osservatori. La sua azione in Medio Oriente, in particolare, viene vista da alcuni non come il frutto di una diplomazia lungimirante, ma come un intervento arrivato tardivamente, dopo aver permesso che Israele riducesse la Striscia di Gaza in macerie e causasse una crisi umanitaria di proporzioni inimmaginabili.

Difatti, solo dopo questa distruzione, Trump si è impegnato per uno scambio di ostaggi e la liberazione di militanti palestinesi dalle carceri israeliane, un’azione che, sebbene importante, appare a molti come un tentativo di mettere una toppa dopo aver osservato passivamente il disastro. Altri conflitti che Trump cita tra i suoi successi, come quelli tra Ruanda e Repubblica Democratica del Congo o tra Armenia e Azerbaigian, sono visti dalla comunità internazionale come processi ancora fragili e certamente lontani da una risoluzione definitiva .

L’ossessione di Trump per il Nobel sta diventando un elemento sempre più evidente e influente nella sua politica estera, al punto che leader stranieri stanno imparando a sfruttare questa sua vanità per i loro fini. Come riporta Foreign Policy, paesi come il Pakistan hanno pubblicamente sostenuto la sua candidatura per il 2026, un gesto che ha favorito un riavvicinamento con Washington.

Questo desiderio di riconoscimento lo spinge a cercare nuove opportunità come pacificatore in teatri complessi, a volte rischiando di privilegiare annunci eclatanti rispetto a soluzioni sostanziali e durature.

Il Comitato Nobel, da parte sua, ha scelto di premiare non il potere di un presidente, ma la resistenza pacifica di un’attivista che, anche vivendo in clandestinità per paura di essere arrestata, continua a lottare per i principi democratici del suo paese.

E difatti, in questo contrasto tra la ricerca di gloria personale e una dedizione silenziosa e pericolosa ad una causa, il Comitato ha indicato chiaramente dove risieda, quest’anno, il vero spirito della pace e cioè, in Venezuela

La possibilità del nulla: tra distruzione e nuovi valori.


Mi chiedo spesso se il nulla sia davvero il principio di tutte le cose, persino di Dio.

Questa idea non è solo un sussurro poetico, ma un’eco profondo che risuona in una delle correnti più buie del pensiero: il nichilismo russo dell’Ottocento, che vedeva nel vuoto cosmico una chiamata all’azione distruttiva.

Oggi, guardando al mondo che ci circonda, non posso fare a meno di notare quanto quella logica si sia trasformata in realtà concreta…

La violenza non è più un’estremizzazione ideologica, ma una pratica quotidiana, giustificata da narrazioni assolute che si ergono a unica verità mentre cancellano interi popoli sotto l’ombra di bandiere che dovrebbero proteggere, non coprire crimini.

L’impotenza dell’ONU, la normalizzazione delle stragi, la recrudescenza dei conflitti etnici e religiosi, la guerra che diventa spettacolo mediatico e tutto questo non è solo frutto di interessi geopolitici, ma anche di un vuoto esistenziale colmato con identità estreme, con la furia di chi non ha più nulla da perdere se non l’illusione di un senso.

Nietzsche, con lucidità spietata, ci aveva insegnato a distinguere due volti del nichilismo: uno passivo, che si arrende all’assurdo e annichilisce la volontà, l’altro attivo, che distrugge gli idoli non per restare nel deserto, ma per preparare il terreno a nuovi valori.

Eppure, oggi, questa distinzione si è offuscata: la distruzione non sembra più aprire spazi per qualcosa di nuovo, ma riprodurre soltanto caos su caos, come se l’umanità, incapace di sopportare il silenzio dell’universo, preferisse il rumore della guerra al terrore del vuoto.

Forse è proprio questo il cuore della crisi: la scoperta che nulla è necessario, che tutto è possibile e perciò profondamente ingiustificato.

Di fronte a un mondo senza fondamento, molti scelgono di costruire idoli fragili – la nazione, la razza, il mercato, la rivoluzione – pur di non restare soli con la domanda che brucia: “Perché?”.

Altri, invece, si ritirano in un silenzio rassegnato, convinti che ogni azione sia inutile, che ogni parola sia già stata svuotata di senso.

Ma il mio dubbio più grande rimane: siamo di fronte alla verità ultima dell’esistenza, o all’ultimo, tragico errore della nostra mente che, non trovando risposte, decide di adorare il vuoto che ha creato?

Forse la risposta non sta né nella resa né nella distruzione, ma nella capacità di abitare il dubbio senza cedere alla disperazione, di cercare nuovi valori sapendo che sono fragili, umani, imperfetti, e proprio per questo, autentici…

Sì… perché fintanto che l’uomo continuerà a porre domande – anche nel cuore del nulla – non sarà mai completamente perduto.

Non lasciare che le critiche distruggano i tuoi sogni. L’unica persona che non commette mai errori è quella che non fa nulla!


Non sono certo che quanto raccontato sia realmente accaduto e sospetto che questa storiella su Einstein che ho trovato nel web, possa essere una di quelle notizie create per aumentare lo share…

Tuttavia, leggendola, ho pensato a lungo a quanto sia profondamente vero quanto descritto, perché rappresenta perfettamente il mondo in cui viviamo oggi e soprattutto la stupida semplicità di molti suoi interpreti.

Ed allora eccovi riportata la nota: Un giorno Albert Einstein scrisse sulla lavagna: 9 x 1 = 9, 9 x 2 = 18, 9 x 3 = 27, 9 x 4 = 36, 9 x 5 = 45, 9 x 6 = 54, 9 x 7 = 63, 9 x 8 = 72, 9 x 9 = 81, 9 x 10 = 91. Nella sala scoppiò il caos perché tutti videro l’errore e iniziarono a prenderlo in giro. Lui aspettò che tutti tacessero e disse: “Anche se ho risolto correttamente nove problemi, nessuno mi ha applaudito. Ma quando ho fatto un errore, tutti hanno iniziato a ridere”.

Questa è l’essenza del giudizio superficiale che domina la vostra mente, dove il clamore per un solo fallimento oscura il silenzio per nove vittorie. È la prova che la società noterà sempre il tuo minimo sbaglio, perché è più facile deridere che comprendere, è più comodo distruggere che costruire.

E questo meccanismo perverso è alimentato proprio da quella massa di interpreti retti dalla stupida semplicità, che si affrettano a giudicare senza mai aver prima operato.

Ed anch’io infatti, per chi non fa nulla, per tutti quegli ignavi che osservano dal bordo del campo senza mai sporcarsi le mani, non provo che un disprezzo assoluto. Già… la stessa indignazione che riservo anche a quanti, peggio ancora, si sono fatti lacchè servili di questo sistema corrotto e clientelare, piegando la schiena in cambio di un misero vantaggio.

La loro è una vigliaccheria che supera ogni errore, perché mentre lo sbaglio di chi agisce è un segno di umanità, la loro perfezione sterile è il sigillo della viltà!

Ecco perché rivolgendomi a quanti – tra i miei giovani lettori – sono ancora puri e non compromessi, anche – ahimè – dagli infetti insegnamenti sterili dei propri genitori che si sono da tempo venduti, perdendo la dignità, beh… dico loro: non lasciate che le altrui risate, che il loro stridulo coro di critiche, distruggano i vostri sogni.

Continuate a scrivere sulla lavagna della vita, anche se il decimo risultato potrebbe essere sbagliato, perché l’unica persona che non commette errori è quella che non fa nulla, e quella è una condanna ben peggiore di qualsiasi giudizio!!!

Lasciamo quindi che continuino a ridere del nostro presunto 9 x 10 = 91. La loro risata è l’inno di chi non ha mai osato abbastanza da rischiare di sbagliare. Noi, invece, continueremo a costruire, problema dopo problema, con la nostra imperfezione come stendardo e la nostra integrità come unica bandiera.

Perché è solo chi non fa nulla che non sbaglia mai, ed è proprio quella la sua unica, triste, vittoria…

Il silenzio degli Stati arabi e il dilemma palestinese


In questi giorni mi sono domandato, come certamente molti di voi: perché nessun paese arabo, a parte l’Iran, lo Yemen e in parte il Libano, sia andato in difesa concreta dei palestinesi in quest’ultimo terribile conflitto con Israele?

Già, dov’è finita quella ostentata unione islamica?

Ora, per favore, non ditemi che le ragioni vanno ricercate nell’eventuale rischio di una possibile terza guerra mondiale o nel timore che una risposta israeliana – se venisse nuovamente attaccata come nel 1967 da quegli stessi Paesi arabi o da altri – potrebbe spingerla, questa volta, all’uso delle armi nucleari.

Tutta questa situazione è – a mio avviso – molto più semplice da leggersi di quanto i complessi ragionamenti geopolitici vogliano farci credere; ritengo che, se si abbassassero per un attimo i toni della retorica e si osservasse in maniera distaccata gli avvenimenti storici, su quanto finora è accaduto, ecco che la lettura di questa grave crisi mediorientale, diventa, a mio parere, molto più semplice e spietatamente chiara

Abbiamo letto di come l’Egitto e la Giordania, di comune accordo, abbiano stabilito già da anni di non accogliere ulteriori profughi palestinesi, come d’altronde sono parecchi gli altri Stati arabi a non vedere di buon grado “Hamas”.

La conferma peraltro è avvenuta con la “Dichiarazione di New York”, firmata da Paesi come Qatar, Arabia Saudita, Egitto, Giordania, Turchia ed altri, oltre che dall’Unione Europea…

In quel documento si condannano gli attacchi militari di Hamas (del 7 ottobre dello scorso anno), esortando il gruppo a liberare immediatamente tutti gli ostaggi ancora nelle loro mani e a cedere le armi all’Autorità Nazionale Palestinese, rinunciando così definitivamente al controllo di Gaza.

Con questa firma si comprende come, secondo questi Paesi, il problema sia costituito propriamente da “Hamas”, e che essi, non intendono avere ulteriori problemi, sia interni, accogliendo nuove masse di palestinesi, sia esterni, pensando di dover affrontare Israele in una guerra.

E difatti: l’Egitto non vuole i palestinesi neanche a pagarli, mentre la Giordania – che già ospita circa due milioni di rifugiati – vorrebbe addirittura mandarli via. Il Libano, che ne ha accolti già molti, si è ritrovato in passato, e di nuovo recentemente, con la guerra civile in casa, propria a causa delle tensioni che questi arrivi di profughi, hanno generato. La verità – che nessuno ha il coraggio di dire apertamente – è che i palestinesi, purtroppo, non li vuole nessuno, e questo – ahimè – è un dato di fatto innegabile.

Ecco perché se i palestinesi vogliono un aiuto internazionale concreto, devono decidere una volta per tutte quale strada intraprendere, del resto, pensare di poter continuare una guerra senza una soluzione definitiva è una follia.

Basti osservare la storia di quel territorio: si cerca di trovare una pace da oltre un secolo, da quando nella prima metà del Novecento il movimento sionista e il nazionalismo palestinese iniziarono a scontrarsi per il controllo di quella stessa terra. Non ci sono riusciti loro, e ancor meno ci è riuscita l’ONU, che aveva proposto uno Stato Palestinese già nel 1947.

I palestinesi allora rifiutarono quel piano di spartizione perché volevano di più, e così non ottennero nulla, anzi potremmo dire il contrario, visto che sono passati quasi ottant’anni e quello Stato non è ancora ufficialmente riconosciuto da tutti i paesi del mondo, Italia compresa.

Permettetemi (con l’immagine allegata) di ricordare quel piano ONU del 1947, che assegnava le zone a maggioranza ebraica a Israele e quelle a maggioranza araba alla Palestina. Israele accettò, mentre i palestinesi rifiutarono.

Negli anni seguenti sappiamo bene come le tensioni sociali e i ripetuti conflitti armati, con i paesi arabi confinanti, abbiano portato Israele a vincere e quindi ad espandersi fino alla situazione odierna. Tutto è ancor più precipitato con il raid di Hamas del 7 ottobre, che ha provocato circa 1.200 morti (in gran parte civili) e la cattura di circa 250 ostaggi, alcuni dei quali ancora prigionieri. Un attacco mostruoso nella sua esecuzione, che ha fornito a Israele la motivazione – di fronte alla comunità internazionale – per scatenare il conflitto attuale, con l’obiettivo dichiarato di espellere i palestinesi da Gaza e portare la striscia, alla sua totale annessione.

Per cui da quanto è accaduto possiamo affermare che ciò che restava di quella Palestina disegnata nel 1947, oggi, non esiste più. I palestinesi si sono ridotti a meno di due milioni nella Striscia, mentre gli israeliani sono cresciuti fino a oltre dieci milioni. Va detto comunque che oltre un milione e mezzo di palestinesi sono residenti in Israele e convivono con gli israeliani da decenni, per lo più senza grossi problemi, dimostrando che una coesistenza in certe condizioni è possibile.

Ora tentare di ricercare motivazioni storiche profonde, chiedersi di chi sia la colpa, rivoltarsi contro l’uno o l’altro, o cercare di comprenderne le ragioni, è un’operazione veramente difficile se non impossibile.

I conflitti armati, come abbiamo visto, non hanno portato a nulla di buono, e i palestinesi dovrebbero saperlo meglio di chiunque altro, avendone persi almeno tre, con le inevitabili conseguenze che tutti abbiamo visto. Io non so cosa si dovrebbe fare esattamente, anche se una possibile soluzione l’ho proposta personalmente nel mio blog (link: https://nicola-costanzo.blogspot.com/2023/11/ecco-una-soluzione-per-creare-due-stati.html), ma credo che pochi lo sappiano davvero. So per certo però che Hamas non vorrà mai una pace definitiva con Israele, perché nella sua ideologia è previsto il totale annientamento dello Stato ebraico.

D’altronde pensare oggi di far scomparire gli ebrei dalla Palestina è qualcosa di folle e tantomeno realizzabile, basti guardare la potenza degli armamenti in possesso di Israele per comprenderne l’assoluta fallacia.

Certo, oggi a pagare le conseguenze di queste azioni militari e politiche, è soprattutto il popolo palestinese (ma consentitemi di ricordare anche i familiari delle vittime di quel 7 Ottobre), gente comune, inerme, fatta soprattutto di donne e bambini, che si sono trovati stretti – all’interno di quella Striscia – tra l’incudine di dover in qualche modo proteggere i terroristi di Hamas e il martello dell’esercito israeliano con i suoi bombardamenti.

Insistere su una retorica fine a se stessa, come spesso accade nel nostro Paese e in televisione, si è rivelato del tutto inutile e, come la storia recente dimostra, incapace di produrre un cambiamento reale. La soluzione a questo conflitto non può essere calata dall’alto, ma deve essere costruita dalle due popolazioni che da oltre mezzo secolo non conoscono pace.

L’intervento della comunità internazionale è certamente necessario, ma non deve ripetere gli errori del passato, fatti più di propaganda politica e mediatica che di sostanza. Deve piuttosto tradursi in un’azione concreta e coraggiosa per far rispettare le regole di una civile convivenza e il diritto internazionale.

Ciò significa, in questo frangente, garantire con ogni mezzo la protezione della popolazione civile e assicurare che gli aiuti umanitari raggiungano chi ne ha disperato bisogno, come il popolo palestinese a Gaza, anche attraverso missioni internazionali legittime il cui operato sia sottoposto a controlli democratici.

Solo attraverso un impegno di questo tipo – che ponga al primo posto i diritti umani universali e il ripudio della guerra – può onorare i principi di umanità.

La ragione addormentata…


Il sonno della ragione genera mostri: non è solo il titolo di un’acquaforte del 1797, ma un avvertimento che attraversa i secoli con una lucidità quasi dolorosa… 

Francisco Goya lo incise nella serie “Los Caprichos” raffigurando un uomo curvo su un tavolo, assopito, circondato da gufi e pipistrelli – creature della notte, simboli di ignoranza e superstizione –  mentre una lince fissa lo spettatore con occhi che sembrano chiedere: “E tu, da che parte stai?”. 

L’artista difatti non voleva solo mostrare un incubo, ma mettere in guardia contro ciò che accade quando la ragione smette di vegliarel’immaginazione, priva del suo contrappeso, non crea meraviglie, ma mostri!

Oggi, guardando quel quadro non posso fare a meno di sentire un brivido di attualità. Quel sonno non è un riposo innocente, né una pausa necessaria: è un atto di resa, una scelta consapevole di spegnere la luce del pensiero critico per abbracciare il conforto delle certezze semplici, dei nemici chiari, delle soluzioni definitive. 

È in quell’oscurità volontaria che ciò che prima era impensabile comincia a prendere forma – non più come fantasma – ma come progetto, come minaccia, come politica. E ditemi: quale mostro è oggi più definitivo, più innaturale, più irreversibile, già… del rischio di una guerra nucleare?

Perché quando la ragione si ritira, il calcolo strategico – per quanto freddo e spietato – lascia il posto all’istinto, alla retorica, alla paura che si autoalimenta. La deterrenza, quell’equilibrio terribile ma razionale costruito su una logica condivisa del non-oltrepassare, si sgretola. Al suo posto subentra una minaccia viva, imprevedibile, talvolta persino celebrata come forza o coraggio. 

Il conflitto non è più qualcosa da evitare con ogni mezzo, ma qualcosa che si comincia a invocare come purificazione, come prova di virilità geopolitica, come soluzione eroica a problemi che la ragione, invece, richiederebbe pazienza, ascolto e compromesso per affrontare.

Ci addormentiamo collettivamente ogni volta che accettiamo che la complessità del mondo venga ridotta a uno slogan, ogni volta che la storia viene piegata a favore di una narrazione di comodo, ogni volta che la diplomazia viene derisa come debolezza anziché riconosciuta come l’unica arma che non distrugge chi la usa. 

E in quel letargo pericoloso, l’impensabile non spaventa più: prima diventa una possibilità remota, poi un’opzione praticabile, infine una scelta inevitabile! 

I veri mostri – l’annichilimento totale, l’inverno nucleare, la fine della civiltà così come la conosciamo –smettono di essere incubi per trasformarsi in fantasmi di sottofondo, tollerati, quasi ignorati, nel rumore assordante di un dibattito pubblico sempre più povero, sempre più teatrale, sempre meno umano.

Ecco perché il monito di Goya non è un ricordo del passato, ma un grido rivolto a noi, qui e ora. Ci parla della necessità disperata di tenere sveglia la ragione, anche quando è faticoso, anche quando la sua luce ci mostra verità scomode, anche quando preferiremmo chiudere gli occhi e credere alle favole del nemico assoluto o della vittoria facile.

Perché i mostri non nascono dal nulla: li generiamo noi, nel momento esatto in cui decidiamo di smettere di pensare e una volta svegliati, non è detto che accetteranno di tornare nell’ombra…

Condivido appieno quanto riportato dal nostro Parlamento: L’Italia è migliore di chi oggi la governa!


Già… condivido appieno quanto riportato dal nostro Parlamento: L’Italia è migliore di chi oggi la governa!
L’altro ieri, ascoltando il telegiornale, la mia attenzione è stata catturata da una dichiarazione che ha immediatamente risuonato con qualcosa che sento da tempo, un pensiero che aleggia nelle conversazioni al bar, nelle cene in famiglia, tra amici, in quel senso di frustrazione che ormai è pane quotidiano per molti di noi.

È stata la Segretaria del Partito Democratico, Elly Schlein, a pronunciare questa frase, e nonostante le distanze politiche, devo ammettere che per una volta le parole hanno centrato un bersaglio più grande di qualsiasi schieramento. Appena l’ho sentita, ho pensato che non poteva rimanere solo una battuta in una trasmissione, ma doveva essere colta, scritta e fatta propria, perché esprimeva un sentimento diffuso da essere ormai una verità quasi dolorosa.

E da quella frase, credo che chiunque possa comprendere chiaramente non solo il mio pensiero, ma quello di una fetta sterminata di connazionali che ormai guarda alla politica come a un universo distante, un palcoscenico dove non si recita più il bene comune, ma un copione logoro di clientelismo e malaffare. È la percezione di un sistema che sembra alimentarsi di corruzione, di raccomandazioni spudorate e, ahimè, di quell’ombra lunga della criminalità organizzata che intreccia i suoi fili con il potere, lasciando i cittadini onesti a chiedersi se esista ancora un luogo pulito dove decidere il futuro per i propri figli.

È fondamentale precisare che questo non è un discorso di parte, non nasce da una bandiera di destra, di sinistra o di centro. La mia vita l’ho costruita facendo a meno della politica e dei loro referenti, tenendo ciascuno di essi a grande distanza e quando ci siamo trovati vicini, ho sempre espresso – tra mille lacchè che porgevano la mano, sorridevano a trentasei denti e chiedevano l’autografo – ciò che pensavo di loro, criticando soprattutto talune loro decisioni, non solo politiche, ma anche personali.

Mi sovviene ad esempio un caso in cui ad uno di essi – che aveva pubblicizzato se stesso nei cartelloni siciliani – già… con quella propria immagine stilizzata nera che ne ritraeva il profilo – su uno sfondo chiaro, e sotto quell’odiosa frase: l’unico pizzo che piace ai siciliani!

Beh… incontrandolo casualmente in una manifestazione – avevo accompagnato lì una mia amica che quel giorno era senza macchina – e passandomi egli vicino, garbatamente salutandomi, lo ringraziai per il saluto e ricambiai a mia volta, ma gli dissi subito ciò che pensavo e cioè che a sentire la parola ‘pizzo’ ero andato su tutte le furie. Gli feci presente che non si poteva, e non si doveva, scherzare con quella vergognosa forma di estorsione e che, personalmente, respingevo con sdegno quella pubblicità che, banalizzando un termine intriso di dolore e paura, offendeva la memoria e la dignità di tutte le vittime e di chi ogni giorno combatte silenziosamente quella piaga.

Questo è soltanto uno dei casi, ma potrei farvi ancora qualche altro esempio – vi confermo sin d’ora comunque che non sono molti – forse perché ho sempre tenuto la politica distante da me, ma ricordo comunque un altro episodio, a suo modo simpatico, con l’attuale nostro Presidente del Consiglio, in quella circostanza non lo era ancora, ma ve lo racconterò – forse – in un mio prossimo post.

Ma comunque non voglio generalizzare, sì… non è giusto fare di tutta un’erba un fascio, e proprio per questo, so riconoscere che a livello locale, per fortuna, esistono ancora persone perbene, individui volenterosi che si dedicano con passione autentica a risolvere i problemi veri della gente, che lottano per la salute, per una scuola dignitosa, per un ambiente vivibile. Sono loro la prova vivente che l’Italia è migliore.

L’amara ironia, però, sta proprio in questo contrasto stridente tra l’operosità silenziosa di tanti e la sterilità rumorosa di chi governa. Le decisioni che scendono dall’alto, dalla maggioranza di oggi, sembrano troppo spesso sorde alle urgenze reali del Paese, incapaci di cogliere quel grido di bisogno che sale dalle comunità, preferendo alimentare divisioni e quel fuoco che brucia le nostre potenzialità.

È come assistere a un naufragio dalla tolda di una solida nave, quella del governo. Si vede la gente in mare che lotta, che chiede aiuto con tutte le sue forze. E sulla nave, le corde per salvarli ci sono tutte, sono robuste e pronte all’uso. Eppure, chi dovrebbe buttarle le trattiene strette, come un tesoro personale. Qualcuna, è vero, vola verso un parente, un amico, un conoscente, ma per la maggior parte delle persone che affondano, non arriva nulla.

Si preferisce guardare altrove, dimenticando che il primo, l’unico comando, era salvare la collettività.

Sì… quella stessa collettività che doveva essere la loro unica, vera missione.

Eh si, siamo proprio un popolo di ferro!


Già… siamo finalmente giunti al momento della verità….
Così avevo scritto ieri, con una punta di amarezza e uno sguardo carico di scetticismo verso un’iniziativa che, fin dal suo annuncio, mi era apparsa più come un gesto mediatico che come un atto concreto di solidarietà; oggi, a distanza di poche ore, le immagini delle barche intercettate, dei volti stanchi ma incolumi degli attivisti, dei comunicati ufficiali che si susseguono tra Roma e Tel Aviv, sembrano confermare ciò che temevo: nonostante le buone intenzioni dichiarate, questa missione rischia di naufragare non sulle coste di Gaza, ma nell’ennesimo teatro dell’ipocrisia collettiva.

Sì, ventuno imbarcazioni su quarantaquattro sono state fermate da Israele, arrestate con modalità militari rapide ed efficienti, e i loro occupanti – italiani compresi – verranno espulsi. Certo, nessun ferito, nessuna vittima diretta, almeno per ora, ma una domanda rimane sospesa come fumo dopo l’esplosione: tutto questo era davvero necessario, o era prevedibile fin dall’inizio che si sarebbe concluso in un nulla sonoro?

Mi sono chiesto quindi: ma quanto coraggio ci sia stato davvero in chi ha deciso di salpare, e quanto invece fosse già scritto nel copione che, all’arrivo del primo ostacolo serio, ha portato quella presunta determinazione a cedere di fronte alla diplomazia e alle pressioni internazionali.

Ancora una volta, il governo italiano si è affrettato a muoversi non per sostenere l’iniziativa umanitaria, ma per garantire che i nostri connazionali non corressero troppi rischi, coordinando in anticipo con Israele le modalità dell’intervento, quasi si trattasse di un’operazione congiunta piuttosto che di un atto di disubbidienza civile.

Tajani parla di assistenza consolare, di cittadini in buone condizioni, di procedure di rimpatrio, mentre Crosetto anticipa freddamente che saranno portati ad Ashdod ed espulsi. Già… nulla di nuovo, tutto sotto controllo.

Ma allora ditemi: dov’è stata quella la protesta tanto decantata? Dove sono gli attesi gesti estremi che avrebbero dovuto sfidare il potere d’Israele, azioni che non si sarebbero dovute fermare dinnanzi al timore di essere isolati, respinti o anche arrestati?

Sì… qualcosa nel nostro paese si sta muovendo (se pur non mi trovo concorde con talune iniziate, come ad esempio l’occupare le università o il blocco delle scuole), a iniziare con gli scioperi. La mobilitazione cresce, e forse proprio qui, in questi cortei improvvisati, c’è più sincerità che su quelle barche, forse perché qui, tra i giovani che mettono in gioco il loro tempo e la loro sicurezza sociale, che si nasconde un’ombra di autentica ribellione.

Viceversa, chi era a bordo su quelle flottiglie, pur avendo osato salpare, sembra alla fine, essersi consegnato senza combattere, accettando passivamente il ruolo di simbolo destinato a essere neutralizzato.

Ovviamente riconosco il merito di aver riportato l’attenzione su Gaza, su una popolazione martoriata, esiliata e da troppo dimenticata, come riconosco che parlare ad alta voce di aiuti, blocchi e sofferenze costituiscano un atto necessario.

Ma non posso viceversa ignorare i dubbi che mi attanagliano: chi c’era realmente davvero dietro questa flottiglia? Quanta parte di essa era mossa da genuina compassione, e quanta da logiche politiche, strumentalizzazioni, ambizioni personali? Le notizie che arrivano, quelle che parlano di fondi legati a Hamas o a paesi vicini, non possono – vere o false che siano – essere ignorate, anche se vanno prese con le pinze. Ma quelle frasi bastano a insinuare il sospetto che, anche in mezzo al dolore altrui, ci sia spazio per il calcolo.

Sì… il ministro Tajani parla di “spiraglio di pace”, di sanzioni possibili verso Israele, di condanna agli insediamenti in Cisgiordania. Certo, parole importanti, forse persino coraggiose, se non fossero accompagnate da una pratica così cauta, così difensiva. D’altronde, condannare l’eccesso di reazione israeliana e poi coordinarsi con loro per evitare problemi ai nostri cittadini è una contraddizione evidente. È come dire: siamo contro la violenza, ma non fino al punto di mettere a rischio il nostro ordine. E allora dove sta il limite tra responsabilità e complicità?

Guardo le liste dei nomi degli italiani fermati: deputati, europarlamentari, attivisti noti. Alcuni li conosciamo di vista, altri solo per reputazione. Certo, so che hanno rischiato a compiere questa attraversata, ma so anche che molti di loro torneranno in Italia applauditi, intervistati, messi in prima fila nei talk show, mentre la situazione a Gaza resterà immutata!

E allora mi chiedo: chi ci guadagna da tutto questo? La popolazione palestinese? O piuttosto chi usa la loro sofferenza per costruirsi un profilo, per dimostrare un impegno che finisce quando finisce la diretta tv?

È l’emblema di una fallacia ricorrente, quella che trasforma il dolore in contenuto, la resistenza in performance. Mentre i media ci mostrano barche circondate da navi militari, mentre i social si riempiono di hashtag e video emozionati, la realtà continua a svolgersi altrove: nei campi profughi, negli ospedali senza medicine, nei quartieri rasi al suolo. E noi tutti, distratti da questi gesti simbolici, rischiamo di credere di aver fatto abbastanza solo perché abbiamo guardato.

Sì… forse speravo in qualcosa di più radicale, di più irriducibile, forse speravo che qualcuno decidesse di non tornare indietro, di restare aggrappato a quella barca fino all’ultimo miglio, di sfidare non solo la Marina israeliana, ma anche il cinismo di chi riduce ogni forma di protesta a un evento calendarizzato, controllato, previsto.

E forse, invece di scrivere da lontano, avrei dovuto esserci io su una di quelle barche, o meglio ancora, farmi paracadutare su Tel Aviv con una bandiera al seguito — non una bandiera palestinese, né rossa, né di parte — ma una bianca, sì, proprio bianca, come simbolo di pace, di resa reciproca, di umanità ritrovata oltre le barricate dell’odio e della retorica.

So bene che nessuno accoglierà questa provocazione, perché siamo abituati a gridare dalla sicurezza dei nostri schermi, a indignarci in gruppo, a occupare piazze per poi tornare a casa quando fa freddo. E così, anche stavolta, assistiamo al solito copione: tensione crescente, mobilitazione mediatica, picco emotivo, e infine una deflagrazione calibrata, perfettamente gestita, seguita dal silenzio più assoluto.

Nel frattempo, Gaza aspetta. Aspetta non le barche, non i manifesti, non gli hashtag. Aspetta la verità. Quella vera. Quella che nessuno ha il coraggio di pronunciare ad alta voce, perché cambierebbe tutto. E forse è proprio per questo che non arriverà mai…

Flottiglia? E’ il momento della verità!


Sì… il mio titolo preannuncia i miei dubbi sul fatto che questa “flottiglia” porterà fino in fondo le sue intenzioni, tentando concretamente di sbarcare sulle coste di Gaza per portare aiuti alla popolazione.
Certamente riconosco il merito di aver riportato l’attenzione su una tragedia immane, la strage di innocenti e l’esilio di un intero popolo, innescata dall’incursione di Hamas in Israele il 7 ottobre 2023, che è costata 1200 vittime e circa 450 ostaggi, di cui una cinquantina sono ancora prigionieri.

Tuttavia, conoscendo bene i miei connazionali, sono convinto che alla fine si concluderà in un nulla di fatto, e la maggior parte delle persone coinvolte farà marcia indietro già nel corso della giornata. Mi dispiace affermarlo, ma in questi lunghi anni ho visto poco coraggio attorno a me, per non dire nulla…

Difatti, la maggior parte delle persone, utilizza i media più per propaganda personale che per un altruismo genuino; anzi, quando si tratta di passare dalle parole ai fatti, quasi tutti si tirano indietro per non rimanere coinvolti in vicende personali.
È per questo che, pur augurandomi di sbagliarmi, non scommetterei un solo centesimo su questa iniziativa, che mi sembra più un’operazione politicizzata che un sentimento autentico e profondo verso chi soffre.

Aggiungo che, stando a quanto riportato in queste ore da Israele ( dobbiamo prendere l’informazione “con le pinze”) e cioè che dietro questa iniziativa vi sarebbero fondi proprio di Hamas e/o dei paesi islamici che li sostengono.

Le notizie dicono che la flottiglia è stata intercettata e che le comunicazioni sono state disturbate, ma la navigazione prosegue. Sì… gli israeliani sono comparsi stanotte poco dopo le 2.00 e a bordo è stato diramato il primo “interception alert”.

La nostra fregata italiana “Alpino” intanto, ha comunicato di non proseguire oltre, fermandosi al limite delle 150 miglia nautiche. Ecco, questo è il punto: sebbene il momento della verità sia arrivato e le operazioni di intercettazione siano in corso, resto scettico sulla reale determinazione dei partecipanti.

Quanto sopra, unito ai miei forti dubbi circa le reali intenzioni e la genuinità della missione, mi conduce a una conclusione purtroppo prevedibile: assisteremo all’ennesima delusione.

È l’emblema di una fallacia ricorrente. Mentre la pubblicità ci vuole “gente fatta di ferro”, nella realtà osservo troppo spesso figure effimere, pronte a infiammarsi per una causa ma incapaci di reggere alla prima avversità.

Quanti morti servono prima che il governo impari a intervenire dove conta? Le procedure di sicurezza sono solo carta straccia.


Ogni giorno leggo, ahimè, numeri sempre più crescenti, sperando che finalmente qualcuno, da quei palazzi istituzionali, potesse comprendere la profondità dell’emergenza.

Debbo ammettere che, in tutti questi anni, mi sono sbagliato, già… perché mentre cercavo di analizzare quei dati e proponevo – anche in questo blog – una serie di possibili soluzioni, mi sono reso conto che la situazione reale, ahimè, è ancora più tragica e allarmante di quanto immaginassi.

Tutto quel fiume di carta, quelle montagne di documenti inutili servono a poco se, alla fine, manca del tutto la verifica sul campo, il controllo effettivo capace di impedire alle aziende di ricorrere a stratagemmi pur di strappare fino all’ultimo minuto di lavoro da persone ormai stremate.

Una stanchezza fisica che si trasforma in disattenzione, in un attimo di fatalità: la diretta conseguenza di una cultura del lavoro malata, dove la produttività viene prima della vita umana e le procedure di sicurezza sono viste come ostacoli da aggirare.

Dietro quei numeri, infatti, si nascondono le storie di chi paga il prezzo più alto: lavoratori più vulnerabili che affrontano rischi enormemente superiori, un divario inaccettabile che parla di sfruttamento e di una tutela minore per chi ha meno voce in capitolo.

È una strage silenziosa e selettiva, e la sua geografia è eloquente: alcune regioni del paese vivono in una perenne emergenza, sintomo di un problema radicato e di un sistema di controlli che evidentemente non funziona – o non arriva in modo uniforme.

I settori più colpiti sono noti da anni per la loro pericolosità, eppure sembra che poco o nulla cambi nelle dinamiche che portano a queste tragedie. È agghiacciante constatare l’aumento delle morti durante il semplice tragitto verso il lavoro: un logoramento che si estende ben oltre i cancelli dell’impresa.

Ciò che davvero mi fa arrabbiare, oltre alle vite spezzate, è la sensazione che tutta l’impalcatura normativa rischi di trasformarsi in un gigante burocratico dai piedi d’argilla. Si parla sempre di nuovi accordi e linee guida, ma tutto ciò non serve a nulla se manca il coraggio di andare a scovare e punire severamente quelle imprese che, per profitto, alimentano un sistema di illegalità e sfinimento.

Alla fine, dietro queste mie analisi si nasconde una verità scomoda che forse nessuno vuole realmente affrontare: molto spesso, la sicurezza viene sacrificata sull’altare del risparmio. O chissà, magari perché il sistema viene costantemente “oliati” da chi di dovere, e così tutto finisce per passare in secondo piano.

Lo ripeto: serve una strategia totalmente diversa da quella finora messa in campo – da chi, tra l’altro, seduto da sempre in quelle poltrone, non sa neppure cosa significhi lavorare, sporcarsi le mani, né tantomeno comprendere quali meccanismi adottare per far finire, o quantomeno ridurre a un banale incidente (che, naturalmente, può sempre capitare), tutto questo.

Serve qualcosa che vada oltre la preparazione di documenti sterili e poco verificabili, visto che la maggior parte di essi si basa su vere e proprie autocertificazioni.

Manca, invece, il controllo serio. E soprattutto manca la volontà di far crescere una cultura del lavoro che ponga la dignità della persona al centro. Perché finché continueremo a contare i morti invece di proteggere i vivi, ogni numero sarà soltanto una sterile confessione della nostra indifferenza.

Il patto dei Leviatani…


Quando due sovrani del potere illiberale si riconoscono, si stringono la mano e si abbracciano, non lo fanno per affetto, né per amore di un mondo che crede nel multilateralismo. No… loro riscrivono le regole (nell’ombra) per mutua sopravvivenza di quell’ordine che loro stessi hanno saputo scompaginare.

Credo che, al di là delle dichiarazioni plateali di Trump e del riserbo strategico di Putin – che lascia volentieri la parola al suo ministro degli Esteri – i due abbiano già concordato, fuori scena e in silenzio, le proprie sfere di influenza.

Già… sono convinto che i conflitti in corso, con le loro pseudo-minacce di droni e altre armi da propaganda, siano, ai loro occhi, nient’altro che danni collaterali funzionali alle rispettive mire espansionistiche.

Ad esempio, l’aver evocato la possibilità di schierare i missili Tomahawk – con la loro gittata minacciosa – è diventato l’ultimo strumento di una pressione calcolata. Da Washington giungono voci contraddittorie: si dice che a Zelenskyy siano stati negati, ma anche che la Casa Bianca stia valutando di fornirglieli in futuro.

L’obiettivo di questa retorica è palese: instillare un senso di minaccia non solo a Mosca – per costringerla a negoziati favorevoli agli Stati Uniti – ma anche all’Europa intera, presentando un pericolo imminente in una partita parallela. In questo modo, si orchestra una provocazione che potrebbe trascinare il “Vecchio Continente” in uno scontro diretto, ben oltre i suoi interessi o la sua volontà.

La portata di questa strategia emerge da un dettaglio inquietante: secondo quanto riferito dalla portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, Kiev starebbe valutando l’uso di droni Geran-2 ricondizionati – assemblati con parti di velivoli russi abbattuti – per colpire obiettivi in Polonia e Romania. L’idea sarebbe diabolica nella sua semplicità: lanciare questi droni contro hub logistici in territorio NATO e attribuirne la responsabilità a Mosca, innescando una campagna informativa volta a spingere l’Alleanza verso una risposta militare diretta.

Questa non è una semplice speculazione. Secondo alcune fonti, le scocche di questi droni “riparati” sarebbero già state consegnate al poligono di Yavoriv. Se così fosse, gli incidenti passati con droni in territorio polacco assumerebbero un significato sinistro: non più coincidenze, ma prove tecniche per una provocazione più ampia. L’intento sarebbe di colpire in modo così credibile che, Polonia e Romania – troppo vicine al fronte per poter negare un attacco – si sentano costrette a interpretarlo come un’aggressione diretta da parte della Russia.

In questo scenario, il Pentagono convoca una riunione senza precedenti con oltre 800 generali – un movimento che alimenta i sospetti di una preparazione concreta a un’escalation. La Russia si trova così intrappolata: cedere al ricatto e negoziare alle condizioni imposte da Washington, oppure prepararsi a un conflitto che potrebbe includere attacchi con missili Tomahawk su infrastrutture critiche e, in ultima istanza, uno scontro diretto con la NATO.

In questo contesto, l’immagine di Trump come “pacificatore” appare del tutto insostenibile. Il suo approccio sembra voler essere in queste ore, ben più aggressivo di quanto non fosse quello di Biden, che inizialmente aveva escluso il trasferimento di questi missili, rivelando una strategia non di distensione, ma di ricatto strutturale.

Ciò che mi assilla maggiormente, sì… più di ogni altra cosa, è il sospetto che dietro la minaccia di missili, testate nucleari e droni, i veri protagonisti abbiano già scritto il copione. E che, mentre i governi europei continuano a parlare, le loro parole siano ormai solo rumore di fondo: incapaci di modificare ciò che, nell’ombra, è già stato deciso.

Il patto dei Leviatani.