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Altro che terra santa, sembra viceversa – da 2000 anni – una terra maledetta!


Le cronache e le immagini che ci arrivano da Gaza e da ogni altra parte di quel territorio, mostrano la sofferenza fisica (e morale) di innocenti indifesi.

La violenza si sa… genera morte e distruzione, la vendetta genera odio e dolore, e così assistiamo a un percorso circolare in cui si rincorrono solo gli aspetti più bui dell’umanità. 

Una pace che non si apre, che non ammette solidarietà né comprensione, e che non fa altro che alimentare il male con altro male. Da millenni anni, secoli e in modo più acuto da quel maledetto ottobre, parliamo e scriviamo di questo. 

Eppure le parole, tutte le parole, sembrano scivolare via come acqua su una pietra levigata dall’indifferenza.

È stato superato da tempo ogni limite di sopportazione. Abbiamo visto le cause, immediate e lontane e il numero altissimo di vittime a causa di bombardamenti, scontri, esplosioni e soprattutto carenza assoluta di viveri. Innumerevoli appelli, mediazioni di papi, imam, patriarchi, rabbini, ayatollah, dalai lama, ma anche capi di stato, si sono infranti contro un muro di rifiuto e gli aiuti che sono riusciti a filtrare sono una goccia in un oceano di disperazione.

Vorrei chiedervi: Cosa spinge un essere umano a non fermarsi, a continuare a provocare dolore? Come si trasforma questa sensazione di impotenza che ci assale in qualcosa di concreto? Al sottoscritto sembra che dopo tante parole, l’indifferenza sia nuovamente calata come un velo pesante sul male della guerra, e che la paura ci abbia resi ormai muti. E come ripeto sempre in ogni occasione: il silenzio, si sa, ci rende complici.

Intorno a Gaza, intorno alla Palestina, sono stati eretti muri fisici, visibili, che bloccano l’accesso a chi non è “autorizzato”: aiuti, volontari, occhi del mondo. Ma intorno a tutta questa guerra è stata costruita un’altra barriera, invisibile e più spessa, che blocca l’ingresso alla verità. Una verità che sola potrebbe nutrire la giustizia e restituire dignità a una popolazione stremata. 

Cosa, o chi, impedisce davvero di aiutare esseri umani che vivono in condizioni disumane? Forse la loro debolezza fa paura. Forse la loro rassegnazione non scuote più le coscienze addormentate. Chi sono coloro che scelgono di seguire interessi economici o di potere, aumentando le spese per procurare morte mentre poco più in là c’è abbondanza di quanto servirebbe per vivere? Perché negare un farmaco, un pasto, un po’ di calore, a pochi passi da dove tutto ciò esiste? Il gelo di un terzo inverno, senza il calore della solidarietà, sembra non smuovere più cuori ormai induriti e disconnessi.

Sono domande che restano sospese, rivolte a tutti, perché di fronte a una situazione così disumana la responsabilità è collettiva e diffusa. E mentre ora il Natale si avvicina, con quel suo messaggio di luce, quella terra sembra affondare sempre più nelle tenebre di una maledizione antica. 

Già… da oltre duemila anni, forse anche a causa delle religioni che l’hanno contesa, è un luogo dove la guerra ha segnato l’esistenza dei suoi popoli, dove la pace non è mai stata una realtà, ma solo un’illusione lontana. Le dichiarazioni dell’ultimo anno, l’affannarsi sterile di politicanti e presidenti, non hanno fatto che evidenziare il totale fallimento di ogni politica messa in campo. Le loro parole risuonano vuote in un deserto di azioni efficaci.

Eppure, la risposta che ci viene proposta in questi giorni è la bella storiella (certamente fantasiosa) di un Bambino in povere fasce, nato in una grotta fredda e buia. Un Bambino che porta pace ai cuori senza pace, che è venuto per riconciliare i fratelli. Ed allora proviamo a prendere quanto di buono da quella storia raccontata, sì… celebriamo quel messaggio che dalla grotta di Betlemme è giunto fino a noi dopo più di duemila anni. Ma non possiamo farlo solo nel ricordo rituale o essendo di parte, già… da chi professa una qualsiasi religioni ed odia le altre.

La pace non è un’illusione, è una scelta di vita quotidiana e coraggiosa. È l’unica verità che può spezzare questo cerchio maledetto. È il coraggio di riuscire ad amare il prossimo, anche quando quel prossimo è oltre un muro, oltre un checkpoint, oltre l’abisso dell’odio che quella terra, da millenni, continua a generare!

Quando il silenzio di Giacomo parla più delle parole di Pietro – Seconda parte


Consentitemi – prima di iniziare la seconda parte del mio post – di riportarvi quanto ricevuto – ieri – dalla mia prima lettrice, e cioè mia moglie (ma sono certo che sarete stati in molti a pensare la stessa cosa…):

  • Troppo lungo per leggerlo immediatamente, lo farò con calma. Hai forse voluto eguagliare Benigni per lunghezza??? Ma lui a differenza tua è stato profumatamente pagato per intrattenere gli spettatori 🤣🤣🤣🤣

Risposta (che in un qualche modo preannuncia quanto sto ora per scrivere):

  • Hai ragione sulla lunghezza, ma per trattare con serietà un tema così vasto (e come sappiamo troppo spesso edulcorato…) servono necessariamente più parole. Ho preferito quindi una divisione in più parti a un riassunto frettoloso. Il punto centrale del mio post non è la mia opinione personale, ma il tentativo di ricostruire coerentemente eventi storici che, da duemila anni, vengono (sempre) celati dietro narrazioni più “comode e spettacolari”, come per l’appunto alcuni monologhi di intrattenimento.

Ed allora – dando seguito a quanto scritto ieri – ho lasciato l’ultima parola al “silenzio”, come si fa quando si è detto qualcosa che non può essere né aggiustato né cancellato, solo accolto. La storia – e quindi non la leggenda – ci ha consegnato un Giacomo solido, silenzioso, radicato in quella terra di Gerusalemme, mentre viceversa ci ha fatto conoscere un Pietro che cammina sui margini, tra le onde e le città, tra l’entusiasmo coraggioso di chi crede ciecamente ed il ripensamento umano di chi evidenzia paura, già… tra il fuoco e il dubbio.

Eppure, non finisce qui, perché se è vero che la storia non mente, è altrettanto vero che non parla mai da sola: le sue parole sono sempre intrecciate con quelle di chi, dopo, ha dovuto scegliere da che parte stare, in tempi in cui non si trattava più di seguire un uomo, ma di costruire una memoria capace di resistere al tempo. E quella memoria, inevitabilmente, ha dovuto fare i conti con conflitti che non erano più tra Giudei e Romani, ma dentro la stessa comunità dei discepoli.

Paolo e Pietro, per esempio, non furono mai compagni di strada nel senso tranquillo del termine.

Paolo, cittadino romano, colto, irruente, convinto che la buona novella fosse per tutti, senza distinzioni di circoncisione né di legge; Pietro, galileo, cresciuto nel ritmo delle sinagoghe, fedele alla Torah anche quando non ne capiva più il senso, sempre in bilico tra ciò che aveva udito da Gesù e ciò che il cuore gli imponeva di non abbandonare.

Ad Antiochia – come ho scritto ieri – lo scontro è netto: Pietro mangia con i pagani finché non arrivano gli emissari di Giacomo, allora si ritrae, come chi teme di aver oltrepassato un confine che non gli compete spostare: «Se tu, che sei Giudeo, vivi come i pagani… come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei?». Non è un rimprovero teologico: è la voce di chi sente cedere il terreno sotto i piedi, perché sa che se la legge diventa barriera, allora la grazia non è più grazia. Ma Pietro tace e quel silenzio, più di ogni parola, ci dice quanto il primato non fosse mai stato suo: non aveva l’autorità di decidere da solo, perché la comunità di Gerusalemme aveva un centro, e quel centro si chiamava Giacomo.

E proprio attorno a Giacomo si radica una corrente di pensiero oggi quasi dimenticata, ma che per secoli fu viva, presente, resistente: gli ebioniti, i “poveri”, che vedevano in Gesù non un dio disceso dal cielo, ma un uomo giusto, profeta e maestro, figlio di Giuseppe e Maria, fratello di Giacomo, osservante della Legge fino all’ultimo respiro. Per loro, il vero erede non era chi predicava la libertà dai precetti, ma chi, come Giacomo, portava ogni giorno il “tallit”, pregava nel tempio, rifiutava la carne sacrificata agli idoli e viveva in povertà radicale.

Non avevano bisogno quindi di un Pietro universale, né di un Paolo che parlava in greco alle città: avevano bisogno di un fratello che camminava per le strade di Sion come aveva camminato Gesù, con le stesse scarpe polverose e lo stesso sguardo sulle vedove e gli orfani.

FINE SECONDA PARTE

L’inganno della tregua: Donald Trump raccoglie gli applausi, ma il merito va a suo genero Kushner, all’inviato speciale Witkoff e al leader di Hamas, Khalil al-Hayya.


Già… bisogna ringraziare Jared Kushner e l’inviato speciale Steve Witkoff, insieme ai capi di Hamas – capeggiati dal loro leader Khalil al-Hayya, sopravvissuto appena tre settimane prima a un attacco israeliano a Doha – se l’accordo è stato realizzato.

Parliamo degli stessi protagonisti che in passato avevano promosso gli “Accordi di Abramo”, quei patti volti a normalizzare le relazioni tra Israele e diversi Paesi arabi.

Come sempre accade nella vita – e il sottoscritto ne sa qualcosa – gli applausi e le coccarde non vanno mai a chi svolge il lavoro sporco sul campo, bensì a chi incarna la figura istituzionale. Così, anche Donald Trump si riprende la scena, mentre chi, dietro le quinte, ha condotto per settimane la trattativa a tu per tu con i quattro leader di Hamas, non riceve neppure un ringraziamento pubblico.

Ma permettetemi di contraddire quanto scritto in queste ore da pseudo-giornalisti legati in maniera diretta a quel meccanismo di “propaganda politica di governo” che ormai ha infettato il nostro Paese. Uscendo da quello schema – che ricorda fin troppo da vicino il metodo Goebbels – non posso che constatare una realtà scomoda: la tregua raggiunta è stata esclusivamente un mero scambio di prigionieri. Da un lato gli ultimi venti ostaggi israeliani, dall’altro circa duemila detenuti palestinesi. Un baratto umano che ha sollevato un velo di sollievo, ma che non ha scalfito il cuore del problema.

D’altronde, questo nuovo accordo, celebrato a Sharm el-Sheikh da numerosi leader internazionali, ha deliberatamente escluso le parti direttamente coinvolte – Israele e Hamas – come se il destino di una terra potesse essere deciso senza di loro. È lo stesso errore già commesso negli anni passati, e proprio in questa grave assenza risiede, secondo il sottoscritto, l’ennesimo grande fallimento: un fallimento che lascia i due popoli confinanti separati da una voragine… già, proprio come nella mia foto.
Ho osservato – dopo due anni di guerra – quanto è accaduto a seguito del raid di Hamas, e non posso che prendere atto di ciò che resta oggi: un immenso cimitero a cielo aperto, la distruzione totale della Striscia di Gaza, con case, ospedali e scuole ridotti in macerie, e soprattutto oltre sessantasettemila morti e una popolazione stremata dalla fame.

In questo scenario apocalittico, ogni parte ha perso qualcosa, ma forse Hamas ha perso più di tutti, incluso il favore del suo stesso popolo, sfiancato da una violenza che non ha condotto da nessuna parte se non alla rovina.

L’Autorità Palestinese, con sede in Cisgiordania, cerca ora di ritagliarsi uno spazio di mediazione, presentandosi all’ONU e al mondo come l’unico interlocutore credibile per riavviare un dialogo che porti finalmente alla costituzione di uno Stato palestinese – un sogno che sembra più vicino sulla carta che nella realtà.

E quindi non posso fare a meno di essere scettico di fronte a questo entusiasmo euforico, perché la storia ci insegna che i conflitti in questa terra hanno radici profonde e che le soluzioni imposte dall’alto raramente attecchiscono.

Quello che stiamo vivendo è solo una pausa, un momento passeggero dettato dall’urgenza di risolvere la questione degli ostaggi e di permettere l’ingresso degli aiuti umanitari – un bisogno così disperato che persino i combattimenti tra fazioni a Khan Yunis, dove clan locali hanno sfidato Hamas, sono serviti a ricordare a tutti la precarietà del potere.

Sono profondamente convinto che tra qualche mese, quando le macerie saranno state rimosse e la situazione sembrerà stabilizzata, i conflitti riprenderanno con rinnovata ferocia. Hamas – un movimento nato dalla resistenza e dalla militanza armata – non accetterà mai di essere relegato a forza a ruolo subalterno, né di essere messo da parte da un governo tecnocratico o da un’autorità imposta dall’esterno.

La tregua, quindi, non è la fine, ma solo un interludio: un respiro profondo prima che il ciclone di violenza si scateni di nuovo, portando con sé, come sempre, altra morte e altra distruzione, in un ciclo infinito che nessun accordo, finora, è riuscito a spezzare.

Mentre i leader sorridono, Gaza trema…


Il fragore delle armi a Gaza si è spento, ma il silenzio che avvolge la Striscia non sa di pace: sa piuttosto di respiro trattenuto, di pausa forzata, di attesa carica di tensione.
La cerimonia di firma in Egitto, prevista per lunedì, e lo scambio di prigionieri che ne seguirà, accendono certo una fiammella di speranza.

Eppure, basti guardare con attenzione alle condizioni di questo accordo per capire che non si tratta affatto di una soluzione, ma dell’ennesimo baratto tra vite umane: da un lato, gli ostaggi israeliani ancora in mano a Hamas; dall’altro, quasi duemila detenuti palestinesi rinchiusi nelle carceri israeliane, tra cui centinaia condannati all’ergastolo.

Questo non è un compromesso per la pace, è un patto di sopravvivenza momentanea, destinato a esaurirsi non appena le parti torneranno a guardarsi negli occhi con le armi in pugno.

La struttura stessa dell’accordo rivela tutta la sua fragilità. Israele ottiene l’appoggio internazionale anche di alcuni paesi arabi e il rilascio degli ostaggi, ma mantiene di fatto il controllo militare su oltre la metà del territorio di Gaza. Hamas, dal canto suo, ottiene sì… il cessate il fuoco e recupera centinaia dei suoi uomini, ma rifiuta con fermezza ogni ipotesi di disarmo; un punto, questo, che come sappiamo, per Israele non è negoziabile.

Difatti, un funzionario del movimento ha dichiarato in forma anonima, ma con chiarezza assoluta, che la richiesta di smantellare il suo apparato militare è “fuori discussione”, mentre Netanyahu, non ha esitato a ribadire che, senza disarmo, la guerra tornerà. Dunque, non si tratta di pace, ma di un braccio di ferro sospeso: le armi tacciono, ma le intenzioni non sono cambiate.

Le parole dei leader di Hamas confermano questa lettura. Hossam Badran, esponente di spicco dell’ufficio politico del movimento, ha definito “assurda e senza senso” qualsiasi proposta che preveda l’allontanamento dei suoi dirigenti da Gaza. Ha poi avvertito che, in caso di ripresa delle ostilità, Hamas risponderà a “qualsiasi aggressione israeliana”, e ha descritto la prossima fase dei negoziati come “più difficile e complessa”.

Comprenderete che non sono certo le parole di chi vuole deporre le armi per costruire un futuro comune, ma viceversa, quelle di chi si prepara alla prossima battaglia. E dall’altra parte, Israele non ha alcuna intenzione di permettere ad Hamas di rialzarsi: la determinazione a colpire di nuovo, se necessario, è esplicita, ed ecco perché in questo contesto, la ripresa del conflitto non è una possibilità remota: è quasi una certezza!

A rendere il quadro ancora più cupo è il ruolo di alcuni attori esterni, in particolare l’Iran. Il ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi, ha espresso “totale sfiducia” nella volontà di Israele di rispettare gli accordi, parlando apertamente di “trucchi e tradimenti del regime sionista”.

Ed infatti, pur appoggiando formalmente il cessate il fuoco, Teheran ha escluso con forza ogni ipotesi di normalizzazione con Israele, definendola “semplice illusione”. E poiché l’Iran continua a sostenere militarmente e politicamente Hamas, il suo atteggiamento non fa che incoraggiare le frange più radicali del movimento a resistere a qualsiasi concessione sostanziale.

Ecco perché in questo gioco, la tregua diventa solo un intervallo utile per riarmarsi, riorganizzarsi e attendere il momento giusto per colpire di nuovo, la storia, d’altronde, ci ha abituati a questi corsi e ricorsi e sappiamo come le radici di questo conflitto affondano in decenni di dispute territoriali, religiose e nazionali che nessun accordo superficiale ha saputo mai sanare.

Gli Accordi di Oslo, un tempo simbolo di speranza, sono finiti nel dimenticatoio. La soluzione dei due Stati, pur invocata da anni dalla comunità internazionale è rimasta un miraggio e quindi, l’attuale tregua, per quanto necessaria a fermare l’indicibile sofferenza dei civili, non tocca minimamente le questioni fondamentali: lo status di Gerusalemme, il diritto al ritorno dei rifugiati, la fine degli insediamenti israeliani, la sovranità di uno Stato palestinese.

Quindi, finché queste ferite resteranno aperte, ogni cessate il fuoco sarà solo un cerotto su una piaga profonda, destinato a staccarsi non appena il vento del conflitto tornerà a soffiare. Quello che stiamo vivendo non è la fine della guerra, ma un breve intervallo in una tempesta che non ha ancora esaurito la sua furia.

Già… a differenza di molti leader, in particolare i nostri politici attualmente al Governo, così entusiasti di giungere in Egitto per farsi un selfie con il “loro” Presidente Trump, beh… il sottoscritto teme che ahimè, molto presto, il fragore tornerà a farsi sentire, e purtroppo, sarà più forte di prima

Il silenzio degli Stati arabi e il dilemma palestinese


In questi giorni mi sono domandato, come certamente molti di voi: perché nessun paese arabo, a parte l’Iran, lo Yemen e in parte il Libano, sia andato in difesa concreta dei palestinesi in quest’ultimo terribile conflitto con Israele?

Già, dov’è finita quella ostentata unione islamica?

Ora, per favore, non ditemi che le ragioni vanno ricercate nell’eventuale rischio di una possibile terza guerra mondiale o nel timore che una risposta israeliana – se venisse nuovamente attaccata come nel 1967 da quegli stessi Paesi arabi o da altri – potrebbe spingerla, questa volta, all’uso delle armi nucleari.

Tutta questa situazione è – a mio avviso – molto più semplice da leggersi di quanto i complessi ragionamenti geopolitici vogliano farci credere; ritengo che, se si abbassassero per un attimo i toni della retorica e si osservasse in maniera distaccata gli avvenimenti storici, su quanto finora è accaduto, ecco che la lettura di questa grave crisi mediorientale, diventa, a mio parere, molto più semplice e spietatamente chiara

Abbiamo letto di come l’Egitto e la Giordania, di comune accordo, abbiano stabilito già da anni di non accogliere ulteriori profughi palestinesi, come d’altronde sono parecchi gli altri Stati arabi a non vedere di buon grado “Hamas”.

La conferma peraltro è avvenuta con la “Dichiarazione di New York”, firmata da Paesi come Qatar, Arabia Saudita, Egitto, Giordania, Turchia ed altri, oltre che dall’Unione Europea…

In quel documento si condannano gli attacchi militari di Hamas (del 7 ottobre dello scorso anno), esortando il gruppo a liberare immediatamente tutti gli ostaggi ancora nelle loro mani e a cedere le armi all’Autorità Nazionale Palestinese, rinunciando così definitivamente al controllo di Gaza.

Con questa firma si comprende come, secondo questi Paesi, il problema sia costituito propriamente da “Hamas”, e che essi, non intendono avere ulteriori problemi, sia interni, accogliendo nuove masse di palestinesi, sia esterni, pensando di dover affrontare Israele in una guerra.

E difatti: l’Egitto non vuole i palestinesi neanche a pagarli, mentre la Giordania – che già ospita circa due milioni di rifugiati – vorrebbe addirittura mandarli via. Il Libano, che ne ha accolti già molti, si è ritrovato in passato, e di nuovo recentemente, con la guerra civile in casa, propria a causa delle tensioni che questi arrivi di profughi, hanno generato. La verità – che nessuno ha il coraggio di dire apertamente – è che i palestinesi, purtroppo, non li vuole nessuno, e questo – ahimè – è un dato di fatto innegabile.

Ecco perché se i palestinesi vogliono un aiuto internazionale concreto, devono decidere una volta per tutte quale strada intraprendere, del resto, pensare di poter continuare una guerra senza una soluzione definitiva è una follia.

Basti osservare la storia di quel territorio: si cerca di trovare una pace da oltre un secolo, da quando nella prima metà del Novecento il movimento sionista e il nazionalismo palestinese iniziarono a scontrarsi per il controllo di quella stessa terra. Non ci sono riusciti loro, e ancor meno ci è riuscita l’ONU, che aveva proposto uno Stato Palestinese già nel 1947.

I palestinesi allora rifiutarono quel piano di spartizione perché volevano di più, e così non ottennero nulla, anzi potremmo dire il contrario, visto che sono passati quasi ottant’anni e quello Stato non è ancora ufficialmente riconosciuto da tutti i paesi del mondo, Italia compresa.

Permettetemi (con l’immagine allegata) di ricordare quel piano ONU del 1947, che assegnava le zone a maggioranza ebraica a Israele e quelle a maggioranza araba alla Palestina. Israele accettò, mentre i palestinesi rifiutarono.

Negli anni seguenti sappiamo bene come le tensioni sociali e i ripetuti conflitti armati, con i paesi arabi confinanti, abbiano portato Israele a vincere e quindi ad espandersi fino alla situazione odierna. Tutto è ancor più precipitato con il raid di Hamas del 7 ottobre, che ha provocato circa 1.200 morti (in gran parte civili) e la cattura di circa 250 ostaggi, alcuni dei quali ancora prigionieri. Un attacco mostruoso nella sua esecuzione, che ha fornito a Israele la motivazione – di fronte alla comunità internazionale – per scatenare il conflitto attuale, con l’obiettivo dichiarato di espellere i palestinesi da Gaza e portare la striscia, alla sua totale annessione.

Per cui da quanto è accaduto possiamo affermare che ciò che restava di quella Palestina disegnata nel 1947, oggi, non esiste più. I palestinesi si sono ridotti a meno di due milioni nella Striscia, mentre gli israeliani sono cresciuti fino a oltre dieci milioni. Va detto comunque che oltre un milione e mezzo di palestinesi sono residenti in Israele e convivono con gli israeliani da decenni, per lo più senza grossi problemi, dimostrando che una coesistenza in certe condizioni è possibile.

Ora tentare di ricercare motivazioni storiche profonde, chiedersi di chi sia la colpa, rivoltarsi contro l’uno o l’altro, o cercare di comprenderne le ragioni, è un’operazione veramente difficile se non impossibile.

I conflitti armati, come abbiamo visto, non hanno portato a nulla di buono, e i palestinesi dovrebbero saperlo meglio di chiunque altro, avendone persi almeno tre, con le inevitabili conseguenze che tutti abbiamo visto. Io non so cosa si dovrebbe fare esattamente, anche se una possibile soluzione l’ho proposta personalmente nel mio blog (link: https://nicola-costanzo.blogspot.com/2023/11/ecco-una-soluzione-per-creare-due-stati.html), ma credo che pochi lo sappiano davvero. So per certo però che Hamas non vorrà mai una pace definitiva con Israele, perché nella sua ideologia è previsto il totale annientamento dello Stato ebraico.

D’altronde pensare oggi di far scomparire gli ebrei dalla Palestina è qualcosa di folle e tantomeno realizzabile, basti guardare la potenza degli armamenti in possesso di Israele per comprenderne l’assoluta fallacia.

Certo, oggi a pagare le conseguenze di queste azioni militari e politiche, è soprattutto il popolo palestinese (ma consentitemi di ricordare anche i familiari delle vittime di quel 7 Ottobre), gente comune, inerme, fatta soprattutto di donne e bambini, che si sono trovati stretti – all’interno di quella Striscia – tra l’incudine di dover in qualche modo proteggere i terroristi di Hamas e il martello dell’esercito israeliano con i suoi bombardamenti.

Insistere su una retorica fine a se stessa, come spesso accade nel nostro Paese e in televisione, si è rivelato del tutto inutile e, come la storia recente dimostra, incapace di produrre un cambiamento reale. La soluzione a questo conflitto non può essere calata dall’alto, ma deve essere costruita dalle due popolazioni che da oltre mezzo secolo non conoscono pace.

L’intervento della comunità internazionale è certamente necessario, ma non deve ripetere gli errori del passato, fatti più di propaganda politica e mediatica che di sostanza. Deve piuttosto tradursi in un’azione concreta e coraggiosa per far rispettare le regole di una civile convivenza e il diritto internazionale.

Ciò significa, in questo frangente, garantire con ogni mezzo la protezione della popolazione civile e assicurare che gli aiuti umanitari raggiungano chi ne ha disperato bisogno, come il popolo palestinese a Gaza, anche attraverso missioni internazionali legittime il cui operato sia sottoposto a controlli democratici.

Solo attraverso un impegno di questo tipo – che ponga al primo posto i diritti umani universali e il ripudio della guerra – può onorare i principi di umanità.

Il patto dei Leviatani…


Quando due sovrani del potere illiberale si riconoscono, si stringono la mano e si abbracciano, non lo fanno per affetto, né per amore di un mondo che crede nel multilateralismo. No… loro riscrivono le regole (nell’ombra) per mutua sopravvivenza di quell’ordine che loro stessi hanno saputo scompaginare.

Credo che, al di là delle dichiarazioni plateali di Trump e del riserbo strategico di Putin – che lascia volentieri la parola al suo ministro degli Esteri – i due abbiano già concordato, fuori scena e in silenzio, le proprie sfere di influenza.

Già… sono convinto che i conflitti in corso, con le loro pseudo-minacce di droni e altre armi da propaganda, siano, ai loro occhi, nient’altro che danni collaterali funzionali alle rispettive mire espansionistiche.

Ad esempio, l’aver evocato la possibilità di schierare i missili Tomahawk – con la loro gittata minacciosa – è diventato l’ultimo strumento di una pressione calcolata. Da Washington giungono voci contraddittorie: si dice che a Zelenskyy siano stati negati, ma anche che la Casa Bianca stia valutando di fornirglieli in futuro.

L’obiettivo di questa retorica è palese: instillare un senso di minaccia non solo a Mosca – per costringerla a negoziati favorevoli agli Stati Uniti – ma anche all’Europa intera, presentando un pericolo imminente in una partita parallela. In questo modo, si orchestra una provocazione che potrebbe trascinare il “Vecchio Continente” in uno scontro diretto, ben oltre i suoi interessi o la sua volontà.

La portata di questa strategia emerge da un dettaglio inquietante: secondo quanto riferito dalla portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, Kiev starebbe valutando l’uso di droni Geran-2 ricondizionati – assemblati con parti di velivoli russi abbattuti – per colpire obiettivi in Polonia e Romania. L’idea sarebbe diabolica nella sua semplicità: lanciare questi droni contro hub logistici in territorio NATO e attribuirne la responsabilità a Mosca, innescando una campagna informativa volta a spingere l’Alleanza verso una risposta militare diretta.

Questa non è una semplice speculazione. Secondo alcune fonti, le scocche di questi droni “riparati” sarebbero già state consegnate al poligono di Yavoriv. Se così fosse, gli incidenti passati con droni in territorio polacco assumerebbero un significato sinistro: non più coincidenze, ma prove tecniche per una provocazione più ampia. L’intento sarebbe di colpire in modo così credibile che, Polonia e Romania – troppo vicine al fronte per poter negare un attacco – si sentano costrette a interpretarlo come un’aggressione diretta da parte della Russia.

In questo scenario, il Pentagono convoca una riunione senza precedenti con oltre 800 generali – un movimento che alimenta i sospetti di una preparazione concreta a un’escalation. La Russia si trova così intrappolata: cedere al ricatto e negoziare alle condizioni imposte da Washington, oppure prepararsi a un conflitto che potrebbe includere attacchi con missili Tomahawk su infrastrutture critiche e, in ultima istanza, uno scontro diretto con la NATO.

In questo contesto, l’immagine di Trump come “pacificatore” appare del tutto insostenibile. Il suo approccio sembra voler essere in queste ore, ben più aggressivo di quanto non fosse quello di Biden, che inizialmente aveva escluso il trasferimento di questi missili, rivelando una strategia non di distensione, ma di ricatto strutturale.

Ciò che mi assilla maggiormente, sì… più di ogni altra cosa, è il sospetto che dietro la minaccia di missili, testate nucleari e droni, i veri protagonisti abbiano già scritto il copione. E che, mentre i governi europei continuano a parlare, le loro parole siano ormai solo rumore di fondo: incapaci di modificare ciò che, nell’ombra, è già stato deciso.

Il patto dei Leviatani.

Charlie Kirk è morto perchè non aveva paura di essere odiato. Il problema è che qualcuno ha finito col prenderlo sul serio!


Buongiorno, oggi ho deciso di affrontare un argomento che in questi giorni si è diffuso rapidamente tra le pagine dei social, sollevando reazioni contrastanti e silenzi eloquenti: la morte di Charlie Kirk, ucciso il 10 settembre 2025 a Orem, nello Utah, da un colpo d’arma da fuoco, lasciando la moglie e due figli.

Ammetto che non conoscevo Kirk prima di questa notizia, né avevo mai seguito il suo lavoro. La verità è che tendo a stare alla larga da chi usa toni estremi, soprattutto quando quei toni sono rivolti ai giovani, veicolati con la forza dell’ideologia piuttosto che del dialogo. 

Ricordo vagamente, di essermi imbattuto in una pagina social su X, già… in una sua clip: parlava con voce decisa, sguardo fisso, mentre smontava concetti complessi in frasi brevi e martellanti. Ma ascoltandolo, ho trovato le sue argomentazioni così sterili, prive di profondità, che non mi sono più soffermato su di lui. Ecco perché non ho più cercato altri interventi e ancor meno ho voluto approfondire su di lui…

Forse quella volta è stata l’unica in cui gli ho prestato un minuto della mia attenzione, già…finché la notizia della sua morte non ha riportato il suo nome al centro della discussione. Eppure, nonostante quella mia distanza iniziale, ho sentito in questi giorni il bisogno di comprendere chi fosse davvero, al di là degli elogi postumi o delle polemiche virali sui social.

Mi sono dedicato quindi ad ascoltare in questi giorni le sue parole, leggere alcuni suoi testi, vedere i dibattiti, senza farmi influenzare da chi oggi lo celebra come martire o da chi lo deride come ciarlatano. Volevo partire da lui, dal suo messaggio, per poi chiedermi: cosa c’era dietro tutto questo? Perché tanta attenzione ora, dopo anni di discorsi incendiari? E soprattutto, perché certe figure riescono a radunare così tanta folla intorno a idee che, se analizzate con calma, appaiono fragili, anacronistiche e talvolta pericolose?

Partiamo da una frase che lui stesso ha trasformato in slogan: “Prove Me Wrong”, dimostrami che sbaglio. Suona come una sfida onesta, aperta, quasi scientifica. Ma nel contesto in cui veniva usata, diventava un’arma retorica, non uno strumento di ricerca della verità. Lo diceva seduto sotto un tendone con quella scritta, invitando studenti universitari a confrontarsi con lui, spesso giovanissimi, impreparati, visibilmente intimiditi. Li lasciava parlare, li ascoltava con aria compiaciuta, poi li smontava con precisione chirurgica, usando logiche stringate, esempi distorti, a volte semplice sarcasmo.

Il pubblico applaudiva, i video diventavano virali, il mito del “debater imbattibile” cresceva. Ma era davvero un confronto? Oppure una sceneggiatura ben studiata, dove l’avversario serviva solo a far brillare il protagonista? Mi viene in mente Tracy Asè-Shabazz (Assistente Amministratore presso la St. George’s University a Grenada), che dopo averlo visto all’opera disse: “Kirk va nei campus a discutere con bambini. Non può discutere con persone della sua età”. Ecco, forse in quelle parole c’è tutta la sostanza del metodo: non cercare il dialogo, ma la vittoria mediatica. Creare spettacolo, non riflessione.

E allora proviamo a guardare alle sue posizioni, non per demolirle con odio, ma per capire come abbiano potuto attecchire in così tanti. Sì, parlava contro Big Tech, contro i media mainstream, contro il governo troppo grande, contro l’élite accademica. Prometteva libertà individuale, sovranità del cittadino, il ritorno ai valori della famiglia, delle piccole imprese, della Costituzione originale. Tutto questo risuona in un’epoca in cui molte persone si sentono escluse, ignorate, tradite dalle istituzioni.

Ed è qui che il suo messaggio diventa potente: non perché sia profondo, ma perché arriva dritto al cuore di chi si sente invisibile. Diceva di voler rompere la “camera d’eco liberale”, mostrare che la sinistra sui campus ha paura del confronto. Ma il confronto che proponeva era spesso un monologo travestito da dialogo, una guerra culturale presentata come difesa della verità. Parlava di aborto come di una questione assoluta, pro-life senza compromessi, arrivando a dichiarare che anche se sua figlia di dieci anni fosse stata violentata e rimasta incinta, avrebbe voluto che portasse a termine la gravidanza. Sul clima, negava il ruolo dell’uomo nel cambiamento climatico. Sul Covid, sminuiva l’importanza dei vaccini e dei lockdown. Sul Secondo Emendamento, sosteneva il diritto a possedere armi a ogni costo, persino se significava accettare morti annuali come prezzo inevitabile.

E poi c’erano i temi più esplosivi: l’immigrazione, che secondo lui era parte di una “Grande Sostituzione”, un piano per cancellare l’America bianca e rurale; i diritti transgender, che definiva una “delusione woke”, parlando di trans donne come uomini con “autoginefilia”, un termine pseudoscientifico respinto dalla comunità medica; il movimento Black Lives Matter, che riduceva a una narrazione basata sul privilegio bianco, mentre attribuiva i problemi della comunità nera all’assenza del padre in casa, cancellando decenni di studi sul razzismo sistemico. Ha detto, durante un dibattito, che forse era più facile per una persona nera entrare alla University of Florida che per una bianca. Frasi così non sono semplici opinioni: sono semina di divisione. Eppure, proprio per questo, funzionano. Perché creano identità attraverso il nemico: il politicamente corretto, il woke, il globalista, il burocrate. E chi grida più forte contro questi mostri, diventa un paladino.

Ma come si arriva a sparare a un uomo per le sue idee? È questo il punto che non riesco a superare! Nessuno merita di morire per ciò che pensa, neanche quando quel pensiero è tossico, miope, dannoso. I tempi dell’inquisizione dovrebbero essere finiti, e invece sembra che qualcuno abbia deciso di riprenderli in mano, con una pistola.

E allora mi chiedo: chi alimenta questo clima? Chi trasforma il disaccordo in odio, la critica in demonizzazione? Perché ora, dopo la sua morte, sento certi politici italiani – eviterò di nominarli – esprimere cordoglio per Kirk, lodarlo come difensore della libertà, quando è evidente che molti di loro non hanno mai ascoltato un suo podcast, letto un suo libro, né tantomeno compreso il senso della sua battaglia! 

È ipocrisia? Opportunismo? O forse condividono in silenzio quel mondo che lui rappresentava? Perché altrimenti celebrare un uomo che ha fatto della provocazione un mestiere, che ha costruito un impero su divisione e paura?

Ho ascoltato alcuni dei suoi episodi, visitato il suo sito, osservato i suoi dibattiti. C’è qualcosa di magnetico in lui, lo ammetto: carisma, sicurezza, capacità di sintesi. Ma c’è anche una totale mancanza di autoreflexività, un’incapacità di mettersi in discussione che stride con lo slogan “Prove Me Wrong”.

Perché se davvero avesse voluto mettersi alla prova, avrebbe scelto interlocutori preparati, seri, capaci di ribattere con dati e argomenti, non studenti emozionati o attivisti improvvisati. Invece ha preferito il il teatro, il conflitto, il dominio, gia come molti nostri politicanti!

E il risultato è un circolo vizioso: più polarizza, più cresce il suo seguito; più cresce il suo seguito, più aumenta l’odio verso di lui. Fino al gesto estremo. E ora che è morto, rischia di diventare un simbolo ancora più potente di quando era vivo. Trump, pare, voglia assegnargli postuma la Medaglia Presidenziale della Libertà. Un gesto politico, certo. Ma anche un acceleratore di mito, per non dire l’ennesima cazz… 

Tutto questo mi lascia con un groviglio dentro. Da un lato, condanno con forza le sue posizioni, che considero regressivo, culturalmente arretrate, spesso crudeli. Dall’altro, non posso accettare che la violenza sia diventata l’ultima parola del dissenso. E nel mezzo, vedo un paese – e non parlo solo degli Stati Uniti – sempre più frammentato, dove la parola è stata sostituita dal grido, il ragionamento dal like, il dibattito dal tifo, e dove persino le affermazioni più incredibili vengono pronunciate con sicumera nei palazzi delle istituzioni, come se la realtà potesse piegarsi alla retorica. 

L’ultima l’ho ascoltata in questi giorni nei Tg, dal Palazzo di Vetro dell’ONU, quando il Presidente degli Stati Uniti ha dichiarato con orgoglio di aver concluso sette guerre durante il suo mandato. Sette guerre. Ma quale guerre? Di quali conflitti parlava? Perché non ne ho mai sentito nominare una? Non una firma su un trattato, non un annuncio internazionale, nessuna cronaca che documenti la fine di un solo conflitto armato sotto la sua guida. Eppure l’ha detto così, come se fosse un dato incontrovertibile, mentre nella sala scendeva un silenzio imbarazzato, subito coperto dagli applausi dei suoi sostenitori. Una frase vuota, forse perfino inventata, ma efficace: perché nell’era dello spettacolo, basta che suoni forte per sembrare vera.

Ho già scritto in passato che stavamo andando verso derive violente. Forse, in cuor mio, speravo di sbagliarmi. Ma ormai devo ammettere che, purtroppo, in quindici anni di post, i miei timori si sono rivelati quasi sempre fondati. E ogni volta che una mia previsione si è avverata, il prezzo è stato alto. 

Droni russi in Polonia, Romania ed Estonia? O è solo l’ennesimo atto di una guerra mediatica per prepararci al conflitto che vogliono loro?


Si parla di droni russi in Polonia, e subito l’allarme sale, le sirene suonano, i telegiornali mostrano mappe con frecce rosse e volti preoccupati…

Ma siamo sicuri che si tratti davvero di un attacco, o piuttosto di un copione già scritto, recitato a beneficio di chi deve credere a una minaccia sempre pronta a materializzarsi?

Mi chiedo, e non per la prima volta, se non sia questa l’ennesima manovra orchestrata dai media e da certe “élite geopolitiche” per tenere alta la tensione, per spingerci verso un baratro che forse nessuno vuole, ma che qualcuno ha interesse a farci temere.

Perché ogni volta che sento parlare di droni russi al confine con la NATO, avverto un’inquietudine più profonda: quella di essere parte di un gioco più grande, dove le pedine siamo noi, e le regole le scrivono altri.

Non posso ignorare il sospetto che dietro queste narrazioni ci sia una regia invisibile, composta da poteri forti che muovono fili ben al di là dei nostri schermi. Non è paranoia, è semplice osservazione: quando un evento del genere accade, le reazioni sono sempre pronte, i commentatori all’unisono, le analisi già formulate ancor prima che i fatti siano chiariti. 

Sembra quasi che esista una tavola rotonda di decisionisti, seduti in stanze senza finestre, che decidono quando innalzare il livello di allerta, quando indicare il nemico, quando farci sentire in pericolo e così, mentre loro discutono, noi veniamo informati – o meglio, condizionati – a pensare in un certo modo, a reagire in un certo modo, a chiedere soluzioni che, guarda caso, rafforzano proprio chi quegli stessi poteri rappresenta.

Cosa c’è davvero dietro questi droni? Erano armati? No! Hanno colpito obiettivi strategici? No! Hanno causato vittime? Neanche una… eppure viene definita una “provocazione”, un test ai confini della guerra ibrida. Ma chi prova chi? La Russia sta mettendo alla prova la NATO, dicono. E allora perché non chiedersi anche se non sia vero il contrario? 

Forse è proprio questo il punto: creare una situazione ambigua, difficile da interpretare, dove ogni movimento possa essere letto come aggressione, dove ogni silenzio possa essere visto come debolezza, già… in questo clima, basta poco per accendere la miccia: un drone qui, un jamming del GPS là, un’esercitazione militare annunciata. Tutto diventa segnale, tutto diventa minaccia. E mentre Mosca viene indicata come artefice di ogni turbolenza, si dimentica che anche dall’altra parte ci sono manovre, pressioni, interessi strategici ben precisi.

Pensiamo al passato recente: quante volte abbiamo creduto a scenari poi smentiti dalla storia? L’Iraq, ancora una volta, con le armi di distruzione di massa mai trovate. La Siria, con gli attacchi chimici attribuiti ad Assad e mai provati oltre ogni ragionevole dubbio. Il Nord Stream, sabotato nel cuore del Mar Baltico, con tutti che puntavano il dito verso la Russia, finché giornalisti come Seymour Hersh hanno raccontato una verità molto diversa, scomoda, e immediatamente emarginata

Quante altre volte ci hanno usato il timore per giustificare l’aumento delle spese militari, il rafforzamento delle alleanze, la limitazione delle libertà interne? È un meccanismo noto: crea un nemico, diffondi la paura, offri la sicurezza in cambio dell’obbedienza!

E oggi, con l’esercitazione Zapad 2025 alle porte, con le truppe russe in movimento, con la Polonia che invoca l’articolo 4 della NATO, sento risuonare lo stesso copione, si alza la temperatura, si mobilitano gli aerei, si annuncia un “muro di droni” europeo, come se la difesa dovesse necessariamente significare escalation. E von der Leyen, nel suo discorso sull’Unione, ne approfitta per rilanciare un progetto di integrazione militare che, detto sinceramente, sembra più un salto verso l’inevitabile che una vera proposta politica. 

Ma chi guadagna da tutto ciò? Chi trae vantaggio dal mantenere l’Europa in uno stato di perenne emergenza? Forse chi vive del conflitto, chi specula sulle armi, chi teme un continente unito non sotto il segno della pace, ma sotto il simbolo della guerra.

E poi c’è Trump, ovviamente… Perché anche lui fa parte dello spettacolo. Un post criptico, una telefonata, e subito si dice che dipende da lui se la crisi degenera. Come se il destino del mondo debba sempre passare attraverso un uomo solo, un personaggio mediatico, un attore consumato del teatro del potere. Ma non è forse questo il vero obiettivo? Ridurre le grandi questioni internazionali a duelli personali, a tweet, a gesti simbolici, mentre le strutture profonde del controllo proseguono indisturbate, fuori dalla vista?

Ho paura… sì, ma non dei droni. Ho paura del silenzio che accompagna certe verità. Ho paura della facilità con cui accettiamo versioni comode, della fretta con cui demonizziamo chi non controlliamo. E ho paura che, tra provocazioni reali e montate ad arte, tra informazioni e disinformazione, finiremo per perdere la capacità di distinguere, fino a quando non sarà troppo tardi. 

Perché se davvero stiamo andando verso un nuovo conflitto mondiale, non sarà annunciato da cannoni, ma da titoli urlati, da allarmi calibrati, da dubbi soffocati prima ancora di essere formulati…

Droni russi? Ma quando mai… è l’ennesima macchinazione della “NATO”! Sì… per farci credere di avere un nemico che non esiste.


Droni russi? In Polonia? Ma quando mai…

Si tratta dell’ennesima macchinazione orchestrata dalla “NATO” per destabilizzare l’opinione pubblica, plasmare il consenso e indirizzare l’ira collettiva verso un nemico già predefinito!

Già… quante volte ci hanno raccontato una verità che poi si è sgretolata sotto i colpi della realtà, eppure continuiamo a bere dalle stesse fonti, a fidarci degli stessi canali, come se la storia non avesse mai provato a metterci in guardia.

Mi chiedo spesso: chi decide cosa deve arrivare alle nostre orecchie? Chi stabilisce quale versione dei fatti deve prevalere, anche quando le prove sono fragili, contraddittorie o del tutto assenti?

Sembra quasi che esista una regia silenziosa, invisibile, capace di modellare la narrazione globale con la precisione di un orologiaio, mentre noi, spettatori inconsapevoli, annuiamo convinti di sapere la verità.

È difficile non notare come certi eventi siano costruiti ad arte per generare reazioni prevedibili: paura, rabbia, richieste di intervento. E ogni volta, puntualmente, il colpevole ha lo stesso volto, lo stesso accento, lo stesso simbolo sulla bandiera. 

La Russia, negli ultimi anni, è diventata quel fantasma che aleggia su ogni crisi, su ogni incidente internazionale, come se fosse l’unica nazione al mondo capace di agire nell’ombra. Ma davvero crediamo che sia così? O forse ci stanno semplicemente abituando a cercare il male sempre nello stesso luogo, perché così è più facile giustificare le scelte geopolitiche, i riarmi, le alleanze strategiche? 

Quando sento parlare di droni russi abbattuti al confine con paesi NATO, non posso fare a meno di chiedermi: dove sono le prove concrete? Dove sono i dati accessibili, trasparenti, verificabili? Oppure assistiamo di nuovo a una sceneggiata mediatica, utile a tenere alta la tensione e a legittimare ulteriori pressioni?

Pensiamo al passato: quante volte ci hanno portato in guerra con argomentazioni fasulle? Ricordate le armi di distruzione di massa in Iraq? Un castello di bugie costruito su intelligence manipolata, dichiarazioni gonfiate, silenzi compiacenti. Milioni di persone sono morte per una menzogna che oggi nessuno osa più difendere. Eppure, all’epoca, tutti i media ripetevano lo stesso copione, come se fossero collegati allo stesso palcoscenico.

Oppure ricordiamo l’affondamento del Kursk: subito voci su incidenti provocati da sottomarini stranieri, teorie su collisioni con navi NATO. Poi, con il tempo, emerse che si trattava di un incidente interno, ma l’onda emotiva era già partita, e aveva già fatto il suo lavoro: creare sospetto, diffidenza, tensione. Anche in quel caso, la Russia fu dipinta come vittima di aggressioni occidentali, o come responsabile di disastri evitabili, a seconda delle convenienze narrative del momento.

E che dire del sabotaggio del gasdotto Nord Stream? All’inizio, ovviamente, la Russia fu indicata come principale sospettata. Una mossa logica, secondo la narrativa dominante: Putin vendica le sanzioni, colpisce l’Europa nel cuore energetico. Ma poi? Poi sono emerse tracce, analisi, testimonianze che hanno cominciato a puntare altrove. 

Giornalisti liberi e soprattutto coraggiosi, come Seymour Hersh, hanno tirato fuori documenti e fonti che indicavano un intervento diretto della NATO, con la complicità di governi europei. Non sono teorie complottiste, sono ricostruzioni basate su fonti militari e diplomatiche. Eppure, questi racconti sono stati marginalizzati, ridicolizzati, cancellati dai mainstream. Perché? Perché non si adattano alla storia che dev’essere raccontata. Perché smontare il nemico ufficiale significherebbe ammettere che il sistema ha mentito. E questo, evidentemente, non è contemplato.

Mi torna in mente anche la cosiddetta “invasione” della Georgia nel 2008. Fu la Russia a iniziare, dissero. Ma studi successivi, rapporti dell’Unione Europea, testimonianze di esperti neutrali, hanno mostrato che fu Tbilisi a scatenare le ostilità, con il sostegno esplicito di alcuni alleati occidentali.

 Ancora una volta, ecco che la Russia viene dipinta come l’aggressore, mentre in realtà quest’ultima intervenne dopo un attacco a una regione già in conflitto da anni. La stampa mondiale, però, non cambiò mai rotta. Il racconto rimase immutato: Mosca cattiva, Occidente buono. E così si costruiscono i mostri, non con la realtà, ma con la ripetizione costante di una versione dei fatti.

Tutto questo mi porta a un dubbio profondo, che non riesco a scrollarmi di dosso: siamo ancora liberi di pensare, o ci viene soltanto permesso di pensare entro limiti ben precisi? Dietro ogni notizia, dietro ogni emergenza internazionale, sembra esserci una mano che guida, che sceglie chi deve essere colpevolizzato, chi deve essere salvato, chi deve essere temuto. 

E quando questa mano appartiene a un blocco politico-militare come la NATO, che ha interessi economici, strategici e di potere da difendere, diventa ancora più urgente chiedersi: chi controlla la narrazione, controlla il mondo. 

E soprattutto… se continuiamo a credere ciecamente a ciò che ci viene servito ogni sera nei telegiornali, ahimè anche dai nostri governanti, sì… senza mai scavare oltre, senza mai domandarci chi trae vantaggio da quella specifica versione dei fatti, allora saremo sempre marionette, mossi da fili invisibili, applaudendo mentre il puparo cambia scena.

Ecco perché giunto il momento di smettere di guardare solo il palco, e iniziare a fissare l’ombra di chi sta dietro le quinte!!!

Doha e Varsavia: Il prossimo drone cadrà qui? Già… mentre i nostri governanti saranno ancora in TV a parlare!


Ancora una volta il mondo sembra scivolare inesorabilmente verso un baratro a causa di due eventi militari, distanti migliaia di chilometri da noi, ma che dipingono un quadro allarmante e un’escalation globale senza precedenti.
A Doha, il raid israeliano che ha preso di mira i leader di Hamas in territorio qatarino, ha violato ogni norma di sovranità, scatenando condanne internazionali e minacciando di far saltare i fragili negoziati per il cessate il fuoco a Gaza e poche ore dopo, i cieli della Polonia sono stati violati da sciami di droni russi, in quello che Varsavia non esita a definire un atto di aggressione deliberato, spingendo la NATO a invocare l’articolo 4 e a mettere in discussione la sicurezza collettiva di tutto l’Occidente.

Due attacchi, due teatri, con un’unica pericolosa logica: la sfida aperta all’ordine internazionale e il disprezzo per la sovranità degli stati!

Ora, dietro la retorica ufficiale delle cancellerie, si nasconde ahimè una verità scomoda: qualcuno sta deliberatamente alzando la posta in gioco!

Netanyahu si assume la piena responsabilità dell’operazione a Doha, definendola un necessario colpo all’asse del male, mentre il Cremlino liquida le incursioni in Polonia come un tema di cui non è competente, attribuendole a fantomatici errori o a droni ucraini.

Ma è difficile credere che si tratti di semplici coincidenze o calcoli errati. Queste azioni appaiono troppo audaci, troppo provocatorie per non essere dei test ben orchestrati. Test per saggiare la coesione e la reattività dell’Occidente, per verificare fino a dove sia possibile spingersi senza innescare una risposta militare definitiva.

La reazione della comunità internazionale è un coro dissonante di allarme e impotenza; già… da un lato, troviamo leader europei che condannano con fermezza entrambe le violazioni, parlando di inaccettabili violazioni della sovranità e promettendo solidarietà agli alleati colpiti, dall’altro, le parole sembrano vuote, già… di fronte alla necessità di dover procedere con azioni concrete.

Ed in tutto questo le dichiarazioni del Presidente Trump, che definiscono errate le mosse israeliane, ma nel contempo loda l’obiettivo di eliminare Hamas, e si interroga con un criptico messaggio “eccoci qui” sulle violazioni russe, rivelando la profonda ambiguità e le divisioni che paralizzano qualsiasi possibilità di una risposta unitaria e risoluta. Il rischio ovviamente è che questa percezione di divisione e soprattutto di “debolezza”, incoraggi ancor più audaci provocazioni e non mi meraviglierei che anche altri Paesi, come la Cina e la Corea del Nord, non pensino anch’essi di iniziare nuovi conflitti, per espandere i propri territori…

Ciò che emerge con chiarezza è che le tradizionali regole del gioco sono state stravolte: Il concetto di confine nazionale, sacro dopo la Seconda Guerra Mondiale, viene eroso da droni e raid transnazionali.

Le organizzazioni come la NATO e le Nazioni Unite sembrano arrancare nel buio e soprattutto sono costrette a dover reagire a crisi che mettono in discussione il loro stesso ruolo di garanti della sicurezza.

Difatti, il premier polacco Tusk avverte che siamo più vicini a un conflitto aperto di quanto lo siamo stati dalla Seconda Guerra Mondiale, e le sue parole non suonano più come un’allarmistica esagerazione, ma come un lucido e spaventoso avvertimento.

Mi chiedo, con un senso di angoscia crescente, dove sia il limite, sì… Qual è il punto di non ritorno oltre il quale una provocazione calcolata si trasformerà in uno scontro aperto e irreversibile? Ma non solo… cosa guida realmente questa fuga in avanti? È la ricerca di un vantaggio tattico locale, come indebolire Hamas o logorare il sostegno all’Ucraina, o fa parte di una strategia molto più ampia e oscura di ridisegnare con la forza l’ordine globale?

Perché di una cosa ormai sono convinto: le motivazioni ufficiali che ci vengono costantemente proposte, appaiono sempre più come pretesti, vere e proprie maschere che nascondono calcoli di potere più profondi e pericolosi.

Il filo rosso che lega Doha alla Polonia è la percezione che l’era della deterrenza e del rispetto formale della sovranità stia volgendo al termine, già… stiamo entrando in una fase nuova e pericolosa in cui le potenze revisioniste si sentono autorizzate a colpire ovunque, sfidando apertamente le alleanze occidentali e le norme internazionali, contando proprio sulla loro divisione e sulla loro ritrosia ad affrontare un rischio sistemico.

Difatti, il pericolo maggiore non è forse nel contrasto e quindi nell’attacco in sé, ma nella lentezza e nella confusione della risposta, che potrebbe essere interpretata come un assenso implicito o, peggio, come una debolezza da sfruttare…

Alla fine, infatti, ciò che mi terrorizza non è la forza dei nostri avversari, ma la nostra fragilità. Già… la nostra incapacità di leggere queste mosse come parti di un unico, grande disegno destabilizzante e la nostra riluttanza a comprendere che siamo di fronte a una sfida esistenziale per un mondo libero e basato su regole condivise.

Forse, la prossima volta, un drone non cadrà in Polonia ma nel nostro paese, sì… mentre i nostri governanti vengono intervistati e stanno “sterilmente” rispondendo alle domande di quei giornalisti in Tv, evidenziando con le loro risposte, di non aver compreso cosa stia realmente accadendo: vedrete… quanto tutto ciò accadrà, quando quel drone non riuscirà ad essere abbattuto – ma viceversa porterà con sé un carico di distruzione letale – beh… a quel punto, ogni discorso, anche questo mio, sarà di fatto, totalmente inutile.

Il tempo per le riflessioni sta finendo, sostituito dal rombo dei motori e dal sibilo dei missili in cieli che credevamo inviolabili…

Si… siamo al fianco di Kiev, ma solo a parole.

La complessità della vicenda ucraina e del conflitto in corso con la Russia richiede, a mio avviso, un esame obiettivo che vada al di là delle semplici prese di posizione dettate dai convincimenti personali. 

È fondamentale ripensare a quanto è accaduto a partire dal 2014 in quelle regioni che dal Donbass si estendono fino alla penisola di Crimea per comprendere le radici di questa tragedia. 

Certo, il mio auspicio più sincero è che questa guerra possa concludersi nel più breve tempo possibile e che si arrivi a una pace duratura, ma pensare che questo obiettivo possa essere raggiunto solo con le chiacchiere, con l’invio di altro materiale bellico o con l’inasprimento delle sanzioni verso Mosca, mi sembra una strada destinata al fallimento.

Ci troviamo in una situazione paradossale, dove dichiariamo il nostro sostegno a Kiev ma esso sembra fermarsi troppo spesso alle sole parole. Il dibattito infuria, soprattutto quando si parla della possibilità di inviare truppe, un’ipotesi che divide profondamente. 

Le recenti tensioni diplomatiche tra Italia e Francia, nate da commenti giudicati inaccettabili – il ministro e leader leghista intervistato sull’invio di nostre truppe aveva risposto al presidente Macron in dialetto milanese: “a taches al tram, ti metti il caschetto, il giubbetto, il fucile e vai in Ucraina” – a evidenziare quanto sia fragile e litigiosa l’unità europea su questo tema. 

Da una parte c’è chi, come Macron, viene etichettato come guerrafondaio per le sue posizioni, e dall’altra chi rifiuta categoricamente l’idea di vedere soldati italiani coinvolti direttamente, sostenendo che certe dichiarazioni siano solo pericolose bravate. Nel frattempo, le voci e le narrative si moltiplicano creando un groviglio inestricabile. 

Da un lato, la Russia ribadisce la sua versione dei fatti, sostenendo di essere intervenuta per porre fine a una guerra iniziata anni fa contro la popolazione del Donbass e presentandosi come l’unica forza che cerca di fermare il conflitto. Dall’altro, alleati come il Regno Unito riaffermano il loro incrollabile sostegno all’Ucraina, impegnandosi a metterla nella posizione più forte possibile per negoziare una pace giusta. 

E in mezzo a tutto questo, figure come Donald Trump aggiungono ulteriore incertezza, promettendo decisioni drastiche basate su chi verrà ritenuto colpevole, lasciando persino intravedere la possibilità di un disimpegno totale con la cinica considerazione che sia una battaglia che non li riguarda.

Tutto ciò dipinge un quadro confuso e pericoloso, dove le vere motivazioni dietro certe spinte appaiono spesso opache e dove le uniche certezze sono la retorica, gli interessi geopolitici e il rumore assordante delle polemiche. 

Il dubbio principale che rimane è se tutta questa escalation di parole, armi e sanzioni stia veramente avvicinando la pace o se, al contrario, non stia solo alimentando un fuoco che divampa sempre di più, allontanando ogni possibilità di una soluzione reale e duratura.

E non va sottovalutato, in questo già intricato mosaico geopolitico, il ruolo di un attore fondamentale che osserva e manovra con calcolato distacco: la Cina. Il suo silenzio, in questa fase, è assordante e più eloquente di molte dichiarazioni ufficiali. 

Pechino, con la sua imponente forza economica e la sua influenza diplomatica globale, sta attendendo il momento più propizio per intervenire, posizionandosi non semplicemente come mediatore, ma come architetto di un nuovo ordine. È un silenzio strategico, carico di attesa, che prelude a un intervento che avrà un peso decisivo e certamente considerevole nel dettare i termini e le condizioni per quella che speriamo possa essere una soluzione definitiva e duratura a questo conflitto. 

La partita finale, molto probabilmente, non si giocherà solo tra Mosca e Washington o Bruxelles, ma vedrà la Cina seduta al tavolo come potenza egemone, pronta a capitalizzare il tutto per ridisegnare gli equilibri di potere a livello mondiale a proprio vantaggio.

Trump decide per tutti, sia per l’Ue che per l’Italia!

Ho scritto più volte che la politica internazionale, specie quella europea e ancor più quella italiana, conta quanto il due di coppa quando la briscola è a oro.

Vedrete infatti che né la Von der Leyen, né Zelensky, e men che mai i nostri referenti istituzionali (ahimè impreparati…), riusciranno a far sedere russi e ucraini a un tavolo per risolvere questo conflitto.

La ragione, al di là delle cazzate propinate dai Tg, sta in una decisione precisa del Presidente Trump.

Dopo l’incontro con Putin e le critiche ricevute dai leader europei per la loro esclusione dai colloqui in Alaska, egli ha scelto deliberatamente di mettersi da parte.

Sta soprassedendo, osservando con quale goffa inefficacia l’Ue stia gestendo una partita che è troppo grande per lei, sapendo bene che le sue politiche non porteranno a nulla. È solo questione di tempo!

Quando la situazione entrerà in stallo e tutti si piegheranno a supplicarlo, lui, come una prima donna, farà il suo ingresso trionfale per dettare una pace alle sue condizioni, e a quelle di Putin, già ampiamente concordate.

Chi non accetterà questa realtà ne subirà le conseguenze, perché il gioco è già fatto e l’Europa non è stata nemmeno consultata. È chiaro ormai che le decisioni finali non si prenderanno a Bruxelles o a Roma, ma altrove.

Papa Leone XIV, non ripetere gli errori dei tuoi predecessori!

Secondo il sottoscritto, quanto affermato dal rabbino Eliezer Simcha Weisz è corretto, perché non si dovrebbe mai fare differenza tra popolazioni che, purtroppo, oggi soffrono per motivi diversi, ma ugualmente devastanti.
Chi subisce le conseguenze della violenza non può essere diviso in categorie, né tanto meno dimenticato, come sembra aver fatto Papa Leone XIV equiparando le vittime di Gaza a quelle ucraine senza riconoscere le specificità morali e storiche di ciascun conflitto.

Già… questo non può essere il messaggio che ci si aspetterebbe dal “vicario di Cristo”, il quale dovrebbe invece operare con maggiore discernimento, evitando di appiattire realtà complesse in una generica condanna della sofferenza.

Ha perfettamente ragione il rabbino Weisz (membro del Gran Rabbinato d’Israele), quando ha espresso il suo disappunto in una lettera al Papa, sottolineando come l’equiparazione tra le vittime palestinesi e quelle ucraine, senza alcun riferimento agli ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas, abbia ferito profondamente la comunità ebraica: “Tutte le persone che soffrono meritano preghiere, ma non tutte le sofferenze sono causate dalle stesse mani”, ha ribadito Weisz, criticando una narrazione che ignora le responsabilità di Hamas nel conflitto e la legittima difesa di Israele.

Questa non è la prima volta che Weisz contesta le posizioni del Vaticano. Già a gennaio aveva accusato Papa Francesco di alimentare l’antisemitismo moderno attraverso un approccio sbilanciato, equiparando una democrazia come Israele a un’organizzazione terroristica come Hamas. “Avete tracciato una falsa equivalenza morale”, scriveva allora, denunciando una distorsione della realtà che rischia di riaccendere antichi pregiudizi.

Dietro queste dichiarazioni e gli incontri che seguiranno, però, si nasconde una questione più ampia: la spartizione del mondo e dei territori che interessano alle grandi potenze. Il dialogo tra Vaticano e leader religiosi ebraici non è solo una questione teologica, ma un riflesso di dinamiche geopolitiche in cui le sofferenze delle popolazioni diventano meri strumenti di negoziazione.

Quando il Papa incontra rappresentanti del regime iraniano, che apertamente invoca la distruzione di Israele, o quando accoglie presepe con simboli palestinesi, invia messaggi che vanno ben oltre la spiritualità, toccando nervi scoperti della politica internazionale.

Il rischio è che, in questo gioco di equilibri, le vittime reali vengano dimenticate, ridotte a numeri in una contabilità di guerra…

E così, mentre i leader discutono di alleanze e confini, migliaia di civili continuano a morire, e la loro sofferenza viene strumentalizzata per giustificare ulteriore violenza.

Ecco, forse, invece di cercare colpevoli o stabilire gerarchie del dolore, sarebbe più utile chiedersi come fermare tutto questo prima che sia troppo tardi. Ma ho l’impressione che chi oggi potrebbe rappresentare la differenza, costituendo di per sé la parte sana e moralmente giusta, preferisca – come scrivevo alcuni mesi fa nel mio articolo “Il potere di un gesto: da Ponzio Pilato…” link: https://nicola-costanzo.blogspot.com/2025/06/il-potere-di-un-gesto-da-ponzio-pilato.html – proseguire con quelle stesse azioni, sì… con quel lavarsi le mani.

Perché quando il male avanza e i potenti tacciono, non è mai per ignoranza. È per calcolo. E la storia, purtroppo, ci insegna che questo calcolo lo pagano sempre gli innocenti!

Urlavano sovranità, ora obbediscono agli USA. La Spagna no!

Già… prima delle elezioni, la coalizione urlava alla Sovranità! Ora, gli stessi che sono saliti al Governo, evidenziano comportamenti lacchè agli Usa! Sì… a differenza della Spagna, che – con i fatti – dimostra essere autonoma!

Difatti, la Spagna ha scelto di dire “no” agli F-35 statunitensi, e lo ha fatto con una motivazione che suona come un manifesto di sovranità. “Questione di principi”, ha dichiarato il ministero della Difesa, preferendo puntare su opzioni europee come l’Eurofighter e il Future Combat Air System.
Non è solo una scelta tecnica, ma politica, un segnale chiaro di indipendenza da Washington, soprattutto in un momento in cui gli Stati Uniti, sotto la guida di Trump, impongono alla NATO di alzare la spesa militare al 5% del Pil e minacciano dazi commerciali. Madrid non ci sta, e mentre altri Paesi – come ad esempio il nostro – si piegano, la Spagna dimostra di avere una schiena più dritta.

Il governo Sánchez ha approvato con riluttanza un aumento della spesa militare, ma solo fino al 2% del Pil, ben lontano dalle richieste americane. Una decisione che non è piaciuta a Trump, il quale ha risposto con minacce di ritorsioni economiche. Eppure, la Spagna non ha abbassato la testa, anzi, ha ribadito la sua volontà di ridurre la dipendenza dagli USA, anche in campo tecnologico, come dimostra la scelta di affidare a Huawei l’archivio delle intercettazioni giudiziarie. Un altro tassello di una strategia chiara: difendere la propria autonomia decisionale.

Certo, lo Stato maggiore spagnolo non nasconde le preoccupazioni. Senza gli F-35, la sostituzione degli Harrier AV8B entro il 2030 diventa un rompicapo. Le alternative europee sono ancora lontane dall’essere operative, e l’unica soluzione immediata sarebbe proprio il caccia americano. Ma Madrid sembra disposta ad accettare questo rischio pur di non sottostare alle pressioni di Washington. Il messaggio è chiaro: meglio una flotta aerea meno avanzata oggi che rinunciare alla propria sovranità domani.

Lockheed Martin ha provato a giocare la carta europea, sottolineando che gli F-35 sono assemblati in Italia, ma non è bastato. Per la Spagna, il problema non è la provenienza geografica del velivolo, ma la dipendenza strategica dagli USA.

E dopo le ultime uscite di Trump, che ha minacciato di far pagare il doppio a chi non si allinea, la posizione di Madrid appare ancora più significativa. E così… mentre altri governi cedono, la Spagna dimostra che esiste ancora un modo per resistere alle logiche del ricatto.

Ed allora – vorrei chiedere a tutti quei burattini che si presentano ogni giorno in Tv a raccontarci (quanto imparato a memoria), quasi fossero “pappagalli” o come li definiva la Fallaci “Cicale”: siamo stanchi di vedere quei vostri visi, ma soprattutto ci siamo rotti le palle di ascoltare – in una televisione nazionale – le solite caz…

Urlavano sovranità, ora obbediscono agli USA!

Netanyahu e il piano silenzioso: da Gaza alla Cisgiordania, l’ombra dell’annessione!

Da tempo il sottoscritto anticipava che il governo Netanyahu avrebbe trasformato la risposta all’Operazione Diluvio (al-Aqṣā) in un’occasione per riprendersi Gaza, e oggi quelle ipotesi stanno diventano realtà.

La decisione del gabinetto di sicurezza israeliano di approvare l’occupazione di Gaza City non è che l’inizio di un disegno più ampio, quello che – sempre secondo il sottoscritto – porterà, tra qualche anno, a estendere il controllo anche sulla Cisgiordania.
Il piano, approvato dopo dieci ore di discussioni accese, prevede lo smantellamento definitivo di Hamas, ma anche qualcosa di più profondo: la rimozione di ogni autonomia palestinese nella Striscia. L’IDF si prepara a entrare in Gaza City, un’area finora evitata, evacuando circa un milione di persone verso i campi profughi centrali, mentre i terroristi rimasti verranno assediati e neutralizzati.

Abbiamo visto come il capo di stato maggiore, abbia tentato di opporsi, sostenendo l’impossibilità di garantire una risposta umanitaria a uno spostamento così massiccio, ma la sua voce alla fine è rimasta inascoltata. Netanyahu e il ministro della Difesa Israel Katz hanno viceversa spinto per un’azione decisa, fissando simbolicamente la scadenza delle operazioni al 7 ottobre 2025, secondo anniversario del massacro.

I cinque principi approvati dal gabinetto non lasciano spazio a interpretazioni: fine dell’arsenale di Hamas, ritorno degli ostaggi (vivi o morti), smilitarizzazione di Gaza, controllo israeliano sulla sicurezza e un’amministrazione civile alternativa, che escluda tanto Hamas quanto l’Autorità Palestinese.

Tutto ciò conferma ciò che già avevo a suo tempo riportato: la risposta israeliana al 7 ottobre non si limiterà alla vendetta, ma sarà l’occasione per ridisegnare i confini del potere nella regione e Gaza è soltanto il primo passo!

Verso una seconda “Nakba”? Il destino ineluttabile di Gaza…

Faccio seguito a quanto scritto ieri, puntualizzando i motivi che potrebbero portare in questi anni al totale esodo del popolo palestinese dalla Striscia di Gaza e, in seguito, dalla Cisgiordania, oltre alla fine del gruppo militare Hamas. 

La mia opinione è che si stia preparando un’operazione militare congiunta tra Stati Uniti e Israele, ufficialmente presentata come un’azione per liberare gli ostaggi israeliani ancora detenuti, ma con l’obiettivo più ampio di annientare definitivamente Hamas e svuotare quel territorio, forse per trasformarlo, come dichiarato da Trump tempo fa, in un luogo di villeggiatura.

Questa riflessione trova conferma in fonti ben informate che riferiscono come Hamas abbia già iniziato ad adottare misure drastiche per impedire qualsiasi infiltrazione israeliana nei luoghi dove sono nascosti gli ostaggi, vivi o morti che siano. Ogni movimento sospetto viene monitorato, e chiunque cerchi di individuare quei nascondigli viene considerato una spia al servizio di Israele. 

L’ordine è chiaro: giustiziare immediatamente chiunque si avvicini senza autorizzazione e, nel caso in cui le forze israeliane riescano a localizzare i prigionieri, ucciderli prima che possano essere liberati.

Dopo una temporanea sospensione di queste direttive durante la tregua dello scorso gennaio, ora sono state ripristinate con ancora maggiore severità. Hamas ha ribadito ai suoi membri che, in caso di estrema necessità, gli ostaggi dovranno essere eliminati. Israele, dal canto suo, ha avvertito che se non ci sarà una liberazione immediata, la situazione potrebbe degenerare rapidamente, lasciando spazio solo alla forza bruta e non più alla diplomazia.

Trump, intanto, spinge per una linea dura: niente tregua con Hamas. Gli Stati Uniti hanno dichiarato che il gruppo non ha mostrato alcuna reale volontà di raggiungere un accordo, nonostante i ripetuti tentativi di mediazione, e che agisce in modo incoerente e senza buona fede. Di conseguenza, stanno valutando opzioni alternative per riportare a casa gli ostaggi, probabilmente attraverso un’escalation militare.

Il governo israeliano, invece, sembra ancora credere che Hamas sia interessato a un negoziato, ma sta giocando una partita al rialzo, chiedendo condizioni che Netanyahu ha definito “irrealistiche“. Questo atteggiamento ha creato tensioni persino all’interno della Striscia di Gaza, dove alcune fazioni più pragmatiche vorrebbero accelerare un accordo, mentre altre rifiutano qualsiasi compromesso.

Purtroppo, tutto questo non fa che avvicinare lo scenario che temo da tempo: una distruzione totale di Hamas, sì, ma al prezzo di un nuovo esodo forzato della popolazione palestinese, già stremata da anni di conflitto e ora sull’orlo della carestia. 

La comunità internazionale continua a discutere, ma le parole non bastano più. Senza un intervento concreto, ciò che resta di Gaza rischia di diventare solo un altro capitolo nella lunga storia di sofferenza di questo territorio.

La strana alleanza del Medio Oriente: quando nemici storici si uniscono (e la Bibbia lo aveva previsto).

La Turchia si trova oggi al centro di un intricato scenario mediorientale, dove le tensioni geopolitiche sembrano ripercorrere antiche profezie…
Il ministro degli Esteri turco Hakan Fidan ha lanciato un monito chiaro: qualsiasi tentativo di dividere la Siria verrà interpretato come una minaccia diretta alla sicurezza nazionale turca.

Questo avvertimento risuona come un’eco lontana delle parole di Ezechiele, che oltre 2500 anni fa predisse un’alleanza improbabile tra Russia, Iran e Turchia contro Israele.

Oggi, quelle stesse nazioni, storicamente divise da conflitti religiosi e politici, si ritrovano stranamente unite nel teatro siriano.

Israele, accusato da Ankara di fomentare la divisione in Siria, ha intensificato i suoi attacchi nella provincia di Sweida, colpendo obiettivi militari siriani sotto il pretesto di proteggere la comunità drusa. Questi sviluppi hanno scatenato proteste nelle alture del Golan occupato, dove i manifestanti chiedono le dimissioni del governatore siriano Abu Muhammad al-Jolani.

E così… mentre le tensioni sembrano autoalimentarsi, un drone israeliano ha preso di mira un convoglio di tribù siriane, lasciando morti e feriti. Nel contempo, le forze democratiche siriane, si rifiutano di consegnare le armi a Damasco, sostenendo che un accordo costituzionale sia l’unica via per integrare i curdi nell’esercito siriano.

Ma cosa unisce davvero Turchia, Russia e Iran in questa crisi? La risposta andrebbe ricercata nelle loro economie. Già… mentre il mondo vive un boom economico, questi tre paesi lottano contro sanzioni, inflazione e instabilità interna. L’Iran, con il riyal crollato dopo l’attacco d’Israele e Usa, vede i cittadini riversarsi sull’oro come ultimo rifugio. La Russia, minacciata dai giacimenti di gas israeliani nel Mediterraneo, teme di perdere il monopolio energetico in Europa. Ed infine la Turchia con Erdogan che si erge a mediatore tra Mosca e Kiev, cerca disperatamente di consolidare la sua influenza regionale.

Ezechiele descrisse una guerra scatenata dall’avidità di nazioni in crisi, pronte a saccheggiare le ricchezze di Israele. Oggi, la Siria sta diventando il campo di prova di quella profezia.

Nel frattempo Baku ha ospitato colloqui segreti tra funzionari siriani e israeliani, mentre le forze affiliate al governo di Jolani sono accusate del massacro di 1.426 alawiti. Il quadro è fosco, eppure sembra seguire un copione già scritto. La domanda che sorge spontanea è: stiamo assistendo all’inverarsi di una profezia biblica, o è solo una sinistra coincidenza dettata da calcoli politici ed economici?

La Turchia, sunnita, e l’Iran, sciita, hanno combattuto per secoli, eppure oggi condividono un nemico comune. La Russia, storicamente in conflitto con entrambe, ora le affianca in Siria. Israele, con le sue scoperte di gas e le sue ambizioni regionali, diventa il bersaglio perfetto per nazioni affamate di risorse.

Forse la vera profezia non è nella guerra, ma nella disperazione economica che spinge vecchi rivali a unirsi. Speriamo solo che il futuro riservi una pagina diversa da quella scritta millenni fa…

GAZA: Fermatevi ora, prima che sia troppo tardi!

Stasera mi ritrovo a scrivere, ancora una volta, con il cuore stretto e la mente affollata di domande senza risposta.
Quante volte abbiamo ripetuto le stesse parole, denunciato le stesse atrocità, invocato la stessa pace?

Eppure, nella Striscia di Gaza, il tempo sembra essersi fermato in un limbo di sofferenza, dove il fragore delle bombe sovrasta il grido dei civili, dove l’umanità vacilla sotto il peso di un conflitto che nessuno riesce – o vuole – fermare.

Scrivo non per abitudine, ma per dovere. Perché il silenzio è complice, e l’indifferenza è una ferita ancora più profonda. Gaza non è solo una notizia di sfondo, un titolo da scorrere distrattamente: è una tragedia che si consuma da anni, davanti agli occhi del mondo, mentre la comunità internazionale brancola tra inezie diplomatiche e ipocrisie.

Le immagini si ripetono, sempre uguali, sempre più insopportabili. Corpi senza vita riversi per terra, donne che urlano il dolore di una perdita che non riescono nemmeno a comprendere appieno, uomini che scavano tra le macerie con le mani a pezzi, sperando di trovare un respiro, un segno, una vita da salvare. Gaza piange, muore, si spezza ogni giorno di più, eppure il mondo sembra incapace di reagire. Si discute, si accusa, si cerca una colpa da attribuire, come se in mezzo a tutto questo dolore ci fosse ancora spazio per la giustizia delle parole. Ma non c’è nessun conflitto, non nel senso che conosciamo. C’è una carneficina annunciata, una strage quotidiana che non lascia scampo.

Ogni giorno si contano nuove vittime, sempre più giovani, sempre più innocenti. Trenta persone uccise mentre aspettavano di ricevere un po’ di cibo. Due ragazzi colpiti da un drone mentre cercavano di recuperare medicine per un fratello malato. Altri cinquanta domani, forse schiacciati sotto il peso delle bombe, forse spenti dalla fame che avanza silenziosa e crudele. I numeri non raccontano più la guerra, raccontano solo la fine di vite che non hanno avuto il tempo di iniziare. Gaza non è un campo di battaglia, è un cimitero a cielo aperto, dove i bambini imparano a conoscere il suono delle esplosioni prima di quello delle risate.

Eppure c’è ancora chi parla di guerra necessaria, di obiettivi strategici, di difesa. Ma di quale difesa si parla, quando intere famiglie vengono cancellate in un attimo? Chi difende quei corpi senza sepoltura, chi protegge le madri che non hanno più figli da abbracciare?

Il popolo palestinese non è né Hamas né un esercito in guerra, è gente comune, uomini, donne, bambini che vivono intrappolati tra due fuochi, costretti a subire senza poter scegliere. Sono vittime, non complici. Sono prigionieri, non ostaggi volontari. Sono esseri umani che ogni mattina si svegliano chiedendosi se quel giorno rivedranno il sole o saranno solo un altro numero in una lista infinita.

E noi, da lontano, ci permettiamo il lusso dell’indignazione a scaglie, a intermittenza. Un post, un commento, un momento di silenzio sui social, e poi si volta pagina. Intanto, nelle stanze dei potenti, si continua a negoziare, a stringere accordi, a fare finta che questa tragedia non riguardi nessuno. Ma riguarda tutti. Perché ogni volta che si decide che certe vite valgono meno delle altre, si apre una crepa nell’umanità intera. E quando oggi è Gaza, domani potrebbe essere un’altra città, un altro popolo, un’altra strage mascherata da necessità.

Basta con le parole vuote, con le condanne che restano sulla carta. Basta con le finte mediazioni che non portano a nulla. Gaza ha bisogno di qualcuno che alzi la voce e non la abbassi più, che smetta di parlare per iniziare ad agire. Ha bisogno che qualcuno abbia il coraggio di dire basta, subito.

Perché ogni minuto che passa è un altro bambino che muore, ogni vita spezzata, ogni bambino che non rivedrà il cielo, ogni famiglia cancellata dall’orrore, chiedono giustizia. E allora continueremo a parlare, a condividere, a urlare questa verità scomoda, finché qualcosa non cambierà. Perché dietro ai numeri e alle statistiche ci sono volti, storie, un popolo che resiste nonostante tutto.

E il loro sangue non è solo sulle mani di chi preme il grilletto, ma anche su quelle di chi continua a guardare e a tacere. Non possiamo permettere che Gaza diventi un simbolo dell’oblio. La sua voce deve riecheggiare più forte dell’odio. E la nostra coscienza, collettiva e individuale, non può dormire!

SIRIA: Una crisi che nessuno sa più come fermare…

La situazione in Siria continua a essere estremamente fragile, con una tensione che si è fatta – negli ultimi giorni – sempre più palpabile.

Le forze governative guidate dal presidente Ahmad Ḥusayn al-Sharaa si trovano sotto pressione, non solo per il crescente malcontento interno, ma anche per le pressioni esterne che temono un rapido peggioramento della crisi.

Israele ha infatti intensificato i suoi attacchi aerei, dichiarando di voler impedire una presunta “uccisione di massa” di drusi da parte delle forze leali al governo siriano.

Questo intervento, seppur motivato da una presunta difesa dei diritti umani, ha ulteriormente destabilizzato una regione già scossa da scontri violenti tra fazioni armate, tribù beduine e comunità druse, soprattutto nella provincia meridionale di Sweida. .

Le violenze registrate nelle ultime settimane hanno messo a dura prova la capacità del governo di al-Sharaa di mantenere il controllo su tutto il territorio nazionale. Il presidente aveva promesso di proteggere le minoranze settarie del Paese, ma gli eventi sembrano andare nella direzione opposta.

Dopo le uccisioni di massa di alawiti a marzo, ora sono i drusi a subire gravi violenze, alimentando timori di una spirale di vendette settarie. Nonostante le dichiarazioni ufficiali che ribadiscono l’impegno per l’unità nazionale, molti osservatori internazionali avanzano dubbi sulla reale volontà o capacità del governo di evitare una frammentazione del Paese.

L’ex ministro israeliano della Difesa, Ehud Barak, ha espresso apertamente le sue preoccupazioni in un’intervista a Beirut, sottolineando come il governo di al-Sharaa debba urgentemente rivedere il proprio approccio. Secondo Barak, solo un governo più inclusivo e veloce nell’integrare le minoranze potrà evitare il collasso istituzionale.

Ha anche sottolineato come al-Sharaa debba “maturare” e comprendere che il suo attuale stile di governo non è sostenibile. Le pressioni esterne si fanno sempre più forti: gli Stati Uniti, attraverso il loro inviato speciale Tom Barrack, hanno esortato il presidente a riconsiderare le sue politiche, avvertendo che un’eventuale frammentazione del Paese potrebbe portare alla perdita del sostegno internazionale.

Il ministro dell’Informazione siriano ha cercato di rassicurare l’opinione pubblica, dichiarando che l’unità geografica della Siria non è in discussione e respingendo le accuse secondo cui le forze governative sarebbero responsabili di crimini contro i civili drusi.

Ha suggerito che alcuni video circolati sui social network potrebbero essere stati manipolati e ha ipotizzato che alcuni attacchi fossero stati effettuati da militanti dell’ISIS travestiti da soldati governativi. Ha anche sottolineato che le forze siriane non sono entrate a Sweida, in quanto avevano accordi con Israele per evitare ulteriori escalation. Tuttavia, queste dichiarazioni sembrano non aver convinto né l’opinione pubblica né la comunità internazionale. .

Il cessate il fuoco mediato dagli Stati Uniti la scorsa settimana ha posto fine agli scontri più violenti, ma la situazione rimane instabile. Al-Sharaa, nel suo discorso televisivo, ha dichiarato che l’intervento israeliano ha spinto il Paese verso una fase estremamente pericolosa.

Israele di contro, per come abbiamo potuto vedere nei vari Tg, ha colpito diversi obiettivi strategici tra cui il quartier generale del ministero della Difesa a Damasco, giustificando le azioni come parte della sua missione di proteggere i drusi, una comunità che gode di uno status particolare all’interno dello Stato ebraico. Comprenderete come, questo coinvolgimento diretto di una potenza straniera ha aggiunto una ulteriore complessità ad una crisi già di suo intricata. .

Il rischio concreto è che la situazione in Siria possa inasprirsi, con conseguenze imprevedibili per l’intera regione. D’altronde la mancanza di un piano di successione, l’instabilità interna e le pressioni esterne, rendono il futuro del Paese estremamente incerto.

Gli Stati Uniti e altri attori internazionali stanno cercando di contenere il caos, ma senza un reale impegno da parte del governo siriano a riformarsi e a includere tutte le componenti della società, il rischio di una guerra civile resta alto.

Ma forse, la vera domanda non è tanto chi governerà la Siria, ma se quel Paese potrà ancora essere governato…

Dai roghi di Alessandria ai missili di oggi: la cultura sempre sotto attacco.

Si racconta che Hitler abbia ordinato di risparmiare Oxford dai bombardamenti, forse per il suo valore come faro di conoscenza, forse perché sognava di farne il cuore del suo dominio europeo.
Quel che è certo è che, in quell’occasione, la guerra sembrò inchinarsi, seppur per un momento, davanti al peso sacro della cultura.

Oggi, invece, i missili non distinguono più tra caserme e biblioteche, tra soldati e studenti, tra laboratori e trincee. Volano ciechi, distruggono senza guardare, e quando colpiscono, è sempre la civiltà a perdere.

Proprio come Oxford, il “Weizmann Institute of Science di Rehovot” era un tempio del sapere, un luogo dove menti brillanti lavoravano alla frontiera della scienza: matematica, fisica, biologia, intelligenza artificiale.

Ma in questa guerra, nessun sapere è innocente. Le stesse scoperte che avrebbero potuto curare malattie o esplorare le stelle sono state piegate alla logica delle armi, trasformate in droni, laser, sistemi di difesa. E così, quando l’Iran ha risposto agli attacchi israeliani, ha preso di mira proprio quel simbolo, perché oggi la cultura non si protegge più, si usa come bersaglio.

Pochi ne hanno parlato. Le immagini dei danni sono svanite nel silenzio dei governi, come se la distruzione di un centro di ricerca fosse un dettaglio trascurabile, un effetto collaterale accettabile. Eppure, ogni volta che un missile cade su una biblioteca, un museo, un’università, è l’umanità intera a perdere qualcosa. Non solo muri e libri, ma secoli di progresso, di domande, di scoperte.

Forse è questo il paradosso più amaro: in un’epoca in cui la conoscenza è più accessibile che mai, continuiamo a bruciarla!

Già… siamo tornati ai tempi in cui il sapere era merce rara, custodita da pochi, negata ai molti. Solo che oggi non servono roghi o editti, basta un missile. E mentre le macerie fumano, ci illudiamo ancora di stare combattendo una guerra, quando in realtà stiamo solo scavando la nostra ignoranza!

SIRIA: Medio Oriente in fiamme: il conflitto si espande, mentre la tregua resta un’illusione.

Per il secondo giorno consecutivo, i cieli di Sweida sono solcati da droni israeliani, mentre la cittadina siriana brucia ancora tra gli scontri tra drusi, beduini e forze governative.

Le dichiarazioni ufficiali parlano di “monitoraggio” e “preparazione a diversi scenari”, ma intanto i raid non si fermano, e il bilancio delle vittime cresce senza sosta.

E così, mentre dodici paesi annunciano un embargo sulle armi, segnando una svolta nella pressione internazionale, l’esercito siriano inizia a ritirarsi da Suweida.

Ma è una tregua fragile, interrotta dal boato degli attacchi israeliani a Damasco, che come abbiamo visto ieri, hanno colpito persino il palazzo presidenziale.

Sono oltre duecentocinquanta i morti in pochi giorni, e il confine tra Israele e Siria è diventato un caos di profughi e miliziani, con drusi che attraversano in entrambe le direzioni, disperati.

Le condanne si moltiplicano, dall’Iran all’Unione Europea, mentre gli Stati Uniti cercano di mediare una de-escalation che sembra essere sempre più lontana.

A Sweida, i leader drusi negano qualsiasi accordo con il governo, e la violenza continua a mietere vittime. Si parla di oltre trecento morti, in una spirale di odio settario che nessun cessate il fuoco riesce a fermare.

Ed allora Israele ha iniziato a spostare una parte delle sue truppe dislocate su Gaza verso il confine siriano, rafforzando così la propria presenza militare mentre i missili continuano a colpire obiettivi strategici.

“Non attraversate il confine”, avvertono le autorità israeliane ai drusi, ma come potete immaginare, la disperazione è più forte degli ordini. Intanto, l’Ue chiede il rispetto della sovranità siriana, ma le parole sembrano vuote, già… gettate al vento, mentre le immagini di distruzione che arrivano da Sweida e Damasco sono concrete.

Niente si placa e ancor meno si ferma.

Il conflitto che il Presidente Trump aveva annunciato come agli sgoccioli, si sta viceversa ( per come avevo anticipato) sempre di più estendendo, coinvolgendo nuovi territori, nuove comunità e ahimè nuove vittime.

E così mentre tutti i leader parlano di “pace”, di “transizione”, di “soluzioni”, il Medio Oriente brucia, ancora una volta, senza vederne più la fine…

Il conflitto in Medio Oriente: tutto si riduce a uno scambio di prigionieri?

Osservando quanto sta accadendo in questi giorni – dopo l’accordo di cessate il fuoco tra Israele e Hamas del 19 gennaio – ho ripensato ai quindici mesi di conflitto in quel territorio. 

Migliaia di civili uccisi, tra cui donne e bambini, la Striscia di Gaza ridotta a un cumulo di macerie, una devastazione totale. 

Mi chiedo: a cosa è servito tutto questo? Qual era, fin dall’inizio, il vero obiettivo di Hamas? Liberare i propri ostaggi (e forse alcuni familiari), sacrificando la popolazione civile?

Questa mattina Hamas ha rilasciato altri due ostaggi israeliani, con il previsto rilascio di un terzo nelle prossime ore: un cittadino con doppia cittadinanza, israeliana e statunitense. In cambio, Israele dovrebbe liberare 183 prigionieri palestinesi. Secondo Hamas, tra questi 18 stanno scontando l’ergastolo mentre 54 hanno condanne a lungo termine; i restanti sono abitanti di Gaza arrestati dopo l’attacco del 7 ottobre 2023.

I tre ostaggi liberati oggi – Bibas, Kalderon e Siegel – sono civili imparentati con altre persone sequestrate in quel tragico giorno. La moglie di Siegel e i figli di Kalderon erano stati liberati durante la breve tregua di novembre 2023. La vicenda della famiglia Bibas, invece, è ancora più drammatica: Yarden Bibas è il padre di Kfir e Ariel, due bambini di nove mesi e quattro anni al momento del rapimento, e marito di Shiri Bibas.

Hamas sostiene che i tre siano stati uccisi in un bombardamento israeliano nel 2023, ma Israele non ha conferme in merito. Secondo i termini dell’accordo, se fossero stati vivi sarebbero dovuti essere rilasciati prima degli uomini, cosa che non è avvenuta. La restituzione dei corpi degli ostaggi morti in prigionia è prevista nelle fasi successive del cessate il fuoco.

Questa volta il rilascio è stato meno caotico rispetto ai precedenti, quando gli ostaggi venivano liberati in mezzo a folle di palestinesi accorsi ad assistere alla scena, creando calche che rallentavano il trasferimento.

Ancora una volta sorge una domanda: la vera battaglia non dovrebbe essere per risolvere i problemi della società civile? Per trovare un modo pacifico di convivere con Israele, per costruire uno Stato Palestinese riconosciuto a livello internazionale? Per adottare processi che portino a una società più democratica e meno armata?

No, nulla di tutto questo. Il bilancio è solo quello di oltre 45.000 vittime civili, trasformate in scudi umani e carne da macello per gli interessi di un gruppo militare che si fa portavoce della liberazione di un popolo, ma che in realtà persegue solo il potere e la liberazione di alcuni suoi affiliati.

Quindici mesi di conflitto che hanno infiammato tutto il Medio Oriente: dal pogrom all’invasione di Gaza, dagli attacchi dei ribelli yemeniti alla crisi in Siria. Ma per cosa, esattamente?

Già…il dramma di Gaza: vite sacrificate per uno scambio di prigionieri…

La memoria tradita: dalla Shoah alla Nakba.

Riprendo nuovamente il tema principale, che ieri avevo momentaneamente sospeso per chiarire alcuni concetti a cui tenevo… 

Torno dunque alla comparazione che, nell’ultimo anno e fino a oggi, si è voluto tracciare tra le esperienze terribili vissute da ebrei e palestinesi in momenti diversi della storia.

In questi mesi, molti si sono posti una domanda: com’è possibile che Israele, in quanto Stato ebraico, possa oggi commettere i crimini che vediamo in televisione ai danni di una parte dei palestinesi, quelli di Gaza? Certamente, si tratta di coercizioni non paragonabili a quelle perpetrate dai carnefici nazisti, ma comunque gravissime dal punto di vista morale e umano.

La verità è che si è cercato di dimenticare in fretta una guerra mostruosa e, soprattutto, un “olocausto” che non sarebbe mai dovuto esistere. La memoria avrebbe dovuto impedirne la ripetizione, eppure il desiderio di ricostruire l’Europa e di pacificare gli Stati coinvolti nel conflitto ha portato a relegare il passato in un angolo. Si doveva dare speranza e un futuro ai profughi ebrei sopravvissuti alla Shoah, ma questo ha generato una conflittualità irrisolta.

La pace doveva fondarsi sulla comprensione della guerra e sull’accettazione dei suoi orrori, ma in questo processo la memoria ha lasciato spazio all’oblio. La massima sottintesa è diventata: «Ricordati di dimenticare la guerra e i suoi olocausti. La guerra è un mostro che non deve svegliarsi, non guardarla».

L’aver osservato in Tv la “Cerimonia di commemorazione dell’80° anniversario della liberazione del campo di concentramento e di sterminio di Auschwitz-Birkenau“, alla presenza di sopravvissuti e di numerosi Capi di Stato e di Governo, mi ha dato più l’impressione di voler allontanare e nascondere il delitto, piuttosto che far penetrare lo sguardo nella matrice profonda del crimine.

La verità è che l’Occidente ha goduto di una lunga pace non perché abbia realmente compreso le due guerre mondiali e la Shoah, ma per semplice paura, per una distensione meccanica seguita al trauma.

Ciò che accade oggi a Gaza non è altro che il proseguimento di una storia già vista. Gli anni della Nakba sono un passaggio di testimone che, pur senza la sistematica pianificazione dello sterminio, prosegue sotto una forma celata di pulizia etnica, mascherata da una presunta civiltà.

Basta osservare come, anche nel nostro Paese, l’attuale governo di destra abbia cercato di liquidare il Fascismo e il Nazismo come “malattie inspiegabili“, catastrofi naturali spuntate dal nulla, macchiando così il candido volto della nostra civiltà.

Questo sistema internazionale di pacificazione, costruito sulle rovine della Seconda guerra mondiale, ha paradossalmente generato una nuova era di democrazia e diritti, mentre riproduce ancora una volta lo sfruttamento e legittima l’oppressione coloniale. In questo contesto, la Nakba viene avallata, e al Sionismo viene garantito riconoscimento politico e impunità, in un territorio che non gli apparteneva.

Invece di trovare una soluzione pacifica e giusta per entrambi i popoli, che permettesse di far valere le proprie ragioni e di convivere, si è preferito imporre condizioni che, in questi 80 anni, hanno dimostrato di non portare alcun cambiamento. Il conflitto continua, e la storia si ripete.

Dal silenzio del passato all’azione nel presente

Sento in questi mesi paragonare il genocidio della Shoah all’attuale questione palestinese.

Perdonatemi, ma chiunque possieda una mente libera e quindi incondizionata non potrà – leggendo le prossime righe – giungere alle mie stesse riflessioni.

Pensare anche soltanto di paragonare la “soluzione finale” – lo sterminio sistematico e premeditato degli Ebrei in tutta Europa, perpetrato da menti malate naziste – è profondamente sbagliato. Un crimine, per come è stato progettato e perpetrato, disumano, che non colpì solo gli Ebrei, ma anche Rom, persone con disabilità, oppositori politici, scrittori, omosessuali e tanti altri considerati “indesiderabili”. Una ferita indelebile nella storia dell’umanità, un abisso morale da cui non ci siamo mai completamente risollevati e che ha segnato per sempre la nostra coscienza collettiva.

Ciò che accadde allora non può né deve mai essere giustificato. E il solo pensiero di paragonare quella tragedia alla questione palestinese è, a mio avviso, inappropriato.

Sebbene ciò che sta accadendo in questi mesi in Palestina possa essere definito una strage di innocenti, e in alcuni casi un crimine contro l’umanità, trovo pericolosi i parallelismi tra Nakba e Shoah che proprio alcuni illustri storici vorrebbero in queste ore riproporre.

Premesso che ogni violenza, specialmente contro donne e bambini, è sempre abominevole, tuttavia, non si possono mettere sullo stesso piano due tragedie di natura e contesto così diversi. Questo non significa negare la gravità di quanto sta accadendo oggi, ma è essenziale mantenere un linguaggio preciso e rispettoso della storia.

Voglio sottolineare che il mio intento non è sminuire l’una tragedia rispetto all’altra. Entrambe meritano attenzione: la Shoah per l’eredità storica e morale che ci ha lasciato, e la questione palestinese per l’urgenza di una soluzione che tuteli i diritti umani di tutte le persone coinvolte.

Ciò che invece lascia perplessi è l’uso politico della Shoah contro i palestinesi, quando è storicamente noto che quest’ultimi non hanno avuto alcun ruolo in quella tragedia. Non furono responsabili dell’antisemitismo né del Nazismo, eppure oggi si trovano a subire un’oppressione sistematica da parte di chi, più di ogni altro, dovrebbe conoscere il valore del rispetto per la vita umana.

Perché, allora, non imparare dal passato? Sì… diversamente da 80 anni fa, quando si preferì tacere, è nostro dovere intervenire con urgenza per trovare una soluzione, giusta e definitiva, per il popolo palestinese.

FINE PRIMA PARTE 

Riflessioni e perplessità sulle parole di Papa Francesco.

Forse è tempo che il Papa consideri il ritiro, come già fatto dal suo predecessore Ratzinger, anche se per ragioni diverse, probabilmente legate a circostanze poco chiare accadute durante il suo pontificato.

Già… ho l’impressione che ogni volta che Papa Francesco venga intervistato senza l’ausilio di note preparate, tenda a lasciarsi andare a dichiarazioni che sorprendono o lasciano interdetti molti di noi.

Credo che queste sue affermazioni siano influenzate da una condizione psico-fisica in declino, comune a molti della sua età, che lo porta ad esprimere il proprio pensiero in modo eccessivamente aperto. Questo si manifesta particolarmente in commenti fortemente critici e talvolta troppo schierati.

Un aspetto cruciale è che le sue parole non rappresentano il pensiero di un comune cittadino, bensì quello della massima autorità religiosa cristiana, con una responsabilità verso oltre 2,3 miliardi di fedeli. Ogni dichiarazione dovrebbe essere ponderata con estrema attenzione, per evitare interpretazioni gravi e conseguenze irreversibili.

Un esempio significativo è rappresentato dalle sue recenti dichiarazioni durante un incontro con un accademico iraniano. Sebbene siano state in seguito chiarite come riferite alle politiche del premier israeliano Netanyahu e non agli ebrei o allo Stato di Israele in generale, le sue parole hanno suscitato ampie critiche. Questo ha portato a contestazioni per il modo in cui ha affrontato il tema del massacro a Gaza.

Se è vero che il Papa ha diritto di esprimere il suo pensiero, non può farlo in modo da coinvolgere l’intera comunità cristiana. Criticare apertamente il mondo ebraico, Israele o il premier Netanyahu per presunti comportamenti criminali legati all’alto numero di vittime civili a Gaza è una scelta inopportuna. Non è compito del Papa assumere il ruolo di giudice del Tribunale del diritto internazionale.

Non è la prima volta che Francesco prende posizione sulla guerra tra Israele e Hamas, iniziata dopo il terribile attentato terroristico del 7 ottobre 2023. Le sue dichiarazioni, come l’invito a valutare se quanto accade nella Striscia possa essere definito “genocidio”, hanno scatenato reazioni dure, tra cui quelle dell’ambasciata israeliana presso la Santa Sede. La posizione ufficiale del Vaticano, ribadita dal segretario di Stato cardinale Pietro Parolin, è stata di condanna dell’antisemitismo, ma il dibattito resta acceso.

Poco prima di Natale, il Papa ha sottolineato la crudeltà dei bombardamenti che colpiscono anche i bambini, definendo tali azioni non guerra ma barbarie. Tuttavia, il suo incontro con l’accademico iraniano Abolhassan Navab, presidente dell’Università delle religioni, ha fornito ulteriori spunti polemici. Navab ha elogiato Francesco per il suo coraggio nel difendere il popolo palestinese e il Papa avrebbe risposto ribadendo l’assenza di problemi con il popolo ebraico, ma criticando duramente Netanyahu per il mancato rispetto delle leggi internazionali e soprattutto dei diritti umani.

Queste parole, per quanto possano riflettere un’opinione personale, sono problematiche nel contesto del ruolo che il Papa riveste e il loro peso è amplificato dalla posizione che occupa e dalle implicazioni che ogni sua dichiarazione può avere sulla scena internazionale.

Il post continua…

Cosa sta accadendo in Siria e quanto sincere sono le dichiarazioni del suo leader?

Mentre gran parte del mondo sembra entusiasta per l’attuale governo siriano, io nutro forti dubbi riguardo alla sincerità delle dichiarazioni del leader Ahmad al-Shara, precedentemente noto come Abu Mohammed al-Jolani. 

Non posso fare a meno di pensare che dietro le sue belle parole si celi l’intenzione di ripristinare un modello di governo simile a quello dell’Afghanistan sotto i “Talebani”.

A differenza di Papa Francesco, che si è mostrato ottimista nel recepire i segnali di apertura verso la comunità cristiana, io sono convinto che le azioni intraprese siano semplicemente una facciata per guadagnare tempo e rinforzarsi militarmente, riprendendo poi atteggiamenti che hanno già caratterizzato il passato di questo leader.

L’obiettivo non dovrebbe limitarsi a evitare conflitti militari o ideologici, ma a promuovere un concetto di democrazia più inclusivo e rispettoso… 

Certo, non possiamo aspettarci un modello ideale nell’immediato, ma almeno un sistema simile a quello della Turchia, che consenta alle donne di vivere con dignità e senza coercizioni, rappresenterebbe un progresso rispetto alla realtà attuale. 

Tuttavia, la mia sensazione è che il nuovo governo stia solo cercando di stabilire le condizioni minime per la sopravvivenza, sfruttando gli aiuti internazionali.

Difatti, questa prospettiva si riflette nelle recenti dichiarazioni del ministro degli Esteri siriano, Asaad Hassan al-Shaibani; durante una visita in Qatar, ha chiesto agli Stati Uniti di revocare le sanzioni, definendole un ostacolo alla ripresa del Paese devastato dalla guerra. Secondo al-Shaibani, “le sanzioni rappresentano una barriera per il popolo siriano, impedendo lo sviluppo e la creazione di partnership con altri Paesi”. Ha ribadito che l’appello a eliminare queste misure non è più legato al regime di Bashar al-Assad, ma è ormai una necessità per la popolazione civile.

Anche il primo ministro del Qatar, Sheikh Mohammed bin Abdulrahman bin Jassim Al Thani, ha riaffermato il sostegno del suo Paese all’unità, alla sovranità e all’indipendenza della Siria. Ed è in questo contesto che i ministri degli Esteri di Francia e Germania hanno incontrato al-Shara a Damasco. Tuttavia l’incontro è stato segnato da polemiche: al-Shara ha stretto la mano al ministro francese, ma ha salutato la collega tedesca, Annalena Baerbock, con un gesto del cuore, citando una rigida interpretazione delle regole del Corano.

Di una cosa sono certo: è fondamentale valutare concretamente l’evoluzione politica di questa dirigenza e verificare se alle promesse seguiranno azioni concrete. 

Se ciò non accadrà, sarà necessario pensare a soluzioni diverse. La popolazione civile, ancora presente in Siria, ha bisogno di ritrovare non solo unità d’intenti per il bene comune, ma soprattutto una serenità che manca da oltre mezzo secolo.