Già… prima delle elezioni, la coalizione urlava alla Sovranità! Ora, gli stessi che sono saliti al Governo, evidenziano comportamenti lacchè agli Usa! Sì… a differenza della Spagna, che – con i fatti – dimostra essere autonoma!
Difatti, la Spagna ha scelto di dire “no” agli F-35 statunitensi, e lo ha fatto con una motivazione che suona come un manifesto di sovranità. “Questione di principi”, ha dichiarato il ministero della Difesa, preferendo puntare su opzioni europee come l’Eurofighter e il Future Combat Air System. Non è solo una scelta tecnica, ma politica, un segnale chiaro di indipendenza da Washington, soprattutto in un momento in cui gli Stati Uniti, sotto la guida di Trump, impongono alla NATO di alzare la spesa militare al 5% del Pil e minacciano dazi commerciali. Madrid non ci sta, e mentre altri Paesi – come ad esempio il nostro – si piegano, la Spagna dimostra di avere una schiena più dritta.
Il governo Sánchez ha approvato con riluttanza un aumento della spesa militare, ma solo fino al 2% del Pil, ben lontano dalle richieste americane. Una decisione che non è piaciuta a Trump, il quale ha risposto con minacce di ritorsioni economiche. Eppure, la Spagna non ha abbassato la testa, anzi, ha ribadito la sua volontà di ridurre la dipendenza dagli USA, anche in campo tecnologico, come dimostra la scelta di affidare a Huawei l’archivio delle intercettazioni giudiziarie. Un altro tassello di una strategia chiara: difendere la propria autonomia decisionale.
Certo, lo Stato maggiore spagnolo non nasconde le preoccupazioni. Senza gli F-35, la sostituzione degli Harrier AV8B entro il 2030 diventa un rompicapo. Le alternative europee sono ancora lontane dall’essere operative, e l’unica soluzione immediata sarebbe proprio il caccia americano. Ma Madrid sembra disposta ad accettare questo rischio pur di non sottostare alle pressioni di Washington. Il messaggio è chiaro: meglio una flotta aerea meno avanzata oggi che rinunciare alla propria sovranità domani.
Lockheed Martin ha provato a giocare la carta europea, sottolineando che gli F-35 sono assemblati in Italia, ma non è bastato. Per la Spagna, il problema non è la provenienza geografica del velivolo, ma la dipendenza strategica dagli USA.
E dopo le ultime uscite di Trump, che ha minacciato di far pagare il doppio a chi non si allinea, la posizione di Madrid appare ancora più significativa. E così… mentre altri governi cedono, la Spagna dimostra che esiste ancora un modo per resistere alle logiche del ricatto.
Ed allora – vorrei chiedere a tutti quei burattini che si presentano ogni giorno in Tv a raccontarci (quanto imparato a memoria), quasi fossero “pappagalli” o come li definiva la Fallaci “Cicale”: siamo stanchi di vedere quei vostri visi, ma soprattutto ci siamo rotti le palle di ascoltare – in una televisione nazionale – le solite caz…
Da tempo il sottoscritto anticipava che il governo Netanyahu avrebbe trasformato la risposta all’Operazione Diluvio (al-Aqṣā) in un’occasione per riprendersi Gaza, e oggi quelle ipotesi stanno diventano realtà.
La decisione del gabinetto di sicurezza israeliano di approvare l’occupazione di Gaza City non è che l’inizio di un disegno più ampio, quello che – sempre secondo il sottoscritto – porterà, tra qualche anno, a estendere il controllo anche sulla Cisgiordania. Il piano, approvato dopo dieci ore di discussioni accese, prevede lo smantellamento definitivo di Hamas, ma anche qualcosa di più profondo: la rimozione di ogni autonomia palestinese nella Striscia. L’IDF si prepara a entrare in Gaza City, un’area finora evitata, evacuando circa un milione di persone verso i campi profughi centrali, mentre i terroristi rimasti verranno assediati e neutralizzati.
Abbiamo visto come il capo di stato maggiore, abbia tentato di opporsi, sostenendo l’impossibilità di garantire una risposta umanitaria a uno spostamento così massiccio, ma la sua voce alla fine è rimasta inascoltata. Netanyahu e il ministro della Difesa Israel Katz hanno viceversa spinto per un’azione decisa, fissando simbolicamente la scadenza delle operazioni al 7 ottobre 2025, secondo anniversario del massacro.
I cinque principi approvati dal gabinetto non lasciano spazio a interpretazioni: fine dell’arsenale di Hamas, ritorno degli ostaggi (vivi o morti), smilitarizzazione di Gaza, controllo israeliano sulla sicurezza e un’amministrazione civile alternativa, che escluda tanto Hamas quanto l’Autorità Palestinese.
Tutto ciò conferma ciò che già avevo a suo tempo riportato: la risposta israeliana al 7 ottobre non si limiterà alla vendetta, ma sarà l’occasione per ridisegnare i confini del potere nella regione e Gaza è soltanto il primo passo!
Stasera dovevo regalarvi la continuazione del post di ieri, con quel racconto particolare su ciò che accade in alcuni comuni etnei, tra suddivisioni di posti tra familiari, parenti e amici… Purtroppo, non posso mantenere la promessa. E no, non posso spiegarvi il motivo. So che sembra strano, ma alcune storie, a volte, devono aspettare.
Fidatevi: se potessi parlare, lo farei. Purtroppo per il il momento debbo chiedervi di pazientare…
Ed allora stasera, continuo con quanto avevo a suo tempo iniziato…
Sì… so bene che avrei dovuto iniziare questo post con la frase “La fragile illusione del controllo: storie di documenti dimenticati”.
Infatti, dopo aver scritto il post https://nicolacostanzo.com/2025/07/29/se-il-direttore-dei-trasporti-ce-solo-sulla-carta-chi-risponde-davvero/ c’è una domanda che molti miei lettori mi hanno posto, con tono quasi ansioso: quali sono i documenti che un direttore dei trasporti dovrebbe davvero gestire? La risposta, teoricamente, è semplice. Basterebbe aprire un manuale, sfogliare una normativa, e l’elenco sarebbe lì, chiaro e inoppugnabile. Ma tra il dovrebbe e il fare, c’è un abisso che pochi hanno il coraggio di ammettere.
Prendiamo i documenti, quelli che dovrebbero essere il pane quotidiano di chi ricopre questo ruolo. Il registro di controllo dei veicoli, i fogli di viaggio, il monitoraggio delle ore di guida. Carta su carta, firme che a volte sembrano più un automatismo che una reale verifica.
Quanti di questi documenti vengono compilati per dovere, anziché per reale necessità? Quante checklist sono solo un segno di penna frettoloso, anziché l’esito di un controllo attento? La risposta, purtroppo, la conoscono bene quelli che poi, sul campo, si scontrano con le conseguenze di questa superficialità.
E poi arrivano i documenti settimanali, mensili, quelli che richiedono un minimo di pianificazione. La turnazione degli autisti, il report dei consumi, lo stato delle manutenzioni. Sembrano compiti banali, quasi meccanici. Eppure, quante volte vengono archiviati come semplici adempimenti, anziché essere usati per quello che sono: strumenti per evitare guai ben più grossi? Un direttore dei trasporti che si limita a timbrare carte, senza mai analizzare quei dati, è come un capitano che guarda la bussola ma ignora la rotta.
Passiamo ai documenti annuali, quelli che richiedono una visione più ampia. Le revisioni, gli audit, i piani di miglioramento. Qui la faccenda si fa ancora più delicata, perché se il quotidiano è già gestito con approssimazione, figuriamoci il resto.
Quante aziende hanno un manuale di qualità che esiste solo nello scaffale di un ufficio, mai sfogliato? Quanti audit sono semplici formalità, con checklist compilate a memoria anziché con attenzione? La verità è che, in troppi casi, la certificazione è solo un pezzo di carta da esibire, non una garanzia reale.
Eppure, basterebbe poco. Un sistema documentale strutturato, procedure chiare, controlli che siano veri controlli, non mere ritualità. Ma questo richiederebbe tempo, risorse, e soprattutto la volontà di fare le cose come si deve. Invece, troppo spesso, tutto si riduce a un gioco di apparenze. Si compila, si archivia, si firma, e si spera che nessuno vada a guardare troppo da vicino.
Alla fine, la domanda è sempre la stessa: serve davvero un direttore dei trasporti, se il suo ruolo si riduce a una firma? O sarebbe meglio ammettere che, senza un reale processo di qualità, quell’incarico è solo un nome vuoto?
I documenti ci sono, le norme pure, quello che manca, troppo spesso, è la serietà di chi dovrebbe farle rispettare. E il problema, purtroppo, non è nella carta. È in chi quella carta la tratta come un fastidio, anziché come uno strumento per evitare disastri!
Già… una legalità che risuona solo nei discorsi, mentre nella realtà si sgretola come un castello di sabbia al primo soffio di vento. Le parole volano alte, impennate come aquiloni in un cielo sereno, ma i fatti strisciano nel fango, lenti e viscidi, e quel fango è lo stesso in cui affondano le mani coloro che dovrebbero custodire il bene comune con rigore e silenzio. Questo schifo di politica, gonfia di potere e intrisa di privilegi, ha trasformato la gestione della cosa pubblica in un affare privato, un mercato sommerso dove ogni decisione è un debito da saldare con un favore, ogni posto di lavoro una ricompensa per chi ha baciato l’anello al momento giusto.
Quelli che abbiamo eletto per rappresentarci, per lavorare per tutti, hanno invece interpretato il mandato come un diritto ereditario, una specie di investitura divina a spartirsi ricchezze, appalti, poltrone, come se la città fosse una villa di famiglia da dividere tra eredi. E il peggio? Che lo fanno con la spudoratezza di chi crede di essere nel giusto, di chi si guarda allo specchio e vede un benefattore, non un parassita.
Forse il problema sta proprio in quelle parole mal interpretate, in quel “governare come il buon padre di famiglia” che hanno preso alla lettera, ma nel modo più distorto, più meschino possibile. Per loro, essere “buoni padri” non significa avere cura del paese, ma garantire che i figli abbiano un posto in Comune, che i cognati gestiscano le gare d’appalto, che gli amici più fedeli trovino sempre una raccomandazione pronta presso uno degli uffici. E i concorsi pubblici? Una farsa, una sceneggiata dove i copioni sono scritti mesi prima e gli attori principali sono sempre gli stessi, quelli che non hanno mai aperto un bando ma sanno già dove finirà il posto.
E mentre tutto questo accade, mentre il denaro pubblico diventa moneta di scambio per lealtà personali, mentre le opere incompiute marciscono sotto il sole e i giovani scappano all’estero, mi chiedo: ma le Procure dove sono? Dormono? O forse, anche lì, qualcuno ha deciso che certe cose è meglio non vederle, che certi nomi vanno trattati con riguardo, che certe inchieste potrebbero far cadere troppi alberi in un bosco già malato?
Lasciate quindi che vi racconti una storia, una di quelle che sembrano uscite da un romanzo grottesco, ma che purtroppo è vera, anzi, quotidiana. Un Comune etneo, piccolo ma non troppo, dove le dinamiche di potere si intrecciano con affari, favori e raccomandazioni come radici in un terreno avvelenato. E la cosa più agghiacciante? Che non è l’unico. È solo uno dei tanti anelli di una catena che sembra non avere fine, un sistema che si ripete identico in cento paesi, in cento province, con volti diversi ma stesse mosse, stessi silenzi, stesse complicità.
Ma la domanda che resta, alla fine, è sempre la stessa: fino a quando continueremo a permettere che tutto questo accada? Fino a quando lasceremo che il bene di tutti diventi il bottino di pochi, che la speranza si trasformi in rancore e il rancore in rassegnazione?
Il sottoscritto pensa – ahimè – che non cambierà mai nulla in questo nostro Paese. È un circolo vizioso che si autoalimenta, perché in fondo ai miei connazionali piace questo sistema clientelare, lo tollerano, lo subiscono, ma segretamente sperano di poterne usufruire un giorno, quando toccherà a loro. È un gioco di specchi dove tutti fingono di indignarsi, ma nessuno rompe davvero lo schema, perché ognuno coltiva il sogno di diventare un giorno il padrone del favore, non più il mendicante.
Forse solo un conflitto armato, una di quelle tragedie che sconquassano le fondamenta di una nazione, potrebbe costringerci a un reset, a spezzare la catena e ricominciare da zero. Già, perché così è stato per i nostri padri e nonni. Sì… quelli che hanno vissuto il dopoguerra sanno cosa significa vedere un Paese in macerie e doverlo ricostruire partendo dalla fame, dalla cenere, dai sassi.
D’altronde basti osservare quanto sta accadendo in queste ore nella striscia di Gaza o in Ucraina per comprendere le difficoltà, per capire cosa significa perdere tutto e dover ricominciare con le mani nude. Come oggi, anche allora da noi – in quegli anni bui – accadde qualcosa di straordinario. Quando il pane era razionato e le città ed i suoi palazzi erano ridotti a scheletri di mattoni, la gente si aiutava, non per dovere, ma per necessità, perché l’altro era il fratello della stessa miseria.
Le donne dividevano l’ultima manciata di farina per fare una minestra, mentre i contadini – che nascondevano il grano – ora provavano a sfamare i vicini, gli operai viceversa iniziavano la ricostruzione con le mani nude, con la forza di chi non ha più niente da perdere. Se qualcuno volesse rivivere quei momenti, gli basterà osservare alcuni film neorealisti come “Ladri di biciclette” o “Roma città aperta”; in quei cortometraggi si racconta in modo reale la vita – in quel momento storico – del nostro Paese: non c’era eroismo, solo disperazione e una solidarietà che sgorgava spontanea, unico modo di sopravvivenza.
Persino i bambini raccoglievano cicche di sigarette per rivenderle, le donne facevano la fila per ore per un litro di latte annacquato. Eppure, in quella miseria, c’era una dignità che oggi sembra svanita, un senso di appartenenza che non si comprava, non si raccomandava, ma nasceva dal sangue e dalla terra. Forse perché allora si lottava per qualcosa di concreto: un tetto, un lavoro, un futuro. Oggi, invece, ci accontentiamo di illusioni e piccoli privilegi, mentre il sistema ci divora pezzo a pezzo, in silenzio.
Ma il dopoguerra insegnò anche altro: che la ricostruzione non fu solo merito degli aiuti americani del Piano Marshall. Fu soprattutto la gente comune, quella che non aveva niente da perdere, a rimettere in piedi l’Italia, mattone dopo mattone, con le unghie e con i denti. Senza aspettare che lo facessero i politici, già anche allora impegnati a spartirsi le poltrone, a costruire nuovi castelli di sabbia sulle macerie del vecchio mondo.
Chissà se serve davvero una nuova catastrofe per ritrovare quell’istinto di comunità, quel senso del noi che sembra ormai sepolto sotto tonnellate di individualismo e rancore. Sì… forse, semplicemente, abbiamo dimenticato troppo in fretta cosa significa aver fame, cosa significa non avere niente e dover costruire tutto. E soprattutto, cosa significa alzarsi insieme per cambiare le cose, non per interesse, ma per dignità.
Comunque, domani vi racconto la storia di cui vi ho accennato, vedrete… resterete senza parole.
Eccoci qui, al penultimo atto di questo viaggio attraverso i meandri di mafia, antimafia e riforma giudiziaria. Ora, come promesso, parliamo di chi, come me, non abbassa lo sguardo davanti alle verità più scomode, quelle che bruciano, quelle che fanno girare la testa a tanti, ma che alla fine tutti noi, volenti o nolenti, ci ritroviamo a ingoiare… E permettetemi di essere chiaro: urlare per un torto subìto in prima persona è una cosa, ben altra è alzare la voce per chi non ti ha mai fatto nulla di personale, ma opera in quell’ambiente che dovrebbe essere la casa della giustizia. Parlo di chi siede nelle istituzioni. Di chi fa politica. Di chi riceve incarichi dai Tribunali a nome dello Stato. Di chi dirige enti, associazioni e dovrebbe vigilare ed invece copre raggiri, truffe, soldi pubblici sperperati.
Ed allora: A chi giova questo silenzio? A chi conviene che i Tribunali continuino a nominare gli stessi nomi che, come dimostrano gli scandali di questi anni, persino di questi giorni, sono intrecciati a collusioni e corruzione? A chi serve un’antimafia che abbaia ma non morde? Chi ci guadagna da un sistema clientelare, tentacolare, radicato, che tiene in piedi la politica col voto di scambio e si nutre della criminalità attraverso appalti, concessioni, finanziamenti?
E qui arriva il punto. Il problema non sono solo i corrotti. Il vero cancro è chi, in questi anni, non ha voluto o saputo fare leggi serie, permettendo alla corruzione di diventare sistema. Un sistema in cui il silenzio è omertà. Dove nessuno denuncia, perché denunciare significa sfidare un meccanismo che ti schiaccia.
Difatti… cosa succede quando qualcuno prova a fare il proprio dovere? Prendiamo il caso di chi ricopre incarichi dirigenziali, con responsabilità civili e penali che potrebbero costargli la libertà. Fintanto che un dipendente o professionista non deve rispondere personalmente, su aspetti tecnici, amministrativi, di sicurezza sul lavoro, ambientali o gestionali, potrei ancora comprendere (senza però giustificare…) quel voltarsi dall’altra parte. Quel fare finta di non vedere. Ma quando uno risponde in prima persona, quando mette a rischio non solo il posto ma la propria libertà, senza essere nemmeno l’amministratore della società, allora la domanda sorge spontanea: perché? Perché accettare di diventare complici, quando tra l’altro non si riceve nulla in cambio? Quando l’unica ricompensa è soltanto la possibilità di continuare a lavorare?
È pura follia? O forse no. Forse è l’effetto di quel meccanismo perverso di sottomissione al datore di lavoro, soprattutto nelle aziende private gestite con metodi patriarcali. Ancora peggio quando l’impresa è legata a doppio filo alla criminalità organizzata, quando quei soldi che circolano sono capitali riciclati, quando quel sistema può contare su dirigenti e funzionari pubblici compiacenti, pronti ad aprire le porte ad appalti milionari. E così il cerchio si chiude. La stessa persona che dovrebbe vigilare, che ha responsabilità penali, che potrebbe perdere tutto, tace. Per paura? Per convenienza? Per quel senso distorto di lealtà che trasforma dipendenti in complici? Intanto, il meccanismo continua a macinare vittime e profitti. E la mafia ringrazia.
E quel dipendente o professionista che ha denunciato? Che fine fa? Diventa un sopravvissuto. Un fantasma professionale. Inizialmente, molte di queste imprese, se il soggetto non si è già esposto pubblicamente, non hanno un sistema di selezione abbastanza sofisticato da individuare certi difetti caratteriali. Non cercano coscienze, cercano esecutori. Così, all’inizio, quel professionista viene assunto. Poi, gradualmente, emerge la verità: quel soggetto non è disposto a mediare. Non chiuderà gli occhi davanti a fatture truccate, a materiali scadenti, a norme di sicurezza ignorate, a gestione rifiuti taroccate. Non diventerà complice di quel gioco sporco che l’impresa, o meglio, quel fantoccio amministrativo messo lì dalla criminalità organizzata, considera normalità.
E allora scatta la trappola. Se il dipendente o professionista ha la fortuna, o la sfortuna, di non avere disperato bisogno di quel lavoro, può fare ciò che ho fatto io più volte: guardarli negli occhi e mandarli a fanculo. Ma non prima di aver denunciato tutto. Documenti alla mano. Prove inconfutabili. Peccato che, per quanti non hanno la forza di resistere a quel sistema colluso, si ritrovino, dopo aver provato a compiere il proprio dovere, ad essere neutralizzati. Già… le denunce finiscono in un cassetto, i procedimenti si arenano e intanto, quel professionista scomodo viene marchiato come problematico, poco flessibile, non un team player. La sua carriera si inceppa. Le porte si chiudono…
Già, è così che funziona a chi svolge l’incarico di professionista, un po’ meno problemi hanno coloro che svolgono la loro funzione da dipendenti, perché quest’ultimi possono sempre trovare un’impresa, se non nella propria terra, certamente in qualsivoglia altra regione del paese o ancor meglio all’estero. E così tutto prosegue indisturbato. Da una parte, l’impresa criminale che continua a operare, protetta da una rete di connivenze, dall’altra, chi ha provato a rompere il muro dell’omertà e si ritrova solo, con un futuro professionale in frantumi o lontano dove non può dare fastidio…
Eppure, qualcuno continua a denunciare. Non per dignità o per rabbia, ma per quel senso del dovere che neanche questo sistema marcio può riuscire a cancellare. La domanda che in questi anni mi sono chiesto – sia come associato di alcune note associazioni di legalità, ma anche come delegato per la provincia di Catania di una di esse – è: quanto ancora resisteremo prima che l’antimafia smetta di essere uno slogan e torni a essere una battaglia?
E allora veniamo al punto cruciale: cosa succede davvero quando si denuncia? Soprattutto oggi, con la tanto celebrata riforma Cartabia che doveva cambiare le regole del gioco? Perché qui, vedete, il paradosso è atroce. Tu denunci. Metti a repentaglio la tua carriera, la tua tranquillità, a volte la tua sicurezza personale. Lo fai credendo nello Stato, nelle istituzioni, in quella giustizia che dovrebbe premiare chi ha il coraggio di dire basta. E invece ti ritrovi solo. Sempre!
La riforma prometteva tempi più celeri, maggiori tutele per chi denuncia. Ma nella realtà? I processi continuano a durare anni. Le indagini si impantanano. Le prescrizioni fioccano. Intanto, chi ha denunciato viene emarginato professionalmente. Già, non è un team player. Subisce ritorsioni sottili ma devastanti. Mobbing, demansionamento. Attende i tempi di una giustizia in un limbo che logora l’anima.
Mentre tutti gli altri? Quelli che partecipano, che si fanno corrompere, che svendono la loro dignità, o nei migliori casi, si fanno i cazzi loro e girano la testa dall’altra parte. Quei corrotti che continuano a prendere mazzette. Quelle loro amiche imprese opache che continuano ad aggiudicarsi gli appalti, e poi cercano, attraverso subappalti o pseudo noli a caldo o freddo, quelle imprese che eseguono per conto loro i lavori appaltati. E i funzionari collusi che dovrebbero controllare? Lasciamo perdere… non solo restano al loro posto, ma con il tempo vengono pure promossi.
Riassumendo, il sistema ha una perfezione diabolica. E difatti: chi denuncia paga subito. Chi è denunciato paga forse anni dopo, se mai pagherà. E la riforma Cartabia? A parole, un passo avanti. Ma nei fatti i tempi processuali restano biblici. Le tutele per i whistleblower sono più teoriche che pratiche. L’impunità di sistema non viene minimamente scalfita.
Io continuerò a denunciare, lo sapete. Ma ditemi: quando realizzeremo che uno Stato che non protegge davvero chi denuncia è uno Stato che, di fatto, tutela i corrotti? Perché alla fine, il messaggio in ogni territorio è sempre lo stesso: fatti i fatti tuoi, abbassa la testa, tanto non cambia nulla.
E chi non ci sta? Quello paga. Sempre. E il peggio? Che tutti lo sanno, ma fanno finta di non sapere.
Allora, riprendendo nuovamente l’incontro dal punto di vista del nostro Procuratore aggiunto Sebastiano Ardita, mi piace iniziare da quella sua prima dichiarazione: “chi ha pensato a questo tipo di riforma, non ha la lontana idea di come si svolgono le indagini”. Già… ascoltando questa sua affermazione, non so se ridere o piangere pensando alle conseguenze nefaste che questa nuova riforma comporterà.
Proseguendo – sottolinea il procuratore Ardita – non ci si deve limitare a indagare ‘su’, ma è fondamentale avvalersi ‘anche’ delle intercettazioni telefoniche che, pur non essendo l’unico strumento investigativo, una volta disponibili possono rivelarsi fondamentali. Devono essere usate in modo efficace, altrimenti non ha senso interromperle dopo soli 45 giorni. Significa che se un’indagine preliminare rivela attività sospette in un certo luogo tra determinate persone, e si ha la possibilità legittima di ascoltare cosa si dicono, dopo quei 45 giorni – che passano in un attimo – tutto viene interrotto e il lavoro svolto va perduto.
Ma qui il problema non è tanto il senso della norma, che è abbastanza chiaro a tutti. Il problema è il motivo per cui queste norme vengono fatte. L’idea diffusa è che siano create proprio per ostacolare l’attività giudiziaria. Consentitemi di ribadirlo: queste norme sembrano fatte per creare un argine all’attività giudiziaria! E quanti di voi non hanno pensato la stessa cosa? Già… la verità è che questa è la reale motivazione dietro la riforma.
E allora, il procuratore Ardita chiarisce in modo inequivocabile ciò che io stesso sostenevo ieri su quel “sistema tentacolare e sedimentato”. In fondo, dice Ardita, è la stessa idea che ci siamo fatti guardando la riforma sulla separazione delle carriere. Cioè? Premesso che molte riforme penali sembrano avere un’eterogenesi dei fini – ottenendo risultati opposti a quelli dichiarati – non sappiamo ancora quali saranno gli effetti concreti di alcune di queste modifiche.
Sappiamo però che, per quanto riguarda le intercettazioni, il processo penale subirà un grave indebolimento. Ma ciò che fa più riflettere è che queste riforme siano state ideate da chi, in qualche modo, vuole mettersi al riparo dalle indagini. E questo è il grande equivoco. Perché finché esisterà una classe dirigente che pensa solo a scambiare favori, a intascare tangenti per appalti, a ottenere vantaggi personali da atti amministrativi, sarà sempre in una condizione di debolezza strutturale. Nessuna riforma potrà mai proteggerla.
L’unico modo per essere al riparo è svolgere il proprio lavoro con dignità, passione e onore, servendo lo Stato con integrità. A tal proposito, vale la pena ricordare le parole di Papa Leone XIV nel suo discorso ai parlamentari di 68 Paesi: “La politica non è un mestiere, è una missione di verità e di bene!”.
Ardita prosegue: solo così si può arginare davvero qualsiasi indagine o processo, non certo creando meccanismi di separazione delle carriere o dipendenze dall’Esecutivo, di cui ancora non conosciamo le reali conseguenze. Lo stesso vale per le intercettazioni. Il punto cruciale è capire perché vengono fatte certe riforme. Se l’obiettivo fosse davvero rendere il processo più efficiente o ottenere risparmi, questa non è la strada giusta. Quando entrammo in magistratura, le intercettazioni erano costose, ma oggi il loro costo è pari a quello di una normale telefonata.
Quella che negli anni ’90 era una spesa enorme per intercettare un cellulare, oggi è un costo irrisorio per lo stesso servizio. Quindi è una grande menzogna sostenere che queste riforme servano a risparmiare. Il vero scopo è palesemente quello di limitare l’attività giudiziaria. E questo è un nonsenso, perché ciò che va corretto non sono gli strumenti per contrastare i reati, ma le condotte illecite di chi dovrebbe servire lo Stato.
Purtroppo, dopo questo intervento – come avevo già scritto nel mio primo post – ho dovuto lasciare l’incontro per andare a prendere mia figlia all’aeroporto. Tuttavia, ho potuto seguire il resto della discussione il giorno successivo grazie allo streaming pubblicato a questo link: https://www.youtube.com/watch?v=JXw2WZ4Bv6Y&t=887s&ab_channel=ANTIMAFIADuemilaTV.
Vi consiglio di ascoltarlo, perché le domande poste ai Procuratori dal giornalista Giuseppe Pipitone de “Il Fatto Quotidiano” sono estremamente rivelatrici. Dimostrano ancora una volta come in questo Paese le leggi non siano fatte per combattere l’illegalità, ma per proteggere quel sistema marcio che, negli ultimi trent’anni, è stato governato da chi ha preso il potere con astuzia e lo ha mantenuto promulgando norme ad personam…
E allora, continuando con quanto riportato ieri, entro nel merito per esperienza diretta di ciò che accade a un cittadino che decide di compiere il proprio dovere, senza che quest’ultimo abbia alcuna necessità morale di prendere a esempio gli insegnamenti di quegli uomini coraggiosi dello Stato, ricordati nel discorso del procuratore Di Matteo, non solo come vittime della mafia, ma per la loro dedizione e professionalità.
Osservare quella foto in cui due di quei magistrati sono ritratti sorridenti insieme, già… quanti di voi l’avranno vista esposta in bella mostra, quasi fosse un altarino, appesa alle pareti di quegli uffici istituzionali, come se la loro semplice presenza bastasse a motivare moralmente chi vi lavora. Già, se solo un’immagine potesse trasmettere quei veri valori, quel senso di servizio e devozione per l’incarico ricoperto. Ma se andiamo a scavare, scopriamo come la maggior parte di quei soggetti abbia ottenuto quel ruolo non per merito, non attraverso un concorso pubblico, ma grazie alla solita raccomandazione politica. E allora, ditemi, cosa possiamo aspettarci da chi si è già compromesso in partenza?
Ecco perché ritengo ormai inutile continuare a organizzare incontri per parlare di mafia, collusioni, corruzione, di un “sistema tentacolare e sedimentato”. Già… invece potrei gentilmente invitare i due procuratori, Ardita e Di Matteo, a una giornata al mare, sì, per fare un bel bagno e parlare del nostro Paese, o meglio, della mia meravigliosa isola, la Sicilia, con la sua cultura, la sua cucina, le sue tradizioni, il mare e la montagna, un paradiso per chi cerca relax e bellezza. Peccato che la realtà sia un’altra: viviamo in una terra marcia, da nord a sud, dove la maggior parte dei miei connazionali si è piegata a quel sistema clientelare e tentacolare chiamato politica, e nei casi più gravi si è lasciata foraggiare come pecore dalla criminalità organizzata, con buste e mazzette che arrivavano puntuali ogni mese.
E allora, mi rivolgo a quella parte sana che ancora esiste, esigua ma a cui voglio ancora credere, anche se ancora troppo timida nel compiere il proprio dovere e denunciare ciò che avviene illegalmente intorno a sé. Domani descriverò cosa succede quando qualcuno prova a fare la cosa giusta, sia come cittadino che come professionista.
Ma permettetemi di chiudere con un messaggio che ho ricevuto su WhatsApp dalla mia amica Romj, che ho menzionato nel post di ieri: “Nicola, ti ringrazio per avermi avvisato dell’intervista ai due procuratori. Come sempre, belle parole, ma nessuna risposta per chi, come me o te, si è esposto in prima linea. Oggi, senza entrare nei dettagli, nonostante tre condanne contro un professionista grazie alle nostre denunce, il sistema giudiziario continua a proteggerlo, lasciando in ostaggio lo Stato, l’amministratore giudiziario e 800 famiglie. In questi anni ho subito aggressioni, minacce, danni alla mia casa, costruita con sacrifici. La mia vita è trascorsa tra tribunali e uffici, sono testimone per due Procure, eppure nessuno mi ascolta. Alcuni magistrati sono scappati davanti alle mie richieste. Le associazioni antimafia tacciono, e la stampa d’inchiesta, quella che fa gli eroi quando conviene, ha avuto paura della complessità del caso e delle persone coinvolte. Nicola, nel mio cuore credo ancora nella giustizia, ma il problema è che non c’è nessuno che ascolta…”
Ecco perché scrivo. Perché quando le istituzioni tacciono, quando i magistrati voltano le spalle, quando la stampa ha paura, resta solo la voce di chi, come Romj, continua a lottare nonostante tutto. E questa voce non può rimanere inascoltata.
Perdonate la franchezza, ma nel trattare quest’argomento non mi limiterò a sfiorare la superficie. Ci sono momenti in cui il silenzio diventa complice, ed è proprio quando tutti abbassano lo sguardo che bisogna avere il coraggio di guardare più in profondità.
Affronterò quindi senza reticenze tutte le criticità che, secondo il sottoscritto, colpiscono chi – senza secondi fini o interessi personali – cerca semplicemente di fare il proprio dovere di cittadino o professionista. Persone che provano a portare alla luce verità scomode, denunciando fatti gravi, solo per scontrarsi con un apparato statale che sembra volerli ignorare.
E qui viene il bello: perché spesso non è solo questione di omissione, ma di attiva resistenza!
Già, un sistema che preferisce la retorica alle azioni concrete, mentre dall’altra parte la mafia si evolve, infilandosi con nonchalance in settori apparentemente legali: Appalti, finanziamenti, riciclaggio!
Tutti ambiti dove fioriscono le relazioni pericolose tra chi dovrebbe combattere il crimine e chi invece ci nuota dentro. Il vero cancro non è solo la mafia spudorata, ma quel mondo grigio di professionisti, funzionari e politici che fanno da ponte tra legalità e illegalità, mantenendo sempre le mani apparentemente pulite.
Prima di approfondire, però, un doveroso ringraziamento a due figure che da sempre ammiro: i procuratori Sebastiano Ardita e Nino Di Matteo. Uomini che hanno messo in campo non solo le loro competenze, ma – ahimè – anche le loro vite.
Ieri sera, come molti miei concittadini, mi sono recato ad Aci Castello per assistere al loro incontro “Mafia e Antimafia, tra riforme e passi indietro”. Purtroppo un impegno improrogabile mi ha costretto ad andare via prima del previsto, ma non prima di aver colto alcuni spunti fondamentali.
Tra l’altro, in piazza ho incontrato una cara amica – la stessa con cui in questi anni abbiamo denunciato fatti gravissimi, ottenendo anche importanti condanne – e le ho chiesto gentilmente di intervenire al mio posto, per porgere loro alcune domande che avrei voluto fare personalmente. Mentre preparavamo questo passaggio di testimone, ho potuto comunque ascoltare i primi interventi…
Di Matteo, con quella grande sensibilità che lo caratterizza, ha iniziato innanzitutto rivolgendo un pensiero alla tragedia che sta colpendo la popolazione di Gaza, ma ha anche preso una posizione netta contro i silenzi e le politiche del nostro governo che, non solo continua a vendere armi allo Stato d’Israele, ma evidenzia – a differenza di altri Stati – di non voler riconoscere lo Stato Palestinese.
Riprendendo quindi con l’incontro, il procuratore ha iniziato con lucidità ad affrontare i “passi indietro” compiuti in tema di riforme sulla giustizia, in particolare: la separazione delle carriere, l’approvazione dell’abuso d’ufficio, quella che lede il principio assoluto dell’obbligatorietà dell’azione penale, e infine, la riforma sulle intercettazioni.
Permettetemi di aggiungere una riflessione su quanto occorso in questi lunghi anni, ad esempio, nella lotta alla mafia: l’esclusione di magistrati del calibro di Scarpinato dalla Commissione Antimafia, oppure quanto accaduto con il decesso del boss Messina Denaro ed il suo arresto, che si è dimostrato inconsistente, avendo portato con se nella tomba tutti quei segreti cruciali riferiti alle stragi del ’92-’93.
Mi riferisco all’archivio di documenti recuperati sicuramente da questo “prediletto” del boss di cosa nostra, Totò Riina, conservati immagino dentro quella sua cassaforte, stranamente mai recuperata dal gruppo dei Carabinieri del ROS, forse perché qualcuno – molto in alto del nostro Stato – ha imposto di non intervenire, per evitare che quei documenti e i suoi legami venissero portati alla luce.
Ah… quanto mi pento oggi di non essere entrato da ragazzo nelle forze dell’ordine, già, quando mi era stato richiesto di farne parte; sono certo – conoscendomi – che nessun ordine di un qualsivoglia superiore sarebbe riuscito in quell’occasione a limitare il mio agire!
Ma come sappiamo tutti, si è preferito non intervenire per celare quanto vi era contenuto, evidenziando – e non solo in quell’occasione – una volontaria “sordità selettiva” verso quelle verità scomode.
Quello che emerge chiaramente oggi – secondo il procuratore Di Matteo – con questa nuova riforma è una giustizia a due velocità: una, giustizia che magari può essere a volte rigorosa, veloce, certe volte spietata, nei confronti delle manifestazioni criminali degli “ultimi” della società, e una giustizia, viceversa, con le armi spuntate, nei confronti delle manifestazioni criminali del potere, nei reati commessi da quei cosiddetti “colletti bianchi”.
Già… aggiungerei un metodo antimafia distorto, dove la Commissione parlamentari adottano logiche politiche invece di indagare a fondo, ma soprattutto dove, la riforma della giustizia messa in atto, in particolare con la separazione delle carriere, non sposta di un millimetro il reale problema della giustizia in questo paese e cioè la lentezza dei processi; una riforma che può portare, anzi, inevitabilmente porterà, ad una fuoriuscita del Pm dall’ambito della giurisdizione e a un controllo degli uffici del pubblico ministero, da parte dell’esecutivo.
Basti vedere quello che accade in tutti gli altri stati, quello che è previsto in tutti gli ordinamenti in cui c’è la separazione delle carriere, tra il pubblico ministero e il giudice, e costatare come in tutti quei Paesi, vi è una forma di controllo “penetrante” del potere esecutivo, quindi, del governo, della politica al governo in quel momento, sul pubblico ministero, alla faccia diciamo, del principio della separazione dei poteri e del necessario bilanciamento e controllo dei poteri suddivisi (legislativo, esecutivo e giudiziario).
Facendo sempre riferimento alla separazione delle carriere (paragono questo passaggio subliminale, al tocco magistrale di un grande Direttore d’orchestra, sì… questa nota aggiuntiva, evidenzia qualcosa di finemente “orchestrato”), il procuratore ricorda infatti non solo la vicenda della P2 di Licio Gelli ma di come, come questo punto, sia stato un vero e proprio – cavallo di battaglia – del governo Berlusconi.
Questa nuova riforma, non ha nulla a che vedere col funzionamento della giustizia, non ha nulla a che vedere nemmeno con la parità delle parti, la parità delle parti è nel processo, la parità delle parti significa che all’avvocato e alle parti private devono essere attribuiti gli stessi strumenti di poter provare una circostanza che vengono conferiti al pubblico ministero; ma non ci può mai essere una parità istituzionale tra chi, come il pubblico ministero – per costituzione e per legge – ha l’unico obbligo di ricercare la verità e chi come l’avvocato, ha invece un obbligo deontologico di difendere – a tutti i costi – la posizione del proprio assistito.
Quindi, il concetto della parità delle parti viene oggi rappresentato in maniera strumentale, perché la parità delle parti deve essere all’interno del processo, ma non significa potere, diciamo, parificare una parte istituzionale, qual è quello del pubblico ministero, con la parte privata, all’avvocato, su un piano più generale.
Ecco perché questo post, ma soprattutto i prossimi, che sto per scrivere non saranno in alcun modo “leggeri”.
Sì… parlerò di come denunciare significa scontrarsi con un sistema che marginalizza chi prova a fare luce, con un’informazione assente che sempre più dimostra d’essere superficiale e ahimè politicizzata, con istituzioni che mostrano un’indifferenza sconcertante e soprattutto con un mondo sociale e imprenditoriale che mette da parte chi ha dimostrato essere non solo onesto, ma soprattutto coraggioso.
Ma non solo, significa ahimè fare i conti con quell’esercito di persone “perbene” che, dietro scrivanie linde e colletti inamidati, tengono in piedi proprio quel sistema marcio e corruttivo!
Ed infine, il giudizio finale espresso dal procuratore – facendo leva sui 33 anni di esperienza dedicati in magistratura – e quindi, su quali conseguenze negative questa riforma costituzionale sulla separazione delle carriere, produrrà nel tempo una condizione dannosa.
Il procuratore Di Matteo, ha difatti dichiarato d’esser sempre più convinto che: la professionalità di un magistrato viene arricchita dall’avere svolto entrambe le funzioni; non c’è miglior giudice di quello che sa come si svolgono sul campo le indagini, come altresì non c’è miglior pubblico ministero – che magari per aver fatto anche il giudice – abbia fin dall’inizio quella cultura della prova, quel senso della necessità di acquisire una prova piena, che può derivare dalla sua precedente funzione di giudice.
In fondo sono stati giudici e pubblici ministeri come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Rosario Livativo, Antonino Saetta, soltanto per parlare dei nostri colleghi, dei nostri colleghi uccisi e, non mi pare che fossero magistrati che non hanno dato buona prova di se.
Separare il Pm, farne una cosa completamente diversa dal giudice, già dall’inizio, significa comunque creare una categoria di funzionari dello Stato – potentissima – che inevitabilmente assumerebbe la caratteristica di un organismo di super-polizia, assumerebbe la caratteristica il pubblico ministero, di diventare un accusatore a tutti i costi, proprio perché altro rispetto al giudice, altro per mentalità , altro per studi, altro per formazione e questo finirebbe per accrescere a dismisura il suo potere, ma soprattutto per diminuire le garanzie del cittadino, nella fase più delicata che è quella delle indagini preliminari.
Quindi, a chi mi accuserà nei prossimi giorni di essere troppo duro, rispondo anticipatamente dicendo loro: guardate i fatti. I fatti gridano, anche se molti (già… purtroppo molti, anche tra voi) fingono di non sentirli.
Nei prossimi giorni, nella seconda e terza parte di questo post, entrerò nel merito delle mie motivazioni personali, perché certe verità – consentitemi – non possono essere racchiuse in poche righe.
Sono anni che si sussurra di una “nuova strada” americana in Medio Oriente, ma la realtà è che ogni amministrazione ripete lo stesso copione fallimentare, rivestito solo di nuovi slogan.
Quando Trump, a maggio di quest’anno, ha sventolato accordi per 1.400 miliardi di dollari con Arabia Saudita, Emirati e Qatar, promettendo una rivoluzione negli equilibri regionali, ha solo riciclato la retorica di Obama nel 2009: grandi proclami, pochi fatti.
Qual è oggi la differenza? Nessuna. Sì, mentre Obama annunciava il disimpegno con un linguaggio conciliante, Trump ha imballato quelle vecchie promesse in un nuovo pacchetto regalo, con un involucro più aggressivo, ma alla fine la sostanza è rimasta immutata.
Eppure tutti i media – sottomessi e pilotati dalla politica Usa (basti osservare quanto accade oggi attraverso le decisioni messe in atto dal nostro governo…) – hanno celebrato il discorso tenuto a Riad come una svolta epocale, dimenticando (o volendo ignorare) che la storia in Medio Oriente si ripete ormai con imbarazzante regolarità.
E infatti, riprendendo il nervo pulsante di questa “nuova strategia” americana, si scopre quanto essa rappresenti di fatto un paradosso: attirare capitali dal Golfo mentre quei stessi Paesi cercano disperatamente di diversificare le proprie economie.
I numeri proposti sono astronomici, ma in fondo privi di sostanza!
Il Qatar, ad esempio, promette investimenti quintuplicati rispetto al suo PIL, mentre l’Arabia Saudita raddoppia magicamente il budget militare per acquistare armi USA, e infine gli Emirati annunciano il più grande campus di intelligenza artificiale al mondo fuori dagli Stati Uniti.
Peccato però che nel 2017 questi stessi protagonisti abbiano portato a termine soltanto il 20% degli accordi prefissati. Difatti, con il petrolio a prezzi più bassi e il Fondo Sovrano Saudita (PIF) che riduce le esposizioni negli asset americani, anche gli investitori arabi, pieni di petrodollari, sembrano meno entusiasti di questa pseudo-partnership.
E così, mentre Washington e i Paesi ricchi del Golfo giocano a poker, rilanciandosi con cifre da capogiro, una parte di quel Medio Oriente continua, ahimè, a bruciare e a perdere vite umane.
Lo stesso presunto accordo nucleare con l’Iran, che avrebbe dovuto portare stabilità in quell’area, ha di fatto riacceso la guerra per procura tra Teheran e Riyadh, cui si sono aggiunte Siria, Yemen, Libano e la striscia di Gaza.
E così l’Iran, dopo essersi liberato delle sanzioni, ha cercato di rafforzare la propria leadership con i gruppi militari di Hezbollah, Houthi e Hamas, mentre l’Arabia Saudita ha risposto stringendo ancor più il legame con gli Usa e finanziando i tanti gruppi sunniti.
Nessun Paese arabo sembra volersi muovere. Restano tutti a guardare, senza prendere posizione o intervenire, per non restare coinvolti in conflitti che non vogliono. E così, quelle note “primavere arabe”, nate per portare democrazia, alla fine si sono trasformate in un incubo.
Difatti, la Tunisia, un tempo modello di transizione pacifica, oggi vede fuggire migliaia di giovani verso le nostre coste. L’Egitto è tornato a essere una dittatura militare. La Libia e lo Yemen sono inghiottiti da guerre civili. E per finire, la Siria e il territorio palestinese sono ormai un mosaico di macerie e distruzione.
Nessuna rivolta è stata capace di stravolgere gli equilibri, e soprattutto, la mancata presenza di una classe dirigente capace ha impedito di ribaltare i governi in atto, i quali hanno immediatamente represso nel sangue quei tentativi di cambiamento.
E l’Occidente, nel frattempo, sta a guardare. Sì, promuove di voler sostenere il cambiamento, ma alla fine ha preferito allearsi con chi garantiva una stabilità almeno illusoria, ben sapendo che, il più delle volte, alimentava gruppi terroristici.
Ecco, forse è qui il fallimento più grande: nell’incapacità di imparare dal passato. Gli Stati Uniti e il loro attuale Presidente sono convinti che basti sostituire un alleato scomodo con un altro, come se il problema fossero i singoli attori e non il sistema stesso.
Già, Trump punta tutto sui dazi, sugli investimenti miliardari obbligatori per il suo Paese, ma anche sull’acquisto di armi prodotte dai suoi amici industriali. Parliamo di società tra le più ricche del mondo, come Lockheed Martin, RTX (Raytheon Technologies), Northrop Grumman, Boeing e General Dynamics, tutte aziende che prosperano grazie alla vendita di tecnologia militare.
E infine, per foraggiare quei suoi amici miliardari, utilizza le loro imprese per vendere ai Paesi arabi software, intelligenza artificiale e microchip, presentati come necessari per aggiornare la “sicurezza” contro le nuove minacce, il tutto in cambio di petrolio.
E così, mentre l’Arabia Saudita potenzia le sue difese missilistiche con sistemi come il THAAD e il Patriot, altri Paesi del Golfo ampliano la cooperazione militare con gli Stati Uniti. Nel frattempo, Abu Dhabi costruisce data center, Israele e Iran si scambiano missili, e la Palestina cerca di non scomparire del tutto dai radar.
Ecco perché ritengo che, senza una visione che vada oltre gli interessi immediati, ogni “nuova strada” proposta sarà soltanto l’ennesimo vicolo cieco imboccato in quel labirinto mediorientale.
Così Trump liquida con una battuta il tentativo del presidente francese di riaccendere il dibattito sul riconoscimento della Palestina. E mentre l’ironia dell’ex inquilino della Casa Bianca risuona come un colpo di frusta, il silenzio imbarazzato degli alleati europei tradisce una verità scomoda: nessuno, in fondo, ha davvero intenzione di sostenere questa causa. Le parole di Macron si sono infrante contro un muro di indifferenza, lasciando intravedere quello che ormai è un destino segnato per il popolo palestinese.
La presa di posizione francese avrebbe potuto rappresentare una svolta, un segnale di speranza in un contesto internazionale sempre più arido. Invece, è diventata l’ennesima dimostrazione di quanto il tema palestinese sia ormai ridotto a mera retorica.
Trump ha bollato l’iniziativa come “irrilevante”, gli Stati Uniti hanno risposto con sarcasmo, e l’Europa – Germania e Italia in testa – si è affrettata a prendere le distanze. Tutti concordi nel sostenere che la pace richiede “negoziati realistici”, ma nessuno disposto a mettere in discussione lo status quo. Perché, in realtà, quel negoziato non interessa a nessuno.
E allora viene da chiedersi: di quale Stato palestinese stiamo parlando? Di quello proclamato da Arafat nel 1988, rimasto confinato nelle carte ingiallite delle risoluzioni ONU? O forse di quello che, giorno dopo giorno, viene eroso da insediamenti israeliani, operazioni militari e una lenta ma inesorabile pulizia demografica?
La verità è che, da quasi sessant’anni, i territori palestinesi sono occupati de facto, e la comunità internazionale ha scelto di voltarsi dall’altra parte. Quella che oggi viene spacciata per una “questione di sicurezza” – la lotta a Hamas, la liberazione degli ostaggi – non è altro che l’ultimo capitolo di una strategia ben più ampia: svuotare la Palestina della sua gente, cancellarla dalla mappa.
Macron ha provato a alzare la voce, e il risultato è stato un coro di sberleffi. Isolato, ridicolizzato, trattato come un illuso che non capisce le regole del gioco. Eppure, il gioco è chiaro: si sta scrivendo la fine della causa palestinese, e nessuno ha intenzione di intervenire.
Gli Stati Uniti e Israele lavorano già da tempo a un piano per smantellare Hamas, ma sappiamo bene che, una volta finita la guerra, non ci sarà spazio per una riconciliazione. Ci sarà solo l’esodo. Un popolo costretto ad abbandonare la propria terra, mentre il mondo applaude alla “stabilità” ritrovata.
Tra pochi anni, guarderemo indietro e tutto apparirà ovvio. Le operazioni militari, le dichiarazioni di facciata, i negoziati eternamente rimandati: ogni tappa è stata progettata per condurre a un unico esito. La Palestina non tornerà più com’era, perché qualcuno ha deciso che non deve esistere.
E chi prova a opporsi, come Macron, viene zittito con una risata. Domani scriverò più nel dettaglio su cosa ci aspetta: non solo bombe e retorica, ma una fredda pianificazione politica che sta trasformando l’espulsione di un popolo in un fatto compiuto!
Stasera mi ritrovo a scrivere, ancora una volta, con il cuore stretto e la mente affollata di domande senza risposta. Quante volte abbiamo ripetuto le stesse parole, denunciato le stesse atrocità, invocato la stessa pace?
Eppure, nella Striscia di Gaza, il tempo sembra essersi fermato in un limbo di sofferenza, dove il fragore delle bombe sovrasta il grido dei civili, dove l’umanità vacilla sotto il peso di un conflitto che nessuno riesce – o vuole – fermare.
Scrivo non per abitudine, ma per dovere. Perché il silenzio è complice, e l’indifferenza è una ferita ancora più profonda. Gaza non è solo una notizia di sfondo, un titolo da scorrere distrattamente: è una tragedia che si consuma da anni, davanti agli occhi del mondo, mentre la comunità internazionale brancola tra inezie diplomatiche e ipocrisie.
Le immagini si ripetono, sempre uguali, sempre più insopportabili. Corpi senza vita riversi per terra, donne che urlano il dolore di una perdita che non riescono nemmeno a comprendere appieno, uomini che scavano tra le macerie con le mani a pezzi, sperando di trovare un respiro, un segno, una vita da salvare. Gaza piange, muore, si spezza ogni giorno di più, eppure il mondo sembra incapace di reagire. Si discute, si accusa, si cerca una colpa da attribuire, come se in mezzo a tutto questo dolore ci fosse ancora spazio per la giustizia delle parole. Ma non c’è nessun conflitto, non nel senso che conosciamo. C’è una carneficina annunciata, una strage quotidiana che non lascia scampo.
Ogni giorno si contano nuove vittime, sempre più giovani, sempre più innocenti. Trenta persone uccise mentre aspettavano di ricevere un po’ di cibo. Due ragazzi colpiti da un drone mentre cercavano di recuperare medicine per un fratello malato. Altri cinquanta domani, forse schiacciati sotto il peso delle bombe, forse spenti dalla fame che avanza silenziosa e crudele. I numeri non raccontano più la guerra, raccontano solo la fine di vite che non hanno avuto il tempo di iniziare. Gaza non è un campo di battaglia, è un cimitero a cielo aperto, dove i bambini imparano a conoscere il suono delle esplosioni prima di quello delle risate.
Eppure c’è ancora chi parla di guerra necessaria, di obiettivi strategici, di difesa. Ma di quale difesa si parla, quando intere famiglie vengono cancellate in un attimo? Chi difende quei corpi senza sepoltura, chi protegge le madri che non hanno più figli da abbracciare?
Il popolo palestinese non è né Hamas né un esercito in guerra, è gente comune, uomini, donne, bambini che vivono intrappolati tra due fuochi, costretti a subire senza poter scegliere. Sono vittime, non complici. Sono prigionieri, non ostaggi volontari. Sono esseri umani che ogni mattina si svegliano chiedendosi se quel giorno rivedranno il sole o saranno solo un altro numero in una lista infinita.
E noi, da lontano, ci permettiamo il lusso dell’indignazione a scaglie, a intermittenza. Un post, un commento, un momento di silenzio sui social, e poi si volta pagina. Intanto, nelle stanze dei potenti, si continua a negoziare, a stringere accordi, a fare finta che questa tragedia non riguardi nessuno. Ma riguarda tutti. Perché ogni volta che si decide che certe vite valgono meno delle altre, si apre una crepa nell’umanità intera. E quando oggi è Gaza, domani potrebbe essere un’altra città, un altro popolo, un’altra strage mascherata da necessità.
Basta con le parole vuote, con le condanne che restano sulla carta. Basta con le finte mediazioni che non portano a nulla. Gaza ha bisogno di qualcuno che alzi la voce e non la abbassi più, che smetta di parlare per iniziare ad agire. Ha bisogno che qualcuno abbia il coraggio di dire basta, subito.
Perché ogni minuto che passa è un altro bambino che muore, ogni vita spezzata, ogni bambino che non rivedrà il cielo, ogni famiglia cancellata dall’orrore, chiedono giustizia. E allora continueremo a parlare, a condividere, a urlare questa verità scomoda, finché qualcosa non cambierà. Perché dietro ai numeri e alle statistiche ci sono volti, storie, un popolo che resiste nonostante tutto.
E il loro sangue non è solo sulle mani di chi preme il grilletto, ma anche su quelle di chi continua a guardare e a tacere. Non possiamo permettere che Gaza diventi un simbolo dell’oblio. La sua voce deve riecheggiare più forte dell’odio. E la nostra coscienza, collettiva e individuale, non può dormire!
Era il 19 luglio 1992 quando una bomba di inaudita violenza squarciò il silenzio di via D’Amelio a Palermo, spegnendo per sempre le vite di Paolo Borsellino e dei cinque agenti della sua scorta.
Trentatré anni dopo, quel boato continua a riecheggiare nelle coscienze di chi cerca ancora verità, nonostante i depistaggi, le omissioni e i silenzi istituzionali che hanno avvolto questa strage in una fitta nebbia. Mentre le commemorazioni ufficiali si susseguono con il loro rituale di retorica e ipocrisia politica, c’è una voce che rompe il coro ben orchestrato dell’oblio: quella di Salvatore Borsellino, fratello del magistrato assassinato, che con coraggio indica senza mezzi termini quelle che furono – a suo giudizio – le cause acceleranti della strage.
Quell’intervista rilasciata ai francesi il 21 maggio 1992 non fu un episodio casuale, ma un atto di straordinaria lucidità e determinazione. In quelle dichiarazioni, Paolo Borsellino fece i nomi di Vittorio Mangano, Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi, tessendo un filo che legava il potere mafioso a quello politico e imprenditoriale.
Un collegamento pericoloso, scomodo, che forse rappresentò il punto di non ritorno. Salvatore Borsellino lo ricorda con amarezza: suo fratello sapeva di aver scavato troppo in profondità, di aver sollevato un velo su connivenze che molti preferivano lasciare sepolte. Eppure, non si tirò indietro, consapevole che la giustizia non può essere esercitata a metà.
C’è un altro tassello che completa questo tragico puzzle, sempre secondo il fondatore del movimento Agende Rosse. Quel discorso tenuto da Paolo Borsellino alla biblioteca comunale di Palermo, in cui si dichiarò pronto a testimoniare sull’attentato di Capaci, fu l’ultimo atto di una sfida lanciata alle forze oscure che già tramavano nell’ombra.
Non aveva mai indagato direttamente su Berlusconi e Dell’Utri, eppure la sua voce rappresentava una minaccia troppo grande per essere ignorata. L’archiviazione dell’inchiesta nel 2001 da parte del gip di Caltanissetta non è che l’ultimo capitolo di una storia fatta di verità negate e giustizia incompiuta.
Oggi, mentre il Paese si prepara a un’altra commemorazione formale, è tempo di rompere il cerchio del silenzio. Le nuove generazioni meritano di conoscere non solo i nomi delle vittime, ma anche quelli dei mandanti e dei complici che ancora camminano liberi.
Il messaggio di Salvatore Borsellino è un faro in questa notte di omertà istituzionale, un invito a non accontentarsi delle verità ufficiali ma a continuare a scavare, a chiedere, a pretendere risposte. Perché la storia d’Italia non potrà mai essere riscritta finché questi nomi rimarranno nascosti nell’ombra, protetti da quel sistema di potere che ha trasformato le stragi del ’92 in una ferita ancora aperta.
Forse un giorno, quando i fili di questa intricata matassa verranno finalmente dipanati, capiremo perché trentatré anni non sono bastati a fare piena luce su via D’Amelio…
Fino ad allora, restano le parole di Salvatore Borsellino, ultimo custode di una memoria scomoda ma necessaria, e l’impegno di chi non si rassegna a vedere la giustizia tradita.
Perché continuare a commemorare non basta più: è tempo di verità, senza se e senza ma!
C’è qualcosa di profondamente malato nel modo in cui il potere si muove, qualcosa che va ben oltre la corruzione occasionale e che affonda le sue radici in un sistema costruito per proteggere se stesso e i suoi protagonisti.
Osservate con attenzione tutti quei politici che all’improvviso decidono di dimettersi, quasi sempre poco prima che emergano notizie poco piacevoli sul loro conto, noterete come il più delle volte, non si tratta di vere rinunce ma solo di manovre preventive, una sorta di passo indietro calcolato per non bruciare definitivamente la propria immagine e lasciare aperta una porta da cui rientrare quando l’attenzione si sarà spostata altrove.
A questi soggetti si sommano poi tutta una serie di imprenditori che, pur essendo sotto inchiesta (o addirittura esser stati già condannati…), continuano a vincere appalti pubblici, aggiudicandosi commesse milionarie come se nulla fosse.
Tutti sanno, ma nessuno fa niente! Le Istituzioni tacciono, chi dovrebbe vigilare sembra guardare da un’altra parte e alla fine ci ritroviamo a parlare di quei meschini impiegati pubblici, “infedeli”, che compaiono puntualmente nelle liste dell’agenda di quell’imprenditore che ogni mese si premura di far arrivare a ciascuno la sua bustarella.
Questo non è frutto del caso, né tantomeno di singole deviazioni morali. No, è qualcosa di più strutturato, un meccanismo perverso e perfettamente oliato dove politica e alcuni pezzi dello Stato si intrecciano in un gioco sporco che ha poco a che fare con il bene comune e molto con l’arricchimento di pochi.
Pensiamo ai casi recenti: politici indagati per associazione a delinquere, voto di scambio, tangenti, truffa, turbativa d’asta. Sono centinaia i nomi coinvolti, eppure molti di loro occupano ancora ruoli di potere, altri gestiscono affari con la stessa naturalezza di sempre, distribuendo incarichi e favori ai loro fedelissimi.
La cosa più assurda non è neanche il fatto che siano finiti nei guai, quanto il modo in cui il sistema reagisce al loro allontanamento apparente. Si crea immediatamente un vuoto che viene colmato da altri imprenditori con interdittive alle spalle, da funzionari infedeli che ormai da anni alterano gare d’appalto senza mai essere fermati, cui seguono assessori che fanno da ponte tra soldi pubblici e interessi privati.
E quando finalmente qualche inchiesta giudiziaria comincia a scoperchiare il vaso, ecco che improvvisamente arrivano le dimissioni, sempre motivate da ragioni personali o familiari. Una commedia all’italiana, recitata così tante volte da aver perso ogni credibilità. Ma quanti sono realmente caduti in disgrazia?
Quanti hanno davvero pagato per i loro errori? Ormai da oltre trent’anni assistiamo a questa sceneggiata, riproposta in ogni città, in ogni regione, come se fosse diventata la regola e non l’eccezione. Non si tratta più di singoli episodi isolati, ma di un vero e proprio metodo, consolidato nel tempo e ormai radicato nella nostra quotidianità.
L’imprenditoria malsana, quella che negli anni abbiamo visto sfilare in televisione, sui giornali e sui social, non ha servito soltanto la criminalità organizzata, ha altresì alimentato anche quel pezzo dello Stato che avrebbe dovuto controllarla.
Funzionari, dirigenti, politici che invece di vigilare sono diventati complici, garantendo che il flusso di denaro e soprattutto i favori non si interrompessero mai. Un circolo vizioso in cui la politica si nutre di affari sporchi e gli affari sporchi si nutrono della politica, in un abbraccio mortale che strangola ogni possibilità di cambiamento.
Allora chiedo: chi mai potrà smantellare questo meccanismo? Se la politica continua a perseguire i propri interessi opachi, gli scandali che leggiamo ogni giorno saranno semplicemente fuochi di paglia, destinati a spegnersi senza lasciare traccia.
La corruzione non è più un incidente di percorso, è diventata strutturale, quasi inevitabile. È come un cancro che si autoalimenta grazie a politici corrotti finanziati da imprenditori poco puliti o legati alla criminalità, i quali a loro volta chiedono favori a burocrati che, in cambio della carriera, chiudono entrambi gli occhi.
Ma una speranza c’è. Forse dobbiamo tornare a quel momento storico del 1945, quando il Paese, dopo anni di guerra e umiliazioni, seppe rialzarsi, capì che era necessario ricostruire tutto, partendo da zero e abbandonando il marciume del passato.
Solo così potremo sognare un’Italia diversa, equa, senza diseguaglianze, senza ladri nascosti dietro poltrone istituzionali. Dobbiamo trovare il coraggio di estirpare questa malattia, di liberare il Paese da chi lo sta soffocando, perché solo eliminando il male alla radice potremo sperare di riavere un Paese degno di essere chiamato tale.
C’è una cosa che più di tutte mi rivolta lo stomaco…
È l’ipocrisia stampata sulle facce dei nostri governanti quando si presentano davanti alle telecamere in occasione di certi anniversari.
Si atteggiano a custodi di valori morali che la nostra democrazia ha smarrito da tempo, eppure sono proprio loro la prova vivente di quel degrado.
“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro, la sovranità appartiene al popolo“. Leggiamo e rileggiamo l’articolo 1 della Costituzione, ma quelle parole sembrano ormai un epitaffio, non una realtà.
Si celebra la Repubblica, ma la “res publica” è diventata una “res privata“!
Un affare di dinastie politiche, di nomine opache, di poltrone che resistono a scandali e condanne. L’elettività e la temporaneità delle cariche sono principi svuotati, ridotti a formalismi mentre famiglie e clan si alternano al potere da decenni. Eppure nessuno sembra accorgersi del paradosso. Festeggiamo la Repubblica mentre essa viene svuotata giorno dopo giorno, legge dopo legge, privilegio dopo privilegio.
I partiti decidono per noi, scegliendo candidati tra corrotti, inquisiti, personaggi da operetta. Ci parlano di democrazia rappresentativa, ma è una finzione: qui non c’è rappresentanza, c’è occupazione.
E mentre loro brindano al 2 giugno, i cittadini si allontanano sempre più dalle urne, disillusi, disgustati. Come si può festeggiare un Paese dove la corruzione è sistemica, dove gli appalti sono truccati, dove il clientelismo è la vera moneta corrente?
Qualcuno si rifiuta di partecipare alla farsa, dicendo che non c’è nulla da celebrare. Ha ragione, ma è solo un altro modo per fare retorica. Intanto, i soliti noti sfilano con il tricolore sul petto, sorridono alle telecamere, recitano il copione del patriottismo.
E domani? Domani torneranno a legiferare per sé stessi, a scavare fossati tra il popolo e i suoi diritti.
Forse Roberto Benigni aveva visto giusto: non sono nemmeno da condannare, sono da compatire. Perché la politica, ormai, è l’unico mestiere in cui l’incompetenza non è un limite, ma un requisito.
E allora buon 2 giugno, signori della casta. Festeggiate pure. Noi, intanto, contiamo i giorni che mancano alla prossima commemorazione vuota.
Già… dopo ogni arresto per corruzione, traffico di potere, concussione: un funzionario con le mani nel vaso, un politico che riceve denaro al buio, un colletto bianco che stringe accordi sporchi.
Eppure la solita eco torna puntale: Sì… ma tanto non succede niente…
Ma come potrebbe cambiare qualcosa in questo Paese che difende chi sbaglia? Sì… dove lo Stato scrive leggi come scudi, non come spade, un Paese che promuove norme che non spazzano via il marcio ma viceversa lo incastonano nel sistema, rendendolo intoccabile? Dove la complicità si maschera da legalità e chi dovrebbe pagare non paga mai?
E tutto questo grazie allo Stato stesso, ai suo uomini/donne che promuovono queste riforme per pararsi il c…, una politica che non solo non agisce, ma firma, ratifica e soprattutto si piega a chi ha interesse a non cambiare mai!
Io nel mio piccolo ci ho provato. Già molti anni a portare alla luce scheletri che altri volevano sepolti, ma ogni volta ritrovo semrpe lo stesso schema: gente farabutta che fa dell’illegalità il proprio vivere, sostenitori e lecchinio che promuovo e foraggiano con le loro azioni quotidiane quel sistema illegale a cui poi si somma una giustizia lenta, inceppata, con leggi trasformate in scappatoie e così chi denuncia, quei pochi esigui individui che hanno fatto della purezza d’animo il loro vivere quotidiano, non solo devono scontrarsi con quei muri di gomma collusi, ma ahimè vengono traditi da chi viceversa avrebbe dovuto proteggerli.
Il tradimento più grave? Non è solo la corruzione, ma la sua normalizzazione, l’averla trasformata in routine, in prassi. Perché quando diventa “normale”, diventa invincibile!
Ogni riforma che rallenta i processi, ogni norma che protegge i colpevoli, ogni legge scritta su misura per i potenti: non è una battaglia contro il crimine. È un accordo con esso!
E lo Stato? Lo Stato è certamente complice. Quelle norme approvate per finta, quelle regole scritte a favore di chi comanda, sono un colpo al cuore di chi crede ancora in uno Stato giusto ed equo.
Che schifo. Che vergogna…. dopo anni a cercare di cambiare le cose, a rompere schemi immutabili, ci si ritrova con le mani vuote, perché chi doveva riscrivere le regole, le ha ridisegnate per chi non vuole che nulla si muova…
E allora sì, forse è tempo di contare i giorni, di pensare a una vita diversa, lontano da questo Paese ingrato, dove lo Stato non protegge i cittadini, ma i potenti. Dove la corruzione non è un cancro da estirpare, ma un affare da gestire.
Ma prima di andare via – riferendomi a tutti quei soggetti ancora perbene – dovrebbero chiedersi: fino a quando permetteremo che il gioco resti sempre lo stesso?
Sì… immagino che starete pensando: “ma tanto non succede niente”. Ed allora iniziate voi con i vostri gesti: rifiutatevi quando vi viene chiesto un “favore”, abbandonate quelle adulazioni che sanno di “ipocrisie ricamate“, non scambiate la vostra dignità per una promessa o una bustarella, sapendo a priori che accettandola, si diventa indissolubilmente compromessi, con quei soggetti corroti e con quel sistema marcio da loro rappresentato, che negli anni, avevate criticato e odiato!
E tu, da che parte stai? Quella di chi aspetta o di chi prova ( o quantomeno proverà…) a cambiare le cose?
Lasciami raccontarti una storia, ma non quella che leggi sui giornali, ma quella che sta sotto, già… nascosta tra le righe, invisibile ai più, quella comunque che davvero muove tutte le cose e Dio in questo… centra nulla.
Immaginatevi un parcheggio deserto, una busta che passa di mano, due persone che si sfiorano casualmente, oppure se volete sciegliete un ufficio, preferibilmente anonimo, dove la porta chiusa nasconde qualcosa di più di un semplice “colloquio”, si lo scenario potete cambiarlo a vostro piacimento, ma il copione vedrete, resterà sempre lo stesso: mazzette, promesse, favori!
E poi improvvisamente giunge la notizia, esplode come i botti di Capodanno, tutti iniziano a parlarne, i titoli sui quotidiani urlano e i social s’infiammano!
I nomi degli indagati arrestati sono pubblici, manette, lo scandalo ha toccato incredibilmente soggetti al di sopra di ogni sospetto. Ed eccoli quindi i cittadini, indignati, pronti a puntare il dito e a tirare la pietra.
Ma… aspettate un attimo, sì… soffermiamoci, facciamo un bel respiro profondo, iniziando a guardare oltre la superficie.
Sì… perché ciascuno di noi sa bene cosa accadrà dopo? Nulla. Già… assolutamente nulla e quei soggetti, restano tra noi, impuniti, anche se a volte… condannati!
Perché il sistema non trema, non si ferma, non s’indigna e soprattutto non ha minimamente paura, perché tutti coloro che vivono grazie ad esso sanno bene che questa storia è come la sceneggiatura di quel film ,”Via col vento”, già…”domani sarà un altro giorno”.
E difatti un altro giorno significa un’altra mazzetta, un nuovo accordo sottobanco, sì… certo, cambiano i nomi, i luoghi, i dettagli, ma il meccanismo “oleato” resta identico, quasi fosse un orologio (non uno d’imitazione come quelli che si vedono su “Tik Tok”, bensì uno di lusso, sì… ricevuto in cambio delle concessioni compiute illegalmente, portato tra l’altro da questi soggetti in maniera indegna al polso; osservandoli penso: quanto vale possedere un modico orologio da 10 euro, sapendo di aver salvaguardato la propria dignità…), solo che invece di ticchettare l’ora, quello strumento fa tintinnare il ricordardo nella mente, sì… di quando ricevere nuovamente quella mazzetta.
E allora vi chiedo: pensate davvero che oggi sarà diverso da ieri? Che domani sarà diverso da oggi? No… non lo è, e non lo sarà, anche se poi, come ingenui spettatori, applaudiamo quanto compiuto dalle forze dell’ordine e dalla magistratura, convinti che qualcosa stia realmente cambiando. Ma dentro di noi, nel nostro profondo, lo sappiamo bene: è solo fumo negli occhi!
Perché il problema non è quel singolo dirigente, funzionario, imprenditore, politico, mafioso, no… il problema è il sistema che lo alimenta, che permette a chi dovrebbe controllare, vigilare, denunciare, non restare in quella stanza e far finta di non vedere “l’elefante”, perché anche quando non si partecipa direttamente, quando la mazzetta (a differenza dei suoi colleghi) non viene presa, quando si riesce a fare a meno di quegli introiti non dichiarati, beh… questa decisione, vi assicuro, non è per nulla meglio di quella corruzione, perché, preferire non denunciare per paura, non fare il proprio dovere e quindi non opporsi a quel sistema corrotto, forse anche perché si temono ripercussioni personali e/o familiari, non giustifica i silenzi …
Difatti, nell’esser ignavi, si è scelto di essere – se pur senza prendere bustarelle e quindi con le mani vuote – complici e quindi colpevoli!
Mi chiedo ogni giorno come sia possibile ciò, ma soprattutto perché accettiamo questo? Perché i miei connazionali onesti si limitiamo a guardare, a commentare, a indignarsi per un giorno, per poi riprendere la loro vita come se nulla fosse?
Lo so… non dico che sarebbe facile, ma almeno sarebbe onesto…
Ieri, scorrendo Facebook, mi sono imbattuto in un post che riecheggiava una denuncia che conosco bene: la mia. Prima di parlare di ponti sullo stretto o di venire a chiederci il voto, qualcuno dovrebbe ascoltare le voci che si alzano dal cemento crepato della SP102 II.
Già… come quella del Sindaco Ruggero Strano, ora anche Consigliere Provinciale, che ha appena inviato un grido d’allarme alla Città Metropolitana di Catania.
Leggere la sua nota ufficiale è come ripercorrere quella strada con le sospensioni che gemono:
“la presente per segnalare alla S.S. un tratto di strada ammalorato sito presso la SP102 Il al Km 3.0 da Sferro direzione Castel di ludica. La strada in questione versa in condizioni di grave degrado, con buche e crepe che rendono pericoloso il transito veicolare, dunque la sua condizione attuale rappresenta un rischio concreto per la sicurezza di tutti gli utenti della strada.
Pertanto, al fine di prevenire disagi e situazioni di grave pericolo per la regolare circolazione veicolare della strada SP102 II, nonché al fine di garantire l’incolumità dei cittadini che giornalmente si trovano a percorrere la sopracitata strada, con la presente, si chiede alla S.S. un intervento urgente affinché possa essere ripristinato il tratto di strada ammalorato sito presso la SP102 II eseguendo i lavori di manutenzione e riparazione necessari a garantire la sicurezza e la fluidità del traffico“.
Rileggendo alcune di quelle parole – “segnaliamo un tratto ammalorato, buche, crepe, un rischio concreto per chi transita, intervento urgente per garantire sicurezza e fluidità“- non si può che avere i brividi.
Già… parole che sembrano scolpite nel bitume consumato. Eppure, quante volte abbiamo urlato la stessa cosa? Io stesso, in questo blog, ho mappato quel degrado come un diario di bordo, a cui debbo dire sono seguiti degli interventi se pur limitati, come il ripristino di alcune buche con bitume, lavori sul viadotto, posa di guard rail e segnaletica…
Venerdì 7 giugno 2024 – Forse è tempo che quell’Assessorato delle infrastrutture e della mobilità, inizi a fare qualcosa!
Venerdì 30 agosto 2024 – Presidente Schifani – so bene che non siamo sotto periodo di elezioni – ma perché non prova a farsi un giro con il suo staff per le strade siciliane?
Per ultimo, il post di giovedì 6 giugno 2024, nel quale facevo all’inizio riferimento: Caro “Ministro delle Infrastrutture” (Matteo Salvini) & Co. (Meloni e Tajani): prima di parlare di ponte sullo stretto o presenziare in questi giorni per chiederci il voto, ascoltate ed osservate quanto richiesto a gran voce dal Sindaco Ruggero Strano!
Non so quanto peso abbiano avuto le mie segnalazioni, ma qualcosa nell’anno solare si è mosso e oggi, con la nota del Consigliere Provinciale Strano, la richiesta diventa corale.
Perché essere cittadini attivi significa proprio questo: insistere, documentare, tenere traccia, senza aspettarsi medaglie, ma con la certezza che ogni voce aggiunta al coro scalfisce l’indifferenza.
E allora Vi chiedo: cosa possiamo fare ancora? Condividere queste richieste? Fotografare ogni buca? Scrivere ancora ai “politici e dirigenti” di turno!
Perché la verità è semplice: una strada sicura dovrebbe essere un diritto, non un miraggio!
E mentre a Roma discutono di megaprogetti, ponti, altavelocità, porti, etc… noi continueremo a indicare il selciato che crolla sotto le nostra ruote…
Le carceri italiane sono ormai il simbolo di una gestione pubblica disastrosa, caratterizzata da scelte politiche e amministrative che hanno prodotto conseguenze devastanti.
Le circolari ministeriali e le disposizioni adottate negli ultimi anni hanno generato un effetto a catena di reati, aggressioni e rivolte, mentre il governo delle strutture detentive appare sempre più condizionato dagli interessi mafiosi.
Il danno economico derivante da questa situazione è incalcolabile: miliardi di euro dispersi tra inefficienze, costi di riparazione e spese straordinarie legate alla gestione delle emergenze.
Eppure, nonostante la gravità del problema, le responsabilità contabili, civili e forse anche penali non sono mai state adeguatamente approfondite.
Nel frattempo, gli agenti penitenziari, ormai stremati da un sistema che li abbandona, non hanno strumenti efficaci per impedire che le mafie controllino l’interno delle carceri.
Per spezzare questo ciclo vizioso, è necessario riscrivere le regole, costruendo un modello basato sulla civiltà e sulla speranza per i detenuti. Tuttavia, ciò non può significare concedere ulteriore spazio ai gruppi criminali più pericolosi, che oggi approfittano della debolezza delle istituzioni per rafforzare il loro controllo.
Occorre impedire a una minoranza mafiosa di dettare legge e vietare qualsiasi forma di autogestione degli spazi condivisi, che di fatto trasforma le sezioni detentive in vere e proprie roccaforti della criminalità organizzata.
Le recenti indagini della magistratura palermitana hanno messo in luce falle gravissime nel sistema di sicurezza, con l’introduzione indiscriminata di telefoni cellulari e altri strumenti di comunicazione illeciti.
Oggi, persino le sezioni di alta sicurezza non riescono più a garantire un controllo adeguato: i boss mafiosi possono continuare a comandare e a reclutare nuovi adepti, trasformando il carcere in un centro operativo per le loro attività criminali.
L’unico regime che ancora riesce a contrastare questo fenomeno è il 41bis, che limita drasticamente i contatti con l’esterno e impedisce il controllo mafioso sugli spazi comuni. Tuttavia, anche questa misura sembra destinata a essere smantellata nel tempo, rendendo il carcere sempre più irrilevante rispetto alle sue due funzioni principali: garantire la sicurezza dei cittadini e rieducare i condannati.
L’introduzione dei telefoni nelle carceri è un fenomeno ormai fuori controllo.
La libera circolazione dei detenuti all’interno delle strutture rende estremamente semplice il contrabbando di dispositivi, che possono essere lanciati dall’esterno, trasportati dai droni o introdotti durante i colloqui con i familiari.
Un cellulare in mano a un boss significa la possibilità di continuare a gestire il traffico di droga, impartire ordini ai propri affiliati e persino commissionare omicidi.
Fino a qualche anno fa, chi introduceva un telefono era sottoposto a misure disciplinari rigorose, e gli utilizzatori venivano immediatamente trasferiti. Oggi, invece, il numero di sequestri è in costante aumento, ma le sanzioni sono praticamente inesistenti. Il sistema sembra aver alzato bandiera bianca.
Quali prospettive per il futuro?
Per invertire questa deriva serve una classe dirigente preparata e determinata, capace di interrompere il binomio retorica-incompetenza che da anni grava sulle scelte politiche in materia carceraria.
Ma prima ancora, è necessaria una presa di coscienza collettiva sugli errori commessi, sulle inefficienze del sistema e sulle conseguenze di un approccio sempre più permissivo nei confronti della criminalità organizzata.
Il carcere non deve diventare un luogo di tortura, ma nemmeno un territorio senza regole in cui la mafia continua a dettare legge.
Ripristinare un sistema sicuro e funzionante è un dovere verso le vittime della criminalità, verso gli agenti penitenziari che ogni giorno rischiano la vita e verso tutti i cittadini che meritano uno Stato forte e credibile.
Dopo essermi preso ieri un giorno per dedicare a mia figlia un post, un tributo a quel sentimento puro e incondizionato che solo l’amore di un genitore può comprendere, ho voluto celebrare la bellezza delle relazioni autentiche e ricordare quanto sia importante nutrire i legami che danno senso alla nostra vita. Gesti così profondi e sinceri mi hanno ricordato perché vale la pena lottare ogni giorno per una terra migliore.
Oggi quindi ritorno a parlare di tutti quei temi che viceversa offendono la vita civile e sociale di tutti noi.
Riprendo quindi i contenuti che solitamente affronto nel mio blog, concentrandomi su tutte quelle situazioni che minacciano i valori fondamentali della democrazia, della legalità e della giustizia.
Sappiamo come purtroppo viviamo un periodo in cui fare la cosa giusta sembra spesso difficile, eppure ci sono ancora persone che, come il sottoscritto, ogni giorno si impegnano per garantire un futuro migliore, mi riferisco a quelle persone che, senza alcun timore, lottano per mantenere vivi i principi su cui si fonda una società equa e rispettosa.
Ma quanto sopra da solo non basta; già… ci troviamo costantemente a dover affrontare realtà che mettono a dura prova questi ideali: ingiustizie, disuguaglianze, mancanza di trasparenza e, talvolta, persino la violazione dei diritti fondamentali.
Ed è proprio in questi momenti che dobbiamo ricordare l’importanza di non arrenderci, di continuare a credere nel potere della collettività, nel valore della partecipazione e nella forza delle idee.
Perché è solo attraverso l’impegno di ciascuno di noi che possiamo pernsare di costruire un mondo in cui la democrazia e la legalità non siano solo parole, ma pilastri concreti su cui fondare il nostro vivere comune.
Questa mattina affronto un tema di grande rilevanza: le rivelazioni confidenziali fornite da alcuni affiliati di una nota associazione criminale, da tempo protagonista di un sistema che opprime il Paese e, in particolare, la mia isola…
Le loro dichiarazioni gettano luce su dinamiche preoccupanti, che confermano quanto il fenomeno mafioso continui a soffocare lo sviluppo e la libertà delle comunità colpite.
La verità, sapete qual è? Oggi il livello della mafia è basso!!!
Con queste parole definiscono “Cosa Nostra” i boss, mentre vengono intercettati!!!
Tra di essi vi è persino chi manifesta nostalgia per gli uomini di un tempo, molti dei quali ora sostituiti dalle nuove leve: “E cosa dire del business di una volta… siamo scesi in basso, e non parliamo dei pentiti, basta che si viene arrestati e iniziano a parlare, parlare, parlare, per non finirla più!!!”.
Sì… qualcuno dice che la speranza è nel futuro, tutti noi speriamo nel futuro, in particolare per Palermo, ma ditemi: chi sarà mai questo giovane che potrà cambiare questo stato di fatto?
Avete dimenticato cosa dicevamo un tempo ai nostri novizi: A scuola te ne devi andare…
Vero… un tempo “Cosa Nostra” contava, ma di allora non è rimasto più nulla, né gesti criminali, ancor meno prestigio, e non parliamo dell’organizzazione, quella da tempo non esiste più!!!
Ricordo – dice un boss – quando, rivolgendomi a un caruso, dicevo: Conoscerai dottori, avvocati, quelli che hanno comandato l’Italia e l’Europa. Ti basterà guardare “Il Padrino” per capire come egli non fosse il capo assoluto, ma fosse particolarmente influente per il potere che si era costruito a livello politico, in quei grossi ambienti…
Oggi, viceversa, siamo solo “zingari“!!!
“Campiamo – prosegue il boss intercettato – con la panetta di fumo. Ma ditemi una cosa: le persone di una volta, quelli che disgraziatamente sono andati a finire in carcere per tutta la vita… ma che parlavano della panetta di fumo?”.
Infatti, allora… se proprio quei boss dovevano parlare di fumo, il discorso… te lo facevano, ma solo perché doveva arrivare una nave piena di fumo!!!
“Se tu parli oggi con quelli che detengono il business, sai cosa fanno? Ci ridono in faccia. Siamo troppo bassi per loro… siamo a terra. Noi ci illudiamo che siamo quì a fare il business, ma la verità è che sono altri a decidere”.
“Già… un tempo eravamo noi, oggi lo fanno altri, e noi siamo soltanto gli zingari!!!”.
Anche i mafiosi si lamentano delle nuove generazioni…
Secondo i capi, i giovani che oggi entrano nella criminalità organizzata non rispettano più le vecchie regole, dimostrando poca lealtà e mancando soprattutto di quel “prestigio” che un tempo caratterizzava la mafia.
Già… quella che aveva, e che in parte ancora mantiene, contatti con la politica, gli avvocati, i professionisti e gli imprenditori ed anche con uomini infedeli delle Istituzioni .
Questo emerge ora da una maxi-operazione della Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo, che ha portato a numerosi arresti, rivelando un’organizzazione in crisi e lontana dal passato splendore.
Tra l’altro, nelle intercettazioni spicca la nostalgia per i tempi d’oro: «Il livello è basso», si sente dire in una conversazione. «Oggi arrestano uno e si fa pentito, poi arrestano un altro e anch’egli si offre di parlare».
I capi rimpiangono il passato, già… quando la mafia aveva influenza e potere, come in quel noto film “Il Padrino”, una sceneggiatura scritta da Francis Ford Coppola e Mario Puzo, liberamente ispirata al romanzo omonimo di quest’ultimo scritto nel 1969.
Oggi, viceversa, secondo i vecchi boss, questi nuovi affiliati sono come “zingari“, sì… ridotti a compiere per pochi euro traffici miseri: Sì… – ripete un vecchio boss – questi giovani sono enormemente lontani dai business in cui un tempo dominavamo.
E non solo: la nuova criminalità si è abbassata a riprendere attività che durante la pandemia erano state abbandonate, come il pizzo e il racket. Attività considerate “minori” e poco redditizie, ma che ora vengono riproposte per sopravvivere in un contesto sempre più frammentato e privo di controllo.
I giovani, secondo i boss, non vogliono più sottostare alle gerarchie tradizionali.
«A scuola te ne devi andare», diceva un capo a un novizio, riferendosi alla necessità di costruire relazioni con persone influenti.
Ma la realtà è diversa: la nuova generazione sembra aver abbandonato i vecchi codici, lasciando i capi a rimpiangere un’epoca che secondo loro, non tornerà più…
a volte ho l’impressione che i nostri politici siano degli inetti o, quantomeno, impreparati, soprattutto quando si tratta di affrontare problemi di carattere globale.
Poi leggo alcuni post o dichiarazioni di illustri leader mondiali, e comincio a pensare che, alla fine, l’ignoranza sia la madre di tutti i mali che affliggono la nostra società.
Prendiamo, ad esempio, le recenti dichiarazioni di Donald Trump sulla Striscia di Gaza.
L’idea di trasformare Gaza in una sorta di località di villeggiatura, mentre il popolo palestinese vive una delle tragedie più profonde della sua storia, è non solo irrealistica, ma anche profondamente insensibile…
Migliaia di persone sono senza casa, senza accesso a servizi di base, vivono in condizioni disumane. Pensare di risolvere tutto con un progetto edilizio o turistico è una visione miope che ignora le radici del conflitto e le sofferenze di un intero popolo.
È vero, il popolo palestinese ha bisogno di trovare una propria identità e di costruire un futuro di pace e stabilità. Ma questo non può avvenire sotto la minaccia di gruppi armati come Hamas, che, pur presentandosi come difensori della causa palestinese, hanno spesso contribuito a perpetuare il ciclo di violenza e sofferenza. La libertà e la democrazia non si costruiscono con le armi, ma attraverso il dialogo, la cooperazione e il rispetto dei diritti umani.
C’è bisogno di una vera e propria indipendenza da tutte quelle forze rivoluzionarie che, invece di favorire lo sviluppo di una società libera e giusta, alimentano odio e divisioni. Un Paese che vuole raggiungere un proprio status nella comunità internazionale non può farlo attraverso la violenza, ma deve puntare sulla diplomazia, sull’istruzione e sulla costruzione di istituzioni solide e trasparenti.
Non si può pensare di combattere per sempre. Arriva un momento in cui le parole devono avere il sopravvento sulle armi, altrimenti si resta prigionieri di un ciclo infinito di oppressione e vendetta. Chi detiene il potere, sia esso politico, militare o economico, ha la responsabilità di agire con saggezza e lungimiranza, non con coercizione e forza bruta.
È tempo che i palestinesi riprendano in mano le proprie vite, lottando non solo contro l’occupazione esterna, ma anche contro chi, all’interno, li strumentalizza per interessi personali o ideologici. Donne, bambini e intere famiglie sono spesso lasciati in balia di un destino crudele, utilizzati come pedine in un gioco politico che non tiene conto della loro dignità e dei loro diritti.
Certo, immaginare Gaza come un luogo prospero e pacifico, dove i palestinesi possano vivere in condizioni dignitose, sarebbe meraviglioso. Ma questa visione non può restare un’utopia. Negli anni, miliardi di dollari sono stati inviati nella regione, sia dalla comunità internazionale che dai Paesi arabi. Eppure, questi fondi non sono stati utilizzati per costruire scuole, ospedali o infrastrutture, ma per finanziare tunnel, armi e missili. Una scelta scellerata che ha alimentato ulteriore odio e distruzione, lasciando Gaza in macerie.
Oggi ci troviamo di fronte a una terra devastata, dove persino ripulire le macerie richiederà anni. E mentre il mondo guarda, ci si chiede: quando finirà questa spirale di violenza? Quando si capirà che la vera forza non sta nella distruzione, ma nella costruzione di ponti, nel dialogo e nella riconciliazione?
Il popolo palestinese merita di più. Merita un futuro in cui i bambini possano crescere senza paura, in cui le donne possano vivere con dignità e in cui gli uomini possano costruire un Paese libero e prospero. Ma questo futuro non arriverà finché prevarrà la logica della guerra e dell’odio.
Forse è arrivato il momento di smettere di guardare alla Palestina (e a Israele) solo attraverso le lenti del conflitto e di iniziare a pensare a soluzioni concrete, che mettano al centro le persone e i loro diritti. Perché, in fondo, la pace non è un sogno irrealizzabile, ma una scelta che richiede coraggio, umanità e volontà di cambiare.
Donald Trump ha presentato un’idea sconcertante per il futuro della Striscia di Gaza: trasformare la sua costa, un tempo incontaminata ma oggi ridotta in macerie, nella nuova capitale del turismo del Medio Oriente.
Il presidente immagina resort di lusso, casinò, ristoranti e hotel a cinque stelle che dovrebbero sorgere al posto di ciò che resta della città.
Durante una conferenza stampa alla Casa Bianca, affiancato dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, Trump ha illustrato la sua proposta: gli Stati Uniti prenderebbero il controllo della Striscia di Gaza e trasferirebbero i circa due milioni di palestinesi in nuove abitazioni fuori dal territorio.
Il piano prevede la bonifica dell’area da detriti e ordigni inesplosi, per poi avviare uno sviluppo economico che trasformi Gaza in un centro turistico, proprio come nell’immagine realizzata dallo stesso Trump: “Costruire alloggi di qualità davvero buona, creare una città vivibile, un posto dove poter vivere e non morire, perché a Gaza la morte è una certezza”.
Ma c’è un dettaglio che sembra essergli sfuggito; nel suo piano, Gaza sembra destinata a diventare un paradiso per il turismo, ma la circostanza assurda è che Trump abbia dimenticato un dettaglio fondamentale e cioè: dove dovrebbero andare i palestinesi?
Già… quale sarebbe la loro destinazione finale?
D’altronde, quel bellissimo progetto si limita a immaginare un nuovo volto per Gaza, ma ignora completamente il destino della sua popolazione, che, viste le condizioni di estrema povertà in cui si trova, quelle ipotetiche strutture turistiche potrà ammirarle solo da lontano, già… quasi fossero un miraggio!!!
Ed è qui che sorge spontanea una domanda: chi decide dove e come dovrebbero vivere i palestinesi? Gli Stati Uniti? Israele? L’Unione Europea? Il mondo arabo? Chi…?
Già, perché è questa la vera questione da porsi, eppure sembra che tutti preferiscano evitarla, forse per paura di restare invischiati in una questione tanto scomoda???
Il prefetto di Catania ha disposto, su delega del ministro dell’Interno, l’accesso ispettivo al Comune di Paternò per «verificare l’eventuale sussistenza di elementi concreti, univoci e rilevanti su collegamenti diretti o indiretti con la criminalità organizzata di tipo mafioso».
La Commissione si è insediata il 31 gennaio e, come previsto dal Testo unico sull’ordinamento degli Enti locali, dovrà concludere gli accertamenti entro un massimo di sei mesi. Questa indagine amministrativa è fondamentale per verificare se l’attività del Comune sia stata condizionata da interessi illeciti, minando la legalità e la trasparenza dell’ente.
Ciò che m’interessa evidenziare o quantomeno far comprendere è cosa significa, concretamente, un’infiltrazione mafiosa all’interno di un Comune!
Innanzitutto partiamo dal controllo del territorio attraverso la politica e la burocrazia…
L’inchiesta che ha portato all’accesso ispettivo parte da un’operazione condotta dai carabinieri nell’aprile del 2024, che ha fatto emergere presunte infiltrazioni mafiose nella gestione delle aste di terreni e immobili. Complessivamente, sono 49 le persone indagate, tra cui esponenti politici locali, imprenditori e affiliati a un clan mafioso.
Tra le accuse più gravi vi è lo scambio elettorale politico-mafioso, un meccanismo che consente ai clan di ottenere favori e potere all’interno delle amministrazioni pubbliche. Secondo l’accusa, in occasione delle elezioni comunali del 2022, sarebbero stati garantiti voti in cambio dell’assunzione di soggetti vicini alla criminalità organizzata in un’azienda che opera nel settore della raccolta e smaltimento rifiuti.
Comprenderete bene come un simile sistema non si limita a garantire il successo elettorale di determinati candidati, ma permette alla mafia di entrare direttamente nella gestione del Comune, influenzando appalti, assunzioni e decisioni strategiche.
Il vero pericolo si concretizza quando la mafia prende il posto dello Stato, controllando le istituzioni e spegnendo la democrazia.
Difatti, quando la criminalità organizzata riesce a infiltrarsi in un’amministrazione comunale, i danni per la comunità sono enormi e questi si manifestano ahimè su più livelli:
Innanzitutto ad essere distrutta è proprio la democrazia: il voto perde il suo valore reale e la rappresentanza politica viene distorta, favorendo solo gli interessi di gruppi criminali invece che quelli della collettività.
Ed ancora, una gestione illecita delle risorse pubbliche: i finanziamenti destinati al miglioramento dei servizi per i cittadini vengono dirottati per arricchire gruppi mafiosi e imprenditori compiacenti. Strade, scuole, servizi sociali vengono trascurati perché il denaro pubblico viene utilizzato per alimentare clientele e reti di potere.
C’è poi il condizionamento degli appalti pubblici: le gare d’appalto vengono pilotate per favorire aziende vicine ai clan, escludendo imprese oneste e creando un mercato drogato in cui a vincere non è chi offre il miglior servizio, ma chi è più vicino alla mafia. Questo porta a lavori di scarsa qualità e all’aumento dei costi per la collettività.
A ciò si aggiunge il sistema delle raccomandazioni e delle assunzioni pilotate, non solo nelle imprese affiliate, ma anche nel settore pubblico: quando i clan riescono a far entrare loro uomini negli uffici comunali o nelle società partecipate, hanno accesso a informazioni riservate, possono rallentare o favorire pratiche burocratiche e bloccare controlli su attività illecite. In questo modo, il Comune diventa un ingranaggio della macchina mafiosa.
Tutto ciò determina un’evidente crescita dell’illegalità e quando i cittadini vedono che le istituzioni sono controllate dalla mafia, aumenta purtroppo la sfiducia nello Stato e si rafforza l’idea che rivolgersi ai clan sia l’unico modo per ottenere favori, lavoro o sicurezza.
Ed è questo che genera quel maledetto circolo vizioso in cui la mafia diventa sempre più forte e difficile da sradicare.
Ecco perché sono fondamentali le indagini condotte dalle forze di polizia, perché solo attraverso di esse si può cercare di ancora avere una forma di vigilanza democratica: denunciare, vigilare e pretendere trasparenza sono gli strumenti più potenti per difendere la nostra democrazia e impedire che il crimine organizzato soffochi il futuro delle nostre comunità.
Perché solo grazie alle verifiche condotte nei Comuni della nostra regione che si può tentare di comprendere se le amministrazioni sia realmente condizionate dalla criminalità organizzata e nel caso in cui emergessero elementi concreti, si potrebbe arrivare allo scioglimento dell’ente per infiltrazioni mafiose, come già avvenuto in passato in altri nostri comuni siciliani.
E quindi, se da un lato le istituzioni devono rimanere vigili per evitare che la criminalità si impossessi delle strutture pubbliche, dall’altro è fondamentale che i cittadini prendano coscienza della gravità del problema e pretendano trasparenza e legalità da chi governa le loro città.
Solo così si può spezzare il legame tra mafia e politica e restituire ai comuni il loro vero ruolo: essere al servizio della collettività, e non di interessi criminali!!!
Nel 2014 parlando di Fabrizio Corona concludevo un post con questa frase: La legge non può rendere giustizia… quando colui che detiene il potere (esecutivo) tiene in mano anche la legge!!!
Ed ora dopo tanti anni, questo mio coetaneo ed anche amico/conoscente (non so se si ricorda delle serate trascorse insieme da ragazzo nelle tante discoteche di Catania, Recanati (Giardini Naxos) ed anche Taormina, quando il sottoscritto organizzava come PR…), ha deciso nuovamente di far parlare di sé, tornando alla ribalta con le sue solite rivelazioni esplosive.
Sappiamo bene come, alcuni anni fa, durante il periodo più buio della sua vita, già… quando si trovava rinchiuso in un penitenziario (ricordiamolo: senza aver ucciso nessuno), sia stato costretto a pagare caro per alcune dichiarazioni che coinvolgevano uno dei membri di una delle famiglie più potenti d’Italia. Una famiglia che, da sempre, ha avuto un’influenza enorme sulle sorti del Paese, muovendo come fossero pedine, i protagonisti della nostra politica nazionale.
In quell’occasione, Corona fu messo a tacere e sono stati in molti, forse per paura o per non restare coinvolti, ad avergli voltato le spalle, già… quasi che egli avesse la peste; non il sottoscritto che viceversa ha sempre preso le sue difese, basti rivedere alcuni post scritti sin dal 2014:
Ho sempre pensato (ed il sottoscritto, forse, avrebbe fatto lo stesso…) che, per poter uscire da quella situazione critica, egli abbia dovuto firmare qualche liberatoria, sì… rinunciando di parlare pubblicamente su quanto accaduto in quella notte, a quel noto “rampollo”… ma soprattutto, a non divulgare le prove di cui è sicuramente ancora in possesso.
Ora che è finalmente uscito da quel tunnel, ha deciso di riprendersi ciò che gli spetta, tornando a immergersi nell’ambiente in cui un tempo brillava: quello dei social media.
E così, il “re dei paparazzi” è tornato alla carica!!!
Dopo aver pubblicato il “Libro Nero” su Totti e Ilary Blasi e quello dedicato ai “Ferragnez”, ha ora deciso di accendere i riflettori su un nuovo caso che coinvolge nientemeno che il Presidente del Senato, Ignazio La Russa, e la Ministra del Turismo, Daniela Santanchè.
In occasione della presentazione del suo libro alla Mondadori a Milano, Corona ha rivelato di aver ricevuto una telefonata da La Russa, il quale gli avrebbe chiesto di non diffondere il nome di un’amica di suo figlio, coinvolta in una presunta storia di tradimento.
Di per sé, la notizia potrebbe sembrare di poco conto, ma assume un peso diverso se a chiedere l’eventuale favore fosse stato realmente il Presidente del Senato. Questo, naturalmente, solleverebbe non poche riflessioni…
Ovviamente da parte degli ambienti vicini al presidente La Russa, arriva una netta smentita: nessun contatto con Corona!
Lui, però, insiste sulla sua versione e promette di rivelare i dettagli.
Osservando quanto sta accadendo in questi giorni – dopo l’accordo di cessate il fuoco tra Israele e Hamas del 19 gennaio – ho ripensato ai quindici mesi di conflitto in quel territorio.
Migliaia di civili uccisi, tra cui donne e bambini, la Striscia di Gaza ridotta a un cumulo di macerie, una devastazione totale.
Mi chiedo: a cosa è servito tutto questo? Qual era, fin dall’inizio, il vero obiettivo di Hamas? Liberare i propri ostaggi (e forse alcuni familiari), sacrificando la popolazione civile?
Questa mattina Hamas ha rilasciato altri due ostaggi israeliani, con il previsto rilascio di un terzo nelle prossime ore: un cittadino con doppia cittadinanza, israeliana e statunitense. In cambio, Israele dovrebbe liberare 183 prigionieri palestinesi. Secondo Hamas, tra questi 18 stanno scontando l’ergastolo mentre 54 hanno condanne a lungo termine; i restanti sono abitanti di Gaza arrestati dopo l’attacco del 7 ottobre 2023.
I tre ostaggi liberati oggi – Bibas, Kalderon e Siegel – sono civili imparentati con altre persone sequestrate in quel tragico giorno. La moglie di Siegel e i figli di Kalderon erano stati liberati durante la breve tregua di novembre 2023. La vicenda della famiglia Bibas, invece, è ancora più drammatica: Yarden Bibas è il padre di Kfir e Ariel, due bambini di nove mesi e quattro anni al momento del rapimento, e marito di Shiri Bibas.
Hamas sostiene che i tre siano stati uccisi in un bombardamento israeliano nel 2023, ma Israele non ha conferme in merito. Secondo i termini dell’accordo, se fossero stati vivi sarebbero dovuti essere rilasciati prima degli uomini, cosa che non è avvenuta. La restituzione dei corpi degli ostaggi morti in prigionia è prevista nelle fasi successive del cessate il fuoco.
Questa volta il rilascio è stato meno caotico rispetto ai precedenti, quando gli ostaggi venivano liberati in mezzo a folle di palestinesi accorsi ad assistere alla scena, creando calche che rallentavano il trasferimento.
Ancora una volta sorge una domanda: la vera battaglia non dovrebbe essere per risolvere i problemi della società civile? Per trovare un modo pacifico di convivere con Israele, per costruire uno Stato Palestinese riconosciuto a livello internazionale? Per adottare processi che portino a una società più democratica e meno armata?
No, nulla di tutto questo. Il bilancio è solo quello di oltre 45.000 vittime civili, trasformate in scudi umani e carne da macello per gli interessi di un gruppo militare che si fa portavoce della liberazione di un popolo, ma che in realtà persegue solo il potere e la liberazione di alcuni suoi affiliati.
Quindici mesi di conflitto che hanno infiammato tutto il Medio Oriente: dal pogrom all’invasione di Gaza, dagli attacchi dei ribelli yemeniti alla crisi in Siria. Ma per cosa, esattamente?
Già…il dramma di Gaza: vite sacrificate per uno scambio di prigionieri…
Non so voi, ma ogni volta che vedo in TV o leggo un articolo sul mio omonimo, il Procuratore Nazionale Nicola Gratteri, mi vien da piangere…
L’altra sera l’ho rivisto su La7 da Lilli Gruber, e ancora una volta ho provato un senso di amarezza profonda.
Penso a chi dedica la propria vita a questo Paese, rischiando tutto, e a chi invece non ha mai mosso un dito, anzi, fa carriera restando nell’ombra, seduto dietro una scrivania.
È così che funziona qui, ed è così che continuerà finché il sistema clientelare e giudiziario resterà colluso, legato a quelle correnti politiche che decidono chi deve avanzare senza merito e chi, invece – come Gratteri – deve essere ostacolato, quasi esiliato, solo perché fa bene il proprio lavoro.
Mi torna in mente la vicenda di Giovanni Falcone, ostacolato nella sua nomina a Consigliere Istruttore del Tribunale di Palermo. Oggi la storia si ripete con Gratteri, escluso dalla Procura Nazionale Antimafia perché non allineato a certe logiche di potere. Lo aveva già previsto, tanto da dichiarare in un’intervista: “Io lo sapevo, ma ho scelto di non iscrivermi a nessuna corrente. Non conosco nemmeno il 50% dei membri del CSM, non li riconoscerei per strada, perché non li frequento“.
Qualcuno ha deciso di sbarrargli la strada. Forse perché ha indagato troppo, su mafia, ‘ndrangheta, camorra… certamente più di tutti loro messi insieme. E questo ha dato fastidio.
Ora, da Procuratore di Napoli, si ritrova sotto attacco: un’inchiesta si sgretola, i reati vanno in prescrizione, le accuse si rivelano inconsistenti, il processo si chiude nel nulla. Con un costo umano, politico e istituzionale, altissimo.
E allora sì, mi viene da piangere. Perché vedo il silenzio della stampa – e chissà, magari qualcuno sotto sotto ride pure. Perché nessuno lo difende???
Certo, Gratteri è un uomo, può sbagliare. Uno, due, tre, quattro, cinque volte.
Ma finché continuerà a indagare con onestà, senza piegarsi a pressioni o interessi di parte, resterà una delle poche figure di cui questo Paese può ancora fidarsi. Ed io, pur comprendendo talune critiche giuste e forse anche costruttive, beh… come dicevo, preferisco sempre un magistrato che, ogni tanto, possa commettere un errore piuttosto che uno che non sbaglia mai… perché in malafede.
Sento in questi mesi paragonare il genocidio della Shoah all’attuale questione palestinese.
Perdonatemi, ma chiunque possieda una mente libera e quindi incondizionata non potrà – leggendo le prossime righe – giungere alle mie stesse riflessioni.
Pensare anche soltanto di paragonare la “soluzione finale” – lo sterminio sistematico e premeditato degli Ebrei in tutta Europa, perpetrato da menti malate naziste – è profondamente sbagliato. Un crimine, per come è stato progettato e perpetrato, disumano, che non colpì solo gli Ebrei, ma anche Rom, persone con disabilità, oppositori politici, scrittori, omosessuali e tanti altri considerati “indesiderabili”. Una ferita indelebile nella storia dell’umanità, un abisso morale da cui non ci siamo mai completamente risollevati e che ha segnato per sempre la nostra coscienza collettiva.
Ciò che accadde allora non può né deve mai essere giustificato. E il solo pensiero di paragonare quella tragedia alla questione palestinese è, a mio avviso, inappropriato.
Sebbene ciò che sta accadendo in questi mesi in Palestina possa essere definito una strage di innocenti, e in alcuni casi un crimine contro l’umanità, trovo pericolosi i parallelismi tra Nakba e Shoah che proprio alcuni illustri storici vorrebbero in queste ore riproporre.
Premesso che ogni violenza, specialmente contro donne e bambini, è sempre abominevole, tuttavia, non si possono mettere sullo stesso piano due tragedie di natura e contesto così diversi. Questo non significa negare la gravità di quanto sta accadendo oggi, ma è essenziale mantenere un linguaggio preciso e rispettoso della storia.
Voglio sottolineare che il mio intento non è sminuire l’una tragedia rispetto all’altra. Entrambe meritano attenzione: la Shoah per l’eredità storica e morale che ci ha lasciato, e la questione palestinese per l’urgenza di una soluzione che tuteli i diritti umani di tutte le persone coinvolte.
Ciò che invece lascia perplessi è l’uso politico della Shoah contro i palestinesi, quando è storicamente noto che quest’ultimi non hanno avuto alcun ruolo in quella tragedia. Non furono responsabili dell’antisemitismo né del Nazismo, eppure oggi si trovano a subire un’oppressione sistematica da parte di chi, più di ogni altro, dovrebbe conoscere il valore del rispetto per la vita umana.
Perché, allora, non imparare dal passato? Sì… diversamente da 80 anni fa, quando si preferì tacere, è nostro dovere intervenire con urgenza per trovare una soluzione, giusta e definitiva, per il popolo palestinese.
Mentre continua a gestire e ampliare i propri traffici illeciti, come droga, prostituzione, racket ed usura – tutti settori che generano enormi profitti – la mafia rivolge il suo interesse verso un obiettivo più subdolo e strategico: il controllo delle attività imprenditoriali attraverso il riciclaggio di denaro. Questo meccanismo non solo le consente di nascondere i guadagni illeciti, ma anche di consolidare il proprio potere economico e sociale.
Recentemente, durante la relazione di inaugurazione dell’anno giudiziario, il presidente della Corte d’Appello di Palermo, Matteo Frasca, ha lanciato un allarme chiaro: nonostante i colpi inferti negli ultimi anni, la mafia continua a essere una forza criminale attiva, con l’obiettivo di penetrare nell’economia legale e intercettare i fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr). Frasca ha sottolineato come la capacità della mafia di infiltrarsi sia strettamente legata alla persistenza di collusioni con settori politico-amministrativi, che fungono da ponte per il controllo del territorio e per l’accesso alle risorse pubbliche.
Un aspetto cruciale è rappresentato dalla capacità della mafia di rinnovarsi. Anche dopo arresti e processi che hanno decapitato i vertici delle organizzazioni, queste riescono rapidamente a ricostituire le proprie strutture di comando, mantenendo vive le regole mafiose tradizionali e trovando nuovi alleati per rafforzare la propria influenza.
Tra gli obiettivi principali dell’organizzazione spiccano le opere pubbliche realizzate sul territorio. Attraverso atti estorsivi, la mafia esercita pressioni su imprese affidatarie, fornitori e subappaltatori, sfruttando ogni opportunità per trarre vantaggi economici. Questo modus operandi non sarebbe possibile senza la complicità di imprenditori senza scrupoli, che accettano di collaborare con l’organizzazione criminale per ottenere favori o protezione, diventando parte integrante del sistema mafioso senza subirne direttamente le conseguenze.
Questa situazione richiede una risposta ferma e coordinata da parte della società civile, delle istituzioni e delle forze dell’ordine. Combattere la mafia significa non solo colpire i suoi esponenti principali, ma anche spezzare la rete di complicità e connivenze che ne garantisce la sopravvivenza.
Solo attraverso un impegno congiunto si potrà impedire che la mafia continui a infiltrarsi nell’economia legale, compromettendo il futuro di intere comunità. Il messaggio deve essere chiaro: non c’è spazio per chi antepone i propri interessi personali al bene comune.
Stasera voglio riprendere un mio vecchio post del 2013. Sono passati 12 anni, ma nulla è cambiato. Anzi, molte cose sono peggiorate, forse troppe…
“Lotta alla criminalità“. Quante volte abbiamo sentito questa espressione? Eppure, più che una lotta, sembra un’operazione cosmetica, utile a decorare discorsi preconfezionati durante campagne elettorali o celebrazioni ufficiali. Dietro queste parole non c’è la sicurezza dei cittadini, ma un teatrino politico in cui l’interesse reale è tutt’altro.
Ogni giorno, i notiziari riportano rapine, violenze, spaccio, estorsioni e altri crimini che, anziché diminuire, si moltiplicano. E lo Stato? Dove si trova quando la criminalità si evolve e cresce sotto i nostri occhi?
Si dice di non generalizzare, che lo Stato è presente e combatte. Ma i fatti dimostrano il contrario: le azioni si limitano a interventi sporadici, a operazioni dal forte impatto mediatico ma prive di un vero seguito. Nel frattempo, la criminalità si riorganizza, si insinua nei settori economici e istituzionali, trasformando il malaffare in sistema.
Dopo le stragi e le grandi operazioni di facciata, la lotta alla criminalità si è trasformata in compromesso. Non c’è prevenzione, non c’è visione strategica. L’impegno dello Stato sembra più mirato a gestire che a estirpare il problema, lasciando spazio a un sistema che ormai si nutre di collusioni, connivenze e silenzi.
Cosa serve davvero? Un sistema che prevenga il crimine prima che si manifesti? Un impegno reale nel sostenere le famiglie disagiate, educare i giovani, creare opportunità di lavoro? Pene certe, giuste e celeri, senza vie di fuga per i criminali?
Ma tutto questo rimane un miraggio, perché è qui che emerge la vera sconfitta dello Stato. La criminalità organizzata non è solo tollerata: in molti casi, è protetta. Esistono figure istituzionali che, dietro una maschera di rispettabilità, lavorano attivamente per mantenere intatto il sistema. Non per incapacità, ma per volontà.
Il punto più infame è proprio questo: lo Stato che dovrebbe combattere il crimine ne è spesso complice. Non solo con le sue omissioni, ma con le sue azioni. Chi è chiamato a rappresentare la legalità si piega a interessi privati, trasformando le istituzioni in strumenti di potere al servizio di pochi.
Il contrasto alla criminalità organizzata non è una priorità, ma una farsa. Perché cambiare lo status quo significherebbe colpire quegli stessi interessi che alimentano carriere politiche e arricchiscono chi, in teoria, dovrebbe difenderci. Fino a quando questo sistema resterà intoccabile, ogni discorso sulla lotta al crimine sarà solo una recita ben orchestrata.
Ed è questo il vero tradimento dello Stato verso i suoi cittadini: aver abdicato al suo ruolo di garante della giustizia, scegliendo di convivere con il male invece di combatterlo.
Di poche ore è l’ennesimo processo con rito abbreviato relativo all’inchiesta su presunte infiltrazioni mafiose e casi di corruzione in un Comune alle falde dell’Etna.
In particolare, la Procura ha chiesto la condanna dell’ex sindaco per voto di scambio politico-mafioso e per alcuni presunti episodi di corruzione.
Come già avviene da tempo nelle pagine del mio blog, non intendo entrare nel merito delle inchieste giudiziarie, quelle competono ai Tribunali e ai siti web dedicati alla cronaca.
Viceversa, come studioso dei comportamenti umani, e in particolare delle condotte che emergono quando fenomeni politici si intrecciano con soggettività mafiose, mi soffermo sugli effetti e sulle gravi conseguenze che tali dinamiche producono non solo nel territorio amministrato, ma anche nella società civile.
Non bisogna mai confondere la posizione di coloro che ricoprono incarichi istituzionali e, al tempo stesso, giustificano il proprio operato infedele attribuendolo a fattori esterni, come le organizzazioni mafiose. Questo atteggiamento permette a tali organizzazioni di stabilire e consolidare un rapporto capace di estendere i propri tentacoli verso la sfera politica e le istituzioni pubbliche.
In questo modo, l’associazione mafiosa acquisisce un carattere di autonomia e sovranità, elevandosi a una posizione di parità rispetto allo Stato. Ciò le consente di imporre le proprie regole, escludendo quelle statuali, e di affermare una logica di dominio che si concretizza nell’accumulazione di ricchezza. Tale ricchezza, a sua volta, le permette di agire come un soggetto sovrano, capace di legare a sé (alcuni) uomini politici o persino intere organizzazioni di potere, come i partiti.
Nel corso degli anni, l’associazione mafiosa ha strutturato un sistema a doppio binario che opera su due fronti paralleli. Da un lato, vi è la manovalanza, impegnata nei traffici illeciti; dall’altro, vi sono i cosiddetti “colletti bianchi”, che si occupano di politica, preferenze elettorali, appalti, raccomandazioni e gestione della manodopera. Si tratta di una struttura dotata di regole, procedure e sanzioni proprie, un vero e proprio ordinamento giuridico parallelo.
Affrontare un problema di tale portata si rivela estremamente complesso…
Non mancano esempi di illustri studiosi, uomini politici e magistrati che, nonostante anni di impegno e tentativi, non sono riusciti a scardinare questa rete pervasiva. Le continue inchieste giudiziarie sui rapporti tra mafia e politica, regolarmente depositate dai sostituti Procuratori nazionali, rappresentano un drammatico promemoria della profondità e della resilienza di questo sistema. Tuttavia, tali inchieste sono anche un segno che la lotta non è ferma, e che la consapevolezza è il primo passo per costruire un futuro in cui legalità e giustizia possano prevalere.