Pax vobis in hac nocte sacra, et lumen Christi fulgeat in cordibus vestris – (Tradizione Cattolica): Pace a voi in questa notte sacra, e la luce di Cristo brilli nei vostri cuori.
Eirḗnē hymîn en têi hagíai nyktí, kaì tò phôs toû Christoû phaínetai en taîs kardíais hymôn– (tradizione Ortodossa): Pace a voi nella notte santa, e la luce di Cristo risplenda nei vostri cuori.
Friede sei mit euch in dieser heiligen Nacht, und das Licht Christi leuchte in euren Herzen– (Tradizione Protestante): Pace sia con voi in questa notte santa, e la luce di Cristo risplenda nei vostri cuori.
Tre frasi. Tre lingue. Tre tradizioni che custodiscono lo stesso senso, pur pronunciandolo con suoni diversi, gesti diversi, calendari che talvolta si sfasano di giorni, di settimane.
Non è un caso che in ognuna risuoni la parola “pace” – non come assenza di rumore, ma come silenzio scelto, come gesto di chi decide di fermarsi, abbassare la voce, deporre il giudizio. Pace come riconoscimento: nell’altro non un errore da correggere, ma un cammino da ascoltare.
Eppure proprio in questa festa, che racconta di un Dio che si fa fragile per abitare la nostra fragilità, continuiamo a innalzare muri alti quanto le nostre cattedrali. Ci dividiamo sulla formula giusta, sulla data esatta, sulla liturgia più autentica, come se la verità fosse un codice da decifrare invece che una luce da condividere. Come se bastasse parlare la stessa lingua per capirsi davvero.
Dimentichiamo che quelle stesse parole latine, greche, tedesche furono tradotte non per uniformare, ma per avvicinare. Perché la fede non è un deposito da sorvegliare, ma una fiamma da passare di mano in mano – senza pretendere che bruci allo stesso modo in ogni cuore.
Il Natale, nella sua essenza religiosa, è profondamente cristiana. Ma la sua eco ha scavalcato i recinti dei templi. Si è fatta canto di piazza, abete addobbato in un condominio laico, scatola regalo lasciata sulla scrivania di un collega che prega rivolto alla Mecca, luci accese su una vetrina a Pechino dove nessuno sa chi sia quel bambino nella mangiatoia, ma tutti sentono, in qualche modo, che quella notte chiede un passo indietro dal rumore del mondo.
Non è annacquamento. È la prova che certe domande, come su cosa significhi nascere, su cosa valga proteggere una vita piccola, su come tenere acceso il calore quando fuori fa buio e freddo, non appartengono ad una sola tradizione, ma attraversano l’intera umanità.
Eppure, finché resteremo convinti che l’altro debba diventare come noi per meritare rispetto, quella luce resterà confinata in una nicchia, spenta dal vento della banale superiorità.
Perché la pace non nasce dall’uniformità, ma dal coraggio di stare insieme pur essendo diversi – senza fingere che le differenze non esistano, ma scegliendo di non farne un’arma.
Finché divideremo il mondo in ortodossi ed eretici, in fedeli e indifferenti, in chi ha capito e chi ancora sbaglia, non celebreremo mai davvero il Natale. Ne consumeremo solo la superficie, come una decorazione da appendere e poi – come accade puntualmente a gennaio – rimuovere.
Ecco… forse la domanda più importante di questa notte e di questo mattino non è chi ha ragione, ma chi siamo disposti a lasciare fuori dalla stalla.
Perché là dentro – come accade ahimè ancora oggi – c’è freddo, fame, disperazione. Eppure, un nuovo respiro cancella per un istante tutta quella sofferenza. Lì… non c’è posto per strategie, armi, politica, ma solo il desiderio di poter andare avanti, di lasciarsi quell’orribile mondo che li circonda alle spalle.
Buon Natale, allora, a tutti – a chi lo vive con fede, a chi con memoria, a chi con affetto, e a chicome me, lo attraversa con dubbio, ma non con indifferenza. Perché il dubbio, se è onesto, non allontana: chiede solo di camminare più lentamente, per non lasciare indietro nessuno.
E quel coraggio – piccolo, quotidiano, spesso inascoltato – di voler restare insieme, pur senza accordi preventivi, pur senza identità sovrapposte, è forse il gesto più vicino allo spirito di quella notte: non chiudere la porta, non pretendere che l’altro impari la nostra lingua, ma sedersi accanto, in silenzio, e provare a inventare una nuova parola, breve, antica, ma oggi più che mai necessaria: Noi
Oggi ho deciso di tornare su un post che scrissi nel febbraio del 2022, – http://nicola-costanzo.blogspot.com/2022/02/gianluca-grignani-e-quelle-inutili.html – poco dopo aver visto Gianluca Grignani a Sanremo, e rileggerlo ora è stato come aprire un cassetto dove avevo riposto non solo parole, ma un sentimento intero, ancora caldo, ancora vivo…
Era nato da uno sdegno sincero per le parole dure che gli erano piovute addosso in quei giorni, ed io in un tentativo goffo (e forse inutile) ho provato a restituirgli un po’ di quella dignità che nessuno, in realtà, avrebbe mai dovuto sottrargli.
Rileggere quelle righe ora, mentre si chiude un anno che per lui ha significato celebrare i trent’anni di “Destinazione Paradiso”, è come ritrovare una traccia lasciata nel tempo da una penna non ancora sicura del proprio passo, ma già convinta di una cosa sola: che certe voci non meritano di essere ridotte ai limiti angusti di un commento frettoloso.
Ecco perché oggi scrivo nuovamente di lui, non come un ricordo, ma come una premessa silenziosa a quello che è accaduto in questi giorni, un gesto che non mi sarei mai aspettato e che invece ha preso forma con una delicatezza rara. Cesare Cremonini ha dedicato a Grignani un omaggio pubblico, sincero, quasi intimo nella sua precisione. Non una dichiarazione di circostanza, ma una sorta di confessione artistica: ha raccontato come la musica di Gianluca abbia agito nella sua crescita, come certi suoi brani abbiano respirato l’aria di altre canzoni, non per caso, ma per scelta, per debito, per affetto.
Ha citato “Falco a metà” come antenato di Cara Maggie, “La fabbrica di plastica” come matrice invisibile di Silvia stai dormendo, e ha riconosciuto in “L’allucinazione” una specie di testo sacro, un punto di riferimento per chi, come lui, ha provato a costruire storie con gli accordi. Più commovente ancora è stato quel dettaglio: il timbro di Gianluca divorato a grandi bocconi sul bus del ritorno da scuola, mentre fuori dal finestrino il mondo scorreva e lui, dentro, già provava a immaginare un’altra vita, una possibile, una cantabile. È così che nasce un artista: non solo ispirato, ma nutrito. Non solo ammirato, ma abitato.
E poi, quelle parole che Cremonini ha scelto per chiudere, quelle che Gianluca aveva pronunciato tempo fa e che oggi tornano come un’eco piena di senso: A volte un artista ha solo bisogno di un abbraccio. A volte la strada sbagliata è la più illuminata. Leggerle ora, dopo averle scritto io stesso in difesa di un uomo che non conosco, ma che sentivo profondamente offeso nella sua essenza, è stato come assistere a una riconciliazione con qualcosa di più grande di noi: con il tempo, con la memoria, con il modo in cui una parola giusta, detta al momento giusto, può restituire equilibrio a un intero sistema emotivo.
Eppure, quest’anno per Grignani non è stato solo luce e celebrazioni. Accanto a quel riconoscimento sincero, ha continuato a muoversi l’ombra di una questione che tocca un nervo scoperto: il rispetto per l’opera, per la sua struttura, per il suo significato…
La vicenda con Laura Pausini, legata alla cover di “La mia storia tra le dita”, è stata un esempio perfetto di come una piccola modifica possa diventare un terremoto semantico. Cambiare “Ho sbagliato” in “Hai sbagliato” non è una correzione stilistica: è una deviazione narrativa, un cambio di prospettiva che sposta il peso della colpa, che trasforma un atto di autocritica in un’accusa.
Grignani ha parlato chiaro: non era il rifacimento a ferirlo, ma la mancanza di confronto, lo strappo all’integrità di un testo che era già, da solo, un piccolo romanzo. Alla fine è arrivato un accordo, la diffida è stata ritirata, ma resta un dettaglio curioso: nell’edizione italiana dell’album “Io canto 2”, la versione in italiano di quella stessa canzone non c’è. C’è quella in portoghese, c’è quella in spagnolo, ma non quella che, nel nostro idioma, ha segnato un’epoca. Come se, in silenzio, si fosse ripristinato un confine invisibile, ma necessario. Come se la canzone avesse scelto da sola chi deve portarla nel mondo, e con quale voce.
Guardando tutto insieme, mi viene da pensare che questi due filoni – l’abbraccio di Cremonini, la disputa con Pausini – non siano affatto separati. Parlano entrambi dello stesso tema: cosa significa riconoscere un’autore, non solo come firma in calce a un foglio, ma come presenza viva, come coscienza in cammino. Il post crudele dopo Sanremo e la modifica del testo nascono da una stessa sordità: la difficoltà di ascoltare davvero, di andare oltre l’immagine, oltre la superficie, oltre il successo. L’omaggio di Cremonini e le mie righe di allora, invece, nascono da un punto comune: la capacità di sentire la musica non come prodotto, ma come memoria condivisa, come tessuto emotivo che ci lega, anche quando non ci conosciamo di persona.
Oggi Grignani annuncia nuovi concerti, un nuovo album, e continua a camminare con quella chitarra acustica stretta al petto, proprio come lo ha definito Cremonini: un combattente. Non un ribelle per vocazione, non un nostalgico per difetto, ma uno che ha attraversato strade diverse, alcune buie, alcune illuminate, senza mai smettere di credere che ogni nota, ogni parola, ogni silenzio contano. E che a volte, davvero, basta un abbraccio per rendere sopportabile il peso di tutto il resto.
La strada, alla fine, è sempre la stessa: quella che porta a casa, anche se casa è fatta di accordi, di versi, di errori riconosciuti, di storie scritte tra le dita, destinate – chissà – a un paradiso che non è mai troppo lontano, purché resti fedele alla voce che lo ha immaginato.
E in questa tradizione, il cosiddetto Vangelo di Giacomo – un testo apocrifo del II secolo – stranamente non è stata inserita come biografia evangelica, c’è la ricostruzione della sacralità della famiglia: Maria è presentata come figlia del tempio, dedicata fin da bambina a Dio; Giuseppe è un vedovo anziano, scelto solo per proteggere la sua purezza; Gesù nasce in silenzio, senza clamore, e subito dopo è Giacomo, il primogenito di Giuseppe, a entrare in scena come custode della sorellina (Maria) e poi del fratellastro (divino).
Non vi è alcun miracolo nel parto, e neppure adorazione dei magi, c’è semplice devozione, rispetto, familiarità. Per gli ebioniti, la santità non era nell’eccezionale, ma nel quotidiano. Nel fare bene ciò che la Torah chiede, senza sconti, senza scorciatoie e quando Giacomo morì lapidato, per loro non cadde un leader tra tanti: cadde il pilastro che teneva ancora unita la casa di Gesù alla casa d’Israele.
Certo, col tempo quella voce si fece sempre più flebile e così mentre Roma cresceva, Antiochia dibatteva e Alessandria speculava, Gerusalemme era stata sepolta dai romani sotto le ceneri…
E i vangeli – non parlo solo di quei quattro che ormai leggiamo come fossero uno – non furono scritti in un’unica volta, né con un unico intento. Ognuno porta i segni del suo tempo, delle sue ferite, dei suoi conflitti risolti a parole quando non era più possibile risolverli a fatti.
Quello di Marco, probabilmente scritto prima della distruzione del Tempio, non conosce ancora la figura di Pietro come fondamento: lo mostra smarrito, che fugge nudo dal Getsemani (un dettaglio troppo strano per essere inventato…), che tace davanti al sommo sacerdote, che non compare alla tomba vuota, anzi, le donne “non dissero nulla a nessuno, perché avevano paura”, un testo aperto, incerto, come la comunità che lo genera.
E poi Matteo, scritto dopo il 70, in una chiesa divisa tra ebrei osservanti e convertiti ellenisti, sente il bisogno di chiudere quella incertezza: ecco allora il discorso della montagna, le antitesi («Avete inteso che fu detto… ma io vi dico»), e, appunto, la dichiarazione su Pietro — «Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa». Ma attenzione, quanto scritto non rappresenta un titolo di proprietà, è un atto di fiducia in un momento di crisi. È come se la comunità dicesse: “Abbiamo perso Gerusalemme, abbiamo perso il Tempio, abbiamo perso Giacomo, ma non abbiamo perso la possibilità di ricominciare e se proprio dobbiamo ricominciare, che sia qualcuno che ha fallito, ma che è stato guardato ancora”.
Luca, viceversa, cerca l’unità: fa parlare Pietro a Pentecoste, ma affida la parola decisiva al concilio a Giacomo; mostra Paolo in viaggio, ma lo fa arrestare a Gerusalemme, in quella stessa città dove Giacomo camminava a testa alta fino all’ultimo. Giovanni, infine, scrive più tardi, forse a Efeso, e sa che ormai Giacomo è un nome quasi scomparso: allora trasforma Pietro in Simone figlio di Giovanni, lo fa riconoscere tre volte da Gesù dopo il rinnegamento – non per umiliarlo – ma per restituirgli il posto non come capo, ma come pastore. È un gesto di riconciliazione postuma, un tentativo di tenere insieme ciò che la storia aveva separato.
Ecco che così, pagina dopo pagina, quei vangeli non raccontano solo ciò che accadde, ma anche ciò che si sperò potesse ancora accadere: un’unità che non cancellasse le differenze, una fedeltà che non diventasse rigidità, una memoria che non si trasformasse in mito.
Il problema non fu mai che qualcuno abbia “inventato” il Pietro che oggi tutti conoscono, quello che, in questi giorni, Roberto Benigni ha raccontato con tanta grazia e forza. No… il problema fu che, più tardi, qualcuno decise che quella sola immagine dovesse bastare a reggere tutto, la fede, il potere, la memoria persino e nel farlo, lasciò fuori le altre voci, i volti che non chiedevano di comandare, ma solo di testimoniare.
Come se la casa di Gesù potesse avere un’unica colonna portante, e non invece una trama di relazioni, di tensioni, di silenzi pesanti e parole ritrovate. Perché la verità è che Gesù non ha lasciato un successore: ha lasciato una tavola apparecchiata e su quella tavola c’erano dodici posti e quindi non uno solo. Alcuni furono occupati da chi rimase, altri da chi decise di andare lontano, altri ancora restarono vuoti, segno che nessuno poteva dire: “Qui siedo io, e qui nessun altro”!
Ecco allora che – a seconda di come vogliamo leggere la storia, forse o certamente – il vero errore non fu tanto mettere Pietro troppo in alto, quanto dimenticare che ogni volta che lo si sollevava, qualcun altro veniva inevitabilmente spinto giù: Giacomo, Maria di Magdala, Giuda di Giacima, la vedova con le sue due monetine, non furono cancellati, no… furono semplicemente messi fuori campo, come ombre al bordo della tela ufficiale, mentre la luce veniva concentrata su un solo volto.
Ecco per cui, mio caro Roberto, consentimi di suggerirti il tuo prossimo monologo e cioè l’unico e vero messaggio che Cristo desiderava: un insegnamento che riuniva l’umanità intera, senza divisioni religiose, senza più poveri e ricchi, senza padroni e servi, senza chi comanda in nome di Dio e chi obbedisce per paura del castigo.
Il tutto potremmo dire riunito in una sola legge – scritta non su pietra – ma nel cuore: “ama il prossimo tuo come te stesso”.
Basta un solo segno distintivo: non la fede dichiarata, bensì il pane spezzato con chi non ha, con una giustizia equa fatta anche per chi non conta, la verità detta a chi non la vuole sentire, perché Gesù non venne a fondare una Chiesa, venne a ricordare a tutti che siamo una sola famiglia e che ogni volta che qualcuno viene lasciato fuori – non è lui a essere escluso – siamo noi a smettere di essere umani. E quel giorno, non è Dio che si allontana: è l’uomo che si dimentica di sé!
Consentitemi – prima di iniziare la seconda parte del mio post – di riportarvi quanto ricevuto – ieri – dalla mia prima lettrice, e cioè mia moglie (ma sono certo che sarete stati in molti a pensare la stessa cosa…):
Troppo lungo per leggerlo immediatamente, lo farò con calma. Hai forse voluto eguagliare Benigni per lunghezza??? Ma lui a differenza tua è stato profumatamente pagato per intrattenere gli spettatori 🤣🤣🤣🤣
Risposta (che in un qualche modo preannuncia quanto sto ora per scrivere):
Hai ragione sulla lunghezza, ma per trattare con serietà un tema così vasto (e come sappiamo troppo spesso edulcorato…) servono necessariamente più parole. Ho preferito quindi una divisione in più parti a un riassunto frettoloso. Il punto centrale del mio post non è la mia opinione personale, ma il tentativo di ricostruire coerentemente eventi storici che, da duemila anni, vengono (sempre) celati dietro narrazioni più “comode e spettacolari”, come per l’appunto alcuni monologhi di intrattenimento.
Ed allora – dando seguito a quanto scritto ieri – ho lasciato l’ultima parola al “silenzio”, come si fa quando si è detto qualcosa che non può essere né aggiustato né cancellato, solo accolto. La storia – e quindi non la leggenda – ci ha consegnato un Giacomo solido, silenzioso, radicato in quella terra di Gerusalemme, mentre viceversa ci ha fatto conoscere un Pietro che cammina sui margini, tra le onde e le città, tra l’entusiasmo coraggioso di chi crede ciecamente ed il ripensamento umano di chi evidenzia paura, già… tra il fuoco e il dubbio.
Eppure, non finisce qui, perché se è vero che la storia non mente, è altrettanto vero che non parla mai da sola: le sue parole sono sempre intrecciate con quelle di chi, dopo, ha dovuto scegliere da che parte stare, in tempi in cui non si trattava più di seguire un uomo, ma di costruire una memoria capace di resistere al tempo. E quella memoria, inevitabilmente, ha dovuto fare i conti con conflitti che non erano più tra Giudei e Romani, ma dentro la stessa comunità dei discepoli.
Paolo e Pietro, per esempio, non furono mai compagni di strada nel senso tranquillo del termine.
Paolo, cittadino romano, colto, irruente, convinto che la buona novella fosse per tutti, senza distinzioni di circoncisione né di legge; Pietro, galileo, cresciuto nel ritmo delle sinagoghe, fedele alla Torah anche quando non ne capiva più il senso, sempre in bilico tra ciò che aveva udito da Gesù e ciò che il cuore gli imponeva di non abbandonare.
Ad Antiochia – come ho scritto ieri – lo scontro è netto: Pietro mangia con i pagani finché non arrivano gli emissari di Giacomo, allora si ritrae, come chi teme di aver oltrepassato un confine che non gli compete spostare: «Se tu, che sei Giudeo, vivi come i pagani… come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei?». Non è un rimprovero teologico: è la voce di chi sente cedere il terreno sotto i piedi, perché sa che se la legge diventa barriera, allora la grazia non è più grazia. Ma Pietro tace e quel silenzio, più di ogni parola, ci dice quanto il primato non fosse mai stato suo: non aveva l’autorità di decidere da solo, perché la comunità di Gerusalemme aveva un centro, e quel centro si chiamava Giacomo.
E proprio attorno a Giacomo si radica una corrente di pensiero oggi quasi dimenticata, ma che per secoli fu viva, presente, resistente: gli ebioniti, i “poveri”, che vedevano in Gesù non un dio disceso dal cielo, ma un uomo giusto, profeta e maestro, figlio di Giuseppe e Maria, fratello di Giacomo, osservante della Legge fino all’ultimo respiro. Per loro, il vero erede non era chi predicava la libertà dai precetti, ma chi, come Giacomo, portava ogni giorno il “tallit”, pregava nel tempio, rifiutava la carne sacrificata agli idoli e viveva in povertà radicale.
Non avevano bisogno quindi di un Pietro universale, né di un Paolo che parlava in greco alle città: avevano bisogno di un fratello che camminava per le strade di Sion come aveva camminato Gesù, con le stesse scarpe polverose e lo stesso sguardo sulle vedove e gli orfani.
C’è un’impresa, confiscata da anni, che è riuscita a muoversi come se nulla fosse cambiato.
C’è ora un processo, con richieste di condanne pesanti, e un pubblico ministero che si presenta in persona, segno che la materia non è secondaria, né accidentale.
C’è un nome che non serve citare, perché non è di quello che si tratta: quello che conta è che l’impresa abbia continuato a funzionare dopo la confisca, nonostante la confisca, quasi grazie alla confisca, se è vero che chi la doveva custodire ne è diventato parte attiva.
C’è un amministratore giudiziario oggi indagato per concorso esterno e peculato aggravato, e questo da solo basterebbe a far suonare un campanello: uno solo, ma forte.
Eppure il punto non è neanche lui, già… il punto è che qualcuno, all’interno del Tribunale – non di Messina, bensì di Catania – avrebbe potuto, anzi avrebbe dovuto leggersi, una decina di anni fa, le segnalazioni che qualcun altro aveva depositato (per non voler aggiungere “protocollato“) con cura, anche con timore, ma con la speranza che qualcosa cambiasse.
Non erano voci, non erano sospetti: erano documenti, date, firme, ma soprattutto circostanze concrete, inequivocabili.
Se qualcuno quei documenti li avesse letti e, soprattutto, li avesse presi sul serio, oggi non saremmo qui a sentire un Pm chiedere pene così alte per reati che, di fatto, potevano essere interrotti molto prima.
Chissà se, in questo momento, quel “qualcuno” – di cui si conosce nome e cognome, anche se non serve, in questa sede, scriverli – non stia controllando il telefono più del solito, non stia ripensando a scelte fatte o dovrei dire… non fatte, non stia misurando il rischio che la persona ora sotto processo, decida di parlare, non solo di ciò che ha fatto, ma di ciò che è stato permesso.
Non è fantasia, non è suggestione: è una possibilità che conoscono bene coloro che hanno seguito la vicenda fin dall’inizio, ne conoscono i passaggi, le omissioni, i silenzi che pesano più delle parole.
E forse – per ora solo forse – c’è chi oggi, pur stando dentro le istituzioni, non sa più come muoversi: ogni passo rischia di incrinare non un singolo errore, ma un intero sistema fatto di sguardi bassi, di fascicoli chiusi in un cassetto, di silenzi scambiati per prudenza e di scelte giustificate come “opportunità”, ma che forse hanno radici più opache.
Chissà se una luce più insistente – quella, per dire, di un’inchiesta condotta con metodo e pazienza, lontana dal clamore ma vicina ai documenti – potrebbe finalmente illuminare quei meandri in cui la legalità si perde non per violenza, ma per omissione.
Non serve chissà quale rivelazione: a volte basta qualcuno disposto a voltare pagina, davvero, e a leggere fino in fondo.
C’è chi ieri ha parlato di estorsione, di violazione della pubblica custodia, di sottrazione di beni sequestrati – tutti reati gravissimi – e lo ha fatto con chiarezza, con rigore.
C’è chi ha confermato che l’impresa, nonostante la confisca, non ha mai smesso di operare sotto certe logiche…
C’è chi ha ascoltato, ieri, le arringhe della difesa, e chi ha notato l’assenza – significativa – di due parti civili che avrebbero dovuto esserci: l’Agenzia nazionale per i beni confiscati e il Comune.
E c’è chi, leggendo tutto questo, non prova rabbia, non prova soddisfazione, ma un senso profondo di stanchezza morale: perché non è la prima volta, non sarà l’ultima… e ogni volta si ripete lo stesso schema. La denuncia arriva, qualcuno la riceve, nessuno la legge fino in fondo, oppure preferisce insabbiarla nell’ultimo cassetto.
Finché non è troppo tardi, fintanto che improvvisamente non diventa notizia, dopo che arriva un’inchiesta giudiziaria, un processo, sì… per ricordare ciò che un semplice atto di attenzione avrebbe potuto evitare.
Ma forse – mi viene ora da chiedere – andava bene così?
Buonasera. Mentre ascolto i telegiornali, nazionali e regionali, seguo l’inesorabile scandire delle inchieste e mi fermo a considerare la natura di quel potere che ci governa. Si muove attraverso referenti che si interfacciano con meccanismi illegali e silenziosi, quasi invisibili, eppure così profondamente incisivi per la comunità. La sua pressione è costante, simile a quella di un’infezione che si autoriproduce, giorno dopo giorno, senza bisogno di giustificarsi. E allora la domanda sorge spontanea, persistente: quanti altri anni dovremo attendere prima di ribaltare questo stato di fatto?
È proprio questa l’impressione che mi rimane, ascoltando ogni giorno le parole di quei giornalisti che ormai ripetono quelle notizie come se appartenessero alla normalità, come il bollettino meteorologico. E si osservino, quelle “cicale” intervistate, che offendono con la loro presenza le stesse istituzioni che dovrebbero rappresentare. Basta guardare i loro occhi nello schermo per comprendere quanto poco siano limpidi, quanta opacità vi sia nei loro sguardi.
Il dato più assurdo è che i miei connazionali sanno perfettamente che non si tratta di episodi isolati, non sono più responsabilità individuali da isolare e condannare. Quello che avviene da ormai troppo tempo è una pratica consolidata, una sorta di grammatica condivisa del comando. In questo lessico, la corruzione non è più un’anomalia, bensì il modo stesso in cui si parla, si decide, si progetta.
Non provano alcuna vergogna nel commettere certi reati alla luce del sole, o nel celarsi dietro appuntamenti furtivi in luoghi dove si sa non esserci telecamere. Oggi basta sedersi in un bar, mentre si prende un caffè, durante una telefonata amichevole. È in questi momenti, apparentemente innocui, che si decide quella cosiddetta consulenza “tecnicamente necessaria”, quell’incarico che arriva dopo anni di fedeltà silenziosa.
È una corruzione che non ha paura, anzi si espone affinché tutti vedano e, in un certo senso, “comprendano” come stanno le cose. Del resto, questi soggetti sanno bene di poter fare affidamento su chi li sta osservando. Perché anch’essi, compromessi da quel sistema clientelare, sono gli stessi individui che proteggono quella struttura. Non solo con complicità tacite, ma attraverso un’intera architettura di relazioni, di debiti, di promesse non dette ma perfettamente comprese.
Parlo di una corruzione che non imbarazza più nessuno, perché ormai fa parte del contesto. Come il rumore di fondo in un bar, come una porta chiusa in un ufficio pubblico. Sì, come il silenzio dei cittadini che hanno imparato, con il tempo, a non chiedere spiegazioni e soprattutto a non fare domande.
Eppure, tutti sanno cosa vi sta dietro. Vivono ogni giorno quanto avviene nel proprio ambito professionale, sono perfettamente consapevoli del comportamento disonesto che viene messo in campo. Dal più umile lavoratore qualificato al più alto dirigente che si presta a concedere proroghe insensate, dietro una gara fatta su misura, dietro ogni nomina che appare più legata a un ringraziamento che a una competenza.
In tutto ciò che avviene intorno a noi, c’è sempre qualcosa di più grave del semplice malaffare. C’è la costruzione, pezzo dopo pezzo, di un sistema in cui non si vince per merito, ma per appartenenza. Non si cresce per capacità, ma per obbedienza. Non si leggono più i curriculum, e ancor meno si chiede “cosa sai fare”. Perché tutto gira intorno alla persona che ha fissato quel colloquio, la stessa a cui successivamente – a seconda da quale parte della scrivania ci si trova – si dovrà dare, o ricevere, qualcosa.
E così gli anni passano. Senza colpo ferire, si smantella ogni idea di futuro collettivo, di equità sociale, di contrasto all’illegalità. Il tutto viene sostituito da una gestione sterile del presente, in cui il potere non costruisce, non innova, non investe. Semplicemente, come un cancro, si riproduce. Anno dopo anno, progetto dopo progetto, genera dipendenza anziché opportunità, conformismo anziché partecipazione.
Allora mi chiedo: cosa resta a chi, come me, non vuole piegarsi? A chi ancora prova a guardare la propria terra con occhi non rassegnati? Forse nulla. Sì, serve a poco nominare le cose con il loro nome: una corruzione sistemica, diffusa, quotidiana. Resta, è vero, la possibilità di chiedere giustizia, non solo nei tribunali ma anche nelle piazze. Sempre più esigue e con una partecipazione che di solito non nasce dal desiderio di far sentire una voce per il bene comune, ma per un tornaconto esclusivamente personale. Sì… per quell’orticello che minaccia scioperi in cambio di un aumento, di una riforma fiscale, e appena, da quei governi, si ha la certezza di aver ottenuto quanto richiesto, ecco che, prese le briciole, si torna felicemente a casa.
Per fortuna, qualcosa di quella protesta autentica resta. Non nelle parole riportate dalle testate dei giornali o in certe pagine web, solitamente nelle mani di imprenditori fortemente collusi con il sistema, ma nei blog, nei commenti, nelle email che ancora, per fortuna, vengono scambiate tra cittadini liberi e moralmente onesti. Certamente stanchi, ma non ancora rassegnati.
Sì, a noi esigui paladini resta la possibilità di ricordare a tutti quei ragazzi – non ancora infettati dal sistema e, ahimè, a volte dai propri familiari – che la legalità non è un optional morale, ma il fondamento stesso della dignità umana e di una comunità che vuole restare tale. Senza di essa, tutto il resto serve solo da decoro superficiale. Quanto a me, se proprio devo mostrarmi, preferirei esser ricordato come chi ha combattuto per la giustizia sociale, piuttosto che come uno spettatore compiacente.
Perché, in fondo, non è la presenza della corruzione a fare più paura, quella, sapete bene, in forme diverse c’è sempre stata. È la sua normalizzazione a essere spaventosa. Quell’assenza di indignazione, di domande, di quella sana e irriducibile insofferenza che dovrebbe animare chiunque abbia a cuore la vita comune.
Ecco perché continuo a scrivere. Non per ricevere contributi finanziari, né per obbligare il lettore a piegarsi a logiche promozionali. Ancora meno mi serve stimolare clamore o accumulare notorietà. Non sarà mai il numero dei follower a far accrescere la mia, già personale, autostima. Continuo a scrivere per denunciare, per segnalare, per far svergognare qualcuno, o più di uno. Non perché sia certo di riuscire a cambiare questo stato di fatto. Ma perché, finché qualcuno lo fa, qualcosa, da qualche parte, non è ancora morto del tutto.
A volte mi capita di discutere su quel confine sottile, quasi impercettibile, che separa la presenza dall’assenza.
Sono per natura troppo razionale per prestare fede a tutte quelle storielle che ci hanno raccontato sin da piccoli, ancor meno a quelle instillate dalla nostra Chiesa e dai suoi dogmi. Una mente razionale dovrebbe saper riconoscere un qualsivoglia costrutto, per quanto antico o rivestito di autorità.
Ho sempre pensato che gli unici fantasmi degni di fiducia siano i ricordi, siano essi vividi o sbiaditi, fedeli o abbelliti dal tempo. Tutto il resto, tutto ciò che viene descritto come ombre parlanti nelle notti insonni, resurrezioni, apparizioni, voci provenienti da un immaginario altrove, presenze sacre o anche demoniache, non sono altro che il prodotto della mente… sì, una mente capace di meraviglie, ma anche di incubi, per un motivo semplice e profondo: l’incapacità di accettare il vuoto!
Quando una persona se ne va, il mondo sembra fermarsi per un istante, per poi riprendere il suo corso, indifferente. Dentro di noi, invece, qualcosa si incrina e si ribella a quella legge naturale, a quella fine che si presenta con una definitività così assoluta. Ed è allora che vediamo persone cercare un dialogo con chi non c’è più, e credo lo facciano con la più pura e struggente sincerità. Non c’è inganno in quel desiderio, solo un amore che rifiuta radicalmente il concetto stesso di addio.
Ma se ascoltassero con attenzione, la voce che risponde è sempre la loro. Se qualcosa sembra materializzarsi nell’aria, è il loro cuore a scolpirne la forma, con la precisione struggente di un artista che ritrae un volto amato per l’ultima volta. Già… è la mente, accecata dalla mancanza, a plasmare un’immagine così potente da sembrare tangibile. Il dolore, si sa, possiede una forza creativa immensa.
Può costruire mondi paralleli in cui l’incontro è ancora possibile, può far vibrare l’aria di una presenza, trasformare un sospiro del vento in una voce familiare, un soffio in una parola riconoscibile. Sopportare la definitività di una partenza è a volte un compito troppo grande per l’anima umana.
Ed è allora che essa, pur di non rimanere per sempre esiliata, costruisce un ponte, anche se illusorio. In questo senso, chi se ne è andato non scompare mai del tutto, continua a esistere, non in un aldilà nebuloso, ma nello spazio sterminato e intimo di chi lo ricorda.
La mente di una sola persona, quando è animata dalla memoria, diventa un universo più vasto di quello che contiene le stelle. Può custodire voci, risate, sguardi, può rivivere interi pomeriggi dimenticati dal tempo oggettivo, in quello spazio, non valgono le leggi della fisica, ma solo le leggi dell’amore.
Ed è qui, credo, che si cela il messaggio più importante. La vita ci presenta sempre il suo conto ineluttabile, che si chiama fine. Razionalmente, sappiamo che dopo non resta nulla di ciò che siamo o possediamo, eppure, continuiamo a costruire ricordi, a lottare perché un nome non venga dimenticato, a credere che un legame possa sopravvivere alla morte della carne.
Volete sapere perché? Perché alla fine, ciò che continua a esistere non è un fatto, ma un atto di fede. È la nostra personale, irriducibile motivazione a scegliere che qualcosa, o qualcuno, non debba finire.
Accettiamo la fine con la ragione, ma la ribelliamo con il cuore. Sappiamo bene che probabilmente non c’è nulla dopo l’ultimo respiro, eppure ci aggrappiamo con tutte le nostre forze all’idea che ci sia qualcosa dopo l’ultimo abbraccio. Quel qualcosa è il ricordo, tenace, testardo, che si rifiuta di dissolversi.
È la nostra unica, personale vittoria, fragile e profondamente umana, contro la fugacità del tutto
Era la prima volta che sentivo il silenzio parlare così forte
Non il silenzio del borgo, quello lo conoscevo bene, era un vecchio amico fatto di pietre consumate dal tempo e di strade che si allungano senza fretta nella campagna, no, questa volta era un silenzio diverso, più intimo, che riempiva la chiesetta di Brancion come un velo sospeso, denso e chiaro al tempo stesso, come se perfino il tempo, qui così abituato a fermarsi, avesse trattenuto il fiato per ascoltare qualcosa di essenziale.
Ero seduta in fondo, come mi capita spesso, a osservare i figli, i nipoti, gli amici che si stringevano intorno alla bara del dottor Martin, e mi è venuto spontaneo pensare a quanto le nostre professioni, all’apparenza così distanti – la mia custode del riposo, la sua custode della vita – siano in realtà sorelle nella sostanza, accomunate da un’unica vocazione: accogliere chi vacilla, tenere aperta una porta quando tutto sembra chiudersi, essere presenza prima ancora che parola.
Suo figlio, dal pulpito, ha raccontato di un uomo che non si limitava a curare, ma si prendeva cura, un medico che faceva pagare una sola visita, anche se tornava tre volte nello stesso pomeriggio, o se, con un gesto solo, auscultava il cuore di un’intera famiglia radunata in cucina.
Un uomo che sapeva porre tre domande appena, e da quelle riusciva a cogliere non solo la malattia, ma la storia intera di chi aveva davanti, in un’epoca in cui i farmaci non erano ancora una scelta infinita, eppure la guarigione arrivava lo stesso, perché la cura più potente era già lì, nel modo in cui ti guardava, nel modo in cui restava.
Le sue parole mi hanno riportata a tanti volti che ho incontrato quando varcavano il cancello del cimitero: smarriti, stremati, sospesi tra un prima e un dopo che non riconoscono più.
Ho ripensato a quanto sia fragile il confine tra conforto e formalità, e a come, spesso, sia proprio nella rinuncia alla fretta che si nasconde l’unico gesto davvero riparatore: fare posto, senza condizioni, al dolore dell’altro.
Essere una persona perbene, nella vita come nel lavoro, non è una maschera da indossare, né un ruolo da interpretare in scena, è una scelta silenziosa, quotidiana, che non reclama applausi, che non chiede restituzione.
È voltarsi verso chi ha bisogno, anche quando la stanchezza preme sulle spalle, anche quando nessuno lo vedrà, nessuno lo ricorderà.
Poi è arrivato il momento della lapide, e il mio sguardo si è fermato su quel medaglione di ceramica.
Non c’era una foto in posa, né una cerimonia, né un ritratto ufficiale. C’era lui, forse sui cinquant’anni, con il viso segnato dal sole e gli occhi che ridevano prima ancora delle labbra, davanti a un orizzonte di mare aperto, lontano dalle strade polverose della campagna, lontano dai richiami notturni, dalle tosse stizzose, dai letti da visitare all’alba.
Quell’immagine ha detto più di ogni elogio: non si era identificato solo con la sua missione, per quanto intera fosse stata la sua dedizione. Aveva saputo ritagliarsi spazi di leggerezza, non per sfuggire, ma per tornare più intero, più vero, più capace di donare.
Ho capito allora che per dare senza esaurirsi, bisogna prima aver accolto qualcosa di bello dentro di sé.
Non è egoismo cercare la propria luce: è responsabilità. È il riconoscimento che ogni dono autentico nasce da una sorgente che va alimentata, non prosciugata.
Prima della benedizione, il sacerdote ha citato il Vangelo, e quelle parole sono cadute nella navata con la forza di una verità antica che non invecchia mai: Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi.
E ho pensato che dare la vita non significa sempre un gesto eclatante, un sacrificio estremo. Può significare restare, quando sarebbe più facile andarsene. Può significare ascoltare, quando il silenzio sarebbe più comodo. Può significare sorridere, anche se dentro c’è un peso.
Questo è il lascito del dottor Martin: una vita vissuta come un atto d’amore continuo, discreto, non negoziabile.
Vivere così – con coerenza, con delicatezza, con fedeltà – vuol dire scegliere ogni giorno di essere un rifugio. Per chi è ancora in cammino, e per chi ha già concluso il suo viaggio e affida a noi, con fiducia, la custodia della sua memoria.
La cortesia che cerco di praticare nell’accogliere i parenti in lacrime, e quella che lui esercitava chinandosi su un lettino di ferro per prendere un polso con le dita ferme e calde, nascono dalla stessa radice: la convinzione che ogni incontro meriti rispetto, e che nel dono di sé non si perde nulla, anzi, si guadagna una forma più alta di esistenza.
Uscendo dalla chiesa, il sole di Brancion accarezzava le facciate di pietra, e il silenzio era tornato, ma non più denso, non più trattenuto: era diventato leggero, vivo.
Il tempo non era fermo, no: si era mosso, dolcemente, portando via con sé una cerimonia, e lasciando in cambio una lezione incisa non sulla pietra, ma nelle pieghe dell’anima.
Essere una persona perbene non è un epitaffio da incidere alla fine, è un verbo, da coniugare ogni mattina.
È scegliere di cambiare l’acqua ai fiori non solo nel proprio giardino, ma in ogni angolo di vita che attraversiamo. È sapere che un giorno, forse, di noi resterà solo un sorriso impresso in una foto sbiadita, una voce che ha saputo ascoltare, una mano che non ha mai chiesto indietro niente.
E che quel sorriso, quella voce, quella mano, saranno abbastanza, sì… abbastanza per dire: era una persona perbene!
Caro Salvo… scusami se ti do del “tu”, e non è solo per familiarità, ma per una sorta di disperazione affettiva.
Sì… non credo ci siamo mai incontrati di persona, e sono quasi certo che nessuno ci abbia mai presentato ufficialmente. Ma sai com’è… quando due siciliani come noi della stessa generazione hanno respirato lo stesso clima morale di un’epoca, un po’ di confidenza non guasta, anzi, ritengo sia quasi un dovere civico.
E poi, diciamocelo: se non fosse stato per quella tua intervista realizzata da Irene Carmina, forse non avrei mai sentito il bisogno di scriverti nuovamente – vedasi link: http://nicola-costanzo.blogspot.com/2025/11/caro-salvo-ficarra-la-piazza-e-vuota-ma.html, ma quella tua frase, lì da sola… “ma un limite non dovrebbe esserci?” mi ha fatto pensare in questi giorni ad un cliente che si accorge che qualcosa, in quel conto ricevuto al ristorante, non torna. Eppure, stranamente, tutti allo stesso tavolo fingono di niente, come se andasse tutto bene, tanto che lui stesso rimane perplesso e pensa forse di essere in errore. Finché qualcun altro, a un tavolo accanto, inizia ad alzare la voce dicendo: “Eh, scusate… ma un limite non dovrebbe esserci?”. E allora, in quel preciso momento, lui capisce di non essere pazzo e, soprattutto… di non essere più solo.
Tuttavia – scusami se divago un attimo – mentre scrivevo queste righe mi è tornata in mente una cosa. Forse mi sbaglio, ma sì… potremmo esserci già incrociati, molti anni fa, in quei tempi in cui il mondo sembrava più leggero e io facevo il “PR” nei villaggi turistici, discoteche, alberghi… insomma, tra animazione, balli improvvisati e chissà qualche concerto ben organizzato. Immagino che fossimo entrambi più in forma, sicuramente più belli (quantomeno parlo per me…), con più capelli, un orecchino e qualche cerchietto in testa, ma diciamocelo… più speranzosi.
Già… penso che potremmo esserci incrociati senza vederci. Chissà, magari a Mondello, mentre io uscivo dall’Hotel “Tre Torri” con quei miei occhiali da sole modello “Ray-Ban”, la mia cabrio e quell’espressione che mi si leggeva in viso: “Palermo ai miei piedi” (e meno male che chi, da anni, l’aveva di fatto posta sotto ai suoi piedi non aveva la capacità di leggermi il pensiero…). Oppure chissà in centro a Palermo, sì… mentre ero diretto a cena in Via Notarbartolo – dove il cameriere ormai mi chiamava per nome – e forse tu eri lì accanto, assorto in qualche battuta che avresti scritto l’indomani…
E sì, forse ci siamo incrociati. Ma voglio confidarti che da ragazzo peccavo di narcisismo. Forse sarà stata colpa del mio aspetto certamente gradevole, che qualcuno dice io abbia migliorato trasmettendolo – solo in parte, al 50% – alle mie figlie (auspico che non leggano questo post, perché, a differenza mia, sono la riservatezza fatta persona e non vogliono essere neppure per scherzo menzionate…), oppure chissà, sarà stata forse colpa del mio “savoir-faire”, già, di quel saper fare che tanto contraddistingue noi siciliani, ma che il sottoscritto utilizzava “abilmente” nei modi e soprattutto nelle tecniche, abitualmente espresse con educazione e momenti di romanticismo. Ma parliamo di anni in cui brillavo talmente di luce propria da non vedere nessuno sopra me, ancor meno coloro che potevano rappresentare una possibile concorrenza…
Ma ora quel tempo è andato via e ciò che resta è quanto vediamo. Siamo come quei due clienti, e ci chiediamo, da siciliani che amano la loro terra: come mai non siamo ancora scesi in piazza a dire basta, a pretendere che qualcosa, finalmente, cambi? Come mai i nostri conterranei non fanno nulla per mutare questo stato di cose?
Stasera osservavo il Tg nazionale e mentre si parlava di politica, scorrevano alcune immagini di due ministri che, passeggiando, venivano fermati da parecchi cittadini con volti sorridenti che si avvicinavano per porgere loro la mano o anche un semplice abbraccio…
Ora, se chi dovrebbe far valere le proprie ragioni si genuflette a quel sistema, lo stesso che evidenzia da troppi anni un meccanismo iniquo, ben oliato grazie a un sistema clientelare, corrotto e soprattutto illegale, cosa possiamo fare noi due per fare in modo che questa condizione cambi?
Lo so… sembra una partita persa ancor prima di giocarla, eppure – caro Salvo – vorrei raccontarti una circostanza che nel suo piccolo è stata per alcuni anni d’impulso per cambiare questo stato di cose: mi trovavo a Genova, era un giorno di settembre del 2005, durante la festa dell’Unità. Vidi Beppe Grillo che parlava, mi avvicinai e gli chiesi – seppur il contesto non fosse quello giusto – se potevo discutere con lui un’idea che avevo avuto: la possibilità di realizzare un movimento politico chiamato “Uno vale Uno”. Gli chiesi inoltre di poter essere proprio lui il promotore, insieme ad altre persone certamente più preparate del sottoscritto (sotto l’aspetto normativo/amministrativo), pregandolo altresì di riflettere a questa mia proposta e di non tralasciarla, anche se forse poteva sembrare un po’ troppo “idealista”, ma che rappresentava – in quel periodo – lo stato d’animo di molti miei connazionali. Ricordo ancora la sua risposta, dopo avermi chiesto come mi chiamassi; sorridendo mi disse: “Nicola… mi manca soltanto questo passo in politica, per farmi odiare definitivamente da tutti”. E a quella affermazione, tutti i presenti scoppiarono a ridere!
Di lì a pochi anni, come ben sai, nacque il “M5Stelle” e oggi sappiamo cosa ne è restato di quel movimento che aveva riunito ben il 42% degli italiani, per poi dissolversi a causa di una serie di decisioni errate adottate per lo più da quei suoi dirigenti e da alcuni referenti, molti dei quali, abbiamo visto, hanno evidenziato preferire la poltrona alla morale…
Oggi, sono certo che una parte consistente del paese, quasi il 40%, provi disgusto per la politica e ancor di più per i suoi referenti; d’altronde non sono io a dirlo, basti rivedere i dati più recenti delle elezioni politiche nazionali del 2022, quando il tasso di astensione ha raggiunto un record storico del 36,1%.
Questo significa che su dieci elettori, quasi quattro non si sono recati alle urne. Comprenderai che basterebbe quel solo numero per ribaltare oggi qualsivoglia schieramento politico.
Ecco perché è importante pensare di riconsiderare quell’idea di movimento “culturale”, quella scintilla di equità sociale che vede attualmente il 5% degli italiani padrone di quasi il 50% del patrimonio del Paese, per cui il ricco diventa sempre più ricco e il povero sempre più povero. È come essere all’interno di un palazzo condominiale dove l’ascensore non va mai su o giù, ma resta sempre lì dov’è, sospeso, senza permettere a chiunque non appartenga a quella casta di poterci salire.
E così, la restante parte di quel condominio luccicante, pieno di vetri che assomiglia a un cristallo, resta sempre sotto, con la testa rivolta in alto per ammirare quei personaggi che tanto desidera incontrare, sperando un giorno di potergli stringere la mano, farsi un selfie, immaginare di poter trascorrere in quel luogo qualche ora…
Ma forse è venuto il tempo di abbattere quel tempio, di passare alle azioni, di rifiutare qualsivoglia contatto e di entrare nuovamente in quell’urna per fare la cosa giusta, l’unica scelta coraggiosa, che ti ricorda che possiedi ancora una dignità e che nessuno può toglierti e, soprattutto, comprare!
Ecco, caro Salvo, forse è tempo di passare ai fatti, quantomeno di provarci. Contiamoci, vediamo quanto siamo, vediamo dove possiamo arrivare e a quel punto si deciderà cosa fare. Altrimenti tutto resterà – come quell’ascensore – immobile, e le mie, le tue, resteranno certamente delle belle parole, che tutti ascolteranno, ma che nessuno vorrà poi mettere in pratica…
E allora, se tutto dovrà andare così, non mi resta che invitarti a Catania. E chissà se forse, tra una portata e l’altra, troveremo finalmente quel punto di contatto in cui, tanti anni fa, le nostre strade si sono casualmente incrociate.
Ed ecco che la conferma arriva puntuale e inesorabile come un tramonto sull’Etna: non resta che sedersi, come quel signore disteso sul tavolo del mio quadro, a contemplare un paesaggio dietro di sé, bellissimo, incandescente e inesorabilmente immobile, mentre intorno tutto precipita…
Il dato sulla “qualità delle amministrazioni locali” ci ha regalato un balzo degno di un’atleta specialista in fuga all’indietro: ultimo posto nazionale.
Non un passo falso, non un infortunio momentaneo, no… un vero traguardo. Il risultato di un anno in cui sguardi alti e maniche basse hanno lavorato in perfetta sincronia, come due ingranaggi oliati dalla rassegnazione, per produrre quel piccolo miracolo che solo l’incuria, coltivata con metodo, può portare a compimento.
Nella classifica generale sulla qualità della vita, siamo scivolati al 96° posto, tredici gradini verso il basso, con la grazia di chi scende una scala mobile rotta senza neanche accorgersene. E mentre sprofondiamo, a brillare beffardamente c’è solo la nostra illuminazione pubblica sostenibile, premiata come faro nel buio.
Peccato che quel faro, per chi percorre la tangenziale davanti all’aeroporto Fontanarossa – vedasi quanto ho scritto a suo tempo al link: http://nicola-costanzo.blogspot.com/2024/07/sindaco-e-assessorato-alla-viabilita.html – sia ancora un’ipotesi astratta. Forse chi ha redatto il report non ha mai guidato di notte da quelle nostre parti, o forse semplicemente ha scelto l’illuminazione metaforica, quella che si accende un attimo prima di chiudere il documento.
Alla voce ambiente e servizi il crollo è stato “solo” di sette posizioni – una sorta di applauso di consolazione da parte del destino, ma la vera opera d’arte – quella che meriterebbe un allestimento in una galleria di performance tragicomiche – è il tracollo in demografia e società: trentacinque posizioni in meno, un record da Guinness dell’apatia collettiva.
Sì… moriamo di più di tumori, usciamo prima da scuola, come se il sapere fosse un bagaglio troppo pesante da portare oltre la terza media. Eppure, per un paradosso degno di Pirandello, continuiamo a fare figli e abbiamo pochi anziani a carico. La nostra gioventù, così, ha tutto il tempo del mondo per assistere in diretta al declino… con comodo, seduta in prima fila, magari sgranocchiando popcorn forniti dalla rassegnazione generazionale.
E il lavoro? Siamo al 98° posto! Le imprese qui falliscono più che altrove, ma almeno le pensioni di vecchiaia scarseggiano, forse perché qui si invecchia più in fretta, forse perché la pensione arriva solo dopo aver superato l’esame di realtà…
E la giustizia? La sicurezza? Be’, quelle sono le colonne portanti della stabilità: stabili nella mediocrità, solide nella precarietà, un esempio raro di coerenza amministrativa.
Insomma, una cosa sola possiamo dire con certezza, in mezzo a questo mare di oscillazioni: la nostra capacità di confermare il peggio è straordinariamente affidabile. Una costante, in un universo di variabili.
Naturalmente, a commentare il disastro ci pensa la politica – in particolare l’opposizione, che declama con la solita litania: “destra”, “scelte miopi”, “mancanza di visione”. Hanno ragione, certo… ma viene da chiedersi, mentre snocciolano dati con la solennità di chi fa finta di meravigliarsi, di non sapere, quando a quei loro stessi discorsi non è mai seguita un’azione chiara (con il rischio di dover perdere la propria poltrona…) se non ribadire ciò che oggi suona, come un déjà vu, le solite chiacchiere in salsa catanese.
Perché il problema, vedete, non è solo di chi oggi amministra – no… non sto parlando della criminalità organizzata, quella è un’altra storia, troppo nota per essere rievocata qui come se fosse un colpo di scena in una serie già vista – il vero dramma è quel coro muto di assenze: di responsabilità scaricate, di competenze dimenticate, di promesse che evaporano come la pioggia sulla lava rovente.
Da quando sono arrivato in questa città, i problemi sono rimasti sempre gli stessi, come vecchi mobili impolverati che nessuno butta via perché “tanto, prima o poi serviranno”. Sì… son cambiati i volti – quasi mai i cognomi – a volte le sigle di partito, ma la musica no… quella è sempre la stessa, un valzer lento e stonato, dove chi non balla viene guardato come un intruso. Del resto, come recita una delle massime più sagge di questa terra: se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi.
E i cittadini? Niente… loro semplicemente ballano. Cambiano casacca con la disinvoltura di chi sa che il vero potere non è nelle idee, ma nelle file. Si rivolgono a chi è appena salito sul carro dei vincitori, non per convinzione, ma per sopravvivenza, per ottenere un posto, per sbloccare una pratica, per comprare un silenzio. E intanto, passo dopo passo, accompagnano quotidianamente con le proprie azioni quel carro, con la tranquilla consapevolezza che, “sì… così è più comodo”… per tutti!
Tranne, forse, per quel signore disteso sul tavolo. Lui sembra aver capito che comodo non vuol dire giusto, ma solo più lento. E che, prima o poi, anche il tramonto sull’Etna finisce. Poi – ahimè – viene il buio. Già… quello vero.
Li vediamo, seduti ai loro posti, mentre i notiziari scandiscono i capi d’imputazione, eppure non un gesto di ritrosia, non un’incertezza nello sguardo. Restano immobili, come se la gravità delle accuse non riuscisse a sfiorarli, come se il tempo si fosse fermato intorno a loro e la realtà non avesse il diritto di bussare troppo forte. È una scena che non sorprende più, eppure ogni volta provoca lo stesso disagio: non per la novità, ma per la sua terribile familiarità.
C’è una logica, in tutto ciò, ma non è la logica del diritto o della responsabilità. È quella del possesso: il potere non è più inteso come mandato revocabile, ma come proprietà acquisita, quasi ereditaria. Non è un compito che ti affidano: è una cosa che si sono presi e non mollano più. E allora l’indagine non è un invito a chiarire, ma un’aggressione personale, un colpo basso da respingere con ogni risorsa, legale o meno. Si attivano difese non per dimostrare la propria innocenza, ma per difendere il posto. Come se la dignità potesse sopravvivere in assenza di ogni pudore.
Ci si potrebbe indignare, eppure l’indignazione si è fatta stanca, logorata da una ripetizione che sembra non avere fine. Non è più lo scandalo a colpire, ma l’assenza di scandalo. Si è normalizzato l’insostenibile, e in questa normalizzazione si annida il vero danno: non tanto l’atto illecito in sé, quanto la sua accettazione silenziosa, come se fosse inevitabile, come se l’Italia non avesse mai conosciuto altro. Eppure basterebbe ricordare, anche solo per un istante, che c’è stato un tempo in cui un solo sospetto bastava a far vacillare una carriera. Non per moralismo, ma per un semplice senso di decoro, ormai smarrito.
Allora viene da chiedersi: perché stupirsi? Non basta guardare con attenzione per capire di quale materia siano fatti certi individui. Non è mancanza di vergogna, è assenza totale di ogni senso di appartenenza a una comunità. Non è resistenza, è pura e semplice adesione a una logica che pone l’interesse personale ben al di sopra del bene comune. Non c’è neppure un briciolo di dignità, perché la dignità presuppone un limite interiore, un confine oltre il quale non si è disposti a scendere, e qui quel confine è stato rimosso da tempo.
Forse servirebbe un patto nuovo, non scritto ma condiviso: la sola ombra di un sospetto grave dovrebbe spingere a un passo indietro, non per punizione, ma per rispetto. Per rispetto verso chi ogni giorno paga le tasse, verso chi crede ancora che le istituzioni possano funzionare, verso il semplice atto di fiducia che ogni cittadino concede ogni volta che si rivolge a un ufficio pubblico.
Invece assistiamo a una commedia stanca, recitata da attori che rifiutano di abbandonare il palco anche quando le luci si sono spente da un pezzo. Restano lì, aggrappati non al ruolo, ma al simbolo del ruolo, come se la legittimità potesse reggersi su un titolo e non sulla credibilità che, giorno dopo giorno, si logora in silenzio, fino a dissolversi del tutto.
E intanto, fuori, il paese continua a camminare in punta di piedi, come se temesse di svegliare qualcosa che, in realtà, non dorme affatto, anzi, aspetta solo il momento giusto per tornare a sedersi, ancora una volta, al suo posto, tanto d’aver già prenotato il catering per la prossima inaugurazione.
Ripropongo oggi un post che avevo scritto ieri, 25 novembre, una data che si ripete ogni anno con il suo carico di dolore e di moniti. È una giornata in cui le bandiere sventolano a mezz’asta per le donne che non ci sono più, un promemoria collettivo che dovrebbe scuoterci dal torpore.
Eppure, ogni volta che questa ricorrenza ritorna, mi chiedo quanto sia profonda la distanza tra le parole che pronunciamo e la realtà che continuiamo a tollerare.
Leggi vengono approvate, decreti si susseguono, eppure il fiume di sangue non si arresta. Si discute di braccialetti elettronici, di ammonimenti, di inasprimenti delle pene, come se la violenza fosse un problema di ingegneria sociale da risolvere con un regolamento più severo. Ma il cuore del male rimane intatto, protetto da un muro di indifferenza e da una cultura che fatica a riconoscere l’odio per quello che è.
Ci hanno detto che settantacinque coltellate non sono crudeltà, ma solo inesperienza. Una sentenza che sembra uscita da un racconto distopico, dove la sofferenza più atroce viene ridotta a una mancanza di pratica, come se il male avesse bisogno di un manuale di istruzioni.
Questo non è un errore giudiziario, è il sintomo di una malattia culturale che pervicacemente si rifiuta di vedere la violenza maschile per quello che è. Non un raptus, non un incidente di percorso, ma un meccanismo di potere, un linguaggio tossico fatto di possesso e di distruzione. Un sistema che, di fronte all’evidenza più macabra, continua a cercare attenuanti, a chiamare l’odio con nomi più gentili, come “delirio” o “eccesso passionale”.
Finché continueremo a farlo, finché la crudeltà dovrà essere dimostrata come un optional e non l’essenza stessa del femminicidio, allora nessuna legge basterà. Perché le leggi possono condannare, ma solo la cultura può riconoscere e prevenire. Ci illudiamo che un provvedimento legislativo possa essere la panacea, mentre il problema affonda le sue radici in un terreno incolto, dove sono assenti l’educazione al rispetto e l’alfabetizzazione emotiva.
Sono gli uomini che odiano le donne, perché hanno paura di loro, della loro forza, della loro intelligenza, della loro libertà. Vedono il rapporto non come una crescita comune, ma come una sfida da vincere, un territorio da dominare. A me, nella mia vita, è sempre stato chiaro che le donne vanno solamente amate, già, per come ho fatto io in tutta la mia vita. È una verità semplice, che dovrebbe essere il fondamento di ogni rapporto.
E allora viene da chiedersi, cosa dovrà ancora succedere. Quante Giulia, quante vite spezzate dovranno ancora attraversare le nostre cronache prima che si ammetta l’ovvio. Che non esiste una violenza contro le donne normale, che ogni femminicidio è già di per sé un atto di crudeltà inaudita. E che finché continueremo a sminuirla, a cercare scappatoie, a chiamarla con altri nomi, nessuna donna sarà mai al sicuro.
L’invito a non voltarsi dall’altra parte, a denunciare, a intervenire, rimane un imperativo categorico. Perché il silenzio e l’indifferenza uccidono tanto quanto un pugnale. E forse, è proprio questa indifferenza la complicità più grande, quella che permette a tutto questo di ripetersi, anno dopo anno, in una data che dovrebbe ricordarci un impegno, e che invece rischia di diventare solo una triste liturgia della nostra incapacità di cambiare.
In questi giorni percorro di mattina una strada di campagna e mentre il sole inizia a salire lentamente dall’orizzonte, mi sono chiesto se sia proprio la bellezza a renderci più fragili o se, al contrario, sia la consapevolezza di possedere qualcosa di raro da farci dimenticare che la cura, più del possesso, è ciò che conta davvero. La Sicilia difatti non ha bisogno di essere raccontata: basta guardarla per capire che ogni parola su di lei è già stata scritta, forse da Goethe, forse da un pescatore che, senza alcun bisogno di citare i classici, ci ricorda come il vento di scirocco ha portato con sé non solo la sabbia dell’Africa, ma anche il peso di quelle invasioni, già… di incontri mancati e di promesse mai mantenute.
Qui ogni pietra racconta di un impero caduto, ogni porto… una partenza che non è mai stata un vero addio, ogni tempio un’alleanza tra fede e potere, autorità e consenso.
Migliaia e migliaia di anni in cui qualcuno arriva, costruisce, comanda, poi se ne va… e lascia dietro di sé non solo monumenti, ma anche una consuetudine: quella di tramandare un’attesa, sì… aspettare sempre che giunga qualcuno da fuori per decidere del nostro destino!
E difatti lo stesso accade ai nostri giorni, eppure non è colpa degli invasori, di quelli che vengono e se ne vanno, no… se ci guardiamo intorno vediamo sempre lo stesso vuoto – non di risorse, non di talenti, non di volontà – ma di fiducia, già… fiducia nel fatto che fare la cosa giusta, senza chiedere niente in cambio, possa bastare.
Perché la verità, quella che si tende a non dire a voce alta, è che molti di noi – per come veniamo descritti nel mondo – non sono mafiosi, e neppure complici, ma purtroppo sono molti i miei conterranei a non sentirsi obbligati a contrastare chi lo è!
Non sempre per paura: spesso semplicemente perché non ne vale la pena. Si sa… bloccare un torto non dà vantaggi immediati, segnalare un appalto truccato non garantisce un posto di lavoro, anzi, tutto ciò mette in cattiva luce ed allontana da quel “sistema” in cui tutti sanno come funziona, ma nessuno lo ammette ad alta voce…
Ed è il motivo per cui sanno che, denunciare un abuso edilizio, non riporta indietro il paesaggio perduto, ma li rende scomodi, e così scelgono di abbassare lo sguardo. Si chiama “realismo”, si chiama “prudenza”; a volte si usa una parola che suona quasi nobile: omertà. Ma non è silenzio per proteggere qualcun altro: è silenzio per proteggere se stessi!
Ed è proprio lì, in quel gesto quotidiano — ripetuto decine di volte al giorno — che si annida quel che davvero mina questa terra: non la forza della mafia, ma la debolezza della sua opposizione! Un permesso firmato senza leggerlo. Un visto rilasciato senza controllare. Un appalto assegnato con la giustificazione più insidiosa: “tanto se non lo faccio io lo farà qualcun altro”.
Non serve essere un boss per alimentare questo sistema. Basta essere un professionista che chiude un occhio, un impiegato che fa una copia in più, un sindaco che sceglie di non accorgersi, oppure un cittadino che vota non per un programma, ma per un pacco alimentare distribuito la settimana prima.
Non stiamo parlando di personaggi da film: questi nuovi soggetti, non indossano doppiopetto, non parlano in codice e non hanno soprannomi. Sono i nostri vicini di casa, i nostri colleghi, ahimè… i nostri parenti: hanno figli che studiano in atenei privati, possiedono case dotate di ogni comfort, macchine lussuose e conti in banca (che appaiano) regolari…
Eppure, ogni volta che scelgono il tornaconto anziché ciò che è giusto, non commettono solo un illecito: insegnano qualcosa, sì… ai loro figli, ai loro collaboratori, a chi li osserva e cioè che il rispetto delle regole è un optional, che l’onestà è un difetto di forma, non di sostanza e soprattutto che il sistema non si cambia, si aggira e chi non lo aggira, è semplicemente fesso o quantomeno, meno furbo.
Allora ti domandi: dov’è finita quella Sicilia che si ribellava? Quella dei contadini che nel 1893 fondarono i Fasci, quella dei sindacalisti uccisi in piazza, quella dei magistrati che non esitarono un istante?
La verità è che non è scomparsa: è stata ridotta a monumento. Già… onorata in pubblico, archiviata in privato. Ed ecco che si intitola una strada a Falcone, una piazza a Borsellino, poi si affida la gestione di un bene confiscato di quella impresa che nessuno ha mai controllato, con procedure che, in alcuni casi, abbiamo visto, si sono rivelate persino più opache di quelle messe in pratica dagli stessi indagati.
Già… si celebra la memoria, ma non si pratica il coraggio!
Perché il punto non è se la mafia sia ancora potente, perché lo è… finché qualcuno la alimenta. Il punto è che noi, oggi, non siamo più costretti a subirla. Siamo liberi di scegliere. Eppure, dall’osservazione quotidiana dei comportamenti di molti miei conterranei, vedo una scelta precisa: non scegliere affatto.
Aspettare sempre che sia un altro ad agire, pensare che la corruzione sia un problema del “sistema”, come se il sistema non fossimo noi, come se non fosse fatto di scelte individuali, ripetute, quotidiane.
La Sicilia è bellissima, sì… lo è ancora, nonostante tutto. Ma nessuna bellezza regge a lungo se chi la abita smette di chiedersi cosa significhi curarla: non solo con le parole, non solo con la nostalgia, ma con atti concreti, ripetuti, noiosi, scomodi. Con la fatica di chi rifiuta un favore, con la pazienza di chi legge fino in fondo un progetto, con la dignità di chi, guardando dritto negli occhi, dice: No… non questa volta, e neppure la prossima.
Ecco, forse solo allora smetteremo di essere famosi per ciò che tolleriamo e torneremo a essere riconosciuti per ciò che costruiamo.
È interessante notare come, negli ultimi due decenni, la geografia biblica abbia compiuto un salto non da poco: non più affidata solo a disegni schematici nei libri di studio, ma a modelli digitali interattivi, costruiti con dati archeologici, satellitari e testuali incrociati.
Il Digital Atlas of the Holy Land, curato dalla Society of Biblical Literature in collaborazione con ricercatori di università come Yale e Tel Aviv, offre oggi una ricostruzione stratigrafica dei percorsi antichi, compresi quelli plausibili del I secolo.
Lì, per esempio, si può tracciare in tempo reale la via che da Sefforis – città romana vicina a Nazaret, dove Gesù probabilmente lavorò come artigiano – conduceva a Cafarnao: un tracciato di circa 35 km, in gran parte su una strada secondaria che costeggiava le colline della Bassa Galilea, con pendenze dolci ma polvere abbondante nei mesi estivi.
Anche BiblePlaces.com, fondato dall’archeologo Todd Bolen, va oltre la semplice mappa: integra foto aeree attuali, scansioni LiDAR e ricostruzioni 3D di siti come il pozzo di Giacobbe a Sichem o le rovine di Gerico pre-70 d.C., consentendo di confrontare il paesaggio odierno con quello che Gesù avrebbe visto.
In una delle sue schede su Jesus’ Travels, si legge una nota particolarmente evocativa: i ricercatori hanno calcolato, in base all’andatura media di un camminatore antico (4–5 km/h, con soste ogni due ore), che il viaggio da Cafarnao a Gerico – tappa intermedia cruciale prima della salita a Gerusalemme – richiedeva circa tre giorni, con pernottamenti a Scitopoli o a Fasaelis, villaggi ormai ridotti a cumuli di pietra, ma ben documentati negli archivi del Israel Antiquities Authority.
Una cosa colpisce: quasi tutti questi spostamenti rientrano in un’area di circa 150 km di diametro – meno della distanza tra Catania e Palermo. Eppure, quella piccola porzione di terra era un crocevia di lingue, imperi, culti e resistenze. Camminare da Nazaret a Gerusalemme significava passare da un villaggio aramaico a una città ellenizzata, da una regione governata da Erode Antipa a un’altra sotto diretto controllo romano, con dogane, dialetti diversi, monete non sempre accettate.
Non era solo una questione di chilometri: era un attraversamento continuo di mondi. E Gesù lo fece a piedi, senza scorta, senza permessi speciali, un uomo in movimento in un territorio controllato.
Quel che i dati moderni confermano, più di ogni altra cosa, è la località radicale della sua missione. Non parlava dal centro del potere, né da un pulpito remoto: lo faceva nei campi, sulle rive, alle porte delle città, in luoghi dove la gente si fermava per necessità, non per devozione. Il pozzo di Sichem, per esempio, non era un santuario: era un punto d’acqua quotidiano, un crocevia femminile, un non-luogo sacro che diventa, per un dialogo, luogo di rivelazione.
Oggi, grazie alle mappe del Digital Atlas, possiamo vedere che quel pozzo si trova a poche centinaia di metri da una strada carovaniera secondaria – non isolato, ma attraversato, proprio come la donna samaritana, proprio come il Vangelo stesso.
Se vi interessa esplorare personalmente questi percorsi, ti segnalo due risorse aperte e gratuite:
Entrambe permettono di sovrapporre antico e moderno, di misurare distanze con precisione, di capire non solo dove, ma come si camminava allora e forse, per contrasto, come camminiamo noi oggi, sempre più veloci, sempre meno presenti.
Perché, alla fine, questo post non vuole ridurre il sacro al misurabile: vuole però restituire a quell’uomo, quello spessore umano che qualcuno (dopo tre secoli dalla sua morte) ha voluto stravolgere, sì… per creare quel “mistero di Cristo”, un concetto chiave che includendo egli alla cosiddetta “trinità”, ha potuto di fatto elevare quei semplici uomini ad un livello e ad una gerarchia, capace di condizionare la storia per millenni, influenzando fino ad oggi, 2,4\miliardi di cristiani nel mondo.
Oggi, grazie alle mappe del Digital Atlas, possiamo vedere che quel pozzo si trova a poche centinaia di metri da una strada carovaniera secondaria, non isolato, ma attraversato, proprio come la donna samaritana, proprio come il Vangelo stesso.
E allora, forse, il vero scopo di riproporvi queste mappe non è ridurre il sacro al misurabile, è piuttosto restituire a quell’uomo il suo spessore umano, troppo spesso offuscato da secoli di dottrina. Quel “mistero di Cristo“, un concetto chiave che, a partire da tre secoli dopo la sua morte – includendolo nella cosiddetta “trinità” – ha di fatto elevato anche quei semplici uomini a un livello gerarchico capace di condizionare la storia per millenni – influenzando fino ad oggi 2,4 miliardi di cristiani – e che – il più delle volte – ne ha allontanato il volto più autentico.
Il mio desiderio, viceversa, è più semplice e più radicale: restituire a quell’uomo il respiro di chi cammina davvero. I piedi gonfi, la gola secca, lo sguardo rivolto al prossimo incontro. Gli occhi di chi sa che la trascendenza non abita in un altro mondo, remoto, ma proprio qui, nel terreno battuto ogni giorno. Nella polvere sollevata da un passo stanco, nella luce obliqua di un tramonto, nel gesto disarmante di chiedere un po’ d’acqua e di concedere, in cambio, una parola che cambia tutto.
Perché è in quel gesto, in quella parola disarmata e potente, che risiede la distanza più breve e al tempo stesso incolmabile tra l’umano e il divino. Una distanza che nessuna mappa, e forse neppure alcuna Chiesa, potrà mai contenere…
C’è un momento, prima che la notizia si adagi come fosse polvere su una scrivania dimenticata, in cui essa vibra, non come fatto, ma come segnale. Già… proprio come un avviso scritto in una lingua che conosciamo bene, anche se facciamo finta di non capirla.
Ora quel segnale non è solo l’eco di una sentenza né il rilancio di un comunicato stampa: è il peso specifico di ottantamila euro in contanti, gli ennesimi soldi a nero che circolano in questo Paese, e lasciatemi ricordare come, in tutti questi anni, nessun governo nazionale ha mai voluto adottare provvedimenti veri contro il riciclaggio e i pagamenti in nero, trovati chiusi nell’ennesima cassaforte, nascosta tra le mura di una casa in città o in una tenuta fuori mano.
Non è tanto la cifra a colpire – ormai sappiamo che i numeri si gonfiano, si riducono, si mimetizzano – quanto il gesto di nasconderla, di tenerla lì, ferma, come un’assicurazione silenziosa, un pegno in attesa di essere riscattato o di corrompere chiunque si mostri disposto a farsi infettare.
È la conferma che, contrariamente a quanto dichiarato ieri dal Presidente Mattarella – «la mafia tracotante che fu sconfitta» – la sua totale distruzione non è mai avvenuta. Anzi, quel sistema non è in crisi: funziona benissimo, più florido che mai.
Certo, funziona per pochi (infetti) e contro tutti: appalti, sanità, assunzioni, gare che si aprono e chiudono con la stessa facilità di una saracinesca. Un sistema criminale «pubblico», non per servire, ma per selezionare, per garantire che quella casta sopravviva, che il cerchio resti chiuso, che le mani che stringono siano sempre le stesse, anche se i volti cambiano, le generazioni si susseguono e le etichette politiche si rinnovano.
Non è corruzione occasionale, non è una deviazione momentanea: è un metodo consolidato, oliato, che si ripete, si perfeziona, si trasmette. Un linguaggio condiviso, fatto di pressioni discrete, rinvii strategici, punteggi modificati in silenzio, commissioni che decidono non per quello che vedono, ma per ciò che gli viene suggerito.
E chi credeva che tutto questo fosse circoscritto a un ufficio, a una provincia, si sbagliava. Il contagio non rispetta i confini amministrativi: segue le relazioni, i favori, i debiti non scritti, dalla costa occidentale fino alle pendici dell’Etna, lungo strade secondarie che non compaiono sulle mappe, ma solo sulle agende private.
Non sono più solo le parole intercettate a raccontare questa storia: sono i corpi che si irrigidiscono al suono di un telefono, le dimissioni annunciate con ritardo, i sit-in silenziosi davanti ai palazzi, con striscioni che non gridano rivoluzione, ma chiedono una cosa sola: rispetto. Ma rispetto di cosa? Per chi lavora onestamente, per chi aspetta un’assunzione meritata, una strada riparata non per grazia ricevuta, ma per diritto?
Mentre alcuni sperano che l’inchiesta si esaurisca tra verbali e interrogatori programmati per venerdì, qualcosa già si muove più a est. Sì… Catania non è un’ipotesi: è una direzione. Lo sento nell’aria, nel modo in cui certe telefonate si interrompono prima del previsto, nelle carte ricontrollate all’improvviso, nei nomi cancellati da liste e protocolli.
Non è fantasia: quando un sistema viene scosso davvero, non crolla pezzo a pezzo, ma tutto insieme. E saranno in molti a dover piangere. Chi ha costruito la propria fortuna su fondamenta marce non può non tremare, soprattutto chi, insieme alla sua famiglia, ha goduto di un «improvviso» benessere senza mai chiedersi da dove venisse..
Perché questa volta non si tratta di coprire, archiviare o attendere che il tempo cancelli tutto. Questa volta, la luce entra da più finestre. E anche se qualcuno spera che il clamore si spenga, ciò che è stato commesso – l’infamia con cui si sono macchiati – non svanirà!
Perché lì, nell’asettico mondo virtuale, nulla viene cancellato. I nomi, i cognomi, le date resteranno per sempre, scolpiti nella memoria digitale che non perdona. E quando qualcuno proverà a dimenticare, basterà un click per ricordare chi ha tradito, come ha tradito, e a chi è costato. Perché la verità, una volta esposta, non torna più nell’ombra.
Già… mi ritrovo a scrivere di questa storia e mi chiedo se il tempo qui da noi non sia un inganno, un cerchio che gira su se stesso senza mai spezzarsi.
Rileggo i miei post, già di quando l’ambasciatore Attanasio e il carabiniere Iacovacci furono uccisi in quel viaggio mai autorizzato, quando scrissi di documenti scomparsi e dei sospetti che preannunciavano una tempesta, già… come nuvole cariche di pioggia.
Prevedevo che la verità sarebbe stata sepolta, che lo Stato avrebbe preferito il silenzio alla responsabilità ed oggi più che mai, capisco che non ero io a essere pessimista: era il sistema a essere già marcio, allora come adesso.
I familiari in queste ore hanno chiesto una commissione d’inchiesta, non per vendetta, ma per poter dire alle loro figlie che quei morti non sono stati inutili. Una richiesta che dovrebbe essere scontata, se non fossimo in Italia, dove persino il dolore deve passare al vaglio della convenienza politica.
E difatti… la maggioranza non firma, non si presenta, lascia che la sala resti vuota come un teatro dopo l’ultimo atto. Un silenzio che non è assenza di rumore: è un urlo, è la conferma che quelle vite, per chi conta, non valgono neppure una firma su un foglio.
Mi tornano allora in mente le parole della moglie di Luca Attanasio, quando parlava di verità per le sue bambine, di un futuro in cui il loro papà non sarebbe stato solo un nome su una lapide. Penso oggi a cosa le starà passando per la mente mentre osserva che gli stessi uomini e donne per cui suo marito ha lavorato, per cui è morto, non trovano neppure cinque minuti per ascoltarla?
Non si tratta di disorganizzazione, di impegni presi, di mancanza di tempo, no… è mero calcolo, la consapevolezza che – in fondo – nessuno chiederà conto a chi lascia nel dimenticatoio chi ha servito lo Stato.
Ma d’altronde basti ripensare ancora una volta a quel viaggio in Congo, alle scorte mai arrivate, alle responsabilità svanite nel fumo dei comunicati stampa, già… come se la morte di due uomini potesse essere cancellata con un colpo di penna. Ed ora, guarda caso, il copione si ripete qui, nel cuore delle nostre istituzioni!
La verità non è più un obiettivo: è una merce di scambio, un favore da concedere solo a chi sa negoziare meglio. E quando la morte di un ambasciatore o di un carabiniere diventa una questione di colore politico, allora non stiamo più parlando di errori. Stiamo parlando di un sistema che sa benissimo cosa sta facendo.
Qualcuno dirà che è inutile arrabbiarsi, che “tanto è sempre stato così”. Ma io non ci credo. Non ci posso credere quando ripenso a quei volti, a quelle storie interrotte, a quelle madri, mogli e figli che non vedranno più i loro cari tornare a casa.
La verità non è un lusso, non è un’opzione per chi ha tempo da perdere. È un dovere, e quando lo Stato rinuncia a questo dovere, non è solo colpa: è complicità! Perché lasciare nel buio chi ha dato la vita per le istituzioni è come uccidere con lentezza, con la crudeltà dell’indifferenza.
E allora mi chiedo: se l’ambasciatore Attanasio fosse stato meno uomo e più politico, se avesse imparato a tacere quando serviva, a non fidarsi troppo, a non andare in quel viaggio “non autorizzato”, chissà… forse sarebbe ancora qui.
Ma soprattutto, forse oggi non sarebbe solo un nome cancellato tra i comunicati, un fastidio da archiviare tra le “questioni scomode”. La sua colpa, forse, è stata quella di credere davvero nel ruolo che rivestiva, di pensare che la divisa che indossava valesse più dei giochi di palazzo e forse, in fondo, è per questo che lo hanno lasciato solo.
Ma io – a differenza loro – non l’ho dimenticato. Non ho dimenticato il suo impegno per le comunità del Nord Kivu, il suo lavoro per i progetti scolastici, quel modo di guardare il mondo come se ogni persona fosse già un ponte verso la pace.
Ecco perché nella foto che ho realizzato lo immagino seduto in una poltrona senza tempo, circondato da un movimento sfocato che sembra il caos del mondo in fuga. Dietro di lui, una luce intensa lo avvolge, e tra le mani un libro – il suo – che non avrà mai il tempo di finire: “Luca Attanasio, un ambasciatore di pace”, scritto da Fabio Marchese Ragona; un racconto che non parla solo di diplomazia, ma di un uomo che, spogliandosi di giacca e cravatta, entrava nelle baracche di Goma per ascoltare chi nessuno ascoltava. Un uomo che costruì una famiglia con Zakia, musulmana, e insegnò alle sue figlie che la fede non divide, ma unisce.
I racconti di chi lo ha conosciuto svelano un eroismo quotidiano: il giovane cresciuto in oratorio che non ebbe paura di sognare in grande, il diplomatico che preferiva le strade polverose alle sale dei ricevimenti, il marito e padre che portava a casa non solo storie di conflitti, ma semi di speranza. Questo è il Luca che non voglio dimenticare. Non il nome su un comunicato, non la vittima di un agguato, ma l’uomo che credeva possibile un mondo migliore, anche quando nessuno lo vedeva.
Forse è lì che vive oggi, in quel confine tra il terreno e l’eterno, dove la sua voce non è stata spenta, ma trasformata in un sussurro che ci ricorda: la verità non muore, anche quando lo Stato cerca di cancellarla. E finché qualcuno continuerà a raccontare chi era davvero, quel sussurro diventerà grido!
Dopo aver parlato del ritmo e del silenzio, resta ora da chiedersi: e noi?
Già… noi, non come denuncianti improvvisati, non come investigatori della domenica, ma come cittadini che camminano ogni giorno per strade costruite – o non costruite – da scelte che qualcuno ha fatto al posto nostro, spesso senza chiederci nulla.
Non si tratta di sostituirsi alle autorità, né di sostituire il sospetto alla fiducia: si tratta, più semplicemente, di non lasciare che la complessità diventi scusa per l’indifferenza.
Esistono oggi strumenti che, fino a pochi anni fa, sarebbero sembrati fantascienza. Ad esempio il portale “OpenCantieri”, mette a disposizione – in tempo reale e in formato aperto – dati su oltre 150.000 cantieri pubblici in tutta Italia: chi li ha vinti, a quanto, con quale procedura, se sono in ritardo e di quanto. Non è un archivio per esperti: basta inserire il nome del proprio comune e compariranno le voci di spesa, i soggetti aggiudicatari, le date di inizio e fine lavori. Certo, è uno specchio a volte impietoso, ma quantomeno veritiero.
Poi c’è l’Indice della Pubblica Amministrazione, gestito dall’ANAC, che permette di verificare, con pochi clic, se una stazione appaltante ha pubblicato i suoi bandi sul sito previsto dalla legge, se ha rispettato i tempi minimi di consultazione, se ha motivato le scelte tecniche con trasparenza.
Ed ancora, il Portale Unico dei Contratti Pubblici, dove ogni bando, ogni aggiudicazione, ogni variazione deve essere registrata – pena sanzioni amministrative. Non sempre lo si fa. Ma se qualcuno lo nota, e lo segnala – con calma, con precisione, senza clamore – qualcosa può cambiare.
Segnalare non significa per forza “accusare”, significa viceversa chiedere chiarimenti, inviare una PEC alla stazione appaltante per sapere perché un bando è stato pubblicato un lunedì con scadenza giovedì; significa, in alcuni casi, rivolgersi all’ufficio preposto all’accesso civico, previsto dalla legge 241/1990, per ottenere copia dei verbali di gara. Significa ahimè – quando i dubbi diventano troppo consistenti – scrivere all’ANAC, che ha un canale dedicato (segnalazioni@anticorruzione.it) che garantisce riservatezza a chi denuncia irregolarità. Non serve quindi essere avvocati, basta semplicemente essere precisi: citare il CIG del bando, la data di pubblicazione, il punto del capitolato che appare anomalo.
Ho visto piccole cose nascere da gesti altrettanto piccoli. Un lettore del mio blog, qualche anno fa, notò che lo stesso raggruppamento temporaneo si era aggiudicato quattro scuole in altrettanti comuni limitrofi, sempre con ribassi identici al 29,7%. Non scrisse un articolo. Non lanciò accuse. Mandò una mail all’ufficio trasparenza di uno dei comuni coinvolti, allegando i quattro bandi. La risposta arrivò dopo due settimane: la gara fu sospesa, avviata una verifica interna, e infine annullata. Nessuno finì sui giornali. Ma la scuola fu rifatta, da un’altra ditta.
Non sto dicendo che basti questo. Sto dicendo che, senza questo, non basta nient’altro…
Perché la corruzione non teme le leggi più severe – quelle… le ha già imparate e soprattutto le sa aggirare. Quello che teme di più, siamo noi, lo sguardo attento di chi è ostinatamente ordinario, di chi non ha potere, ma ha una forte memoria.
Già… di chi non alza la voce, ma non distoglie gli occhi, di chi sa che, talvolta, la prima crepa in un sistema opaco non è un’inchiesta, ma una domanda scritta in una mail, inviata un pomeriggio qualunque, mentre prendiamo all’interno di un bar una tazza di te, da una semplice scrivania improvvisata.
Si torna a parlare di gare d’appalto, ed è come riaprire un libro di cui si conosce già il finale, ma la cui lettura continua a turbare. Mi riferisco a una sensazione che conosco bene, fatta di sospetti che si accumulano giorno dopo giorno, osservando la stessa scena ripetersi con una regolarità che ha del perturbante. Basti guardare l’alta frequenza con cui certe imprese si aggiudicano i lavori, una ciclicità che sembra sfidare ogni legge statistica. Si presentano da sole, in temporanea associazione, o celate dietro il comodo paravento di un consorzio, e costantemente, come baciate da una fortuna insolitamente propizia, ottengono la vittoria. È un ritmo che fa riflettere, un ritmo che parla di meccanismi non proprio limpidi.
Certo, qualcuno obietterà che sia solo una coincidenza, che non si debba dar credito a ombre dove non ce ne sono. Eppure i numeri raccontano una storia diversa, fatta di episodi di corruzione che affiorano in continuazione, con la Sicilia purtroppo in testa a queste classifiche.
Il settore più a rischio rimane sempre quello dei lavori pubblici in genere, un mondo vasto che va dalle costruzioni al ciclo dei rifiuti, settori notoriamente sensibili eppure ancora così opachi. So bene che parliamo di un ambiente in cui, per operare, si dovrebbe essere inseriti in appositi elenchi di soggetti affidabili, ma a volte sembra che quei controlli ed i criteri applicati siano ben altri, o quantomeno evidenzino una scarsa attenzione al merito e alla dignità del servizio pubblico.
Si osserva poi una strategia quasi scientifica nella distribuzione degli appalti. Per le commesse più ricche, sembra prevalere un sistema di turnazione tra aziende, con ribassi d’asta così minimi da apparire coordinati. Per gli affidamenti di minore entità, invece, si scende più in basso nella scala amministrativa, coinvolgendo figure tecniche con promesse di contropartite in denaro, in prestazioni o in favori.
In cambio, le imprese ottengono una certa discrezionalità nell’esecuzione, alterando qualità e quantità, chiedendo varianti e risparmiando persino sulla sicurezza. Basterebbe blindare le procedure, verificare seriamente la reale consistenza di queste aziende, per scoprire che molte di loro, a guardarle bene, non sarebbero in grado di riparare neppure la tapparella di casa di mia nonna.
A volte i sospetti trovano conferma in modo così immediato da lasciare senza parole. Già: alcuni anni fa, dopo aver messo nero su bianco in un mio post queste considerazioni, un presidente dell’associazione dei costruttori lanciava pubblicamente l’allarme, parlando di sorteggi sospetti e rischi di una nuova Tangentopoli.
Non era un’allusione generica: pochi mesi prima, l’Autorità Nazionale Anticorruzione aveva dedicato un intero capitolo del suo Rapporto annuale 2024 proprio al fenomeno della “frequenza anomala di aggiudicazione”, un’espressione asettica che nascondeva un dato concreto — il 42% delle stazioni appaltanti con almeno un procedimento sanzionato per irregolarità gravi aveva visto prevalere sempre le stesse imprese in più del 70% dei bandi negli ultimi tre anni.
I casi analizzati includevano appalti per opere stradali, edilizia scolastica e gestione del ciclo idrico, tutti ambiti in cui la qualità dell’esecuzione non è una questione tecnica, ma di sicurezza collettiva. Il rapporto, disponibile integralmente sul sito ufficiale dell’ANAC, non parla di eccezioni: parla di pattern ricorrenti, di procedure formalmente corrette, ma sostanzialmente orientate.
È un richiamo sinistro a una storia ben documentata, non a un ricordo vago o lontano – come quella del cosiddetto “ministro dei Lavori Pubblici” di Cosa Nostra, un ruolo non ufficiale, ma reale: un uomo incaricato dall’organizzazione di decidere chi poteva vincere appalti milionari per le opere pubbliche, chi doveva restare fuori, e a quale prezzo. Un controllo esercitato non con le armi – almeno non sempre – ma con una rete di imprenditori, tecnici e funzionari collusi, capace di far vincere bandi già scritti a misura.
Quella vicenda ci ricorda che il meccanismo corruttivo rappresenta un’infezione che si è ormai normalizzata, diventando quasi ordinaria, e che ormai non affligge più solo alcuni territori ma, in forme diverse, l’intero Paese. Sono parole che confermavano ciò che si osserva ormai da troppo tempo: circostanze curiose nelle aggiudicazioni e un pericolo concreto per la trasparenza.
Cosa aggiungere? Domani proseguirò, seguendo il silenzio che cala tra un bando e l’altro, tra un’aggiudicazione sospetta e la successiva, tra ciò che si scrive nei capitolati e ciò che si decide fuori, già… in stanze dove il tempo sembra non passare mai.
Oggi, mentre la luce di questo novembre si posa con una malinconia inconsueta, sento il bisogno di tornare con voi in un luogo e in un tempo preciso, a trent’anni di distanza da quel 4 novembre in cui due colpi alla schiena non uccisero soltanto un uomo, ma recisero di netto una speranza collettiva. Era Yitzhak Rabin, il soldato divenuto costruttore di pace, colui che aveva stretto la mano a Yasser Arafat sotto gli occhi del mondo, a cadere in quella piazza di Tel Aviv che oggi, come allora, si prepara a riempirsi di volti e di memoria.
E così, mentre questa sera migliaia di persone si raduneranno nuovamente, è come se il filo del tempo si annodasse, costringendoci a un confronto doloroso e necessario con un’assenza che ancora brucia.
Ripercorrere quei momenti attraverso le voci di chi c’era – come il dottor Joseph Klausner, il medico che tentò disperatamente di salvare il primo ministro – non è un semplice esercizio di reportage, ma un modo per interrogarci su come un singolo, folle gesto possa deviare il corso della storia.
Quella stretta di mano a Washington, nel 1993, non era soltanto un simbolo, ma il fragile eppure concreto risultato di un calcolo politico audace, di una volontà di uscire dall’eterno ciclo di violenza che, per la prima volta, sembrava non un’utopia, ma una possibilità praticabile.
Gli Accordi di Oslo avevano aperto uno spiraglio, creato una crepa nel muro dell’inimicizia, e Rabin, con il linguaggio asciutto di un generale, ne era diventato l’architetto più inatteso: un uomo che parlava di pace non con le parole dei sogni, ma con quelle della sicurezza e del pragmatismo.
Eppure, proprio quel pragmatismo, quella ricerca di una normalità per il suo paese, lo aveva reso un traditore agli occhi di chi quella normalità la immaginava costruita soltanto sulla forza.
L’omicidio non fu un evento isolato, ma il punto di esplosione di un odio che si era andato incubando nella società israeliana, alimentato da una retorica violenta che dipingeva ogni compromesso come un tradimento. La pallottola che lo colpì partì dalla pistola di Yigal Amir, un estremista ebreo, e questo ci dice quanto la frattura fosse ormai profonda, quanto il veleno della discordia avesse contaminato non soltanto il dialogo con il nemico esterno, ma anche il tessuto civile interno.
La morte di Rabin non fu soltanto la fine di un uomo, ma l’eclissi di un’idea di Israele – quella che poteva permettersi di negoziare da una posizione di forza senza sentirsi minacciata nella sua stessa anima.
Le conseguenze di quel vuoto le viviamo ancora oggi, in un presente che sembra aver smarrito del tutto la strada tracciata in quei giorni. Con Rabin se ne andò l’autorità di chi poteva guidare un processo di pace con il consenso di una larga fetta della popolazione, e il timone passò a mani meno salde, a visioni più frammentate e spesso più bellicose.
Il processo di Oslo, già fragile, si inceppò irrimediabilmente: da un lato, perché perse il suo più convinto sostenitore israeliano; dall’altro, perché la società israeliana entrò in una fase di polarizzazione acuta, dove il dibattito politico cedette il passo alla demonizzazione reciproca.
Da allora, ogni tentativo di dialogo è sembrato più uno spettacolo di ombre che una trattativa reale, e la piazza che aveva celebrato la pace divenne il luogo del suo funerale. L’eredità di Rabin si è trasformata in un monito, in un “cosa avrebbe potuto essere” che grava come un macigno su ogni successivo passo verso la riconciliazione.
Oggi, tornare in quella piazza è un atto di resistenza contro l’oblio. È un modo per ricordare a noi stessi che la storia non è un destino ineluttabile, ma è fatta di bivi, di scelte, e a volte di colpi di pistola che chiudono brutalmente una porta.
Quella speranza non morì perché fosse sbagliata, ma perché fu lasciata sola, vulnerabile all’odio di chi non voleva neppure provarci. E mentre le ombre si allungano su questo anniversario, non possiamo che chiederci, con un nodo in gola, che volto avrebbe oggi il Medio Oriente se quelle due pallottole non avessero mai trovato la loro strada.
L’episodio gravissimo dell’attentato a Sigfrido Ranucci – con un chilo di esplosivo piazzato sotto la sua auto e fatto detonare poco dopo il suo rientro a casa – è un fatto che scuote le coscienze e riporta la memoria a pagine buie della nostra storia. Non si tratta di un gesto casuale, ma di un messaggio preciso e calcolato: un’azione studiata per dire a un giornalista scomodo: “Sappiamo come ti muovi e possiamo colpire te e la tua famiglia in qualsiasi momento”.
È un attacco non solo a un uomo e alla sua famiglia, ma a un simbolo del giornalismo d’inchiesta e, in ultima analisi, alla libertà di informazione, diritto fondamentale in ogni democrazia!
Eppure, ieri sera, nel programma di “informazione” di Bruno Vespa, si è preferito discutere di un banchetto alla Casa Bianca, di un incontro diplomatico tra Trump e Zelensky, come se questo rappresentasse l’emergenza assoluta del giorno, sorvolando invece sulla notizia che ha messo in allarme l’intero Paese.
Permettetemi però di ricordare quanto proprio alcuni giorni fa ha evidenziato “Reporters Sans Frontières: la preoccupante retrocessione dell’Italia di otto posizioni nell’indice mondiale sulla libertà di stampa. Questo scarto tra ciò che è vitale e ciò che è spettacolo, tra ciò che ferisce la democrazia e ciò che fa audience, è la risposta pratica – e desolante – a ciò che l’Avvocato Lovati aveva teoricamente denunciato proprio da quel servizio pubblico.
Ciò che accade a chi non cammina sui binari – come il professor Orsini o lo stesso Ranucci con le sue inchieste – è l’emarginazione o, in questo caso estremo, la violenza più vile. Mentre un giornalista viene colpito con un metodo che ricorda da vicino le intimidazioni della criminalità organizzata, il servizio pubblico sceglie di non dare il giusto risalto a questa notizia in una delle sue vetrine principali, optando invece per un argomento di politica internazionale che, per quanto importante, non ha né l’urgenza né la drammaticità di un attacco alla libertà di stampa avvenuto sotto casa nostra.
È qui che il sospetto che certe trasmissioni siano, in fondo, programmi di intrattenimento “senza lampadari” si trasforma in una certezza amara: perché l’intrattenimento può anche essere la rappresentazione rassicurante di una normalità inesistente, un talk show che ignora le bombe reali per concentrarsi su quelle diplomatiche.
Perché, dunque, dedicare solo “cinque minuti” a temi profondi e poi riservare ampio spazio a programmi di puro svago, quando una notizia come questa meriterebbe una riflessione corale e un approfondimento serio in prima serata?
Del resto, in questi mesi ho dedicato diverse lettere aperte al rischio di recrudescenza in questo Paese, al punto da rivolgere le mie preoccupazioni direttamente al Presidente Mattarella con i seguenti post – e oggi, ahimè, i rischi che avevo preannunciato si sono concretizzati:
Presidente Mattarella, intervenga immediatamente: basta con questa retorica da anni di piombo!
La risposta, forse, va ricercata proprio in quella logica dello share che l’Avvocato Lovati aveva smascherato con tanta spregiudicatezza: una logica che premia il dibattito politico-spettacolare e allontana i temi scomodi, quelli che mettono in discussione non un governo specifico, ma l’intero sistema di sicurezza e la tenuta democratica del Paese.
È più comodo parlare di ciò che accade a Washington che di ciò che accade a Pomezia, perché la prima cosa non imbarazza nessun potentato locale, non interroga le connivenze tra economia e malavita, non costringe a fare i conti con un clima di intimidazione che sta diventando sempre più pesante.
Viene dunque spontaneo chiedersi: perché pago un canone per un servizio pubblico che, di fronte all’attentato a uno dei propri giornalisti, sceglie il binario di una normale serata di intrattenimento politico, lasciando che la notizia vera scivoli nell’indifferenza, come un fastidioso deragliamento di cui non parlare?
Spero quantomeno che episodi come quello accaduto al giornalista Ranucci della Rai – uno dei pochi che, da quel servizio pubblico radiofonico e televisivo, si occupa realmente di “informazione” – possano rappresentare un caso isolato e non ripetersi mai più.
Al Presidente Mattarella, con la medesima urgenza di quanto avevo chiesto lo scorso 14 settembre.
Presidente, mi rivolgo nuovamente a Lei in questo momento di grave tensione sociale con lo stesso accorato appello, dovendo constatare con amarezza come le mie preoccupazioni, purtroppo, non siano state scongiurate
Avevo pregato lei e i suoi referenti di intervenire per calmare i toni, per arginare una retorica che mi ricordava, in modo sinistro, quella che insanguinò il nostro Paese.
Le mie richieste, formali e sentite, sono rimaste inascoltate, e ora assistiamo a quanto avevo temuto: disordini che colpiscono cittadini inermi, turisti e quelle forze dell’ordine che sono nostre connazionali, lì a fare il proprio dovere per la sicurezza di tutti, spesso per uno stipendio da fame.
La violenza non inizia sempre con un colpo di pistola. Inizia con una parola, con un’accusa infuocata, con un discorso che trasforma l’avversario in un nemico da annientare. La storia ci ha già insegnato questa lezione, eppure sembriamo averla rimossa. Lei ricorderà come, tra il 1969 e il 1984 – il periodo buio degli anni di piombo – il nostro Paese fu lacerato da uno stillicidio di violenza politica che mieté centinaia di vittime.
Fu un’epoca in cui l’odio verbale si materializzò, culminando in stragi. Ricordo, solo per citare alcuni episodi, la strage di Piazza Fontana, la bomba sull’Italicus, l’eccidio di Piazza della Loggia e l’attentato alla stazione di Bologna. Questi non sono solo eventi storici, sono nomi, sono storie, sono ferite ancora aperte per molte famiglie e per l’intera nazione.
Osservando oggi le diatribe in corso tra i parlamentari di governo e dell’opposizione, mi colpisce la stessa pericolosa leggerezza. I toni sono feroci, le divisioni si approfondiscono, e l’unico obiettivo sembra essere la distruzione dell’avversario, non il bene del Paese.
Questa guerra verbale, questo clima da trincea, rischia di essere la miccia che sta facendo divampare un nuovo incendio che credevamo spento. I giovani, in particolare, rischiano di essere travolti da questo clima, convincendosi che la violenza, in qualsiasi forma, possa essere l’unica risposta.
La prego, Presidente, intervenga immediatamente con la sua autorevolezza. Ristabilisca il dialogo là dove si è rotto. Imponga ai contendenti di abbassare i toni e di rivolgersi ai cittadini con il rispetto che meritano.
Bastava poco – solo alcuni giorni fa – per evitare che la situazione degenerasse come stiamo vedendo, sì… bastava un po’ di saggezza e di senso di responsabilità. Lei è ancora in tempo per fermare tutto questo, per ricordare a tutti che la democrazia è un bene fragile, che si nutre di confronto e non di odio.
Si rivolga agli italiani con la stessa solennità con cui ricorda le pagine più dolorose della nostra storia. Parli alla nazione non per celebrare una ricorrenza, un’unità nazionale (ormai apparente) o i consueti auguri di un periodo festivo. Parli per scongiurare l’irreparabile. Perché ciò che stiamo vivendo non è una semplice crisi politica, ma il concreto rischio di una guerra civile che serpeggia tra le nostre strade.
Richiami tutti all’ordine, a iniziare dai suoi politici, da Giorgia Meloni a Elly Schlein, da Matteo Salvini a Giuseppe Conte, da Antonio Tajani a Matteo Renzi. Ognuno di loro deve ricordare che il proprio compito è servire il Paese, non i propri interessi. Il loro dovere è unire, non dividere, risolvere i problemi concreti della gente, non alimentare conflitti inutili di cui l’Italia non ha alcun bisogno.
In queste ore mi sono chiesto se lei non abbia avuto modo di leggere il mio primo post e neppure il successivo, eppure sono stati tra i più letti in quella settimana.
E allora, Signor Presidente, mi permetta di riportare nuovamente alla Sua attenzione i link dei miei precedenti appelli. Quelle parole esprimono – ahimè – ora, la mia profonda delusione per non essere stato ascoltato, ma sono anche la testimonianza della mia ostinata speranza che sia ancora possibile invertire la rotta. Per il bene dell’Italia, non possiamo permettere che il sacrificio di tutte le vittime della nostra storia recente sia vanificato.
Con profonda stima e con la stessa, tremante, preoccupazione di qualche giorno fa, oggi ancor più forte.
Stamani voglio confessarvi una verità… Da qualche tempo evito di partecipare alle commemorazioni ufficiali degli anniversari delle stragi, tutte, non solo quelle più note del ’92 e ’93, sì… e questo per due precisi motivi.
Il primo è legato a una sensazione di crescente fastidio, quasi di nausea, già… nel ritrovarmi in luoghi solenni dove si parla di memoria, di dolore, di giustizia, mentre poi dinnanzi a me, su quel palco, siedono personaggi che indossano la maschera del rispetto per le vittime, ma che poi, appena scendono dal palco, stringono mani e salutano affettuosamente proprio coloro che – in qualità di eredi di quei passati criminali, rappresentanti diretti di chi ha provocato le migliaia di morti in questo Paese – garantiscono loro affari e soprattutto voti.
Il secondo motivo è più profondo, più interiore: ho smesso di riconoscermi in quelle cerimonie perché mi sembrano sempre più vuote, ripetitive, sì… rituali sterili che servono a dare l’impressione di ricordare senza mai veramente voler capire.
Mi chiedo spesso cosa resti davvero di quegli omicidi, di quelle stragi, sì… dopo i minuti di silenzio, dopo i discorsi letti con voce tremula, dopo quelle bandiere poste a mezz’asta. Sembrano da quel palco commossi, ma ditemi: cosa è rimasto di fatto dell’operato di Falcone, di Borsellino? Io sento ancora un silenzio assordante, in particolare su chi – da quelle poltrone istituzionali – li ha traditi, su chi ne ha ostacolato il lavoro, su chi ha lasciato che venissero barbaramente uccisi insieme agli uomini e alle donne della scorta.
In questi giorni ho avuto modo di acquistare in una bancarella e letto alcuni romanzi di una saga mafiosa di Vito Bruschini: il primo capitolo di questa saga, “Romanzo mafioso. L’ascesa dei corleonesi”, racconta, con un tessuto narrativo sorprendente e un’accurata aderenza alla Storia del nostro Paese, la nascita e l’espansione capillare del fenomeno mafioso in Italia e nel mondo e soprattutto coloro che – legati al mondo politico e imprenditoriale – li hanno protetti e permesso l’ascesa.
Ecco perché ho cominciato a disertare quegli eventi, non per mancanza di rispetto, ma proprio per rispetto estremo verso chi è caduto. Perché non posso stare accanto a chi oggi piange in pubblico e ieri ha stretto alleanze con chi festeggiava in privato quelle stesse bombe, che hanno poi permesso la nascita di taluni attuali partiti
Sono stanco di ascoltare retoriche sulla legalità, in particolare da chi ha protetto tutti quei colletti bianchi mai toccati dalla giustizia, da chi ha favorito i depistaggi con il silenzio o con le parole sbagliate al momento giusto.
Ma d’altronde la verità è stata soffocata, l’agenda rossa è ora nelle mani di chi ha in qualità di puparo il potere di ricattare quanti siedono su queste nuove poltrone, sì… qualcuno di quei suoi predecessori è stato incredibilmente riabilitato, qualcun altro è riuscito a passare a nuova vita senza così pagarne le conseguenze, altri ancora grazie ad accordi e ricatti hanno potuto beneficiare del dubbio, riuscendo così ad esser riabilitati, quantomeno per poter far continuare (in quel contesto di “casta”) i propri familiari.
Certo, avrei voluto vedere un Paese capace di non rimandare la storia, gli eventi, la verità… ed invece tutto continua ad essere rimandato, già… per non trovar mai risposta.
Ma la circostanza peggiore è che ogni volta che si prova ad andare oltre il racconto (artefatto) ufficiale, si finisce per essere additati come complottisti, disturbatori, sì… di quella pax sociale che garantisce a molti, collusione, raccomandazione, compromesso, clientelismo e soprattutto illegalità.
Ed allora io resto ancora in attesa di conoscere le risposte: chi tra le istituzioni ha avuto interessi opposti alla verità? Chi aveva bisogno che certi magistrati sparissero? E soprattutto, perché ancora oggi, ad oltre trent’anni di distanza, nessuno vuole raggiungere l’unica verità? Ed infine, quali nomi ancora mancano all’appello e nessuno vuole portare alla luce?
Sicuramente la verità processuale non arriverà mai, non certo con l’attuale governo e chissà, forse neppure con uno formato da quella sinistra che ha di fatto permesso – rendendosi complice – le stragi che ben conosciamo.
La verità storica comunque non potrà mai essere cancellata, verrà un giorno in cui tutto esploderà, i dossier usciranno fuori e i nomi di quei complici verranno portati alla giustizia della memoria, e quel giorno saremo lì a bisogna chiedere conto a chi ha detenuto il potere, a chi ha mantenuto il silenzio, a chi ha costruito carriere sulle macerie di quegli anni!
Perché noi tutti non possiamo permettere che una società dimentichi chi ha pagato con la vita per aver creduto nello Stato, una società che perde la memoria perde anche se stessa, diventando proprio come quella che osservo in questi giorni: docile, plasmabile, pronta ad ingoiare qualsiasi narrazione gli viene indottrinata, sì… pur di non dover guardare negli occhi il suo passato sporco.
D’altronde “Un discorso che abbia persuaso una mente, induce la mente che ha persuaso a credere nei detti e a consentire nei fatti.” (Gorgia da Lentini, ca. 485 a.c. – 375 a.C.)
Ed allora pur stando lontano da quei palchi, dentro di me porto ogni giorno quel loro insegnamento, e cerco di riproporlo con la formazione, col mio blog, con le denunce, perché a differenza di quanti in molti pensano, quel passato non è stato cancellato, non è stato sepolto, non è morto, anzi è più vivo che mai, già… perché fintanto che ci saranno persone perbene, questo Paese avrà la forza di rialzarsi.
Già… osservo che, dopo quanto ho scritto alcuni giorni fa – quando avevo implorato il Presidente Mattarella di intervenire per riprendere i parlamenti e obbligarli, una volta per tutte, a finirla con questi continui attacchi mediatici prima che qualcuno possa dare inizio a una nuova rivoluzione sociale:http://nicola-costanzo.blogspot.com/2025/09/presidente-mattarella-intervenga.html – poco o nulla sia cambiato nel clima degli scontri verbali.
Vorrei precisare inoltre che non mi è mai importato nulla di schierarmi politicamente, oggi, tuttavia, osservando la politica nazionale – da sinistra a destra, passando per il centro – constato come essa stia alimentando una pericolosa recrudescenza verbale che, ahimè, potrebbe rivoltarsi contro tutti noi.
Credo infatti che, continuando su questa strada, si rischi di sfociare in condizioni sociali imprevedibili e potenzialmente violente, simili a quelle che stanno lacerando altri paesi. L’unico risultato sarà alimentare mostri che credevamo sopiti.
Per questo invoco tutti i nostri politici, e mi riferisco in particolare ai nostri governanti, ad abbassare immediatamente la tensione sociale e a occuparsi finalmente di ciò per cui sono stati eletti.
Ecco, è proprio per questo, che impegno tutte le mie forze per dire: non possiamo più permettere che il confronto si trasformi in una raffica di insulti, dove l’unica verità è quella urlata più forte, e l’unico risultato è spegnere la speranza di un dialogo vero.
I nostri rappresentanti devono ricordare che il loro compito è servire il paese, non dividerlo!
E allora mi permetto di ricordare loro chi è già caduto sotto il peso di quelle parole, le stesse di oggi, che ahimè si sono poi trasformate in proiettili e bombe. È un monito che nessuno oggi può permettersi di ignorare e per farlo, elenco di seguito tutti coloro che, ahimè – proprio a causa di quelle parole – sono morti.
1969
27 febbraio: morte di Domenico Congedo.
9 aprile: morte di Carmine Citro e Teresa Ricciardi.
27 ottobre: morte di Cesare Pardini.
19 novembre: morte di Antonio Annarumma.
12 dicembre: strage di piazza Fontana (17 civili uccisi).
15 dicembre: Giuseppe Pinelli trovato in fin di vita sotto la finestra del 4º piano della questura di Milano.
1970
1º maggio: morte di Ugo Venturini.
22 luglio: strage di Gioia Tauro (6 civili uccisi).
Luglio 1970 – febbraio 1971: moti di Reggio (3 civili e 2 agenti uccisi).
12 dicembre: morte di Saverio Saltarelli.
1971
7 gennaio: morte dell’operaio Gianfranco Carminati, nell’Incendio della Pirelli-Bicocca.
16 gennaio: morte di Antonio Bellotti.
4 febbraio: morte di Giuseppe Malacaria.
26 marzo: morte di Alessandro Floris.
7 aprile: morte di Domenico Centola.
13 giugno: morte di Michele Guareschi.
1972
21 gennaio: morte di Vincenzo De Waure.
14 marzo: morte di Giuseppe Tavecchio.
17 maggio: morte di Luigi Calabresi.
31 maggio: strage di Peteano (3 carabinieri uccisi).
7 luglio: morte di Carlo Falvella.
25 agosto: morte di Mariano Lupo.
27 novembre: morte di Fiore Mete.
1973
30 gennaio: morte di Roberto Franceschi.
12 aprile: Giovedì nero di Milano: uccisione dell’agente di polizia Antonio Marino.
16 aprile: rogo di Primavalle Fratelli Mattei (2 civili uccisi).
17 maggio: strage della Questura di Milano (3 civili e 1 poliziotto uccisi).
8 luglio: morte di Adriano Salvini.
31 luglio: morte di Giuseppe Santostefano.
17 dicembre: strage di Fiumicino (34 morti).
1974
10 maggio: rivolta del carcere di Alessandria 6 morti: (2 detenuti Dibona e Concu, 2 poliziotti Gaeta e Cantiello, 1 medico del carcere Gandolfi, 1 assistente sociale Giarola e il professore del carcere Campi).
19 maggio: morte di Silvio Ferrari.
28 maggio: strage di piazza della Loggia (8 civili uccisi).
30 maggio: morte di Giancarlo Esposti.
17 giugno: morte di Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola.
Sì… avrei dovuto pubblicare questo post alcuni giorni fa, ma purtroppo alcuni impegni ed altri post che avevo preparato hanno avuto la precedenza e quindi ho dovuto posticipare questa pubblicazione.
C’è però un motivo più profondo: quando la notizia mi ha raggiunto, sono rimasto senza parole. È un paradosso, perché le sue sono state tra quelle che più mi hanno trasmesso la vicinanza e la forza di Peppino Impastato.
Oggi, provando a superare quello sconforto, voglio unirmi al ricordo di Luisa Impastato che dice: ci lascia un altro pezzo grande della nostra storia, una storia di ragazzi che volevano cambiare il mondo sfidando il potere della mafia. Con profonda gratitudine e sincera tristezza salutiamo Salvo Vitale, fondatore di Radio Aut e da sempre testimone della lotta, che ha incarnato con straordinaria coerenza il senso più autentico della testimonianza quotidiana. La sua voce è stata un esempio luminoso di libertà e responsabilità, capace di guidare intere generazioni a comprendere che il cambiamento nasce da ciascuno di noi.
Era lui, nel film “I cento passi”, a essere interpretato da Claudio Gioè nel momento del monologo più straziante e vero, quello che squarcia il velo dell’omertà. In quel monologo diceva: domani leggerete che Peppino si è suicidato, che ha abbandonato la politica e la vita, come Pinelli, come Feltrinelli, tutti suicidi. Poi non leggerete proprio niente, perché i giornali parleranno di altro, perché chi se ne frega del piccolo siciliano di provincia. E concludeva, con un’amarezza che era un pugno nello stomaco per tutti: spegnete questa radio, tanto si sa che niente può cambiare, e diciamolo una volta per tutte che noi siciliani la mafia la vogliamo, perché ci dà sicurezza, perché ci identifica, perché ci piace. Noi siamo la mafia! Ma Salvo Vitale, quel ragazzo di Cinisi nato nel 1943, amico e compagno di battaglie di Peppino Impastato, a quella rassegnazione non si è mai arreso, nemmeno nei momenti più difficili. Ha invece custodito e rinnovato la memoria collettiva, trasformandola in azione concreta.
Difatti, dopo la morte di Peppino, ha continuato la sua attività attraverso “Radio Aut”, lavorando senza sosta per cercare la verità, puntando il dito contro il boss Gaetano Badalamenti, insegnando storia e filosofia ai giovani, perché la cultura arrivasse a tutti. Con le sue parole, i suoi gesti e il suo impegno costante ha mostrato cosa significhi contrastare le mafie sul piano civile e culturale, senza paura, senza piegarsi.
Ecco perché a lui va la mia gratitudine, sì… per la strada che ha tracciato con dignità e coraggio, una strada lastricata dalla forza semplice di persone che non hanno accettato di essere “Nuddu ammiscatu cu nenti”, un esempio, insieme a quello di Peppino, che ogni giorno orienta il mio cammino, già… di chi crede – ancora tra mille difficoltà – nella giustizia e soprattutto nella democrazia, ricordando a me e a tutti voi, che la vera sicurezza non viene dalla sottomissione, ma dal riscatto!
Già… una legalità che risuona solo nei discorsi, mentre nella realtà si sgretola come un castello di sabbia al primo soffio di vento. Le parole volano alte, impennate come aquiloni in un cielo sereno, ma i fatti strisciano nel fango, lenti e viscidi, e quel fango è lo stesso in cui affondano le mani coloro che dovrebbero custodire il bene comune con rigore e silenzio. Questo schifo di politica, gonfia di potere e intrisa di privilegi, ha trasformato la gestione della cosa pubblica in un affare privato, un mercato sommerso dove ogni decisione è un debito da saldare con un favore, ogni posto di lavoro una ricompensa per chi ha baciato l’anello al momento giusto.
Quelli che abbiamo eletto per rappresentarci, per lavorare per tutti, hanno invece interpretato il mandato come un diritto ereditario, una specie di investitura divina a spartirsi ricchezze, appalti, poltrone, come se la città fosse una villa di famiglia da dividere tra eredi. E il peggio? Che lo fanno con la spudoratezza di chi crede di essere nel giusto, di chi si guarda allo specchio e vede un benefattore, non un parassita.
Forse il problema sta proprio in quelle parole mal interpretate, in quel “governare come il buon padre di famiglia” che hanno preso alla lettera, ma nel modo più distorto, più meschino possibile. Per loro, essere “buoni padri” non significa avere cura del paese, ma garantire che i figli abbiano un posto in Comune, che i cognati gestiscano le gare d’appalto, che gli amici più fedeli trovino sempre una raccomandazione pronta presso uno degli uffici. E i concorsi pubblici? Una farsa, una sceneggiata dove i copioni sono scritti mesi prima e gli attori principali sono sempre gli stessi, quelli che non hanno mai aperto un bando ma sanno già dove finirà il posto.
E mentre tutto questo accade, mentre il denaro pubblico diventa moneta di scambio per lealtà personali, mentre le opere incompiute marciscono sotto il sole e i giovani scappano all’estero, mi chiedo: ma le Procure dove sono? Dormono? O forse, anche lì, qualcuno ha deciso che certe cose è meglio non vederle, che certi nomi vanno trattati con riguardo, che certe inchieste potrebbero far cadere troppi alberi in un bosco già malato?
Lasciate quindi che vi racconti una storia, una di quelle che sembrano uscite da un romanzo grottesco, ma che purtroppo è vera, anzi, quotidiana. Un Comune etneo, piccolo ma non troppo, dove le dinamiche di potere si intrecciano con affari, favori e raccomandazioni come radici in un terreno avvelenato. E la cosa più agghiacciante? Che non è l’unico. È solo uno dei tanti anelli di una catena che sembra non avere fine, un sistema che si ripete identico in cento paesi, in cento province, con volti diversi ma stesse mosse, stessi silenzi, stesse complicità.
Ma la domanda che resta, alla fine, è sempre la stessa: fino a quando continueremo a permettere che tutto questo accada? Fino a quando lasceremo che il bene di tutti diventi il bottino di pochi, che la speranza si trasformi in rancore e il rancore in rassegnazione?
Il sottoscritto pensa – ahimè – che non cambierà mai nulla in questo nostro Paese. È un circolo vizioso che si autoalimenta, perché in fondo ai miei connazionali piace questo sistema clientelare, lo tollerano, lo subiscono, ma segretamente sperano di poterne usufruire un giorno, quando toccherà a loro. È un gioco di specchi dove tutti fingono di indignarsi, ma nessuno rompe davvero lo schema, perché ognuno coltiva il sogno di diventare un giorno il padrone del favore, non più il mendicante.
Forse solo un conflitto armato, una di quelle tragedie che sconquassano le fondamenta di una nazione, potrebbe costringerci a un reset, a spezzare la catena e ricominciare da zero. Già, perché così è stato per i nostri padri e nonni. Sì… quelli che hanno vissuto il dopoguerra sanno cosa significa vedere un Paese in macerie e doverlo ricostruire partendo dalla fame, dalla cenere, dai sassi.
D’altronde basti osservare quanto sta accadendo in queste ore nella striscia di Gaza o in Ucraina per comprendere le difficoltà, per capire cosa significa perdere tutto e dover ricominciare con le mani nude. Come oggi, anche allora da noi – in quegli anni bui – accadde qualcosa di straordinario. Quando il pane era razionato e le città ed i suoi palazzi erano ridotti a scheletri di mattoni, la gente si aiutava, non per dovere, ma per necessità, perché l’altro era il fratello della stessa miseria.
Le donne dividevano l’ultima manciata di farina per fare una minestra, mentre i contadini – che nascondevano il grano – ora provavano a sfamare i vicini, gli operai viceversa iniziavano la ricostruzione con le mani nude, con la forza di chi non ha più niente da perdere. Se qualcuno volesse rivivere quei momenti, gli basterà osservare alcuni film neorealisti come “Ladri di biciclette” o “Roma città aperta”; in quei cortometraggi si racconta in modo reale la vita – in quel momento storico – del nostro Paese: non c’era eroismo, solo disperazione e una solidarietà che sgorgava spontanea, unico modo di sopravvivenza.
Persino i bambini raccoglievano cicche di sigarette per rivenderle, le donne facevano la fila per ore per un litro di latte annacquato. Eppure, in quella miseria, c’era una dignità che oggi sembra svanita, un senso di appartenenza che non si comprava, non si raccomandava, ma nasceva dal sangue e dalla terra. Forse perché allora si lottava per qualcosa di concreto: un tetto, un lavoro, un futuro. Oggi, invece, ci accontentiamo di illusioni e piccoli privilegi, mentre il sistema ci divora pezzo a pezzo, in silenzio.
Ma il dopoguerra insegnò anche altro: che la ricostruzione non fu solo merito degli aiuti americani del Piano Marshall. Fu soprattutto la gente comune, quella che non aveva niente da perdere, a rimettere in piedi l’Italia, mattone dopo mattone, con le unghie e con i denti. Senza aspettare che lo facessero i politici, già anche allora impegnati a spartirsi le poltrone, a costruire nuovi castelli di sabbia sulle macerie del vecchio mondo.
Chissà se serve davvero una nuova catastrofe per ritrovare quell’istinto di comunità, quel senso del noi che sembra ormai sepolto sotto tonnellate di individualismo e rancore. Sì… forse, semplicemente, abbiamo dimenticato troppo in fretta cosa significa aver fame, cosa significa non avere niente e dover costruire tutto. E soprattutto, cosa significa alzarsi insieme per cambiare le cose, non per interesse, ma per dignità.
Comunque, domani vi racconto la storia di cui vi ho accennato, vedrete… resterete senza parole.
Era il 19 luglio 1992 quando una bomba di inaudita violenza squarciò il silenzio di via D’Amelio a Palermo, spegnendo per sempre le vite di Paolo Borsellino e dei cinque agenti della sua scorta.
Trentatré anni dopo, quel boato continua a riecheggiare nelle coscienze di chi cerca ancora verità, nonostante i depistaggi, le omissioni e i silenzi istituzionali che hanno avvolto questa strage in una fitta nebbia. Mentre le commemorazioni ufficiali si susseguono con il loro rituale di retorica e ipocrisia politica, c’è una voce che rompe il coro ben orchestrato dell’oblio: quella di Salvatore Borsellino, fratello del magistrato assassinato, che con coraggio indica senza mezzi termini quelle che furono – a suo giudizio – le cause acceleranti della strage.
Quell’intervista rilasciata ai francesi il 21 maggio 1992 non fu un episodio casuale, ma un atto di straordinaria lucidità e determinazione. In quelle dichiarazioni, Paolo Borsellino fece i nomi di Vittorio Mangano, Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi, tessendo un filo che legava il potere mafioso a quello politico e imprenditoriale.
Un collegamento pericoloso, scomodo, che forse rappresentò il punto di non ritorno. Salvatore Borsellino lo ricorda con amarezza: suo fratello sapeva di aver scavato troppo in profondità, di aver sollevato un velo su connivenze che molti preferivano lasciare sepolte. Eppure, non si tirò indietro, consapevole che la giustizia non può essere esercitata a metà.
C’è un altro tassello che completa questo tragico puzzle, sempre secondo il fondatore del movimento Agende Rosse. Quel discorso tenuto da Paolo Borsellino alla biblioteca comunale di Palermo, in cui si dichiarò pronto a testimoniare sull’attentato di Capaci, fu l’ultimo atto di una sfida lanciata alle forze oscure che già tramavano nell’ombra.
Non aveva mai indagato direttamente su Berlusconi e Dell’Utri, eppure la sua voce rappresentava una minaccia troppo grande per essere ignorata. L’archiviazione dell’inchiesta nel 2001 da parte del gip di Caltanissetta non è che l’ultimo capitolo di una storia fatta di verità negate e giustizia incompiuta.
Oggi, mentre il Paese si prepara a un’altra commemorazione formale, è tempo di rompere il cerchio del silenzio. Le nuove generazioni meritano di conoscere non solo i nomi delle vittime, ma anche quelli dei mandanti e dei complici che ancora camminano liberi.
Il messaggio di Salvatore Borsellino è un faro in questa notte di omertà istituzionale, un invito a non accontentarsi delle verità ufficiali ma a continuare a scavare, a chiedere, a pretendere risposte. Perché la storia d’Italia non potrà mai essere riscritta finché questi nomi rimarranno nascosti nell’ombra, protetti da quel sistema di potere che ha trasformato le stragi del ’92 in una ferita ancora aperta.
Forse un giorno, quando i fili di questa intricata matassa verranno finalmente dipanati, capiremo perché trentatré anni non sono bastati a fare piena luce su via D’Amelio…
Fino ad allora, restano le parole di Salvatore Borsellino, ultimo custode di una memoria scomoda ma necessaria, e l’impegno di chi non si rassegna a vedere la giustizia tradita.
Perché continuare a commemorare non basta più: è tempo di verità, senza se e senza ma!
Ascolto le notizie riportate in Tv sulla giustizia e mi chiedevo cosa accadrebbe se applicassimo la tecnologia AI al sistema giudiziario?
Già… immaginiamo un mondo in cui i magistrati siano sostituiti da robot in grado di interpretare la legge in modo impeccabile, senza influenze esterne, condizionamenti o pregiudizi!
Già, in questo, un “magistrato robot” avrebbe capacità straordinarie e non indifferenti.
Ad esempio… una memoria infinita: potrebbe incamerare tutta la legislazione passata e vigente, accedendo a ogni norma, articolo o regolamento in pochi secondi.
Ed ancora, sarebbe in grado di realizzare un aggiornamento istantaneo: le nuove normative non richiederebbero anni di studio, ma solo pochi minuti di upgrade.
Cosa dire inoltre sulla “coerenza” assoluta; questa… grazie all’analisi in tempo reale di tutte le sentenze emesse, potrebbe adottare interpretazioni giuridiche coerenti, sì… basate su precedenti consolidati.
Ma non solo, nessuna imparzialità: sì…niente pressioni politiche, correnti, interessi personali o condizionamenti emotivi. Solo la legge, applicata in modo rigoroso e oggettivo.
Ma allora, è davvero possibile percorrere questa strada per una giustizia perfetta?
Certo, in molti ora diranno che, se da un lato l’IA (intelligenza artificiale) potrebbe eliminare gli errori umani, i ritardi burocratici e le disparità d’interpretazione, dall’altro farebbe sorgere domande importanti…
La legge è solo una questione di logica, o c’è un elemento umano – come l’equità, la comprensione del contesto sociale e la capacità di adattarsi a casi eccezionali – che un robot non potrebbe mai replicare?
Chi sarebbe responsabile in caso di errori o decisioni controverse e, soprattutto, siamo pronti a delegare decisioni che riguardano la libertà e la vita delle persone a una macchina?
Tuttavia, l’idea di un magistrato robot affascina, ma allo stesso tempo spaventa. Se da un lato rappresenta un’opportunità per rendere la giustizia più efficiente e imparziale, dall’altro ci costringerebbe a riflettere su cosa significhi davvero “giustizia” e su quanto l’elemento umano sia insostituibile.
E allora, ditemi: cosa ne pensate? Quanto siete disposti a fidarvi di un sistema giudiziario gestito dall’intelligenza artificiale?
Simone Cristicchi ha una capacità straordinaria di toccare le corde più profonde dell’anima con parole semplici ma cariche di significato.
La sua canzone, dedicata alle madre e alla sua malattia, è un inno all’amore, alla cura e alla memoria, temi universali che risuonano in chiunque abbia vissuto o stia vivendo un’esperienza simile.
La delicatezza con cui affronta il tema del tempo che passa, della memoria che sfuma e dell’amore che resiste è davvero commovente.
Ora, passando ai possibili finalisti di Sanremo 2025, è interessante notare come il sottoscritto abbia analizzato ogni artista con un occhio critico, ma rispettoso, ed alla fine dopo non poche riflessioni, ho pensato che gli artisti che seguono potrebbero far parte dei vicitori:
Simone Cristicchi: La sua canzone è bellissima ma potrebbe non vincere. Spesso a Sanremo non è solo la qualità della canzone a determinare la vittoria, ma anche l’interpretazione, il carisma dell’artista e il momento giusto. Se cantata da un interprete più “tradizionalmente” potente come Ranieri o Jovanotti, avrebbe forse avuto un impatto diverso, ma Cristicchi ha il merito di essere autentico e sincero, e questo è un valore aggiunto.
Giorgia: Lei è una forza della natura, una delle voci più potenti e riconoscibili della musica italiana. Forse la canzone è un po’ troppo ripetitiva ed assomiglia – forse mi sbaglio – ad una nota canzone del grande Lucio Dalla; questo potrebbe rappresentare un limite, ma la sua classe e il suo carisma dovrebbero comunque portarla lontano. Arisa sarebbe stata un’ottima rivale, ma purtroppo non è in gara quest’anno…
Achille Lauro: Finalmente ha colto bene il suo percorso di crescita artistica. Dopo anni di provocazioni e sperimentazioni, sembra aver trovato un equilibrio, tra stile e sostanza. La sua eleganza e la maturità artistica potrebbero finalmente premiarlo, anche se il testo, avrebbe avuto bisogno di un ritocco in più.
Fedez: Il suo seguito tra i giovani è indiscutibile, e il televoto potrebbe favorirlo. Tuttavia, di presenza la canzone perde qualcosa, mentre viceversa ascoltata su “youtube” migliora molto, forse anche grazie all’uso di autotune e di alcuni effetti speciali che dal vivo non si percepiscono; ciò purtroppo limita e quindi distoglie l’attenzione dalle belle parole della canzone. Fedez ha il potenziale per vincere, ma deve convincere anche il pubblico più tradizionale.
Lucio Corsi: La sua canzone tocca un tema importante e delicato, e il coraggio di affrontarlo con sincerità è ammirevole.
Permettetemi di aprire una parentesi: la canzone e le parole sono toccanti e affrontano un grave problema tra i giovani; riprendono il comportamento meschino compiuto da taluni soggetti che si ritengono dei “leader” solo perché un gruppo di menomati, uniti sotto il nome di “branco”, si fanno forti quando sono insieme, viceversa, presi ciascuno da soli, si dimostrano dei codardi, evidenziando gravi problemi familiari e soprattutto personali.
Difatti, è solo attraverso la prevaricazione nei confronti dei propri coetanei o di soggetti fragili, che questi riescono a manifestare tutta la loro violenza fisica e verbale, che sappiamo bene viene caratterizzata con abituali molestie e aggressività di tipo minaccioso.
Corsi in questa sua canzone ha il coraggio di metterci la faccia e soprattutto la propria debolezza, senza nasconderla, esprimendo anche quel desiderio represso di “esser un duro“. La musica è leggera e segue senza pretese una perfetta linearità, proseguendo: come un gioco da ragazzi…
Vincere… non credo sarà facile, ma potrebbe essere certamente una sorpresa inaspettata e direi anche meritata!!!
Comunque, anche se potrebbe non vincere, il suo messaggio lascia un segno profondo, e questo è già una vittoria in sé.
In definitiva, Sanremo è sempre una sorpresa, e spesso la canzone che vince non è necessariamente la più bella, ma quella che riesce a catturare l’attenzione del pubblico e della giuria in quel preciso momento. Chissà, forse quest’anno ci potrebbe anche essere una sorpresa inaspettata…
E allora, nel riportare di seguito le bellissime parole del testo della poesia di Cristicchi, penso che alla fine uno degli artisti citati sopra potrebbe essere il nome del vincitore del Festival di Sanremo 2025.
Quando sarai piccola ti aiuterò a capire chi sei,
ti starò vicino come non ho fatto mai.
Rallenteremo il passo se camminerò veloce,
parlerò al posto tuo se ti si ferma la voce.
Giocheremo a ricordare quanti figli hai,
che sei nata il 20 marzo del ’46.
Se ti chiederai il perché di quell’anello al dito
ti dirò di mio padre ovvero tuo marito.
Ti insegnerò a stare in piedi da sola, a ritrovare la strada di casa.
Ti ripeterò il mio nome mille volte perché tanto te lo scorderai.
Eeee… è ancora un altro giorno insieme a te,
per restituirti tutto quell’amore che mi hai dato
e sorridere del tempo che non sembra mai passato.
Quando sarai piccola mi insegnerai davvero chi sono
a capire che tuo figlio è diventato un uomo.
Quando ti prenderò in braccio
e sembrerai leggera come una bambina sopra un’altalena.
Preparerò da mangiare per cena, io che so fare il caffè a malapena.
Ti ripeterò il tuo nome mille volte fino a quando lo ricorderai.
Rip. ritornello
per restituirti tutto, tutto il bene che mi hai dato.
E sconfiggere anche il tempo che per noi non è passato.
Riprendo nuovamente il tema principale, che ieri avevo momentaneamente sospeso per chiarire alcuni concetti a cui tenevo…
Torno dunque alla comparazione che, nell’ultimo anno e fino a oggi, si è voluto tracciare tra le esperienze terribili vissute da ebrei e palestinesi in momenti diversi della storia.
In questi mesi, molti si sono posti una domanda: com’è possibile che Israele, in quanto Stato ebraico, possa oggi commettere i crimini che vediamo in televisione ai danni di una parte dei palestinesi, quelli di Gaza? Certamente, si tratta di coercizioni non paragonabili a quelle perpetrate dai carnefici nazisti, ma comunque gravissime dal punto di vista morale e umano.
La verità è che si è cercato di dimenticare in fretta una guerra mostruosa e, soprattutto, un “olocausto” che non sarebbe mai dovuto esistere. La memoria avrebbe dovuto impedirne la ripetizione, eppure il desiderio di ricostruire l’Europa e di pacificare gli Stati coinvolti nel conflitto ha portato a relegare il passato in un angolo. Si doveva dare speranza e un futuro ai profughi ebrei sopravvissuti alla Shoah, ma questo ha generato una conflittualità irrisolta.
La pace doveva fondarsi sulla comprensione della guerra e sull’accettazione dei suoi orrori, ma in questo processo la memoria ha lasciato spazio all’oblio. La massima sottintesa è diventata: «Ricordati di dimenticare la guerra e i suoi olocausti. La guerra è un mostro che non deve svegliarsi, non guardarla».
L’aver osservato in Tv la “Cerimonia di commemorazione dell’80° anniversario della liberazione del campo di concentramento e di sterminio di Auschwitz-Birkenau“, alla presenza di sopravvissuti e di numerosi Capi di Stato e di Governo, mi ha dato più l’impressione di voler allontanare e nascondere il delitto, piuttosto che far penetrare lo sguardo nella matrice profonda del crimine.
La verità è che l’Occidente ha goduto di una lunga pace non perché abbia realmente compreso le due guerre mondiali e la Shoah, ma per semplice paura, per una distensione meccanica seguita al trauma.
Ciò che accade oggi a Gaza non è altro che il proseguimento di una storia già vista. Gli anni della Nakba sono un passaggio di testimone che, pur senza la sistematica pianificazione dello sterminio, prosegue sotto una forma celata di pulizia etnica, mascherata da una presunta civiltà.
Basta osservare come, anche nel nostro Paese, l’attuale governo di destra abbia cercato di liquidare il Fascismo e il Nazismo come “malattie inspiegabili“, catastrofi naturali spuntate dal nulla, macchiando così il candido volto della nostra civiltà.
Questo sistema internazionale di pacificazione, costruito sulle rovine della Seconda guerra mondiale, ha paradossalmente generato una nuova era di democrazia e diritti, mentre riproduce ancora una volta lo sfruttamento e legittima l’oppressione coloniale. In questo contesto, la Nakba viene avallata, e al Sionismo viene garantito riconoscimento politico e impunità, in un territorio che non gli apparteneva.
Invece di trovare una soluzione pacifica e giusta per entrambi i popoli, che permettesse di far valere le proprie ragioni e di convivere, si è preferito imporre condizioni che, in questi 80 anni, hanno dimostrato di non portare alcun cambiamento. Il conflitto continua, e la storia si ripete.
Continuando con quanto espresso nella giornata di ieri, vorrei stamani allontanarmi perché desidero prima di continuare quel percorso, affrontare due punti fondamentali sulla “Soluzione Finale” che hanno segnato il dibattito storico e morale degli ultimi decenni.
Da un lato, si è cercato di convincere il mondo democratico e capitalistico che la Shoah rappresentasse un evento eccezionale e irripetibile, Dall’altro, si è insistito sulla necessità di preservarne la memoria affinché simili orrori non si ripetessero.
Ma viene da chiedersi: se assumiamo queste due affermazioni come verità assolute, non rischiamo di cadere in una contraddizione insanabile? Se la Shoah è davvero eccezionale e irripetibile, allora la memoria diventa superflua. Al contrario, se la memoria è necessaria, significa che la Shoah non è né eccezionale né irripetibile, ma piuttosto un tragico esempio di ciò che l’umanità è capace di fare.
Purtroppo, la storia ci ha dimostrato che la seconda ipotesi è quella più vicina alla realtà. Dopo la Shoah, il mondo ha continuato a essere teatro di genocidi, massacri e pulizie etniche.
In Cambogia, tra il 1975 e il 1979, il regime dei Khmer Rossi guidato da Pol Pot cercò di creare una società agraria utopica, sterminando chiunque fosse considerato un “nemico”: intellettuali, minoranze etniche, religiosi. Un quarto della popolazione, circa 1,7 milioni di persone, morì per esecuzioni, fame e malattie. Poco dopo, nel 1994, il Ruanda fu sconvolto da un genocidio che in soli 100 giorni portò al massacro di circa 800.000 persone, principalmente Tutsi e Hutu moderati, in un’esplosione di odio etnico alimentato da decenni di tensioni.
Anche l’Europa, nonostante le lezioni della Shoah, non fu immune. Durante la dissoluzione della Jugoslavia, tra il 1992 e il 1995, le forze serbo-bosniache attuarono una campagna di pulizia etnica contro i Bosgnacchi e i Croati, culminata nel massacro di Srebrenica, dove oltre 8.000 uomini e ragazzi musulmani furono uccisi.
Eppure, già prima della Shoah, l’Unione Sovietica di Stalin aveva dato prova di una violenza sistematica. Tra gli anni ’30 e ’50, milioni di persone furono perseguitate, deportate nei Gulag o giustiziate come “nemici dello Stato”. Interi gruppi etnici, come i Tatari di Crimea e i Ceceni, furono deportati in massa, mentre politiche come l’Holodomor in Ucraina causarono carestie deliberate, uccidendo milioni di persone.
Nel frattempo, in America Latina, i popoli indigeni subirono persecuzioni e massacri. In Guatemala, durante la guerra civile (1960-1996), le comunità Maya furono sterminate con l’accusa di sostenere i ribelli comunisti, lasciando un bilancio di 200.000 morti. E ancora oggi, in Darfur, il governo sudanese e le milizie Janjaweed conducono una campagna di pulizia etnica contro le comunità non arabe, causando oltre 300.000 morti e milioni di sfollati.
La memoria non basta…
Da questi eventi emerge un quadro chiaro e sconvolgente: l’odio etnico, il fanatismo ideologico e l’autoritarismo possono sempre e di nuovo condurre a tragedie immani. La Shoah non è un evento isolato, ma parte di un continuum storico in cui l’umanità ha dimostrato una spaventosa attitudine alla ferocia e al sadismo.
Eppure, troppo spesso la memoria della Shoah è stata ridotta a una musealizzazione sterile, trasformandola in un evento eccezionale e distaccato dalla storia contemporanea. Questo approccio, secondo me, rischia di sminuire la sua portata universale. La memoria non deve essere un monumento immobile, ma un esercizio costante di confronto e dialogo. Dobbiamo interrogarci sul nostro presente, sulle ingiustizie che ancora persistono, sulle ideologie che seminano odio e divisione.
Solo così possiamo sperare di spezzare l’eterna ombra del genocidio. Perché, come ci ha insegnato Primo Levi, “è avvenuto, quindi può accadere di nuovo”. E sta a noi fare in modo che non sia così.