Oggi sento il bisogno di parlare di una questione che mi sta profondamente a cuore, e che purtroppo si ripete con una sconcertante regolarità… Rifletto da tempo su come il mancato rispetto dei contratti, l’aumento indiscriminato delle ore lavorative e l’erosione delle tutele possano creare un terreno fertile per la tragedia.
Si tratta di un circolo vizioso che, ahimè, continua a mietere “vittime bianche”, ogni giorno, rendendo il lavoro non un luogo di dignità, ma di pericolo.
Mi torna altresì in mente – quanto ho sempre evidenziato nel mio blog – un’altra ambigua circostanza, una procedura che avrebbe dovuto essere un faro di trasparenza. ,
Per anni, ad esempio, ho denunciato il fatto che, nonostante fosse prevista dalla normativa, questa pratica fosse sistematicamente ignorata da molti Committenti, in particolare dai suoi dirigenti, come se le regole fossero optional e non prescrizioni vitali.
Eppure, finalmente, dopo tanto insistere, vedo finalmente un segnale di cambiamento, seppur a macchia di leopardo. Ho constatato personalmente, negli ultimi mesi, che alcuni General Contractor, non tutti purtroppo, stanno iniziando a richiedere con serietà le liberatorie, accompagnate dai relativi bonifici, a tutte le maestranze coinvolte nelle catene d’appalto.
Un passo fondamentale, perché certifica il pagamento e il rispetto dei diritti di chi lavora, dall’appaltatrice principale fino all’ultimo subappaltatore o fornitore. Già… un riconoscimento formale che il lavoratore esiste, è stato retribuito, e non è un fantasma nel sistema.
Pensando a questo, non posso non ricordare quanto accaduto nella mia regione, dove la Fillea Cgil Sicilia ha sollevato il velo su irregolarità profonde negli appalti pubblici. Denunciavano accordi aziendali che, con un lessico calcolatamente edulcorato, trasformavano lo straordinario in “lavoro aggiuntivo”, retribuito forfettariamente e privato di ogni tutela indiretta e differita.
Una deroga silenziosa al contratto nazionale che svuota la dignità del lavoratore. Ma la risposta di taluni Enti (committenti) non è stata lineare, anzi in molte occasioni hanno preferito non affrontare il merito, ma girare lo sguardo, addirittura omettendo di coinvolgere il sindacato nelle comunicazioni successive.
Un comportamento che, ho letto, ha portato la vicenda davanti al Giudice del Lavoro per un presunto comportamento antisindacale! Tutto questo mi fa pensare a una partita, sì… una partita in cui le regole sono chiare, ma chi dovrebbe arbitrare a volte sembra dimenticarsi di farlo, o addirittura scende in campo in modo maldestro negli ultimi minuti.
Noi, però, non possiamo essere spettatori passivi di questo gioco. Perché quando si gioca con i diritti e la sicurezza delle persone, l’unico gol che si segna è quello della negazione della vita stessa e ogni “vittima bianca” è una sconfitta per tutti noi.
C’è una specie di uomo (e di donna) che esiste solo in branco. Non sa stare da solo, non sa parlare se non urlando, non sa guardare negli occhi se non per sfidare chi già trema. Si sente forte solo quando qualcun altro è piegato, ride solo quando sente il silenzio di chi ha smesso di ribellarsi, si gonfia di coraggio solo quando il terreno è già stato spianato dalla paura altrui.
Sono quelli che definiscono “bulli“, ma forse sarebbe più onesto chiamarli per quello che sono: individui meschini, incapaci di rispetto, affamati di potere che non sanno conquistare se non rubandolo a chi non ha la forza di difenderlo. Non combattono, non discutono, non si misurano: aggrediscono. E lo fanno sempre da dietro un muro di compari, perché da soli non reggerebbero neppure il peso del proprio vuoto.
Il sottoscritto viceversa “il nemico lo combatte quando è vivo e non quando è morto. Lo combatte quando è in piedi e non quando giace per terra”.
Già… non è un grido di battaglia, non è l’inno di chi cerca lo scontro per il piacere di distruggere. È qualcosa di più profondo, un principio che parla di onore – non quello delle apparenze, delle pose, delle urla nel vuoto – ma quello che nasce dal coraggio di guardare negli occhi chi ti sta di fronte, senza nascondersi dietro il branco, senza doverlo fare esclusivamente per compiacere il bullo o per non finire come quell’altro, già sottomesso al branco e ahimè pronto a cadere per venir calpestato.
Sì… faccio sempre l’esatto contrario di ciò che farebbe il bullo: quest’ultimo infatti non sceglie mai un avversario in piedi, perché sa che non vincerebbe. Preferisce quindi un bersaglio immobile, un’anima già ferita, un corpo che non reagisce più. E in quel gesto non c’è forza, c’è solo la confessione di una debolezza disperata.
Combattere un nemico quando è in piedi significa riconoscerne il valore, la dignità di avversario. È nello scontro frontale, quando entrambi sono all’apice delle forze, che si misura veramente se stessi. È in quel confronto che le proprie idee vengono messe alla prova, affilate, e a volte persino cambiate.
Sconfiggere qualcuno che non può più reagire, che è già sconfitto dalla vita o dalle circostanze, non è una vittoria, è solo l’ombra di un atto, l’ennesimo gesto che non lascia nulla se non il vuoto. Eppure, quanti sono quelli che scelgono proprio quel vuoto? Quelli che ridono solo quando qualcun altro trema, che parlano solo quando l’altro tace, che si sentono grandi solo accanto a chi è stato ridotto a niente? Non sanno che la vera grandezza non si costruisce sulle spalle di chi cade, ma sul coraggio di restare in piedi anche quando il vento soffia forte.
C’è una motivazione etica in questo, un rispetto quasi tragico per la figura dell’altro. Perché se il nemico è degno del tuo odio, della tua opposizione totale, allora deve essere degno anche di tutto il tuo rispetto in quanto forza contraria.
Abbatterlo quando è già a terra non è solo vigliaccheria, è un tradimento della ragione stessa per cui hai deciso di combattere. È ammettere di aver paura non della sua forza, ma della sua stessa esistenza, e di voler cancellare non la sua minaccia, ma la sua memoria.
Ed è qui che si nasconde il bullo: non nell’atto violento in sé, ma nella sua incapacità di esistere senza umiliare, senza sminuire, senza trascinare qualcun altro nel fango per sentirsi pulito. Non ha idee da difendere, non ha valori da affermare – ha solo il bisogno disperato di sentirsi qualcuno, anche a costo di far sentire nessuno chi gli sta di fronte.
E poi c’è una motivazione che riguarda noi stessi, la nostra integrità. Che uomo o donna, diventiamo se ci abituiamo a colpire solo chi è incapace di rialzarsi? La nostra forza si trasforma in bullismo, la nostra convinzione in fanatismo. Perdiamo la capacità di vedere il confine tra giustizia e crudeltà.
Combattere un nemico in piedi è un atto che nobilita entrambi, perché costringe alla chiarezza, al coraggio, a guardarsi negli occhi e ad accettare le conseguenze delle proprie azioni. Chi invece ha bisogno del branco per sentirsi qualcuno, chi ride solo quando qualcun altro piange, non sta combattendo: sta nascondendo. Nasconde la propria fragilità dietro la maschera della prepotenza, e la sua vittoria è sempre amara, perché sa che non è mai stata reale.
La forze sta nel sapere contraddire senza aggredire, di sapersi opporre ad ogni idea contraria alla nostra in maniera educata, discutendo, argomentando, mettendo in gioco la propria intelligenza. Non si deve attaccare, marginalizzare, deridere o obbligare al silenzio gli altri con la forza. Perché è nel confronto con ciò che ci sfida che si cresce, è solo affrontando avversari in piedi che possiamo, un giorno, costruire qualcosa di solido sulle ceneri di uno scontro leale.
Il vero coraggio non è mai nel calpestare chi è già caduto, ma nel riconoscere che anche chi ci sta di fronte merita di stare in piedi, perché solo allora sapremo davvero cosa significhi stare in piedi noi stessi.
Il sonno della ragione genera mostri: non è solo il titolo di un’acquaforte del 1797, ma un avvertimento che attraversa i secoli con una lucidità quasi dolorosa…
Francisco Goya lo incise nella serie “Los Caprichos” raffigurando un uomo curvo su un tavolo, assopito, circondato da gufi e pipistrelli – creature della notte, simboli di ignoranza e superstizione – mentre una lince fissa lo spettatore con occhi che sembrano chiedere: “E tu, da che parte stai?”.
L’artista difatti non voleva solo mostrare un incubo, ma mettere in guardia contro ciò che accade quando la ragione smette di vegliare: l’immaginazione, priva del suo contrappeso, non crea meraviglie, ma mostri!
Oggi, guardando quel quadro non posso fare a meno di sentire un brivido di attualità. Quel sonno non è un riposo innocente, né una pausa necessaria: è un atto di resa, una scelta consapevole di spegnere la luce del pensiero critico per abbracciare il conforto delle certezze semplici, dei nemici chiari, delle soluzioni definitive.
È in quell’oscurità volontaria che ciò che prima era impensabile comincia a prendere forma – non più come fantasma – ma come progetto, come minaccia, come politica. E ditemi: quale mostro è oggi più definitivo, più innaturale, più irreversibile, già… del rischio di una guerra nucleare?
Perché quando la ragione si ritira, il calcolo strategico – per quanto freddo e spietato – lascia il posto all’istinto, alla retorica, alla paura che si autoalimenta. La deterrenza, quell’equilibrio terribile ma razionale costruito su una logica condivisa del non-oltrepassare, si sgretola. Al suo posto subentra una minaccia viva, imprevedibile, talvolta persino celebrata come forza o coraggio.
Il conflitto non è più qualcosa da evitare con ogni mezzo, ma qualcosa che si comincia a invocare come purificazione, come prova di virilità geopolitica, come soluzione eroica a problemi che la ragione, invece, richiederebbe pazienza, ascolto e compromesso per affrontare.
Ci addormentiamo collettivamente ogni volta che accettiamo che la complessità del mondo venga ridotta a uno slogan, ogni volta che la storia viene piegata a favore di una narrazione di comodo, ogni volta che la diplomazia viene derisa come debolezza anziché riconosciuta come l’unica arma che non distrugge chi la usa.
E in quel letargo pericoloso, l’impensabile non spaventa più: prima diventa una possibilità remota, poi un’opzione praticabile, infine una scelta inevitabile!
I veri mostri – l’annichilimento totale, l’inverno nucleare, la fine della civiltà così come la conosciamo –smettono di essere incubi per trasformarsi in fantasmi di sottofondo, tollerati, quasi ignorati, nel rumore assordante di un dibattito pubblico sempre più povero, sempre più teatrale, sempre meno umano.
Ecco perché il monito di Goya non è un ricordo del passato, ma un grido rivolto a noi, qui e ora. Ci parla della necessità disperata di tenere sveglia la ragione, anche quando è faticoso, anche quando la sua luce ci mostra verità scomode, anche quando preferiremmo chiudere gli occhi e credere alle favole del nemico assoluto o della vittoria facile.
Perché i mostri non nascono dal nulla: li generiamo noi, nel momento esatto in cui decidiamo di smettere di pensare e una volta svegliati, non è detto che accetteranno di tornare nell’ombra…
Al Presidente Mattarella, con la medesima urgenza di quanto avevo chiesto lo scorso 14 settembre.
Presidente, mi rivolgo nuovamente a Lei in questo momento di grave tensione sociale con lo stesso accorato appello, dovendo constatare con amarezza come le mie preoccupazioni, purtroppo, non siano state scongiurate
Avevo pregato lei e i suoi referenti di intervenire per calmare i toni, per arginare una retorica che mi ricordava, in modo sinistro, quella che insanguinò il nostro Paese.
Le mie richieste, formali e sentite, sono rimaste inascoltate, e ora assistiamo a quanto avevo temuto: disordini che colpiscono cittadini inermi, turisti e quelle forze dell’ordine che sono nostre connazionali, lì a fare il proprio dovere per la sicurezza di tutti, spesso per uno stipendio da fame.
La violenza non inizia sempre con un colpo di pistola. Inizia con una parola, con un’accusa infuocata, con un discorso che trasforma l’avversario in un nemico da annientare. La storia ci ha già insegnato questa lezione, eppure sembriamo averla rimossa. Lei ricorderà come, tra il 1969 e il 1984 – il periodo buio degli anni di piombo – il nostro Paese fu lacerato da uno stillicidio di violenza politica che mieté centinaia di vittime.
Fu un’epoca in cui l’odio verbale si materializzò, culminando in stragi. Ricordo, solo per citare alcuni episodi, la strage di Piazza Fontana, la bomba sull’Italicus, l’eccidio di Piazza della Loggia e l’attentato alla stazione di Bologna. Questi non sono solo eventi storici, sono nomi, sono storie, sono ferite ancora aperte per molte famiglie e per l’intera nazione.
Osservando oggi le diatribe in corso tra i parlamentari di governo e dell’opposizione, mi colpisce la stessa pericolosa leggerezza. I toni sono feroci, le divisioni si approfondiscono, e l’unico obiettivo sembra essere la distruzione dell’avversario, non il bene del Paese.
Questa guerra verbale, questo clima da trincea, rischia di essere la miccia che sta facendo divampare un nuovo incendio che credevamo spento. I giovani, in particolare, rischiano di essere travolti da questo clima, convincendosi che la violenza, in qualsiasi forma, possa essere l’unica risposta.
La prego, Presidente, intervenga immediatamente con la sua autorevolezza. Ristabilisca il dialogo là dove si è rotto. Imponga ai contendenti di abbassare i toni e di rivolgersi ai cittadini con il rispetto che meritano.
Bastava poco – solo alcuni giorni fa – per evitare che la situazione degenerasse come stiamo vedendo, sì… bastava un po’ di saggezza e di senso di responsabilità. Lei è ancora in tempo per fermare tutto questo, per ricordare a tutti che la democrazia è un bene fragile, che si nutre di confronto e non di odio.
Si rivolga agli italiani con la stessa solennità con cui ricorda le pagine più dolorose della nostra storia. Parli alla nazione non per celebrare una ricorrenza, un’unità nazionale (ormai apparente) o i consueti auguri di un periodo festivo. Parli per scongiurare l’irreparabile. Perché ciò che stiamo vivendo non è una semplice crisi politica, ma il concreto rischio di una guerra civile che serpeggia tra le nostre strade.
Richiami tutti all’ordine, a iniziare dai suoi politici, da Giorgia Meloni a Elly Schlein, da Matteo Salvini a Giuseppe Conte, da Antonio Tajani a Matteo Renzi. Ognuno di loro deve ricordare che il proprio compito è servire il Paese, non i propri interessi. Il loro dovere è unire, non dividere, risolvere i problemi concreti della gente, non alimentare conflitti inutili di cui l’Italia non ha alcun bisogno.
In queste ore mi sono chiesto se lei non abbia avuto modo di leggere il mio primo post e neppure il successivo, eppure sono stati tra i più letti in quella settimana.
E allora, Signor Presidente, mi permetta di riportare nuovamente alla Sua attenzione i link dei miei precedenti appelli. Quelle parole esprimono – ahimè – ora, la mia profonda delusione per non essere stato ascoltato, ma sono anche la testimonianza della mia ostinata speranza che sia ancora possibile invertire la rotta. Per il bene dell’Italia, non possiamo permettere che il sacrificio di tutte le vittime della nostra storia recente sia vanificato.
Con profonda stima e con la stessa, tremante, preoccupazione di qualche giorno fa, oggi ancor più forte.
Ieri, 4 ottobre, non era soltanto una giornata di commemorazione religiosa, ma soprattutto un’occasione per celebrare i valori universali di San Francesco, simbolo di pace, fraternità, solidarietà e amore per il prossimo.
È per questo che avevo iniziato, in onore della festa di San Francesco, queste righe: un testo che dava seguito a un gesto compiuto nei giorni scorsi – una missiva ufficiale inviata al Ministero degli Affari Esteri della Federazione Russa.
Un piccolo atto, forse inconcludente come una goccia in un oceano, ma che vuole ricordare come anche una goccia di colore verde – sì, proprio come la speranza – possa cambiare il colore dell’acqua intera.
Come dicevo, l’ho inviata non come rappresentante di alcuna istituzione, ma semplicemente come cittadino, come padre di due figlie, come uomo che crede nella verità e nella pace.
La mia preoccupazione nasce dall’ascolto dei notiziari serali, da titoli che parlano di un presunto attacco della NATO contro la Russia. Come genitore, questa narrazione mi spaventa profondamente: non tanto per la guerra in sé, quanto per il riconoscimento di un copione ormai familiare – quello della costruzione mediatica del nemico, dell’amplificazione deliberata dei toni, di notizie che sembrano studiate per accelerare il passo verso un conflitto più ampio.
Da trent’anni lavoro come project manager e/o responsabile QHSE, sia in ambito nazionale che internazionale, e da quindici mi dedico alla scrittura attraverso questo blog, riflettendo su informazione, potere e democrazia. Proprio questa esperienza – e soprattutto il contatto diretto con persone di altre nazionalità – mi ha permesso di crescere, aiutandomi a conoscere realtà molto diverse dalla mia.
Inoltre, la passione per lo studio, in particolare per la storia, mi ha fatto comprendere quanto spesso i media trasformino eventi complessi in narrazioni semplificate, manipolate o addirittura inventate, con lo scopo di plasmare l’opinione pubblica e generare un consenso artificiale.
Sono fermamente convinto che l’attuale escalation – inclusa la recente notizia sui droni lanciati dalla Russia sui territori di Polonia, Estonia e Romania – non corrisponda alla verità dei fatti. Così come non ho mai creduto al racconto sul sabotaggio dei gasdotti Nord Stream nel Mar Baltico, episodio rimasto senza inchieste indipendenti. Temo, infatti, che si stia cercando di costruire un pretesto per allargare un conflitto già gravissimo.
Questa guerra avrebbe potuto essere evitata già nel 2014, se allora fosse prevalsa la diplomazia invece dell’espansione strategica, se si fosse ascoltato ciò che il Presidente Putin proponeva in termini di sicurezza collettiva, anziché illudere l’Ucraina con promesse di ingresso nella NATO. Oggi il rischio è che si ripeta quanto accaduto nel secolo scorso: un conflitto che potrebbe travolgere nazioni attualmente non coinvolte, compreso il nostro Paese.
Per questo ho chiesto una dichiarazione ufficiale, chiara e inconfutabile, che smentisca categoricamente l’ipotesi di un attacco con droni da parte della Russia. La mia richiesta vuole evidenziare – e quindi permettere di comprendere – se gli ordigni mostrati dai media corrispondano realmente a modelli di fabbricazione russa o se invece siano repliche costruite ad hoc per alimentare la narrativa bellica.
So di non essere un interlocutore istituzionale, ma credo fermamente che ogni persona che, nel silenzio, sceglie di dire la verità, accenda una luce. E come scrivo spesso: «Chi nel corso della vita ha acceso anche soltanto una luce, nell’ora buia di qualcuno, non è vissuto invano».
Confido che, nonostante le circostanze difficili, ci sia ancora spazio per il dialogo, per la verità e per la pace. Auspico che questa guerra possa finire e che il mondo – compresi i popoli del Medio Oriente – possano ritrovare un equilibrio fondato sul rispetto reciproco, non sulla paura.
Perché quando un padre scrive una lettera, non lo fa da politico o da stratega, ma dalla prospettiva fragile e al tempo stesso determinata di chi desidera un futuro possibile per i propri figli.
Nicola Costanzo
Cittadino italiano, scrittore e osservatore indipendente.
Ogni giorno leggo, ahimè, numeri sempre più crescenti, sperando che finalmente qualcuno, da quei palazzi istituzionali, potesse comprendere la profondità dell’emergenza.
Debbo ammettere che, in tutti questi anni, mi sono sbagliato, già… perché mentre cercavo di analizzare quei dati e proponevo – anche in questo blog – una serie di possibili soluzioni, mi sono reso conto che la situazione reale, ahimè, è ancora più tragica e allarmante di quanto immaginassi.
Tutto quel fiume di carta, quelle montagne di documenti inutili servono a poco se, alla fine, manca del tutto la verifica sul campo, il controllo effettivo capace di impedire alle aziende di ricorrere a stratagemmi pur di strappare fino all’ultimo minuto di lavoro da persone ormai stremate.
Una stanchezza fisica che si trasforma in disattenzione, in un attimo di fatalità: la diretta conseguenza di una cultura del lavoro malata, dove la produttività viene prima della vita umana e le procedure di sicurezza sono viste come ostacoli da aggirare.
Dietro quei numeri, infatti, si nascondono le storie di chi paga il prezzo più alto: lavoratori più vulnerabili che affrontano rischi enormemente superiori, un divario inaccettabile che parla di sfruttamento e di una tutela minore per chi ha meno voce in capitolo.
È una strage silenziosa e selettiva, e la sua geografia è eloquente: alcune regioni del paese vivono in una perenne emergenza, sintomo di un problema radicato e di un sistema di controlli che evidentemente non funziona – o non arriva in modo uniforme.
I settori più colpiti sono noti da anni per la loro pericolosità, eppure sembra che poco o nulla cambi nelle dinamiche che portano a queste tragedie. È agghiacciante constatare l’aumento delle morti durante il semplice tragitto verso il lavoro: un logoramento che si estende ben oltre i cancelli dell’impresa.
Ciò che davvero mi fa arrabbiare, oltre alle vite spezzate, è la sensazione che tutta l’impalcatura normativa rischi di trasformarsi in un gigante burocratico dai piedi d’argilla. Si parla sempre di nuovi accordi e linee guida, ma tutto ciò non serve a nulla se manca il coraggio di andare a scovare e punire severamente quelle imprese che, per profitto, alimentano un sistema di illegalità e sfinimento.
Alla fine, dietro queste mie analisi si nasconde una verità scomoda che forse nessuno vuole realmente affrontare: molto spesso, la sicurezza viene sacrificata sull’altare del risparmio. O chissà, magari perché il sistema viene costantemente “oliati” da chi di dovere, e così tutto finisce per passare in secondo piano.
Lo ripeto: serve una strategia totalmente diversa da quella finora messa in campo – da chi, tra l’altro, seduto da sempre in quelle poltrone, non sa neppure cosa significhi lavorare, sporcarsi le mani, né tantomeno comprendere quali meccanismi adottare per far finire, o quantomeno ridurre a un banale incidente (che, naturalmente, può sempre capitare), tutto questo.
Serve qualcosa che vada oltre la preparazione di documenti sterili e poco verificabili, visto che la maggior parte di essi si basa su vere e proprie autocertificazioni.
Manca, invece, il controllo serio. E soprattutto manca la volontà di far crescere una cultura del lavoro che ponga la dignità della persona al centro. Perché finché continueremo a contare i morti invece di proteggere i vivi, ogni numero sarà soltanto una sterile confessione della nostra indifferenza.
Se fosse vero ciò che sta emergendo, non c’è nulla di cui stare allegri, anzi, è proprio il contrario, perché l’ombra della corruzione si allunga su luoghi dove dovrebbe essere bandita per definizione, quelli in cui si amministra la giustizia. Non parlo in questa sede – cosa che ho già fatto in un mio precedente post – di errori e/o di valutazioni discutibili, ma di qualcosa di molto più grave: la possibilità che decisioni fondamentali siano state comprate, che archiviazioni decisive siano scattate non per mancanza di prove, ma per denaro. E se questo fosse realmente confermato, allora non stiamo più parlando di un caso isolato, di una crepa, ma di un sistema che potrebbe avere infettato parte di quel sistema giudiziario, un cedimento strutturale profondo nel sistema che noi tutti diamo per scontato per le sue funzioni, secondo legge e imparzialità.
Immaginare quindi che un magistrato, invece di seguire il codice, segue un conto in banca, diventa difficile da credere (anche se sono certo, ciascuno di noi, l’avrà pure pensato almeno una volta nel corso della propria vita…). Immaginare quindi investigatori che, anziché di cercare la verità, nascondono gli indizi perché qualcuno ha pagato per farli tacere, già… sembra di leggere la trama di un libro scritta dall’autore John Grisham…
Ma questa volta – ahimè – potrebbe non trattarsi di fantasia, sono elementi che emergono da inchieste serie, condotte da procure che ora indagano proprio chi avrebbe dovuto vigilare. Il punto ora non è sapere chi ha fatto cosa, al sottoscritto ad esempio non interessa qui nominare persone, perché i nomi li puoi trovare ovunque, online, nei giornali, nelle carte processuali. Quello che mi tormenta è il perché.
Perché oggi si riaprono certe vicende? Perché ora saltano fuori appunti con cifre e nomi accostati a richieste di archiviazione? Chi ha deciso che era il momento di scavare? E soprattutto, chi ha permesso che tutto questo accadesse anni fa, senza che nessuno alzasse la voce?
Sembra che durante una perquisizione domiciliare è stato trovato uno scarabocchio a mano, con parole come “archivia” e una cifra che parla di denaro. Certo, potrebbe essere un promemoria, una nota spese, una coincidenza. Ma se quel foglio nasconde un patto, allora cambia tutto. Cambia il senso di ogni decisione presa, cambia il valore delle indagini, dei silenzi, delle omissioni.
Se poi ovviamente saltano fuori movimenti bancari anomali, prelievi in contanti, assegni tra familiari che non quadrano con le loro entrate, allora il mistero s’infittisce. Ma sembra inoltre che vi siano anche altre circostanze: intercettazioni mai trascritte, frasi sul pagamento di “quei signori lì”, contatti opachi tra indagati e forze dell’ordine, incontri lunghi quando invece sarebbero bastati pochi minuti. E poi, vi è un ex maresciallo che sta con l’indagato per oltre un’ora prima della notifica, un luogotenente che sembra sapere troppo, un procuratore che archivia in fretta, senza approfondire, senza chiedere verifiche bancarie su possibili pagamenti. Troppe anomalie per essere solo sfortunate coincidenze.
Tuttavia, mentre tutto questo emerge, qualcuno continua a dire che non c’è nulla di male, che si tratta di semplici spese legali, che l’appunto non prova niente. Ma se davvero non provava niente, perché perquisire case, smartphone, computer? Perché coinvolgere tante persone, tra magistrati, carabinieri, familiari? Perché indagare sui flussi di denaro se non ci fosse il sospetto concreto che qualcosa sia stato comprato? E soprattutto, perché archiviare così in fretta un’inchiesta su un possibile autore alternativo in un omicidio così controverso, senza lasciare spazio a dubbi, senza permettere contraddittorio, senza voler vedere ciò che altri volevano nascondere?
Forse la domanda più grande non è se ci sia stata corruzione, ma quanto in profondità arrivi. Perché se un procuratore può essere influenzato, chi garantisce che non succeda altrove? Se chi doveva indagare ha fatto finta di non vedere, chi ci protegge dalla manipolazione del sistema?
Perché se tutto questo è vero, allora non stiamo parlando solo di un caso giudiziario, ma di una fiducia collettiva spezzata. La gente crede nella giustizia finché pensa che sia cieca e imparziale. Quando scopre che potrebbe invece avere un prezzo, smette di credere nel processo, nelle sentenze, nelle istituzioni. E quando cade quella fiducia, il danno è irreversibile.
Mi chiedo allora cosa ci sia davvero dietro queste nuove analisi. Sono il frutto di una ricerca tenace della verità o rispondono ad altro? A pressioni mediatiche? A esigenze procedurali tardive? O forse, finalmente, qualcuno ha deciso di fare pulizia là dove nessuno osava guardare?
Non lo so. So solo che quando la corruzione mette radici nei palazzi della giustizia, non corrompe solo persone, corrompe il senso stesso del diritto. E a quel punto, non importa più chi ha ucciso o chi è innocente: importa chi ha deciso di far vincere una versione dei fatti piuttosto che un’altra. E se quella decisione è stata pagata, allora la verità non ha più voce
Già… osservo che, dopo quanto ho scritto alcuni giorni fa – quando avevo implorato il Presidente Mattarella di intervenire per riprendere i parlamenti e obbligarli, una volta per tutte, a finirla con questi continui attacchi mediatici prima che qualcuno possa dare inizio a una nuova rivoluzione sociale:http://nicola-costanzo.blogspot.com/2025/09/presidente-mattarella-intervenga.html – poco o nulla sia cambiato nel clima degli scontri verbali.
Vorrei precisare inoltre che non mi è mai importato nulla di schierarmi politicamente, oggi, tuttavia, osservando la politica nazionale – da sinistra a destra, passando per il centro – constato come essa stia alimentando una pericolosa recrudescenza verbale che, ahimè, potrebbe rivoltarsi contro tutti noi.
Credo infatti che, continuando su questa strada, si rischi di sfociare in condizioni sociali imprevedibili e potenzialmente violente, simili a quelle che stanno lacerando altri paesi. L’unico risultato sarà alimentare mostri che credevamo sopiti.
Per questo invoco tutti i nostri politici, e mi riferisco in particolare ai nostri governanti, ad abbassare immediatamente la tensione sociale e a occuparsi finalmente di ciò per cui sono stati eletti.
Ecco, è proprio per questo, che impegno tutte le mie forze per dire: non possiamo più permettere che il confronto si trasformi in una raffica di insulti, dove l’unica verità è quella urlata più forte, e l’unico risultato è spegnere la speranza di un dialogo vero.
I nostri rappresentanti devono ricordare che il loro compito è servire il paese, non dividerlo!
E allora mi permetto di ricordare loro chi è già caduto sotto il peso di quelle parole, le stesse di oggi, che ahimè si sono poi trasformate in proiettili e bombe. È un monito che nessuno oggi può permettersi di ignorare e per farlo, elenco di seguito tutti coloro che, ahimè – proprio a causa di quelle parole – sono morti.
1969
27 febbraio: morte di Domenico Congedo.
9 aprile: morte di Carmine Citro e Teresa Ricciardi.
27 ottobre: morte di Cesare Pardini.
19 novembre: morte di Antonio Annarumma.
12 dicembre: strage di piazza Fontana (17 civili uccisi).
15 dicembre: Giuseppe Pinelli trovato in fin di vita sotto la finestra del 4º piano della questura di Milano.
1970
1º maggio: morte di Ugo Venturini.
22 luglio: strage di Gioia Tauro (6 civili uccisi).
Luglio 1970 – febbraio 1971: moti di Reggio (3 civili e 2 agenti uccisi).
12 dicembre: morte di Saverio Saltarelli.
1971
7 gennaio: morte dell’operaio Gianfranco Carminati, nell’Incendio della Pirelli-Bicocca.
16 gennaio: morte di Antonio Bellotti.
4 febbraio: morte di Giuseppe Malacaria.
26 marzo: morte di Alessandro Floris.
7 aprile: morte di Domenico Centola.
13 giugno: morte di Michele Guareschi.
1972
21 gennaio: morte di Vincenzo De Waure.
14 marzo: morte di Giuseppe Tavecchio.
17 maggio: morte di Luigi Calabresi.
31 maggio: strage di Peteano (3 carabinieri uccisi).
7 luglio: morte di Carlo Falvella.
25 agosto: morte di Mariano Lupo.
27 novembre: morte di Fiore Mete.
1973
30 gennaio: morte di Roberto Franceschi.
12 aprile: Giovedì nero di Milano: uccisione dell’agente di polizia Antonio Marino.
16 aprile: rogo di Primavalle Fratelli Mattei (2 civili uccisi).
17 maggio: strage della Questura di Milano (3 civili e 1 poliziotto uccisi).
8 luglio: morte di Adriano Salvini.
31 luglio: morte di Giuseppe Santostefano.
17 dicembre: strage di Fiumicino (34 morti).
1974
10 maggio: rivolta del carcere di Alessandria 6 morti: (2 detenuti Dibona e Concu, 2 poliziotti Gaeta e Cantiello, 1 medico del carcere Gandolfi, 1 assistente sociale Giarola e il professore del carcere Campi).
19 maggio: morte di Silvio Ferrari.
28 maggio: strage di piazza della Loggia (8 civili uccisi).
30 maggio: morte di Giancarlo Esposti.
17 giugno: morte di Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola.
Come promesso ai miei lettori più attenti, oggi ho avuto il privilegio di incontrare il Dott. Alfio Grassi nel suo ufficio, un professionista che desidero ringraziare pubblicamente non solo per la disponibilità dimostrata, ma per il coraggio e l’integrità intellettuale con cui ha deciso di affrontare una tematica spinosa, proprio come aveva preannunciato nella sua breve risposta – vedasi link: http://nicola-costanzo.blogspot.com/2025/09/richiesta-intervista-al-dott-alfio.html. Dietro la mia insistente richiesta di un confronto, c’era una semplice ma fondamentale ricerca: trovare delle risposte.
Sì… risposte che, fino ad oggi, sembravano sfuggire a qualsiasi logica, sepolte sotto una coltre di silenzi, dichiarazioni ufficiali spesso contraddittorie e una narrazione che non riusciva a soddisfare la curiosità e le legittime preoccupazioni di noi “semplici” cittadini.
Grazie all’intervento del Dott. Grassi, quel muro di omertà e di dubbi forse sta per essere finalmente scalfito, difatti, quel che è emerso nel corso della nostra lunga conversazione, va ben oltre le mie più rosee aspettative e, devo ammetterlo, le mie più fosche previsioni.
L’argomento è talmente vasto, complesso e ricco di dettagli cruciali che, per onestà intellettuale verso i miei lettori e per il rispetto della chiarezza che un tema del genere merita, ho deciso di suddividere il resoconto dell’intervista in più post (peraltro ho avuto poco tempo a disposizione stasera per organizzare tutto il materiale).
Ma non posso, e non voglio, trattenere oltre la notizia più sconvolgente. Voglio preannunciarvi sin da questo primo articolo che quanto scoperto oggi è di una portata tale da lasciare basiti.
Le informazioni che il Dott. Grassi mi ha comunicato, supportate da documenti e una logica stringente, sono qualcosa che mai avrei creduto possibile. Sono certo che, come è successo a me, anche voi lettori resterete senza parole, sorpresi e profondamente turbati da ciò che sta dietro la facciata delle “temperature record” che hanno investito la nostra Sicilia.
Procediamo quindi…
Buonasera, iniziamo con la prima domanda: Occupazione del caso del presunto record e tempistiche – Dott. Grassi, desidero sapere come mai Lei si sta occupando di questo presunto record e soprattutto da quando?
Risposta: Da anni mi occupo di aspetti ambientali-climatici nella qualità di professionista geologico; in particolare, dall’anno 2016 ho avviato uno studio di monitoraggio sulle reti di rilevazioni di dati meteo installate nella Sicilia orientale, sia pubbliche che private, attraverso lo studio dei dati e dei sopralluoghi periodici, al fine di constatare lo stato di conformità di queste stazioni meteorologiche.
Nel 2017, dopo un’analisi accurata condotta sui dati registrati da una stazione ubicata nel comune di Floridia, appartenente alla rete SIAS (Servizio Informativo Agrometeorologico Siciliano), ente regionale gestito dall’Assessorato all’Agricoltura, mi rendo conto di alcune notevoli anomalie sull’andamento termico delle temperature diurne registrate e decido di effettuare un sopralluogo nel sito di ubicazione della stazione.
In sede di sopralluogo mi accorgo, con grande stupore, che lo schermo protettivo del termometro presenta un’ampia apertura attraverso la quale, in alcune ore del giorno, entravano perfino i raggi solari, inficiando la reale misura termometrica in violazione di qualsiasi protocollo di conformità nazionale e internazionale attinente alla metodologia standard di regolare rilevazione della temperatura dell’aria sulla superficie terrestre.
Seconda domanda: Scoperta delle non conformità della stazione SIAS di Floridia – Quando ha scoperto per la prima volta che la stazione SIAS di Floridia non era a norma?
Risposta: Come le ho detto, anni prima che avvenisse il record europeo di 48,8°, il sottoscritto si era accorto che la stazione non rispettiva minimamente i requisiti standard richiesti dai protocolli tecnico-scientifici ufficiali, ma non solo per la presenza del buco nello schermo solare di protezione del termometro, ma anche per l’infelice ubicazione della stazione.
La stazione si trova circondata da alberi e nelle immediate vicinanze, a meno di 10 m, è presente una strada pubblica asfaltata che durante le ore diurne si riscalda notevolmente creando una bolla di calore che spesso, in condizioni di scarsa ventilazione, invade la stazione facendo impennare la temperatura rilevata.
Già alcuni giorni dopo la registrazione del record, avvenuto l’11/08/21, il sottoscritto si è premurato di effettuare un monitoraggio temporaneo e comparativo attraverso l’uso di una stazione datalloger professionale piazzata a circa 50 m dalla quella SIAS, i cui risultati hanno confermato che in alcuni momenti del giorno, quando il vento proveniva dalla stessa direzione di quella del giorno in cui si registrò il record, la sovrastima della temperatura della stazione SIAS registrava picchi di quasi 3°.
Nel 2024, a spese mie, decisi di installare in un luogo non influenzato da ostacoli o strade una stazione professionale a 500 m di distanza da quella del SIAS, dotata di certificazione di calibratura del sensore termometrico e, quindi, rispettosa di tutti i requisiti di conformità richiesti dai protocolli tecnici – scientifici ufficiali.
La stazione è stata messa in rete e, quindi, i dati di temperatura che vengono registrati in automatico ogni 10 minuti sono consultabili online da chiunque, Dopo 14 mesi di monitoraggio si è potuto constatare che la mia stazione restituisce temperature massime quasi sempre inferiori a quelli del SIAS e in certi giorni si sono registrate differenze di ben 3°!
Ma ecco che improvvisamente arriva il momento della rivelazione più sconvolgente, quella che ha giustificato ogni mia perplessità e che trasforma questa intervista in un’indagine su una delle pagine più opache della recente storia meteorologica italiana.
Sì, vi assicuro: questo è solo un assaggio, il primo di una serie di post che cercheranno di scavare a fondo, per arrivare alla verità.
E del resto, non si dice che la verità è come il sole? È vero: fa fatica a rimanere nascosta per sempre!
Restate quindi sintonizzati: i prossimi capitoli saranno ancora più incredibili.
facendo seguito alla nostra piacevole conversazione telefonica, Le invio in allegato, come da Sua richiesta, il documento contenente le domande che avevo preparato per il nostro incontro previsto per la fine di questa settimana.
Questo anticipo Le consentirà di valutare gli argomenti con il giusto tempo a disposizione.
Qualora riuscisse a inviarmi le Sue risposte prima del nostro colloquio, mi sarebbe di grande aiuto per preparare al meglio la successiva discussione e per verificare la completezza delle sue risposte rispetto alle esigenze informative dei miei lettori.
Resto a Sua disposizione per qualsiasi ulteriore chiarimento.
RingraziandoLa per la disponibilità, Le porgo i miei più cordiali saluti.
Nicola Costanzo (Vedasi quanto segue)
Risposta:
Buongiorno, la ringrazio dell’interessamento. Le invierò a breve le mie risposte che potranno essere approfondite in sede di intervista. Le preannuncio che la questione è spinosa e piuttosto inquietante.
Distinti saluti
Alfio Grassi
Allegato alla comunicazione inviata:
Egregio Dott. Alfio Grassi,
la ringrazio innanzitutto per avermi risposto con così poco preavviso, ma come le ho anticipato telefonicamente (durante le sue vacanze), le notizie riportate nel web – a causa dei suoi interventi – sulla gestione poco chiara nella verifica delle temperature in Sicilia, hanno suscitato in molti lettori parecchie domande che finora non hanno trovato risposte.
Mi consenta altresì di ribadire che l’eventuale post che – da queste mie domande – potrei pubblicare nel sito web, è costruito sulle Sue dichiarazioni pubbliche e sulla Sua volontà di assumersi ogni responsabilità giuridica per le risposte fornite. Come ha evidenziato nella Sua comunicazione alla Regione Sicilia, le conseguenze di dichiarazioni inesatte o diffamatorie possono essere serie, e il Suo impegno a fornire documentazione a supporto delle Sue tesi è un elemento chiave per garantire integrità e credibilità.
Resto quindi in attesa di un celere incontro, certo che il Suo contributo sarà fondamentale per chiarire un caso che investe temi sensibili come l’affidabilità dei dati climatici, la trasparenza delle istituzioni e il ruolo dei professionisti nella vigilanza ambientale.
Le domande che ho preparato sono finalizzate a comprendere le motivazioni alla base dello studio e dell’analisi di queste temperature nella nostra isola.
I° Domanda: Occupazione del caso del presunto record e tempistiche
Dott. Grassi, desidero sapere come mai Lei si sta occupando di questo presunto record e soprattutto da quando.
La Sua expertise in ambito geologico e ambientale La rende un interlocutore privilegiato per questioni legate all’accuratezza dei dati climatici e alle loro implicazioni tecniche e normative. So che, in qualità di geologo e rappresentante del Consorzio della Pietra Lavica dell’Etna, Lei ha maturato una significativa esperienza nella critica verso le procedure di valutazione ambientale, come evidenziato nella Sua lettera alla Regione Sicilia. Questo impegno prosegue da anni, con particolare intensità a partire dalle delibere regionali del 2021 che hanno coinvolto la Commissione Tecnica Specialistica (CTS). La mia curiosità è quindi: quando ha deciso di applicare questa attenzione al caso specifico delle temperature registrate dalla stazione SIAS di Floridia, e qual è stato l’evento scatenante che L’ha spinta a investigare questo presunto record?
II° Domanda: Scoperta delle non conformità della stazione SIAS di Floridia
Quando ha scoperto per la prima volta che la stazione SIAS di Floridia non era a norma?
Le anomalie nelle stazioni meteorologiche possono compromettere l’integrità dei dati climatici, con ripercussioni sulle politiche ambientali e sulla credibilità scientifica. Dal Suo storico di impegno per la trasparenza nelle procedure tecniche , emerge una sensibilità particolare verso la qualità dei dati e le irregolarità nei processi di valutazione. Nel caso specifico di Floridia, è noto che le stazioni devono rispettare rigorosi standard per evitare distorsioni nelle misurazioni, come l’assenza di fonti di calore artificiali o ostacoli fisici che alterino i dati . Desidero quindi sapere quando e come ha identificato le prime irregolarità in questa stazione, e se ha condotto un’analisi comparativa con standard internazionali o linee guida nazionali.
III° Domanda: Segnalazione delle anomalie agli Enti preposti e risposte ricevute
Ha mai segnalato queste anomalie agli Enti preposti al controllo della stazione e cosa le hanno risposto?
Un aspetto cruciale della Sua indagine riguarda le azioni intraprese verso le autorità competenti. In passato, Lei ha denunciato pubblicamente le criticità della CTS regionale, sottolineando come le segnalazioni formali siano spesso ignorate o accolte con indifferenza . Questo pattern si è ripetuto per Floridia? Desidero conoscere nel dettaglio:
• A quali Enti ha rivolto le Sue segnalazioni (es. ARTA Sicilia, Servizio VIA-VAS, o altri organismi di controllo).
• Quali risposte ha ricevuto, se ha ottenuto risposte formali o se ha incontrato un muro di silenzio.
• Se ha documentato tutto ciò per garantire tracciabilità e responsabilità legale.
Inoltre, la trasparenza nelle comunicazioni con gli Enti è essenziale per evitare che simili negligenze possano ripetersi in futuro.
IV° Domanda: Estensione delle anomalie ad altre stazioni della rete SIAS
Ha rilevato altre anomalie nelle altre stazioni della rete SIAS?
La coerenza dei dati attraverso una rete di stazioni è fondamentale per l’affidabilità delle rilevazioni climatiche. Alterazioni in multiple stazioni potrebbero indicare un problema sistemico, non solo locale. Dal Suo lavoro con il Consorzio della Pietra Lavica, Lei ha spesso evidenziato come le irregolarità nelle procedure tecniche siano spesso diffuse e non isolate . Pertanto, mi chiedo se ha esteso la Sua indagine ad altre stazioni SIAS in Sicilia o altrove, e se ha riscontrato pattern simili di non conformità. In particolare, sarei interessato a sapere:
• Quali altre stazioni ha esaminato e con quali metodologie.
• Se le anomalie riscontrate sono omogenee o variano a seconda del contesto ambientale o amministrativo.
• Come queste eventuali scoperte si collegano alle Sue critiche più ampie verso la gestione tecnico-ambientale regionale.
V° Domanda: Motivazioni personali e sostegno economico delle indagini
Perché lei fa tutto questo e soprattutto chi sostiene le sue spese?
La Sua dedizione a casi come quello di Floridia solleva naturalmente interrogativi sulle Sue motivazioni e sul supporto materiale che riceve. Come professionista, Lei ha sempre agito con autonomia, denunciando conflitti di interesse e opacità nelle procedure pubbliche . Tuttavia, per chiarire ogni dubbio, è importante comprendere:
• Cosa La spinge a investire tempo e risorse in queste indagini (es. tutela della professione, interesse scientifico, impatto ambientale).
• Se riceve finanziamenti da enti pubblici, privati o associazioni di categoria per portare avanti queste attività.
• Come gestisce i potenziali conflitti tra il Suo ruolo di geologo e le Sue battaglie civiche.
La trasparenza su questi aspetti rafforzerebbe la credibilità delle Sue denunce e sottolineerebbe la Sua assunzione di responsabilità giuridica per le dichiarazioni rese.
VI° Domanda: Interpretazione delle cause dietro il falso record e le temperature alterate
Cosa pensa che ci sia dietro questo falso record e la registrazione “alterata” di queste temperature?
Questa è forse la domanda più cruciale, poiché tocca il cuore delle implicazioni etiche, scientifiche e giuridiche del caso. Alterazioni di dati climatici possono avere motivazioni diverse: dalla negligenza tecnica a interessi specifici volti a influenzare politiche ambientali o narrative pubbliche. Dal Suo passato di critica verso la CTS , emerge una sfiducia verso organi tecnici che operano con opacità e metodi discutibili. Allo stesso modo, in ambito climatico, è noto che distorsioni nei dati possono derivare da errori strumentali, mancata manutenzione delle stazioni, o persino manipolazioni intenzionali . Nel caso di Floridia, quali fattori ritiene siano all’opera? Per esempio:
• Interessi economici o politici legati a certi risultati climatici.
• Incompetenza tecnica o mancanza di controlli adeguati.
• Un contesto sistemico che tollera irregolarità nelle procedure ambientali.
La Sua opinione è cruciale per inquadrare il caso in un panorama più ampio di trasparenza e responsabilità scientifica.
Dott. Grassi, nel ringraziarla per la Sua disponibilità e attenzione, mi scuso anticipatamente se, nel formulare queste domande, le sarò sembrato diffidente e quindi sospettoso, ma vorrei evitare di dare l’impressione di volermi schierare dalla sua parte o quella dei suoi colleghi.
C’è un silenzio strano che accompagna certi autocarri… già sono carichi di qualcosa chiamato “rifiuto”, pericolo e non…
Già…. nessuno li vuole nel proprio Comune, e allora vengono diretti chissà dove, con documenti che forse non quadrano. Ma tanto si sa: nessuno controllerà davvero.
Sì, sembra tutto regolare, tutto in ordine, eppure, dietro quelle procedure si nasconde un movimento furtivo, un percorso che sa come evitare gli sguardi indiscreti.
Dietro ogni bidone, ogni tonnellata di materiale, ogni discarica – autorizzata o no – c’è un giro di soldi che fa invidia ai principali indici mondiali. E non parlo di pochi euro, ma di milioni. Milioni che si muovono tra le pieghe di un sistema che, sulla carta, dovrebbe proteggerci, ma che in realtà, costantemente, ci tradisce.
Il rifiuto, in fondo, è solo un errore di prospettiva. Per qualcuno è immondizia; per altri, è materia prima. E quando quella materia prima non ha un prezzo stabilito, quando il suo valore dipende da chi la smaltisce, da chi la ricicla, o da chi, ancor peggio, la brucia o la seppellisce illegalmente… ecco che diventa terreno fertile per chi sa muoversi nell’ombra.
Non importa di cosa si tratti. L’importante è che qualcuno paghi per farla sparire. E chi riesce a farla sparire – anche se lo fa male, anche se la nasconde in un campo invece che in un impianto autorizzato – intasca. E ahimè, intasca bene!
Ecco così che nascono le discariche abusive, scavate nel terreno come fossero tombe per la dignità di un territorio. Ecco sorgere falsi impianti di riciclaggio, dove il materiale non viene mai lavorato, ma solo accumulato, per poi sparire di nuovo o essere rivenduto per riempimenti, colmate, e via discorrendo. E così, mentre sulle carte tutto risulta trasformato, rigenerato, reinserito nel ciclo produttivo… quel materiale misteriosamente svanisce.
Per far ciò, nascono società fantasma: niente autocarri, niente dipendenti, men che meno stabilimenti. Eppure emettono fatture, mensilmente, appoggiandosi ad autorizzazioni ottenute con nomi prestati, documenti taroccati e, soprattutto, funzionari compiacenti.
E così, mentre questo sistema marcio gira, l’ambiente si ammala, l’acqua si inquina, l’aria diventa veleno. E nessuno alza la voce. Sì, perché qualcuno, da qualche parte, sta guadagnando troppo. E non ha alcuna intenzione di fermarsi.
Eppure, il problema non è solo di chi smaltisce il rifiuto, è di chi decide cosa farne, e soprattutto di come si controlla la sua tracciabilità. Perché dietro ogni tonnellata di rifiuto c’è un appalto, una gara, una commessa che può valere milioni e milioni di euro. E quando i controlli sono deboli, quando chi dovrebbe vigilare chiude un occhio – anzi, tutti e due – allora il crimine organizzato capisce in fretta che gestire i rifiuti è più redditizio della cocaina.
Senza confini, senza rischi di sequestri, con coperture legali che durano anni. Basta un autocarro, un terreno isolato, uno stabilimento interdetto. Gli si aggiunga un funzionario corrotto… ed ecco, il gioco è fatto. Il rifiuto non è più un problema ambientale: diventa un prodotto. E come ogni prodotto, ha un prezzo. Solo che quel prezzo lo paghiamo noi, in salute, con un paesaggio contaminato: suolo, acqua, aria avvelenati. Non solo: la dispersione di sostanze tossiche rende il territorio inadatto all’agricoltura, creando effetti devastanti sugli ecosistemi.
Ma forse la cosa più amara è che tutto questo accade mentre parliamo di economia circolare, di sostenibilità, di transizione ecologica. Belle parole, progetti ambiziosi. E soprattutto, finanziamenti europei. Fondi ricevuti per il riciclo, incentivi incassati per le energie pulite. Ingenti somme di denaro che finiscono nelle tasche di chi ha imparato a falsificare – persino la coscienza.
Perché il rifiuto, se ben gestito, potrebbe davvero diventare risorsa. Potrebbe ridurre l’inquinamento, creare lavoro vero, alimentare nuove industrie. Ma quando il sistema è infetto, quando la trasparenza è un optional, allora anche la speranza si trasforma in merce di scambio.
E allora, “ca’ non si jetta nenti” diventa una frase amara, ironica, quasi beffarda. Perché in realtà si getta tutto: la legalità, la responsabilità, e soprattutto il futuro!
Si tiene solo il guadagno. Sporco, silenzioso, continuo. Fino a quando qualcuno non deciderà che quell’autocarro illegale non deve più circolare per le nostre strade. Fino a quando qualcuno – onesto e incorruttibile – capirà che il rifiuto non è un affare, ma un dovere.
Perché se quel dovere non inizieremo a rispettarlo, tra un po’ di anni… lo pagheremo tutti. In particolare i nostri figli. E i nostri nipoti.
Stasera dovevo regalarvi la continuazione del post di ieri, con quel racconto particolare su ciò che accade in alcuni comuni etnei, tra suddivisioni di posti tra familiari, parenti e amici… Purtroppo, non posso mantenere la promessa. E no, non posso spiegarvi il motivo. So che sembra strano, ma alcune storie, a volte, devono aspettare.
Fidatevi: se potessi parlare, lo farei. Purtroppo per il il momento debbo chiedervi di pazientare…
Ed allora stasera, continuo con quanto avevo a suo tempo iniziato…
Sì… so bene che avrei dovuto iniziare questo post con la frase “La fragile illusione del controllo: storie di documenti dimenticati”.
Infatti, dopo aver scritto il post https://nicolacostanzo.com/2025/07/29/se-il-direttore-dei-trasporti-ce-solo-sulla-carta-chi-risponde-davvero/ c’è una domanda che molti miei lettori mi hanno posto, con tono quasi ansioso: quali sono i documenti che un direttore dei trasporti dovrebbe davvero gestire? La risposta, teoricamente, è semplice. Basterebbe aprire un manuale, sfogliare una normativa, e l’elenco sarebbe lì, chiaro e inoppugnabile. Ma tra il dovrebbe e il fare, c’è un abisso che pochi hanno il coraggio di ammettere.
Prendiamo i documenti, quelli che dovrebbero essere il pane quotidiano di chi ricopre questo ruolo. Il registro di controllo dei veicoli, i fogli di viaggio, il monitoraggio delle ore di guida. Carta su carta, firme che a volte sembrano più un automatismo che una reale verifica.
Quanti di questi documenti vengono compilati per dovere, anziché per reale necessità? Quante checklist sono solo un segno di penna frettoloso, anziché l’esito di un controllo attento? La risposta, purtroppo, la conoscono bene quelli che poi, sul campo, si scontrano con le conseguenze di questa superficialità.
E poi arrivano i documenti settimanali, mensili, quelli che richiedono un minimo di pianificazione. La turnazione degli autisti, il report dei consumi, lo stato delle manutenzioni. Sembrano compiti banali, quasi meccanici. Eppure, quante volte vengono archiviati come semplici adempimenti, anziché essere usati per quello che sono: strumenti per evitare guai ben più grossi? Un direttore dei trasporti che si limita a timbrare carte, senza mai analizzare quei dati, è come un capitano che guarda la bussola ma ignora la rotta.
Passiamo ai documenti annuali, quelli che richiedono una visione più ampia. Le revisioni, gli audit, i piani di miglioramento. Qui la faccenda si fa ancora più delicata, perché se il quotidiano è già gestito con approssimazione, figuriamoci il resto.
Quante aziende hanno un manuale di qualità che esiste solo nello scaffale di un ufficio, mai sfogliato? Quanti audit sono semplici formalità, con checklist compilate a memoria anziché con attenzione? La verità è che, in troppi casi, la certificazione è solo un pezzo di carta da esibire, non una garanzia reale.
Eppure, basterebbe poco. Un sistema documentale strutturato, procedure chiare, controlli che siano veri controlli, non mere ritualità. Ma questo richiederebbe tempo, risorse, e soprattutto la volontà di fare le cose come si deve. Invece, troppo spesso, tutto si riduce a un gioco di apparenze. Si compila, si archivia, si firma, e si spera che nessuno vada a guardare troppo da vicino.
Alla fine, la domanda è sempre la stessa: serve davvero un direttore dei trasporti, se il suo ruolo si riduce a una firma? O sarebbe meglio ammettere che, senza un reale processo di qualità, quell’incarico è solo un nome vuoto?
I documenti ci sono, le norme pure, quello che manca, troppo spesso, è la serietà di chi dovrebbe farle rispettare. E il problema, purtroppo, non è nella carta. È in chi quella carta la tratta come un fastidio, anziché come uno strumento per evitare disastri!
Eccoci qui, al penultimo atto di questo viaggio attraverso i meandri di mafia, antimafia e riforma giudiziaria. Ora, come promesso, parliamo di chi, come me, non abbassa lo sguardo davanti alle verità più scomode, quelle che bruciano, quelle che fanno girare la testa a tanti, ma che alla fine tutti noi, volenti o nolenti, ci ritroviamo a ingoiare… E permettetemi di essere chiaro: urlare per un torto subìto in prima persona è una cosa, ben altra è alzare la voce per chi non ti ha mai fatto nulla di personale, ma opera in quell’ambiente che dovrebbe essere la casa della giustizia. Parlo di chi siede nelle istituzioni. Di chi fa politica. Di chi riceve incarichi dai Tribunali a nome dello Stato. Di chi dirige enti, associazioni e dovrebbe vigilare ed invece copre raggiri, truffe, soldi pubblici sperperati.
Ed allora: A chi giova questo silenzio? A chi conviene che i Tribunali continuino a nominare gli stessi nomi che, come dimostrano gli scandali di questi anni, persino di questi giorni, sono intrecciati a collusioni e corruzione? A chi serve un’antimafia che abbaia ma non morde? Chi ci guadagna da un sistema clientelare, tentacolare, radicato, che tiene in piedi la politica col voto di scambio e si nutre della criminalità attraverso appalti, concessioni, finanziamenti?
E qui arriva il punto. Il problema non sono solo i corrotti. Il vero cancro è chi, in questi anni, non ha voluto o saputo fare leggi serie, permettendo alla corruzione di diventare sistema. Un sistema in cui il silenzio è omertà. Dove nessuno denuncia, perché denunciare significa sfidare un meccanismo che ti schiaccia.
Difatti… cosa succede quando qualcuno prova a fare il proprio dovere? Prendiamo il caso di chi ricopre incarichi dirigenziali, con responsabilità civili e penali che potrebbero costargli la libertà. Fintanto che un dipendente o professionista non deve rispondere personalmente, su aspetti tecnici, amministrativi, di sicurezza sul lavoro, ambientali o gestionali, potrei ancora comprendere (senza però giustificare…) quel voltarsi dall’altra parte. Quel fare finta di non vedere. Ma quando uno risponde in prima persona, quando mette a rischio non solo il posto ma la propria libertà, senza essere nemmeno l’amministratore della società, allora la domanda sorge spontanea: perché? Perché accettare di diventare complici, quando tra l’altro non si riceve nulla in cambio? Quando l’unica ricompensa è soltanto la possibilità di continuare a lavorare?
È pura follia? O forse no. Forse è l’effetto di quel meccanismo perverso di sottomissione al datore di lavoro, soprattutto nelle aziende private gestite con metodi patriarcali. Ancora peggio quando l’impresa è legata a doppio filo alla criminalità organizzata, quando quei soldi che circolano sono capitali riciclati, quando quel sistema può contare su dirigenti e funzionari pubblici compiacenti, pronti ad aprire le porte ad appalti milionari. E così il cerchio si chiude. La stessa persona che dovrebbe vigilare, che ha responsabilità penali, che potrebbe perdere tutto, tace. Per paura? Per convenienza? Per quel senso distorto di lealtà che trasforma dipendenti in complici? Intanto, il meccanismo continua a macinare vittime e profitti. E la mafia ringrazia.
E quel dipendente o professionista che ha denunciato? Che fine fa? Diventa un sopravvissuto. Un fantasma professionale. Inizialmente, molte di queste imprese, se il soggetto non si è già esposto pubblicamente, non hanno un sistema di selezione abbastanza sofisticato da individuare certi difetti caratteriali. Non cercano coscienze, cercano esecutori. Così, all’inizio, quel professionista viene assunto. Poi, gradualmente, emerge la verità: quel soggetto non è disposto a mediare. Non chiuderà gli occhi davanti a fatture truccate, a materiali scadenti, a norme di sicurezza ignorate, a gestione rifiuti taroccate. Non diventerà complice di quel gioco sporco che l’impresa, o meglio, quel fantoccio amministrativo messo lì dalla criminalità organizzata, considera normalità.
E allora scatta la trappola. Se il dipendente o professionista ha la fortuna, o la sfortuna, di non avere disperato bisogno di quel lavoro, può fare ciò che ho fatto io più volte: guardarli negli occhi e mandarli a fanculo. Ma non prima di aver denunciato tutto. Documenti alla mano. Prove inconfutabili. Peccato che, per quanti non hanno la forza di resistere a quel sistema colluso, si ritrovino, dopo aver provato a compiere il proprio dovere, ad essere neutralizzati. Già… le denunce finiscono in un cassetto, i procedimenti si arenano e intanto, quel professionista scomodo viene marchiato come problematico, poco flessibile, non un team player. La sua carriera si inceppa. Le porte si chiudono…
Già, è così che funziona a chi svolge l’incarico di professionista, un po’ meno problemi hanno coloro che svolgono la loro funzione da dipendenti, perché quest’ultimi possono sempre trovare un’impresa, se non nella propria terra, certamente in qualsivoglia altra regione del paese o ancor meglio all’estero. E così tutto prosegue indisturbato. Da una parte, l’impresa criminale che continua a operare, protetta da una rete di connivenze, dall’altra, chi ha provato a rompere il muro dell’omertà e si ritrova solo, con un futuro professionale in frantumi o lontano dove non può dare fastidio…
Eppure, qualcuno continua a denunciare. Non per dignità o per rabbia, ma per quel senso del dovere che neanche questo sistema marcio può riuscire a cancellare. La domanda che in questi anni mi sono chiesto – sia come associato di alcune note associazioni di legalità, ma anche come delegato per la provincia di Catania di una di esse – è: quanto ancora resisteremo prima che l’antimafia smetta di essere uno slogan e torni a essere una battaglia?
E allora veniamo al punto cruciale: cosa succede davvero quando si denuncia? Soprattutto oggi, con la tanto celebrata riforma Cartabia che doveva cambiare le regole del gioco? Perché qui, vedete, il paradosso è atroce. Tu denunci. Metti a repentaglio la tua carriera, la tua tranquillità, a volte la tua sicurezza personale. Lo fai credendo nello Stato, nelle istituzioni, in quella giustizia che dovrebbe premiare chi ha il coraggio di dire basta. E invece ti ritrovi solo. Sempre!
La riforma prometteva tempi più celeri, maggiori tutele per chi denuncia. Ma nella realtà? I processi continuano a durare anni. Le indagini si impantanano. Le prescrizioni fioccano. Intanto, chi ha denunciato viene emarginato professionalmente. Già, non è un team player. Subisce ritorsioni sottili ma devastanti. Mobbing, demansionamento. Attende i tempi di una giustizia in un limbo che logora l’anima.
Mentre tutti gli altri? Quelli che partecipano, che si fanno corrompere, che svendono la loro dignità, o nei migliori casi, si fanno i cazzi loro e girano la testa dall’altra parte. Quei corrotti che continuano a prendere mazzette. Quelle loro amiche imprese opache che continuano ad aggiudicarsi gli appalti, e poi cercano, attraverso subappalti o pseudo noli a caldo o freddo, quelle imprese che eseguono per conto loro i lavori appaltati. E i funzionari collusi che dovrebbero controllare? Lasciamo perdere… non solo restano al loro posto, ma con il tempo vengono pure promossi.
Riassumendo, il sistema ha una perfezione diabolica. E difatti: chi denuncia paga subito. Chi è denunciato paga forse anni dopo, se mai pagherà. E la riforma Cartabia? A parole, un passo avanti. Ma nei fatti i tempi processuali restano biblici. Le tutele per i whistleblower sono più teoriche che pratiche. L’impunità di sistema non viene minimamente scalfita.
Io continuerò a denunciare, lo sapete. Ma ditemi: quando realizzeremo che uno Stato che non protegge davvero chi denuncia è uno Stato che, di fatto, tutela i corrotti? Perché alla fine, il messaggio in ogni territorio è sempre lo stesso: fatti i fatti tuoi, abbassa la testa, tanto non cambia nulla.
E chi non ci sta? Quello paga. Sempre. E il peggio? Che tutti lo sanno, ma fanno finta di non sapere.
Negli ultimi anni, c’è una figura professionale che più di altre mi fa riflettere, e non in senso positivo… Parliamo del “direttore dei trasporti”, un ruolo che dovrebbe essere svolto con massima cura e competenza, ma che troppo spesso viene trattato come una formalità, una semplice voce da inserire in un organigramma. Eppure, le responsabilità legate a questo incarico sono enormi, sia dal punto di vista penale che in termini di sicurezza e rispetto delle normative.
Alcuni dei miei lettori – quelli per i cui uffici passano quotidianamente dossier ben più corposi di questo – mi perdoneranno se sorvolo su certe dinamiche, del resto, se fossero davvero un mistero, non ci sarebbe nemmeno bisogno di parlarne, come d’altronde mi spiace dover deludere chi magari vorrebbe un discorso edulcorato, ma stasera non ho intenzione di girare attorno al problema.
La realtà è che molti di coloro che ricoprono questo ruolo lo fanno in modo superficiale, senza alcun reale interesse o competenza. Spesso vengono nominati solo per rispettare un obbligo di legge, senza possedere un contratto regolare e ancor meno una retribuzione adeguata, ma soprattutto senza la consapevolezza di ciò che quell’incarico comporta.
È come se quella figura del direttore dei trasporti fosse ridotta a un mero timbro, una firma su un documento, mentre tutto il resto viene gestito in modo approssimativo, quando non del tutto negligente.
E qui si aprirebbe un capitolo infinito sulle mancanze, sulle omissioni, sulle pratiche scorrette che si ripetono giorno dopo giorno. Ma non servono pagine e pagine di esempi per capire che il problema esiste ed in taluni casi è sistemico.
Chi dovrebbe vigilare, chi dovrebbe garantire che tutto funzioni come previsto, spesso chiude un occhio, o peggio, contribuisce a questo circolo vizioso, eppure, basterebbe un minimo di serietà, di controllo, di rispetto per le regole, per evitare conseguenze disastrose.
Per questo mi rivolgo a chi, più o meno consapevolmente, si trova a ricoprire questo ruolo senza averne piena cognizione. Le conseguenze di una gestione negligente possono essere gravissime: da sanzioni amministrative a veri e propri reati penali, a seconda della gravità delle violazioni.
E non si tratta di ipotesi remote. Pensate a un incidente mortale causato da un veicolo mal mantenuto, a uno sversamento di materiali pericolosi che inquina l’ambiente, a frodi fiscali legate alla gestione dei trasporti. In tutti questi casi, il direttore dei trasporti potrebbe finire nel mirino della giustizia, accusato di omicidio colposo, reati ambientali o evasione fiscale.
E non è tutto. La responsabilità non si limita alle proprie azioni, ma si estende anche a quelle di chi lavora sotto la sua supervisione. Se un dipendente commette un illecito, il direttore potrebbe essere chiamato a risponderne, soprattutto se non ha adottato le necessarie misure preventive. Insomma, un ruolo che dovrebbe essere sinonimo di garanzia e sicurezza, troppo spesso viene svuotato di significato, con il rischio – di trasformarsi in un boomerang – che ritorna su se stesso.
Alla fine, ciò che emerge è un quadro desolante. Il direttore dei trasporti dovrebbe essere una figura chiave, un garante della legalità e della sicurezza. Invece, troppo spesso è solo un nome riportato su un foglio, un incarico svolto con sufficienza, senza alcun minimo processo di qualità, anche se non obbligatoriamente certificato. E il risultato? Un sistema che funziona male, che mette a rischio vite umane, che alimenta illegalità e inefficienza.
La domanda è: per quanto ancora si potrà andare avanti così?
Già, la mafia non spara più come una volta, ma uccide ancora, silenziosamente, con metodi meno appariscenti eppure infinitamente più devastanti. Uccide le imprese oneste, strangola l’economia reale, soffoca lo sviluppo di intere comunità, impedendo che il merito possa aprire la strada a chi lavora con dignità e trasparenza .
E mentre molti si compiacciono del fatto che non si vedano più sparatorie per strada, non si accorgono che il cancro si è semplicemente spostato dentro i bilanci delle aziende, nei bandi d’appalto, nelle assunzioni pilotate, negli appalti truccati…
La mafia di oggi non ha bisogno di mostrare la pistola, perché ha imparato a indossare la giacca, a parlare con tono pacato, a firmare contratti, a sedersi ai tavoli delle trattative dove si decidono investimenti milionari.
Il suo restyling non è purificazione, ma travestimento!
Si è ripulita in superficie, ha cancellato l’immagine cruenta del passato, ma dentro continua a marcire dello stesso veleno che da decenni corrompe le coscienze, piega le volontà, comprime la libertà.
Parliamo di un’infezione che non ha mai smesso di diffondersi, anzi, si è adattata, ha mutato forma, infiltrandosi nel tessuto produttivo del paese con una capacità di mimetismo impressionante.
Non urla più minacce al telefono, ma impone condizioni attraverso intermediari rispettabili, uomini di fiducia che operano all’ombra di società regolari, cooperative modello, consorzi virtuosi.
E così, mentre le forze dell’ordine celebrano arresti importanti, la rete continua a espandersi, silenziosa, capillare, radicata in ogni settore che genera reddito e influenza.
Basti pensare alla provincia di Trapani, dove anche dopo la cattura di Matteo Messina Denaro, non si è affatto spenta la presenza mafiosa, al contrario, negli ultimi nove mesi la procura nazionale ha emesso settanta misure interdittive antimafia, un numero che non lascia spazio a illusioni: la mafia non è sconfitta, si è riorganizzata.
La mafia è ovunque, in particolare nei cantieri, nei centri logistici, nelle strutture ricettive, nelle filiere agricole, nei progetti energetici, portando con sé quel sistema di potere parallelo che decide chi lavora, chi vince gli appalti, chi viene escluso.
Ma d’altronde il legame con certi segmenti del potere politico e istituzionale non si è mai spezzato, anzi, si è fatto più sottile, più difficile da individuare, ma certamente solido e sono proprio quei referenti istituzionali a farsi promotori delle collusioni e di quel diffuso malaffare.
La Commissione d’inchiesta sulla mafia e la corruzione lo ha ribadito con chiarezza: la mafia, da nord a sud, ha sempre avuto una particolare abilità nel penetrare l’economia locale e difatti non si limita a estorcere, ormai produce, gestisce, investe, ricicla, già… si presenta come imprenditore serio, attento alle normative, sensibile all’ambiente e al territorio.
Ma dietro quei bilanci in ordine, dietro quelle certificazioni ambientali, dietro anche quelle donazioni benefiche sociali, si nasconde un vero e proprio sistema di controllo basato sul clientelismo, favoritismo, costrizione e compravendita del voto.
E ciò che rende tutto ancora più grave è che questa presenza non è più percepita come anomalia, ma è spesso vista come normalità, quasi una condizione inevitabile per sopravvivere in certi contesti.
Perché sono tanti, troppi, coloro che accettano quel sottobosco di vantaggi immorali: la bustarella mensile, il posto di lavoro garantito a un parente senza titoli, l’appalto assegnato senza gare vere, la protezione contro le ispezioni.
E ogni volta che qualcuno accetta un privilegio illegittimo, anche se lo fa per disperazione o per paura, diventa complice inconsapevole di un sistema che soffoca il futuro.
Ho letto in questi giorni quanto riportato dell’ex presidente della Commissione Cracolici che ha colto nel segno quando ha dichiarato: i mafiosi temono due cose, la galera e la perdita del patrimonio, certo, ma soprattutto temono di perdere la reputazione.
Perché la loro forza non sta soltanto nel denaro o nell’intimidazione, ma nella credibilità sociale che riescono a costruirsi. Sono considerati uomini di parola, imprenditori capaci, benefattori del paese, mentre in realtà sono accumulatori di potere illegittimo, che usano la legalità come maschera per perpetuare il dominio.
Ed è proprio qui che risiede il pericolo maggiore: quando la mafia non viene più vista come nemica, ma come parte integrante del sistema, quando il cittadino comune smette di indignarsi e comincia a dipendere dai suoi meccanismi perversi!
Ed è per questo che combatterla richiede molto più delle retate o dei processi, sì… richiede di una rivoluzione culturale che finora non c’è stata, di un rifiuto netto e quotidiano ad ogni compromesso, di una necessaria educazione alla legalità che parta dalle scuole, ma soprattutto si sviluppa dalle famiglie e nei luoghi di lavoro.
Perché finché ci sarà qualcuno disposto a scambiare la propria dignità con un vantaggio effimero, la mafia continuerà a respirare, a crescere, a prosperare.
Ma soprattutto, finché la società civile non farà sentire forte e chiaro il proprio “NO”, essa resterà viva, non nelle strade, ma nei palazzi, nei conti bancari, nei progetti che dovrebbero servire il bene comune e invece alimentano quel loro impero di falso progresso
Ho ascoltato ieri l’ennesimo notiziario pubblicato su una pagina social di “Tik Tok” al link: https://vm.tiktok.com/ZNdkdLWDj/ dove si faceva riferimento agli ennesimi tagli dei fondi destinati alla Sicilia che ahimè sono stati destinati verso il nord Italia!!!
Nel leggere notizie come queste mi chiedo come sia possibile che molti di quei lacchè, tra i miei conterranei, votino ancora per quei partiti attualmente posti al governo nazionale che dimostrano in maniera chiara che ci stanno derubando!
Ma d’altronde li ho visti, qualche anno fa, sì… quando posti in fila chiedevano (sembrava di essere ai tempi di Maria Antonietta, regina di Francia, quando – si dice – pronunciò quella sua famosa frase: “se non hanno pane, dategli le brioches”; sappiamo come nuovi studi abbiano affermato che la frase sia stata originariamente utilizzata in un romanzo di Rousseau per rappresentare il disprezzo dell’aristocrazia e quindi di quell’allora governanti nei confronti del popolo, molto prima della nota “Rivoluzione”…) e come adulatori in maniera servile, aspettavano che quegli individui porgessero loro un saluto, una stretta di mano o ancor peggio, firmassero (quelle fotografie stampate, consegnate a modello “santino”) loro… l’autografo!!!
Ma di chi poi? Ditemi… ma chi caz… sono questi soggetti per desiderare un loro autografo? Credetemi sulla parola, a vedere ciascuno di loro mi è venuto il vomito, ero presente casualmente in una Hall d’Albergo quando, appoggiato a un pilastro, osservavo la servile meschinità umana, sì di tutti quei soggetti, “leccapiedi“… per non voler esser più scurrile!
E questo è il ringraziamento per le preferenze concesse a quei soggetti, le stesse che hanno permesso loro di sedere in quelle poltrone a Roma per governarci!!! Ed allora, rivolgendomi a quei miei conterranei: mi raccomando, la prossima volta mettetevi in fila, fate le corse in quelle urne per consegnare a loro la vostra preferenza!!!
Minc…. ho sempre pensato sin da ragazzo con orgoglio di essere siciliano, di poter dire, io mio sento come un Leone, una Tigre, aggiungerei un Gattopardo! Ma crescendo e osservando il mondo che mi circonda, mi sono accorto come negli anni, quelli che erano come il sottoscritto, si sono piegati al sistema, ai compromessi, alle regole, alle bustarelle, già… al malaffare, ed oggi, ecco che mi ritrovo circondato da sciacalletti, iene, e da questi nuovi politici nazionali, imitazioni di quelli che furono i gattopardi, insieme a tutti questi sciacalli e pecore, che – per una congiuntura terribile – si sentono di essere il sale della terra!
E così i nostri miliardi se ne vanno in silenzio, sì come nella mia immagine di sopra, insieme alla cenere dell’etna, (già… perché quanti avrebbero docuto ribellarsi da Palazzo D’Orleans, sono gli stessi a cui è stata data loro quella poltrona…) e così le opere che dovevano essere compiute con quel nostro denaro, se ne vanno in fumo…
Parliamo ad esempio del collegamento ferroviario veloce tra Palermo e Catania che non è solo fermo, ma ormai sembra cancellato ancora prima di partire. La notizia del ritardo nella consegna – inizialmente prevista per giugno 2026 – è stata bruciata da un colpo ancora più duro: i fondi del Pnrr destinati al progetto sono stati dirottati verso altre regioni. Lo annuncia con forza Anthony Barbagallo, segretario regionale del Pd Sicilia: “Un treno che non parte neanche sulla carta“.
Ma a chi dare la colpa? Per Barbagallo, il presidente della Regione Schifani si muove sempre troppo tardi, e quando lo fa, preferisce scaricare le responsabilità sui dirigenti regionali piuttosto che ammettere il fallimento di una gestione politica inefficiente: “Schifani – accusa – anziché convocare tardivamente i direttori generali, dovrebbe iniziare ad assumersi le sue responsabilità. I fondi vengono spostati perché altre Regioni si sono dimostrate più pronte, efficienti e capaci di programmare. Noi no“.
Non ha tutti i torti il segretario regionale del Pd Sicilia, Anthony Barbagallo, nel ricordare che i vertici della burocrazia siciliana non nascono da scelte meritocratiche: Sono spesso espressione di logiche clientelari, dove contano più gli equilibri interni alle coalizioni che la competenza. Basti pensare al caso del capo della Pianificazione strategica, legato allo scandalo dei referti falsificati a Trapani e tuttora in carica, nonostante le richieste di rimozione. Mentre Schifani improvvisamente si sveglia dal torpore per criticare i suoi stessi collaboratori, non ha esitato a espandere l’organico dell’Ufficio Cerimoniale da 24 a oltre 100 unità. Una scelta paradossale, che dice molto su priorità e visione.
A denunciare il caos è anche Roberta Schillaci, vicecapogruppo M5S all’Ars: “Questa settimana niente lavori in Aula, il governo manca all’appello mentre la Sicilia affonda. Sanità in crisi, lavoro precario, infrastrutture abbandonate. L’ultimo colpo arriva proprio dalla decisione di sfilare i fondi Pnrr alla tratta Palermo-Catania per destinarli altrove. È indecente, ma forse ‘indecente’ non basta. Chiediamo da mesi un confronto sullo sfascio della sanità, ma il governo continua a occuparsi d’altro. Dopo quattro mesi, non c’è nemmeno il direttore generale dell’Asp di Palermo. Quando finalmente Schifani smetterà di litigare con la sua maggioranza e tornerà in aula”?
Ketty Damante, senatrice M5S e membro della commissione Bilancio, aggiunge: “Se sognate un treno veloce tra Palermo e Catania, dimenticatevelo. La scure del ministro Foti si abbatte sulle già fragili infrastrutture siciliane. Mentre si illude con il Ponte sullo Stretto, qui tagliano 37 chilometri di alta velocità. I fondi Pnrr non saranno spesi in tempo, quindi tanto vale spostarli. Peccato che così dovranno essere presi da altri progetti, magari già programmati. Il risultato? Nulla si salva”.
Per Pino Gesmundo della Cgil, il problema è strutturale: “Salvini, più che ‘quello del fare’, sembra ‘quello del non fare’. Se avesse investito energie nel Pnrr invece che su un’opera simbolo come il Ponte, oggi staremmo meglio. Al Consiglio dei Ministri si è discusso della revisione del Piano, evidenziando i numerosi ritardi nelle opere strategiche: Palermo-Catania, Salerno-Reggio Calabria, Terzo Valico… ovunque, solo ritardi”.
E Jose Marano, deputata M5S e vicepresidente della commissione Territorio all’Ars, conclude amaramente: “Dall’alta velocità all’alta incapacità il passo è stato breve. Due lotti fermi, promesse svanite. Ora i cittadini pagheranno il prezzo di una gestione pasticciata. Le motivazioni ufficiali? Siccità e mancanza di operai specializzati. Ma questa è una beffa. Non ci sarà nessun treno veloce entro il 2026 e bisognerà trovare nuovi fondi, sottraendoli ad altri interventi. Qualcuno dovrà rispondere di questo danno enorme per la comunità”.
E la Sicilia aspetta, ancora una volta. Mentre le promesse si trasformano in cenere, proprio come quella che sale dal nostro Etna e si disperde nel vento, mentre i treni, ahimè, restano fermi in stazione.
Ma cosa possono fare i cittadini quando subiscono danni a causa di una buca stradale, specialmente se nascosta dall’acqua?
Ecco una guida pratica per richiedere il risarcimento al Comune.
Partiamo dalla responsabilità del Comune: cosa dice la legge?
La giurisprudenza si è spesso occupata di casi legati a incidenti causati da buche stradali. Tuttavia, il diritto al risarcimento non è automatico: dipende da fattori come le condizioni del luogo, la visibilità dell’ostacolo e il comportamento della vittima.
Esistono due principali interpretazioni giuridiche:
Responsabilità extracontrattuale (art. 2043 cod. civ.): il danneggiato deve provare che il Comune ha omesso la manutenzione stradale.
Responsabilità oggettiva (art. 2051 cod. civ.): il Comune è automaticamente responsabile, a meno che non dimostri che l’incidente è avvenuto per caso fortuito.
La seconda interpretazione è generalmente più favorevole ai cittadini, ma è essenziale prepararsi adeguatamente.
Cosa fare subito dopo l’incidente?
Se si cade in una buca, è fondamentale raccogliere prove sin da subito:
Fotografare la buca (dimensioni, posizione, eventuale presenza di acqua).
Identificare testimoni che possano confermare l’accaduto.
Recarsi al Pronto Soccorso e conservare tutta la documentazione medica (referti, prescrizioni, ricevute per farmaci e visite specialistiche).
Quali sono le prove necessarie per il risarcimento?
Per ottenere il risarcimento, è necessario dimostrare:
L’esistenza della buca (attraverso foto o video).
La pericolosità della buca (ad esempio, se era nascosta dall’acqua o in un’area scarsamente illuminata).
Il nesso causale tra la buca e il danno subito (testimonianze sono fondamentali).
Come procedere quindi con la richiesta di risarcimento?
Inviare una diffida al Comune tramite PEC o lettera raccomandata, descrivendo l’accaduto, allegando le prove raccolte e quantificando il danno subito.
Dare un termine di 15 giorni per una risposta. Se il Comune non risponde o rifiuta, si può procedere legalmente.
Analizziamo il processo civile…
Se il Comune non risponde o nega la responsabilità, è possibile avviare una causa civile. Tuttavia, è importante valutare i costi (onorari legali, contributo unificato, perizie tecniche) che, in caso di vittoria, potranno essere recuperati dal Comune.
In conclusione, cadere in una buca stradale può causare danni fisici ed economici significativi. Tuttavia, con le giuste prove e una procedura corretta, è possibile ottenere il risarcimento dal Comune.
La chiave è agire tempestivamente e documentare ogni dettaglio.
Da un po’ di tempo in Sicilia ho come l’impressione che tutto proceda in maniera perfetta…
Già… scorgendo i quotidiani e/o le notizie sul web, occasionalmente mi ritrovo a leggere di qualche inchiesta giudiziaria, per lo più delle volte, gli argomenti trattano argomenti futili o certamente di poco conto.
Ed allora mi sono chiesto come fosse possibile che la regione che ha ottenuto i maggiori finanziamenti europei (sì perchè con 5,9 miliardi di euro, la Sicilia è prima tra le regioni italiane, seguita da Lombardia con €. 5,5 mld e Campania con €. 5,2 mld) e con una rete diffusa di appalti in corso (e in fase di progettazione) non sia più sotto le mire di quella ben nota organizzazione criminale.
Ma soprattutto mi chiedo: come può essere che quell’intreccio da sempre indissolubile, tra mafia, economia e politica, abbia deciso improvvisamente di sciogliersi?
Ed allora debbo credere che quanto avvenga sia soltanto di facciata, che si è semplicemente passati ad una modalità che potremmo definire accomodante e soprattutto “occultata“; si tratta semplicemente di operare in maniera celata, facendo in modo che ad aggiudicarsi gli appalti siano proprio quelle loro imprese affiliate…
E così una grossa fetta di quegli appalti finisce nelle loro tasche, soffocando di conseguenza, non tanto lo sviluppo della regione – che grazie ai miliardi pervenuti sta volando a gonfie vele – no… è in quel voler entrare a gamba tesa nell’economia e negli aspetti sociali che ahimè riesce a condizionare la vita di ciascun mio conterraneo.
Sì… vediamo saltuariamente alcuni colpi inflitti dalle forze dell’ordine e dalla magistratura, ma “cosa nostra” continua di fatto a rappresentare una minaccia persistente e in continua evoluzione.
Peraltro, anche il più ingenuo cittadino ha compreso come quell’organizzazione mafiosa si dimostri abile nel reinventarsi e nel trovare nuovi spazi di azione evidenziando proprio in quei fondi del PNRR il loro interesse, infiltrandosi così nei gangli vitali del tessuto economico ed in quello politico-amministrativo.
Difatti, è proprio grazie a questi legami che si permette a quell’organizzazione di esercitare un controllo capillare sul territorio, sfruttando vecchie logiche e, al contempo, promuovendo nuovi referenti per gestire i suoi affari illeciti.
Qualcuno potrebbe obiettare che esistono i controlli, che vi sono norme da rispettare, che c’è un protocollo di legalità che sovrasta qualsivoglia procedimento. Ma quanto queste azioni risultino concrete, beh… è tutto da verificarsi. D’altronde, ditemi: chi controlla i controllori?
Affidarsi alle regole non è sufficiente!!!
Il sistema – secondo il sottoscritto – risulta ancora troppo bypassabile. E se qualcuno fa finta di non averlo compreso, è solo perché gli fa comodo così!
Purtroppo, nel nostro Paese, e in particolare nella mia regione, la Sicilia (ma potrei dire lo stesso per molte altre…), quel voto è diventato merce di scambio. Sì, principalmente per interessi personali!
Non dico che sia sbagliato esprimere una preferenza, ma quando ciò accade senza alcun senso di responsabilità o come mero atto di scambio, si finisce per tradire l’essenza stessa della democrazia. E allora, a che serve quella “X” nell’urna? A cosa porta, se non all’indifferenza generale verso i partiti, i candidati e, cosa ancora più grave, l’intero sistema Paese?
Si va avanti così, tra apatia e opportunismo, ignorando deliberatamente le conseguenze delle decisioni prese nei palazzi del potere. La politica diventa un campo sterile, dove tutto si riduce a un ciclo perverso: il cittadino baratta il proprio voto per un tornaconto personale, e in cambio alimenta un sistema corrotto che soffoca ogni possibilità di cambiamento.
Le cronache sono piene di scandali, inchieste e amministrazioni sciolte per infiltrazioni mafiose. È un copione tristemente noto: un “patto” elettorale tra candidati e criminalità organizzata, costruito sulla compravendita del consenso.
La criminalità utilizza metodi ormai collaudati: dal pagamento in contanti per ogni voto garantito, allo scambio in natura, come buoni spesa o favori lavorativi. A questo si aggiungono le pressioni esercitate da chi, con il ruolo di datore di lavoro, impone ai propri dipendenti una preferenza elettorale in cambio della promessa di sicurezza occupazionale.
È chiaro che il cosiddetto “voto di scambio” rappresenta un reato grave, codificato come scambio elettorale politico-mafioso, punito con pene dai 4 ai 10 anni di reclusione. Ma quanti candidati temono davvero questa legge? Quanti si preoccupano delle conseguenze? Pochi, pochissimi. Perché, in fondo, sanno di agire in un contesto dove la complicità e l’omertà garantiscono l’impunità.
Ed allora come possiamo invertire questa rotta?
Già… se vogliamo davvero spezzare questo circolo vizioso, servono non solo azioni concrete, ma un profondo cambio di mentalità:
Ad esempio, bisogna ripartire con l’educazione civica e la sensibilizzazione: Le scuole devono tornare a essere il luogo dove si educa al valore del voto come strumento di partecipazione e cambiamento. Solo cittadini consapevoli possono rifiutare le logiche corrotte.
Ed ancora è necessaria più trasparenza e soprattutto un corretto monitoraggio; ad esempio si possono rafforzare i controlli durante le campagne elettorali e garantire la trasparenza nei finanziamenti ai candidati e ai partiti.
Implementare eventuali sistemi di segnalazione anonima sia per chi subisce pressioni, ma anche per chi viene intimidito, affinchè quel voto risulti libero da coercizioni e grazie a questi nuovi meccanismi si riesca a proteggere gli eventuali denuncianti.
Ed ancora, pene più severe e certe, perché non basta che il reato esista soltanto nel codice penale e poi come vediamo spesso nessuno paga!!! E tempo che le pene vengano applicate con rigore, afficnhè la società civile possa esser pronta a chiedere conto ai responsabili.
Ed infine è necessario incentivare la partecipazione attiva!!! La politica non deve essere percepita come un mondo distante o corrotto, ma come uno strumento nelle mani dei cittadini. Favorire una maggiore partecipazione ai processi decisionali, attraverso piattaforme digitali o incontri pubblici, solo così si può far riscoprire il senso di appartenenza.
In definitiva, il voto non è solo un diritto: è un dovere morale verso noi stessi e le generazioni future.
Se continueremo a svenderlo al migliore offerente, tradiremo ogni speranza di riscatto per la nostra terra. Solo con un impegno collettivo e una rinascita della coscienza civile potremo davvero riconquistare quella libertà che oggi appare sempre più compromessa.
La corruzione è percepita come un fenomeno diffusissimo, in particolare nei grandi appalti pubblici, dove sembra essere una presenza storica e radicata. Ma non si ferma lì: investe i concorsi pubblici, la gestione delle carriere, e persino settori essenziali come la sanità e l’istruzione universitaria.
Per molti cittadini, è quasi una necessità: un “male utile” per ottenere servizi o avanzare in ambiti dominati da favoritismi e scorciatoie. Questa percezione non solo alimenta sfiducia e disillusione verso le istituzioni, ma normalizza la corruzione stessa, facendola sembrare inevitabile, un pezzo inscindibile della nostra vita pubblica e privata.
È qui che si nasconde il vero pericolo: accettare la corruzione come parte integrante della società significa rinunciare a combatterla. La consideriamo endemica, quasi genetica, quando in realtà essa prospera grazie all’indifferenza, all’omissione e, a volte, alla complicità.
E mentre il fenomeno cresce, cala la partecipazione attiva dei cittadini. Le piazze si svuotano. Le denunce diminuiscono. Sempre più persone vedono il whistleblowing non come un dovere civico, ma come un rischio personale e professionale. E così il silenzio diventa complice.
Pochi sono i coraggiosi che denunciano, che credono ancora nella giustizia e si impegnano a fare il proprio dovere. E difatti a dimostrazione di quanto detto, dove sono tutti gli altri? Già… ditemi, chi sono questi eroi che tanto parlano ma che poi di fatto sr rendono silenziosi? Sì… chi sono quei cittadini, politici, imprenditori o anche dirigenti e funzionari che alzano la voce contro la corruzione? Fatemi i loro nomi perché io non ne conosco!!!
La verità è amara: questo sistema corrotto fa comodo a troppi. È un male che non solo tolleriamo, ma a cui partecipiamo, attivamente o passivamente, affinché nulla cambi.
Ma possiamo davvero accettarlo? È così che vogliamo vivere, in una società che si arrende al marcio?
È tempo di guardarsi allo specchio e chiedervi se volete continuare ad essere ancora parte del problema o della soluzione.
Il cambiamento parte da noi, dalla nostra volontà di dire “basta” e di agire, anche con piccoli gesti, per costruire un futuro libero da questa piaga.
In questo periodo cruciale, in cui si definiscono le scelte economiche e sociali della nostra regione, diventa essenziale rivolgere uno sguardo attento alle ferite e alle sfide quotidiane che la Sicilia affronta.
La crisi economica, la povertà e il crescente disagio sociale richiedono un impegno concreto e trasparente da parte di chi ha il compito di governare.
Tra le priorità che non possono più essere ignorate vi è, innanzitutto, il futuro delle prossime generazioni. Bambini e ragazzi chiedono scuole sicure e un’istruzione di qualità in una terra che, purtroppo, detiene ancora uno dei tassi più alti di dispersione scolastica in Italia.
Un altro tema cruciale è il diritto dei giovani di restare in questa terra, un desiderio condiviso da tanti ragazzi che vorrebbero costruire qui il proprio futuro. Tuttavia, la mancanza di meritocrazia, insieme a disoccupazione e precarietà, spesso li costringe a guardare altrove, spostando le loro speranze lontano dalla Sicilia.
La vivibilità delle città è un altro tasto dolente: insicurezza, carenza di servizi essenziali e un diffuso senso di abbandono segnano profondamente i nostri territori.
Questi temi richiedono politiche che mettano davvero al centro il benessere dei cittadini, attraverso:
Leggi finanziarie mirate, capaci di rafforzare le misure contro la povertà e sostenere le famiglie in difficoltà.
Interventi per combattere la dispersione scolastica, migliorando non solo la qualità dell’istruzione, ma anche le condizioni strutturali delle scuole.
Azioni decise per contrastare il consumo di sostanze pericolose, fenomeno che colpisce anche i più giovani e mina il tessuto sociale.
Un supporto trasparente ai comuni, affinché gli interventi siano realmente utili alle comunità locali e non si trasformino in meccanismi opachi di corruzione o spreco.
Oggi più che mai, è necessario un dialogo autentico e costruttivo tra istituzioni e società civile. Troppe volte, però, le azioni dei primi sembrano ignorare le esigenze dei secondi.
Perché solo attraverso l’impegno e un’espressione concreta di legalità possiamo scrivere una nuova pagina di solidarietà e responsabilità, costruendo insieme quel futuro migliore che la nostra Sicilia merita.
La politica, quando funziona come dovrebbe, è uno strumento potente per il bene comune.
Tuttavia, è doloroso constatare come troppo spesso essa diventi un terreno fertile per generazioni intere, ciascuna di esse sterile e incompetente.
Parlo di padri, fratelli, figli… sì, intere dinastie che prosperano grazie alla politica, ma che non hanno mai apportato alcun contributo concreto al progresso del Paese!
Questi individui inadeguati non conoscono il merito, non sanno cosa significhi conquistare un risultato con fatica e sacrificio. Hanno sempre vissuto in maniera agiata, beneficiando di privilegi che derivano non tanto dalle loro capacità, quanto dalla loro appartenenza.
Sono il prodotto di un sistema che ha da sempre premiato circostanze come connivenze, raccomandazioni, favoritismi, compromessi… Mi riferisco a tutti quei legami con enti pubblici, associazioni, ordini, fondazioni, logge, e mai a quelle competenze indispensabili. Così, noi cittadini paghiamo il prezzo delle loro carenze.
Alcuni di loro hanno approfittato di gravi circostanze: per esempio, molti hanno fatto carriera grazie alla morte di un familiare per mano della mafia o della criminalità organizzata (la stessa che, grazie allo scambio di voti, ha poi permesso ai loro discendenti di rimanere al potere). Un cinico sfruttamento del dolore e del sacrificio che rende la situazione ancora più amara.
E mentre loro godono di stipendi, vantaggi e potere, la collettività affronta sfide sempre più dure: un sistema sanitario in crisi, un’istruzione trascurata, infrastrutture che crollano, e opportunità per i giovani che si riducono drasticamente.
La verità è che queste generazioni non solo non costruiscono, ma sottraggono risorse preziose che potrebbero migliorare la vita di tutti noi.
È giunto il momento di rifiutare la politica come rendita di posizione, un comodo rifugio per chi non è in grado di contribuire realmente.
È tempo di scendere in piazza, anche per chi, attualmente sovvenzionato da quel sistema che attraverso le briciole ha comprato il loro immobilismo, ha il dovere di alzarsi!
Dobbiamo chiedere responsabilità, trasparenza e merito. Solo così possiamo sperare in un futuro in cui chi governa lo faccia per il bene di tutti, e non solo per il proprio tornaconto.
È tempo di spezzare queste catene di favoritismi e inefficienze, prendere esempio da Paesi più democratici, e pretendere il cambiamento necessario. Il futuro non può più essere affidato a chi si aggrappa al passato, senza offrire nulla di nuovo!
“Già… la metà dei cittadini di questo Paese prende mazzette e l’altra parte girano le palle quando non riesce a farlo, con continuo passaggio di gente da un cinquanta percento all’altro, le regole si fanno e si disfano secondo necessità…”.
Infatti… è proprio un continuo passaggio di persone, da un 50% all’altro, in un circolo vizioso che sembra senza fine.
Ed ancora, le regole si fanno e si disfano secondo necessità, piegate al servizio di interessi personali e mai di un bene comune.
La corruzione è diventata la lingua madre di troppi, una prassi che permea ogni livello della società, dai più alti uffici pubblici fino alla vita quotidiana di molti miei connazionali….
Il tutto può esser riassunto in tre parole: si accetta, si tollera, si partecipa!!!
Una moltitudine di persone che sceglie di chiudere un occhio o entrambi, di fare compromessi piuttosto che resistere a un sistema che sembra ormai invincibile.
Ma questo è il punto: è invincibile solo finché lo si accetta!!!
La corruzione prospera nell’indifferenza e nella complicità. Ogni volta che un cittadino sceglie di partecipare o di non opporsi, aggiunge un altro mattone al muro che ci divide da una società più giusta, più equa.
Non è solo una questione di politica o di grandi scandali, è anche nei piccoli gesti quotidiani: una bustarella per accorciare i tempi, una scorciatoia illegale presa per convenienza, un favore fatto non per altruismo ma per costruire una rete di debiti reciproci…
Così il senso civico si sgretola, e con esso ogni possibilità di costruire un futuro migliore.
E allora viene spontaneo chiedersi: quando smetteremo di accettare che “così vanno le cose”?
Quando ci renderemo conto che non si può continuare a lamentarsi della corruzione mentre ci si crogiola nella sua ombra?
Sì… perchè questo Paese ha bisogno di cittadini coraggiosi, non di complici. Ha bisogno di chi non si accontenta di galleggiare in un mare di compromessi, ma è disposto a lottare per emergere in un mondo più pulito. Perché, alla fine, il cambiamento inizia da noi.
Mi accorgo ogni giorno che passa che la strada per il cambiamento è lunga, faticosa, forse non ne vedrò mai la fine, ma qualcosa in me resta tenace, già… la volontà di esser diverso da tutti gli altri, di provare ogni giorno a cambiare questo stato di fatto, di dire no a situazioni ambigue e soprattutto a non dover mediare, anche quando tutto intorno a me sembra farsi pesante: sì… tutto pur di non cedere mai!!!
In un periodo in cui spesso si punta il dito contro la classe politica e dirigente, ma anche nei confronti delle migliaia di funzionari pubblici per sprechi e/o cattiva gestione delle risorse, ecco che con questo post vorrei sottolineare l’esempio di un magistrato (il Dott. Nicola Gratteri) che – per come dichiarato nella trasmissione di La7 “Otto e mezzo” – nel corso della sua carriera, ha scelto di non utilizzare la tecnologia e i beni messi a disposizione dal Ministero della Giustizia!!!
Egli infatti, con grande senso di responsabilità, ha preferito acquistare di tasca propria tutto ciò di cui aveva bisogno, evitando così di gravare sulle casse dello Stato, un comportamento che denota non solo integrità morale, ma anche un profondo rispetto per il ruolo pubblico e per i soldi di noi contribuenti.
Immaginate per un istante se tutti i nostri uomini istituzionali e di conseguenza i funzionari pubblici e ancora più quei nostri “……..” politici, adottassero per un solo mandato quel simile approccio.
Non staremmo forse parlando di un Paese improvvisamente più ricco, più efficiente e soprattutto meno incline alla disonestà?
Comprendo perfettamente che si tratta di un gesto semplice, ma potenzialmente simbolico, che dovrebbe far riflettere tutti quei soggetti di cui sopra e fungere da esempio per coloro che oggi ricoprono incarichi pubblici o di grande responsabilità.
Viene quindi spontaneo chiedersi: come potrebbe lo Stato modificare un sistema che spesso concede benefit inutili, sprecando denaro pubblico?
Già… perché molti di questi “gadget” ( tra l’altro costosissimi…) non vengono forniti per migliorare la qualità del lavoro o per rispondere a necessità operative, ma appaiono piuttosto come regalie mascherate, sì… premi destinati a funzionari che nella maggior parte dei casi non evidenziano, né competenza e ancor meno impegno.
Parliamo di privilegi che anziché valorizzare il merito sembrano favorire molti di quei “raccomandati” e di conseguenza quelle loro inette condotte e, talvolta, persino premiare quei loro comportamenti disonesti.
È ora di invertire la rotta, perché uno Stato che si ritiene (vedasi tutte le dichiarazioni che ogni sera ci vengono “propagandate” dai Tg nazionali) essere virtuoso dovrebbe iniziare a eliminare tutti i benefit non strettamente necessari, mantenendo solo quelli funzionali allo svolgimento del lavoro.
Inoltre, è tempo di premiare il merito in modo trasparente, con incentivi basati sui risultati e non su scelte di “casta” o attraverso concessioni materiali.
E inoltre fondamentale implementare controlli rigorosi sull’utilizzo delle risorse pubbliche, per garantire che ogni spesa abbia una sua reale giustificazione.
Ed infine, vista la diffusa immoralità che ci relega tra i primi paesi al mondo per livello di corruzione, bisogna ripartire promuovendo una cultura di responsabilità personale, dove chi ricopre incarichi pubblici dia l’esempio, evitando sprechi e privilegi immotivati.
Immaginate solo per un istante il nostro Paese in cui, i fondi risparmiati da queste riforme, vengano investiti in istruzione, sanità, infrastrutture e/o a sostegno alle fasce più deboli della popolazione, un paese dove la trasparenza e l’efficienza sostituiscano gli sprechi e i favoritismi.
Lo Stato e quindi i suoi referenti dovrebbero amministrare la cosa pubblica con lo stesso senso di responsabilità con cui si gestisce una famiglia, non quindi come una risorsa da spremere, ma come un patrimonio da preservare e far crescere per il bene comune…
Perchè come ripeto spesso: il cambiamento comincia innanzitutto dalle scelte personali!!!
Se non sapete quindi come fare, semplice… potete iniziare prendendo esempio dal Dott. Gratteri!!!
Il comando provinciale della Gdf di Catania, nell’ambito delle indagini coordinate dalla Procura di Catania, ha dato esecuzione a un decreto del gip nei confronti del titolare di una società, indagato ora per bancarotta fraudolenta, documentale e autoriciclaggio per il fallimento di una Società srl che sarebbe stata oggetto di operazioni distrattive e dissipative del patrimonio aziendale, accumulando ingenti debiti erariali e perdite rilevanti.
Il gip, sulla scorta delle evidenze acquisite dal Nucleo di Polizia-Economico-Finanziaria di Catania ha disposto il sequestro preventivo dei compendi aziendali delle società beneficiarie dei rami aziendali dalla fallita Srl, oltre denaro, beni e altre utilità per un importo complessivo di quasi un milione di euro.
Alle due società in accomandita semplice è stata inoltre contestata la responsabilità amministrativa degli enti – così come previsto dal D.lgs. n. 231/2001 – in quanto il reato di auto-riciclaggio dei proventi illeciti, oggetto di reimpiego all’interno delle stesse casse, sarebbe stato commesso nel loro esclusivo interesse.
E difatti per questa tipologia di illeciti il citato decreto legislativo prevede la possibilità di applicare sanzioni pecuniari e interdittive a carico delle società coinvolte.
Il lavoro si concentra sull’analisi della corruzione all’interno della Pubblica Amministrazione (P.A.) e dei tentativi legislativi per contrastarla, con l’obiettivo di promuovere trasparenza e migliorare l’efficienza delle attività pubbliche.
La corruzione viene intesa come qualsiasi comportamento che danneggia l’interesse pubblico, mettendo al primo posto un vantaggio personale a discapito del bene comune.
Questo fenomeno è di grande rilevanza poiché mina la fiducia dei cittadini nelle istituzioni, favorisce pratiche ingiuste e aumenta le disuguaglianze sociali, in particolare tra le classi più svantaggiate.
In tale contesto, la disciplina anticorruzione svolge un ruolo cruciale nel garantire la trasparenza delle azioni della P.A. e nel consentire ai cittadini di monitorare l’operato degli enti pubblici.
È fondamentale che l’amministrazione sia percepita come “un’istituzione aperta”, in grado di fornire chiarezza e accesso alle informazioni, per evitare che l’opacità possa favorire il verificarsi di atti corruttivi.
La mancanza di trasparenza aumenta la probabilità che i funzionari pubblici possano essere coinvolti in comportamenti illeciti che non solo danneggiano l’economia, ma compromettano anche la qualità dei servizi pubblici, ostacolando lo sviluppo di politiche sociali orientate al benessere collettivo.
Inoltre, la corruzione ha un impatto negativo sull’efficienza economica, poiché porta alla selezione di progetti e investimenti in base a logiche corruttive anziché al merito o alla reale utilità sociale.
Ciò diminuisce la qualità delle risorse allocate, ostacolando lo sviluppo e la crescita, soprattutto nei settori che dovrebbero invece aiutare le classi più vulnerabili.
In questo scenario, l’adozione di politiche anticorruzione non si limita a una mera repressione dei comportamenti illegali, ma deve essere accompagnata da azioni che promuovano l’accesso alle informazioni, l’accountability e il controllo sociale.
Il concetto di “anticorruzione” si riferisce a tutte quelle attività, misure e strategie volte a contrastare i fenomeni di illegalità, agendo sulla prevenzione e sulla scoperta dei comportamenti illeciti che minano gli interessi collettivi.
Al contrario, la “trasparenza” riguarda la chiarezza e l’accessibilità dell’operato della P.A., consentendo ai cittadini di conoscere e valutare le decisioni e le azioni delle istituzioni pubbliche. Sebbene i due termini vengano spesso usati insieme, è importante comprendere che, pur essendo complementari, ciascuno ha un significato autonomo: la trasparenza è la condizione che consente l’anticorruzione, ma non tutte le misure di anticorruzione sono necessariamente trasparenti.
Il legislatore ha cercato di rafforzare la trasparenza attraverso normative che obbligano le amministrazioni a rendere pubblici i dati relativi alle loro attività, trasformando la P.A. in una “casa di vetro”.
L’obiettivo è ridurre al minimo il rischio di corruzione creando un sistema amministrativo dove l’opacità viene ridotta e ogni operazione è sottoposta a controllo.
La lotta alla corruzione, quindi, non si limita a sanzionare i reati, ma implica un cambiamento culturale che deve scardinare pratiche ormai radicate nel modus operandi quotidiano della P.A., promuovendo un nuovo modello basato sull’etica, la trasparenza e la responsabilità.
Ci sono voluti un bel po’ di anni per iniziare a comprendere quanto forse sia realmente accaduto…
Il sottoscritto anni fa, affrontando molti di quei demoni della nostra Chiesa aveva riportato un convincimento sul misterioso sequestro che faceva riferimento a Emanuela Orlandi ed ora, dopo tanti anni, mi convinco sempre più di non essere stato così distante da quella verità, la stessa che in tanti, in questi quarant’anni dalla sua scomparsa, hanno provato in tutti i modi ad occultare!!!
Il post di allora s’intitolava “Il gallo cantò ancora e ancora, già… e una volta ancora!!!” – http://nicola-costanzo.blogspot.com/2020/04/il-gallo-canto-ancora-e-ancora-gia-e.html e nel leggerlo scoprirete in sintesi quanto è accaduto solo in piccola parte a causa del potere della nostra Chiesa e forse chissà, anche alla giovane Emanuela…
Ho sempre pensato durante il periodo della pandemia – nel vedere quella Piazza S. Pietro totalmente vuota – come forse qualcuno da lassù abbia voluto mandare a quegli uomini vestiti con abiti talari, un preciso messaggio affinché comprendessero che nulla è eterno e che anche i fedeli della chiesa, gli stessi che da secoli fanno in modo di esserci in particolare durante le celebrazioni, beh… anche loro possono improvvisamente scomparire, in particolare quando posti dinnanzi aelle aberrazioni compite in nome di Cristo…
E’ tempo quindi che si faccia un passo indietro, che da quel Vaticano finalmente si comprenda come la verità debba venire prima di ogni cosa, perché l’uomo coraggioso non ha paura di affrontare il giudizio non solo di Dio, ma anche quello degli uomini…
Auspico che anche Papa Francesco dia ora una mano per raggiungere quella giustezza che finora è stata negata ai familiari Orlandi, in particolare a suo fratello Pietro, che da sempre non ha smesso di cercarla…
Basta con i sotterfugi, gli inganni, con tutti quegli espedienti finora utilizzati per sottrarsi alle proprie responsabilità è tempo di dire la verità, quanto allora è realmente accaduto, chi ne erano i responsabili, chi li ha coperti, possano quest’ultimi essere anche cardinali o più!!!
Chi è stato deve pagare e tempo quindi che su Emanuela Orlandi si sappia tutto e soprattutto ci si dica dov’è… perché giusto che sia così!!!
Sembra da quanto riportato che il sistema prevedeva di svuotare alcune società in favore di altre, appartenenti allo stesso gruppo, nel momento in cui – per effetto dei rilevanti debiti maturati – risultava più conveniente continuare l’attività economica con una nuova o diversa realtà aziendale.
La nostra generazione, ancor meno quella dei miei figli, non ha vissuto la guerra e quindi nessuna delle due parti comprende pienamente la gravità e le ripercussioni di dover affrontare la vita durante un conflitto, ancor meno questa esperienza ci coinvolge quando ad essere implicati nel conflitto sono altri Stati del mondo…
Osservo d’altronde come – da parte di molti – vi sia una estrema superficialità nel trascorrere la propria quotidianità, la vita è vissuta in maniera inconsistente, poco impegnativa, basti osservare come ci si assilla nel discutere sugli abiti provocatori di una presentatrice o su un bacio manifestato al di fuori di quel contesto canoro, ma l’importante per gli addetti ai lavori è che se ne parli…
Viceversa, ci si è totalmente dimenticati di mandare un semplice messaggio di speranza, ricordare a tutti come la guerra rappresenti a tutt’oggi la più grave forma di violenta, in quanto causa distruzione, morte, sofferenza e soprattutto privazione a livello individuale e collettivo….
Inoltre, la guerra per come abbiamo studiato, può avere conseguenze negative a lungo termine, come la destabilizzazione politica, l’emigrazione forzata, la perdita di risorse e le difficoltà economiche, ecco perché diventa importante giungere alla risoluzione pacifica dei conflitti, unici obiettivi per la stabilità e la sicurezza a livello globale.
Ricordare la guerra era fondamentale proprio durante quella trasmissione, perché erano in tanti tanti ad ascoltarla, in Italia e nel mondo e quindi ditemi, a cosa è servito leggere la lettera del Presidente Ucraino a quella tarda ora e poi, perché non chiedere ufficialmente al Presidente Russo un incontro per trattare la pace, già… tutti coloro che erano su quel palco avrebbero potuto manifestare insieme per promuovere la pace ed una risoluzione pacifica al conflitto, ed invece nessuno ha intrapreso a livello individuale una sola azione per promuovere la pace…
A volte basta una parola, una comunicazione sincera affinché si inizi quel processo di promozione che conduca alla comprensione di entrambi le parti, perché provare a comprendere le opinioni e i punti di vista degli altri può aiutare a costruire relazioni positive e a risolvere possibili conflitti in modo pacifico.
Il nostro Paese, in particolare il nostro governo deve lavorare affinché gli obiettivi di entrambi le parti di quel conflitto trovino una giusta soluzione che conduca alla tolleranza, al rispetto e ad una nuova cultura di pace, per prevenire nel futuro, eventuali conflitti.
Serve responsabilità e quindi persone responsabili che attraverso la diplomazia provino a risolvere questo grave conflitto, promuovendo per entrambi una pace duratura.
Solo così si potrà giungere alla fine di questo conflitto, perché la pace non è qualcosa che può essere ottenuto facilmente, ma richiede enormi sforzi sostenuti d tutti a livello globale.
Tuttavia, può sembrare un utopia, ma ognuno di noi può fare la differenza, basta semplicemente dimostrare di volere con i fatti questa pace, contribuire quindi in tutti i modi possibili per ottenerla, affinché si ritorni a un mondo pacifico e stabile.
Ma se non ci si prova, se i nostri giovani continuano a distrarsi sui social con quei loro cellulari, ecco… che un giorno, potrebbero pentirsi solo per non averci provato!!!
Sì… sono i mancati controlli, quelli che in quasi tutti i miei post vado riproponendo…
Il problema fondamentale difatti non è soltanto da ricercarsi nella mancata prevenzione di tutti i rischi idrogeologici che come ben sappiamo, sono presenti ovunque nel territorio nazionale…
No… ciò che non si vuole fare, va ricercato nei mancati accertamenti da parte di chi è preposto al controllo del territorio, mi riferisco a quanti chiudono abitualmente un occhio e non evidenziano a chi di dovere, quelle condizioni di fragilità o ancor peggio l’uso scorretto che se ne fa, ad esempio, nel celare una costruzione abusiva posta in un area pericolosissima…
Beh… come ormai ripeto spesso, nessuno vede nulla e quegli esigui coraggiosi che viceversa provano a far emergere i problemi, denunciando a chi di dovere quanto ahimè scoperto (ma peraltro era già visibile a tutti…), ecco che incredibilmente trovano un muro di gomma, poiché quest’ultimi hanno poco interesse a mettere in atto quelle procedure al fine di rendere efficace la giustizia in questo paese…
Su quest’ultimo punto, è proprio la politica a evidenziare le maggiori responsabilità!!!
Difatti, invece di provvedere a mettere in sicurezza il territorio o ad abbattere quelle centinaia di migliaia di case abusive, mai ufficialmente autorizzate, ecco che per amore di quelle preferenze elettorali o chissà per evitare rivolte di piazza o ancor peggio per evitare ripercussioni personali come ad esempio l’infastidire pericolose ingerenze criminali, ecco che da parte delle istituzioni si preferisce soprassedere, sì… solitamente si resta in attesa, forse perché si auspica che dal governo nazionale intervengano nuovi provvedimenti legislativi, in particolare condoni, già… per la felicità di tutti…!!!
Nel frattempo basta un po’ più d’acqua dal cielo e si muore!!!