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Dal dubbio alla conferma: l’Iron Beam e l’ombra sull’incidente di Raisi.


Come spesso accade quando scavo sotto la superficie delle notizie ufficiali, finisco per rincorrere le ipotesi più scomode e così, stamani, leggendo della piena operatività del sistema laser israeliano “Iron Beam“, non ho potuto fare a meno di ripensare ai miei post dello scorso anno, e a quel dubbio che in molti, avevano liquidato come un volo di fantasia.

Si era trattato davvero di un incidente, la caduta dell’elicottero del Presidente Ebrahim Raisi, o qualcosa di più? Allora parlavo di armi capaci di bloccare i sistemi elettrici di un velivolo senza lasciare traccia, di tecnologie segrete che potevano sembrare fantascienza. 

Oggi, quella fantascienza ha un nome, una potenza di 100 kilowatt, e un costo per colpo di pochi dollari. L’Iron Beam è l’incarnazione tangibile di quel “caso ipotetico” su cui avevo costruito le mie riflessioni.

Rileggendo i miei appunti, mi colpisce la fredda corrispondenza tra la mia ipotesi e le caratteristiche di questo sistema. Avevo immaginato un’arma a raggio laser in grado di accecare e bloccare l’intero impianto elettrico di un veicolo in volo, facendolo precipitare senza un Mayday e senza segni convenzionali di esplosivo. L’Iron Beam utilizza un fascio laser ad alta energia per distruggere droni, razzi e mortai in pochi secondi. Il punto cruciale è il suo funzionamento: non esplode un missile, ma concentra energia sul bersaglio fino a danneggiarlo strutturalmente o a neutralizzarne i sistemi.

È difficile non pensare che una tecnologia simile, in una configurazione diversa, possa essere impiegata per mandare in tilt i delicatissimi sistemi avionici di un elicottero e il fatto che una sua versione sia già stata usata in combattimento nell’ottobre 2024 dimostra che non era un progetto in laboratorio, ma uno strumento operativo e collaudato.

Il quadro si fa ancora più significativo considerando il contesto strategico. Israele ha sviluppato l’Iron Beam come risposta specifica ai droni iraniani, una minaccia persistente e difficile da intercettare. In questa corsa agli armamenti, un’arma laser efficace, precisa e a bassissimo costo rappresenta un cambiamento di paradigma. Ma mi chiedo, e chiedo a voi: quando una nazione sviluppa una capacità difensiva così avanzata e mirata, è così inconcepibile che la stessa tecnologia, o una sua variante, possa essere esplorata in scenari diversi? 

Tutto questo getta una luce sinistra su quanto accaduto mesi fa. La sequenza degli eventi si ricompone con una logica spietata. La morte improvvisa di Raisi, l’elicottero precipitato senza segnale, l’assenza di prove di un attacco convenzionale. Poi, le elezioni accelerate e l’ombra del Consiglio dei Guardiani. E ora, a coronamento, l’annuncio trionfante di un’arma laser che sembra uscita dalle pagine del mio primo post.

I media hanno trattato il caso Raisi e la mia ipotesi come due narrative separate. A me, che ho il sospetto di guardare dietro il sipario, viene chiesto di credere a una serie di coincidenze straordinarie. La tecnologia esiste, il movente politico esisteva, l’opportunità forse c’era. Eppure, la versione ufficiale rimane immutata: un tragico incidente.

Forse non sapremo mai la verità sull’incidente di maggio, fintanto che al governo c’è quella classe politica. La storia di queste guerre ombra è scritta su pagine che non ci saranno mai mostrate. Ma ciò che oggi è innegabile, è che le mie “fantasie” di allora erano meno fantasiose di quanto molti pensassero. L’Iron Beam è qui, è reale, e riscrive le regole dell’ingaggio.

La sua stessa esistenza conferma che il dubbio che ho sollevato non era infondato, ma fondato su una comprensione anticipata della direzione della tecnologia militare. Questo non prova nulla riguardo alla morte di Raisi, lo ammetto. Ma dimostra, al di là di ogni ragionevole dubbio, che il mondo in cui un simile evento potrebbe essere stato orchestrato non è il mondo della fantaspionaggio, ma il nostro. 

E questa consapevolezza è il primo passo per non farsi raccontare la realtà solo attraverso il comodo filtro dell'”incidente“. La verità è spesso diversa, e talvolta è nascosta in bella vista, nell’annuncio di una nuova, rivoluzionaria, arma da difesa

L’inganno della tregua: Donald Trump raccoglie gli applausi, ma il merito va a suo genero Kushner, all’inviato speciale Witkoff e al leader di Hamas, Khalil al-Hayya.


Già… bisogna ringraziare Jared Kushner e l’inviato speciale Steve Witkoff, insieme ai capi di Hamas – capeggiati dal loro leader Khalil al-Hayya, sopravvissuto appena tre settimane prima a un attacco israeliano a Doha – se l’accordo è stato realizzato.

Parliamo degli stessi protagonisti che in passato avevano promosso gli “Accordi di Abramo”, quei patti volti a normalizzare le relazioni tra Israele e diversi Paesi arabi.

Come sempre accade nella vita – e il sottoscritto ne sa qualcosa – gli applausi e le coccarde non vanno mai a chi svolge il lavoro sporco sul campo, bensì a chi incarna la figura istituzionale. Così, anche Donald Trump si riprende la scena, mentre chi, dietro le quinte, ha condotto per settimane la trattativa a tu per tu con i quattro leader di Hamas, non riceve neppure un ringraziamento pubblico.

Ma permettetemi di contraddire quanto scritto in queste ore da pseudo-giornalisti legati in maniera diretta a quel meccanismo di “propaganda politica di governo” che ormai ha infettato il nostro Paese. Uscendo da quello schema – che ricorda fin troppo da vicino il metodo Goebbels – non posso che constatare una realtà scomoda: la tregua raggiunta è stata esclusivamente un mero scambio di prigionieri. Da un lato gli ultimi venti ostaggi israeliani, dall’altro circa duemila detenuti palestinesi. Un baratto umano che ha sollevato un velo di sollievo, ma che non ha scalfito il cuore del problema.

D’altronde, questo nuovo accordo, celebrato a Sharm el-Sheikh da numerosi leader internazionali, ha deliberatamente escluso le parti direttamente coinvolte – Israele e Hamas – come se il destino di una terra potesse essere deciso senza di loro. È lo stesso errore già commesso negli anni passati, e proprio in questa grave assenza risiede, secondo il sottoscritto, l’ennesimo grande fallimento: un fallimento che lascia i due popoli confinanti separati da una voragine… già, proprio come nella mia foto.
Ho osservato – dopo due anni di guerra – quanto è accaduto a seguito del raid di Hamas, e non posso che prendere atto di ciò che resta oggi: un immenso cimitero a cielo aperto, la distruzione totale della Striscia di Gaza, con case, ospedali e scuole ridotti in macerie, e soprattutto oltre sessantasettemila morti e una popolazione stremata dalla fame.

In questo scenario apocalittico, ogni parte ha perso qualcosa, ma forse Hamas ha perso più di tutti, incluso il favore del suo stesso popolo, sfiancato da una violenza che non ha condotto da nessuna parte se non alla rovina.

L’Autorità Palestinese, con sede in Cisgiordania, cerca ora di ritagliarsi uno spazio di mediazione, presentandosi all’ONU e al mondo come l’unico interlocutore credibile per riavviare un dialogo che porti finalmente alla costituzione di uno Stato palestinese – un sogno che sembra più vicino sulla carta che nella realtà.

E quindi non posso fare a meno di essere scettico di fronte a questo entusiasmo euforico, perché la storia ci insegna che i conflitti in questa terra hanno radici profonde e che le soluzioni imposte dall’alto raramente attecchiscono.

Quello che stiamo vivendo è solo una pausa, un momento passeggero dettato dall’urgenza di risolvere la questione degli ostaggi e di permettere l’ingresso degli aiuti umanitari – un bisogno così disperato che persino i combattimenti tra fazioni a Khan Yunis, dove clan locali hanno sfidato Hamas, sono serviti a ricordare a tutti la precarietà del potere.

Sono profondamente convinto che tra qualche mese, quando le macerie saranno state rimosse e la situazione sembrerà stabilizzata, i conflitti riprenderanno con rinnovata ferocia. Hamas – un movimento nato dalla resistenza e dalla militanza armata – non accetterà mai di essere relegato a forza a ruolo subalterno, né di essere messo da parte da un governo tecnocratico o da un’autorità imposta dall’esterno.

La tregua, quindi, non è la fine, ma solo un interludio: un respiro profondo prima che il ciclone di violenza si scateni di nuovo, portando con sé, come sempre, altra morte e altra distruzione, in un ciclo infinito che nessun accordo, finora, è riuscito a spezzare.

Mentre i leader sorridono, Gaza trema…


Il fragore delle armi a Gaza si è spento, ma il silenzio che avvolge la Striscia non sa di pace: sa piuttosto di respiro trattenuto, di pausa forzata, di attesa carica di tensione.
La cerimonia di firma in Egitto, prevista per lunedì, e lo scambio di prigionieri che ne seguirà, accendono certo una fiammella di speranza.

Eppure, basti guardare con attenzione alle condizioni di questo accordo per capire che non si tratta affatto di una soluzione, ma dell’ennesimo baratto tra vite umane: da un lato, gli ostaggi israeliani ancora in mano a Hamas; dall’altro, quasi duemila detenuti palestinesi rinchiusi nelle carceri israeliane, tra cui centinaia condannati all’ergastolo.

Questo non è un compromesso per la pace, è un patto di sopravvivenza momentanea, destinato a esaurirsi non appena le parti torneranno a guardarsi negli occhi con le armi in pugno.

La struttura stessa dell’accordo rivela tutta la sua fragilità. Israele ottiene l’appoggio internazionale anche di alcuni paesi arabi e il rilascio degli ostaggi, ma mantiene di fatto il controllo militare su oltre la metà del territorio di Gaza. Hamas, dal canto suo, ottiene sì… il cessate il fuoco e recupera centinaia dei suoi uomini, ma rifiuta con fermezza ogni ipotesi di disarmo; un punto, questo, che come sappiamo, per Israele non è negoziabile.

Difatti, un funzionario del movimento ha dichiarato in forma anonima, ma con chiarezza assoluta, che la richiesta di smantellare il suo apparato militare è “fuori discussione”, mentre Netanyahu, non ha esitato a ribadire che, senza disarmo, la guerra tornerà. Dunque, non si tratta di pace, ma di un braccio di ferro sospeso: le armi tacciono, ma le intenzioni non sono cambiate.

Le parole dei leader di Hamas confermano questa lettura. Hossam Badran, esponente di spicco dell’ufficio politico del movimento, ha definito “assurda e senza senso” qualsiasi proposta che preveda l’allontanamento dei suoi dirigenti da Gaza. Ha poi avvertito che, in caso di ripresa delle ostilità, Hamas risponderà a “qualsiasi aggressione israeliana”, e ha descritto la prossima fase dei negoziati come “più difficile e complessa”.

Comprenderete che non sono certo le parole di chi vuole deporre le armi per costruire un futuro comune, ma viceversa, quelle di chi si prepara alla prossima battaglia. E dall’altra parte, Israele non ha alcuna intenzione di permettere ad Hamas di rialzarsi: la determinazione a colpire di nuovo, se necessario, è esplicita, ed ecco perché in questo contesto, la ripresa del conflitto non è una possibilità remota: è quasi una certezza!

A rendere il quadro ancora più cupo è il ruolo di alcuni attori esterni, in particolare l’Iran. Il ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi, ha espresso “totale sfiducia” nella volontà di Israele di rispettare gli accordi, parlando apertamente di “trucchi e tradimenti del regime sionista”.

Ed infatti, pur appoggiando formalmente il cessate il fuoco, Teheran ha escluso con forza ogni ipotesi di normalizzazione con Israele, definendola “semplice illusione”. E poiché l’Iran continua a sostenere militarmente e politicamente Hamas, il suo atteggiamento non fa che incoraggiare le frange più radicali del movimento a resistere a qualsiasi concessione sostanziale.

Ecco perché in questo gioco, la tregua diventa solo un intervallo utile per riarmarsi, riorganizzarsi e attendere il momento giusto per colpire di nuovo, la storia, d’altronde, ci ha abituati a questi corsi e ricorsi e sappiamo come le radici di questo conflitto affondano in decenni di dispute territoriali, religiose e nazionali che nessun accordo superficiale ha saputo mai sanare.

Gli Accordi di Oslo, un tempo simbolo di speranza, sono finiti nel dimenticatoio. La soluzione dei due Stati, pur invocata da anni dalla comunità internazionale è rimasta un miraggio e quindi, l’attuale tregua, per quanto necessaria a fermare l’indicibile sofferenza dei civili, non tocca minimamente le questioni fondamentali: lo status di Gerusalemme, il diritto al ritorno dei rifugiati, la fine degli insediamenti israeliani, la sovranità di uno Stato palestinese.

Quindi, finché queste ferite resteranno aperte, ogni cessate il fuoco sarà solo un cerotto su una piaga profonda, destinato a staccarsi non appena il vento del conflitto tornerà a soffiare. Quello che stiamo vivendo non è la fine della guerra, ma un breve intervallo in una tempesta che non ha ancora esaurito la sua furia.

Già… a differenza di molti leader, in particolare i nostri politici attualmente al Governo, così entusiasti di giungere in Egitto per farsi un selfie con il “loro” Presidente Trump, beh… il sottoscritto teme che ahimè, molto presto, il fragore tornerà a farsi sentire, e purtroppo, sarà più forte di prima

Il silenzio degli Stati arabi e il dilemma palestinese


In questi giorni mi sono domandato, come certamente molti di voi: perché nessun paese arabo, a parte l’Iran, lo Yemen e in parte il Libano, sia andato in difesa concreta dei palestinesi in quest’ultimo terribile conflitto con Israele?

Già, dov’è finita quella ostentata unione islamica?

Ora, per favore, non ditemi che le ragioni vanno ricercate nell’eventuale rischio di una possibile terza guerra mondiale o nel timore che una risposta israeliana – se venisse nuovamente attaccata come nel 1967 da quegli stessi Paesi arabi o da altri – potrebbe spingerla, questa volta, all’uso delle armi nucleari.

Tutta questa situazione è – a mio avviso – molto più semplice da leggersi di quanto i complessi ragionamenti geopolitici vogliano farci credere; ritengo che, se si abbassassero per un attimo i toni della retorica e si osservasse in maniera distaccata gli avvenimenti storici, su quanto finora è accaduto, ecco che la lettura di questa grave crisi mediorientale, diventa, a mio parere, molto più semplice e spietatamente chiara

Abbiamo letto di come l’Egitto e la Giordania, di comune accordo, abbiano stabilito già da anni di non accogliere ulteriori profughi palestinesi, come d’altronde sono parecchi gli altri Stati arabi a non vedere di buon grado “Hamas”.

La conferma peraltro è avvenuta con la “Dichiarazione di New York”, firmata da Paesi come Qatar, Arabia Saudita, Egitto, Giordania, Turchia ed altri, oltre che dall’Unione Europea…

In quel documento si condannano gli attacchi militari di Hamas (del 7 ottobre dello scorso anno), esortando il gruppo a liberare immediatamente tutti gli ostaggi ancora nelle loro mani e a cedere le armi all’Autorità Nazionale Palestinese, rinunciando così definitivamente al controllo di Gaza.

Con questa firma si comprende come, secondo questi Paesi, il problema sia costituito propriamente da “Hamas”, e che essi, non intendono avere ulteriori problemi, sia interni, accogliendo nuove masse di palestinesi, sia esterni, pensando di dover affrontare Israele in una guerra.

E difatti: l’Egitto non vuole i palestinesi neanche a pagarli, mentre la Giordania – che già ospita circa due milioni di rifugiati – vorrebbe addirittura mandarli via. Il Libano, che ne ha accolti già molti, si è ritrovato in passato, e di nuovo recentemente, con la guerra civile in casa, propria a causa delle tensioni che questi arrivi di profughi, hanno generato. La verità – che nessuno ha il coraggio di dire apertamente – è che i palestinesi, purtroppo, non li vuole nessuno, e questo – ahimè – è un dato di fatto innegabile.

Ecco perché se i palestinesi vogliono un aiuto internazionale concreto, devono decidere una volta per tutte quale strada intraprendere, del resto, pensare di poter continuare una guerra senza una soluzione definitiva è una follia.

Basti osservare la storia di quel territorio: si cerca di trovare una pace da oltre un secolo, da quando nella prima metà del Novecento il movimento sionista e il nazionalismo palestinese iniziarono a scontrarsi per il controllo di quella stessa terra. Non ci sono riusciti loro, e ancor meno ci è riuscita l’ONU, che aveva proposto uno Stato Palestinese già nel 1947.

I palestinesi allora rifiutarono quel piano di spartizione perché volevano di più, e così non ottennero nulla, anzi potremmo dire il contrario, visto che sono passati quasi ottant’anni e quello Stato non è ancora ufficialmente riconosciuto da tutti i paesi del mondo, Italia compresa.

Permettetemi (con l’immagine allegata) di ricordare quel piano ONU del 1947, che assegnava le zone a maggioranza ebraica a Israele e quelle a maggioranza araba alla Palestina. Israele accettò, mentre i palestinesi rifiutarono.

Negli anni seguenti sappiamo bene come le tensioni sociali e i ripetuti conflitti armati, con i paesi arabi confinanti, abbiano portato Israele a vincere e quindi ad espandersi fino alla situazione odierna. Tutto è ancor più precipitato con il raid di Hamas del 7 ottobre, che ha provocato circa 1.200 morti (in gran parte civili) e la cattura di circa 250 ostaggi, alcuni dei quali ancora prigionieri. Un attacco mostruoso nella sua esecuzione, che ha fornito a Israele la motivazione – di fronte alla comunità internazionale – per scatenare il conflitto attuale, con l’obiettivo dichiarato di espellere i palestinesi da Gaza e portare la striscia, alla sua totale annessione.

Per cui da quanto è accaduto possiamo affermare che ciò che restava di quella Palestina disegnata nel 1947, oggi, non esiste più. I palestinesi si sono ridotti a meno di due milioni nella Striscia, mentre gli israeliani sono cresciuti fino a oltre dieci milioni. Va detto comunque che oltre un milione e mezzo di palestinesi sono residenti in Israele e convivono con gli israeliani da decenni, per lo più senza grossi problemi, dimostrando che una coesistenza in certe condizioni è possibile.

Ora tentare di ricercare motivazioni storiche profonde, chiedersi di chi sia la colpa, rivoltarsi contro l’uno o l’altro, o cercare di comprenderne le ragioni, è un’operazione veramente difficile se non impossibile.

I conflitti armati, come abbiamo visto, non hanno portato a nulla di buono, e i palestinesi dovrebbero saperlo meglio di chiunque altro, avendone persi almeno tre, con le inevitabili conseguenze che tutti abbiamo visto. Io non so cosa si dovrebbe fare esattamente, anche se una possibile soluzione l’ho proposta personalmente nel mio blog (link: https://nicola-costanzo.blogspot.com/2023/11/ecco-una-soluzione-per-creare-due-stati.html), ma credo che pochi lo sappiano davvero. So per certo però che Hamas non vorrà mai una pace definitiva con Israele, perché nella sua ideologia è previsto il totale annientamento dello Stato ebraico.

D’altronde pensare oggi di far scomparire gli ebrei dalla Palestina è qualcosa di folle e tantomeno realizzabile, basti guardare la potenza degli armamenti in possesso di Israele per comprenderne l’assoluta fallacia.

Certo, oggi a pagare le conseguenze di queste azioni militari e politiche, è soprattutto il popolo palestinese (ma consentitemi di ricordare anche i familiari delle vittime di quel 7 Ottobre), gente comune, inerme, fatta soprattutto di donne e bambini, che si sono trovati stretti – all’interno di quella Striscia – tra l’incudine di dover in qualche modo proteggere i terroristi di Hamas e il martello dell’esercito israeliano con i suoi bombardamenti.

Insistere su una retorica fine a se stessa, come spesso accade nel nostro Paese e in televisione, si è rivelato del tutto inutile e, come la storia recente dimostra, incapace di produrre un cambiamento reale. La soluzione a questo conflitto non può essere calata dall’alto, ma deve essere costruita dalle due popolazioni che da oltre mezzo secolo non conoscono pace.

L’intervento della comunità internazionale è certamente necessario, ma non deve ripetere gli errori del passato, fatti più di propaganda politica e mediatica che di sostanza. Deve piuttosto tradursi in un’azione concreta e coraggiosa per far rispettare le regole di una civile convivenza e il diritto internazionale.

Ciò significa, in questo frangente, garantire con ogni mezzo la protezione della popolazione civile e assicurare che gli aiuti umanitari raggiungano chi ne ha disperato bisogno, come il popolo palestinese a Gaza, anche attraverso missioni internazionali legittime il cui operato sia sottoposto a controlli democratici.

Solo attraverso un impegno di questo tipo – che ponga al primo posto i diritti umani universali e il ripudio della guerra – può onorare i principi di umanità.

Eh si, siamo proprio un popolo di ferro!


Già… siamo finalmente giunti al momento della verità….
Così avevo scritto ieri, con una punta di amarezza e uno sguardo carico di scetticismo verso un’iniziativa che, fin dal suo annuncio, mi era apparsa più come un gesto mediatico che come un atto concreto di solidarietà; oggi, a distanza di poche ore, le immagini delle barche intercettate, dei volti stanchi ma incolumi degli attivisti, dei comunicati ufficiali che si susseguono tra Roma e Tel Aviv, sembrano confermare ciò che temevo: nonostante le buone intenzioni dichiarate, questa missione rischia di naufragare non sulle coste di Gaza, ma nell’ennesimo teatro dell’ipocrisia collettiva.

Sì, ventuno imbarcazioni su quarantaquattro sono state fermate da Israele, arrestate con modalità militari rapide ed efficienti, e i loro occupanti – italiani compresi – verranno espulsi. Certo, nessun ferito, nessuna vittima diretta, almeno per ora, ma una domanda rimane sospesa come fumo dopo l’esplosione: tutto questo era davvero necessario, o era prevedibile fin dall’inizio che si sarebbe concluso in un nulla sonoro?

Mi sono chiesto quindi: ma quanto coraggio ci sia stato davvero in chi ha deciso di salpare, e quanto invece fosse già scritto nel copione che, all’arrivo del primo ostacolo serio, ha portato quella presunta determinazione a cedere di fronte alla diplomazia e alle pressioni internazionali.

Ancora una volta, il governo italiano si è affrettato a muoversi non per sostenere l’iniziativa umanitaria, ma per garantire che i nostri connazionali non corressero troppi rischi, coordinando in anticipo con Israele le modalità dell’intervento, quasi si trattasse di un’operazione congiunta piuttosto che di un atto di disubbidienza civile.

Tajani parla di assistenza consolare, di cittadini in buone condizioni, di procedure di rimpatrio, mentre Crosetto anticipa freddamente che saranno portati ad Ashdod ed espulsi. Già… nulla di nuovo, tutto sotto controllo.

Ma allora ditemi: dov’è stata quella la protesta tanto decantata? Dove sono gli attesi gesti estremi che avrebbero dovuto sfidare il potere d’Israele, azioni che non si sarebbero dovute fermare dinnanzi al timore di essere isolati, respinti o anche arrestati?

Sì… qualcosa nel nostro paese si sta muovendo (se pur non mi trovo concorde con talune iniziate, come ad esempio l’occupare le università o il blocco delle scuole), a iniziare con gli scioperi. La mobilitazione cresce, e forse proprio qui, in questi cortei improvvisati, c’è più sincerità che su quelle barche, forse perché qui, tra i giovani che mettono in gioco il loro tempo e la loro sicurezza sociale, che si nasconde un’ombra di autentica ribellione.

Viceversa, chi era a bordo su quelle flottiglie, pur avendo osato salpare, sembra alla fine, essersi consegnato senza combattere, accettando passivamente il ruolo di simbolo destinato a essere neutralizzato.

Ovviamente riconosco il merito di aver riportato l’attenzione su Gaza, su una popolazione martoriata, esiliata e da troppo dimenticata, come riconosco che parlare ad alta voce di aiuti, blocchi e sofferenze costituiscano un atto necessario.

Ma non posso viceversa ignorare i dubbi che mi attanagliano: chi c’era realmente davvero dietro questa flottiglia? Quanta parte di essa era mossa da genuina compassione, e quanta da logiche politiche, strumentalizzazioni, ambizioni personali? Le notizie che arrivano, quelle che parlano di fondi legati a Hamas o a paesi vicini, non possono – vere o false che siano – essere ignorate, anche se vanno prese con le pinze. Ma quelle frasi bastano a insinuare il sospetto che, anche in mezzo al dolore altrui, ci sia spazio per il calcolo.

Sì… il ministro Tajani parla di “spiraglio di pace”, di sanzioni possibili verso Israele, di condanna agli insediamenti in Cisgiordania. Certo, parole importanti, forse persino coraggiose, se non fossero accompagnate da una pratica così cauta, così difensiva. D’altronde, condannare l’eccesso di reazione israeliana e poi coordinarsi con loro per evitare problemi ai nostri cittadini è una contraddizione evidente. È come dire: siamo contro la violenza, ma non fino al punto di mettere a rischio il nostro ordine. E allora dove sta il limite tra responsabilità e complicità?

Guardo le liste dei nomi degli italiani fermati: deputati, europarlamentari, attivisti noti. Alcuni li conosciamo di vista, altri solo per reputazione. Certo, so che hanno rischiato a compiere questa attraversata, ma so anche che molti di loro torneranno in Italia applauditi, intervistati, messi in prima fila nei talk show, mentre la situazione a Gaza resterà immutata!

E allora mi chiedo: chi ci guadagna da tutto questo? La popolazione palestinese? O piuttosto chi usa la loro sofferenza per costruirsi un profilo, per dimostrare un impegno che finisce quando finisce la diretta tv?

È l’emblema di una fallacia ricorrente, quella che trasforma il dolore in contenuto, la resistenza in performance. Mentre i media ci mostrano barche circondate da navi militari, mentre i social si riempiono di hashtag e video emozionati, la realtà continua a svolgersi altrove: nei campi profughi, negli ospedali senza medicine, nei quartieri rasi al suolo. E noi tutti, distratti da questi gesti simbolici, rischiamo di credere di aver fatto abbastanza solo perché abbiamo guardato.

Sì… forse speravo in qualcosa di più radicale, di più irriducibile, forse speravo che qualcuno decidesse di non tornare indietro, di restare aggrappato a quella barca fino all’ultimo miglio, di sfidare non solo la Marina israeliana, ma anche il cinismo di chi riduce ogni forma di protesta a un evento calendarizzato, controllato, previsto.

E forse, invece di scrivere da lontano, avrei dovuto esserci io su una di quelle barche, o meglio ancora, farmi paracadutare su Tel Aviv con una bandiera al seguito — non una bandiera palestinese, né rossa, né di parte — ma una bianca, sì, proprio bianca, come simbolo di pace, di resa reciproca, di umanità ritrovata oltre le barricate dell’odio e della retorica.

So bene che nessuno accoglierà questa provocazione, perché siamo abituati a gridare dalla sicurezza dei nostri schermi, a indignarci in gruppo, a occupare piazze per poi tornare a casa quando fa freddo. E così, anche stavolta, assistiamo al solito copione: tensione crescente, mobilitazione mediatica, picco emotivo, e infine una deflagrazione calibrata, perfettamente gestita, seguita dal silenzio più assoluto.

Nel frattempo, Gaza aspetta. Aspetta non le barche, non i manifesti, non gli hashtag. Aspetta la verità. Quella vera. Quella che nessuno ha il coraggio di pronunciare ad alta voce, perché cambierebbe tutto. E forse è proprio per questo che non arriverà mai…

Flottiglia? E’ il momento della verità!


Sì… il mio titolo preannuncia i miei dubbi sul fatto che questa “flottiglia” porterà fino in fondo le sue intenzioni, tentando concretamente di sbarcare sulle coste di Gaza per portare aiuti alla popolazione.
Certamente riconosco il merito di aver riportato l’attenzione su una tragedia immane, la strage di innocenti e l’esilio di un intero popolo, innescata dall’incursione di Hamas in Israele il 7 ottobre 2023, che è costata 1200 vittime e circa 450 ostaggi, di cui una cinquantina sono ancora prigionieri.

Tuttavia, conoscendo bene i miei connazionali, sono convinto che alla fine si concluderà in un nulla di fatto, e la maggior parte delle persone coinvolte farà marcia indietro già nel corso della giornata. Mi dispiace affermarlo, ma in questi lunghi anni ho visto poco coraggio attorno a me, per non dire nulla…

Difatti, la maggior parte delle persone, utilizza i media più per propaganda personale che per un altruismo genuino; anzi, quando si tratta di passare dalle parole ai fatti, quasi tutti si tirano indietro per non rimanere coinvolti in vicende personali.
È per questo che, pur augurandomi di sbagliarmi, non scommetterei un solo centesimo su questa iniziativa, che mi sembra più un’operazione politicizzata che un sentimento autentico e profondo verso chi soffre.

Aggiungo che, stando a quanto riportato in queste ore da Israele ( dobbiamo prendere l’informazione “con le pinze”) e cioè che dietro questa iniziativa vi sarebbero fondi proprio di Hamas e/o dei paesi islamici che li sostengono.

Le notizie dicono che la flottiglia è stata intercettata e che le comunicazioni sono state disturbate, ma la navigazione prosegue. Sì… gli israeliani sono comparsi stanotte poco dopo le 2.00 e a bordo è stato diramato il primo “interception alert”.

La nostra fregata italiana “Alpino” intanto, ha comunicato di non proseguire oltre, fermandosi al limite delle 150 miglia nautiche. Ecco, questo è il punto: sebbene il momento della verità sia arrivato e le operazioni di intercettazione siano in corso, resto scettico sulla reale determinazione dei partecipanti.

Quanto sopra, unito ai miei forti dubbi circa le reali intenzioni e la genuinità della missione, mi conduce a una conclusione purtroppo prevedibile: assisteremo all’ennesima delusione.

È l’emblema di una fallacia ricorrente. Mentre la pubblicità ci vuole “gente fatta di ferro”, nella realtà osservo troppo spesso figure effimere, pronte a infiammarsi per una causa ma incapaci di reggere alla prima avversità.

Doha e Varsavia: Il prossimo drone cadrà qui? Già… mentre i nostri governanti saranno ancora in TV a parlare!


Ancora una volta il mondo sembra scivolare inesorabilmente verso un baratro a causa di due eventi militari, distanti migliaia di chilometri da noi, ma che dipingono un quadro allarmante e un’escalation globale senza precedenti.
A Doha, il raid israeliano che ha preso di mira i leader di Hamas in territorio qatarino, ha violato ogni norma di sovranità, scatenando condanne internazionali e minacciando di far saltare i fragili negoziati per il cessate il fuoco a Gaza e poche ore dopo, i cieli della Polonia sono stati violati da sciami di droni russi, in quello che Varsavia non esita a definire un atto di aggressione deliberato, spingendo la NATO a invocare l’articolo 4 e a mettere in discussione la sicurezza collettiva di tutto l’Occidente.

Due attacchi, due teatri, con un’unica pericolosa logica: la sfida aperta all’ordine internazionale e il disprezzo per la sovranità degli stati!

Ora, dietro la retorica ufficiale delle cancellerie, si nasconde ahimè una verità scomoda: qualcuno sta deliberatamente alzando la posta in gioco!

Netanyahu si assume la piena responsabilità dell’operazione a Doha, definendola un necessario colpo all’asse del male, mentre il Cremlino liquida le incursioni in Polonia come un tema di cui non è competente, attribuendole a fantomatici errori o a droni ucraini.

Ma è difficile credere che si tratti di semplici coincidenze o calcoli errati. Queste azioni appaiono troppo audaci, troppo provocatorie per non essere dei test ben orchestrati. Test per saggiare la coesione e la reattività dell’Occidente, per verificare fino a dove sia possibile spingersi senza innescare una risposta militare definitiva.

La reazione della comunità internazionale è un coro dissonante di allarme e impotenza; già… da un lato, troviamo leader europei che condannano con fermezza entrambe le violazioni, parlando di inaccettabili violazioni della sovranità e promettendo solidarietà agli alleati colpiti, dall’altro, le parole sembrano vuote, già… di fronte alla necessità di dover procedere con azioni concrete.

Ed in tutto questo le dichiarazioni del Presidente Trump, che definiscono errate le mosse israeliane, ma nel contempo loda l’obiettivo di eliminare Hamas, e si interroga con un criptico messaggio “eccoci qui” sulle violazioni russe, rivelando la profonda ambiguità e le divisioni che paralizzano qualsiasi possibilità di una risposta unitaria e risoluta. Il rischio ovviamente è che questa percezione di divisione e soprattutto di “debolezza”, incoraggi ancor più audaci provocazioni e non mi meraviglierei che anche altri Paesi, come la Cina e la Corea del Nord, non pensino anch’essi di iniziare nuovi conflitti, per espandere i propri territori…

Ciò che emerge con chiarezza è che le tradizionali regole del gioco sono state stravolte: Il concetto di confine nazionale, sacro dopo la Seconda Guerra Mondiale, viene eroso da droni e raid transnazionali.

Le organizzazioni come la NATO e le Nazioni Unite sembrano arrancare nel buio e soprattutto sono costrette a dover reagire a crisi che mettono in discussione il loro stesso ruolo di garanti della sicurezza.

Difatti, il premier polacco Tusk avverte che siamo più vicini a un conflitto aperto di quanto lo siamo stati dalla Seconda Guerra Mondiale, e le sue parole non suonano più come un’allarmistica esagerazione, ma come un lucido e spaventoso avvertimento.

Mi chiedo, con un senso di angoscia crescente, dove sia il limite, sì… Qual è il punto di non ritorno oltre il quale una provocazione calcolata si trasformerà in uno scontro aperto e irreversibile? Ma non solo… cosa guida realmente questa fuga in avanti? È la ricerca di un vantaggio tattico locale, come indebolire Hamas o logorare il sostegno all’Ucraina, o fa parte di una strategia molto più ampia e oscura di ridisegnare con la forza l’ordine globale?

Perché di una cosa ormai sono convinto: le motivazioni ufficiali che ci vengono costantemente proposte, appaiono sempre più come pretesti, vere e proprie maschere che nascondono calcoli di potere più profondi e pericolosi.

Il filo rosso che lega Doha alla Polonia è la percezione che l’era della deterrenza e del rispetto formale della sovranità stia volgendo al termine, già… stiamo entrando in una fase nuova e pericolosa in cui le potenze revisioniste si sentono autorizzate a colpire ovunque, sfidando apertamente le alleanze occidentali e le norme internazionali, contando proprio sulla loro divisione e sulla loro ritrosia ad affrontare un rischio sistemico.

Difatti, il pericolo maggiore non è forse nel contrasto e quindi nell’attacco in sé, ma nella lentezza e nella confusione della risposta, che potrebbe essere interpretata come un assenso implicito o, peggio, come una debolezza da sfruttare…

Alla fine, infatti, ciò che mi terrorizza non è la forza dei nostri avversari, ma la nostra fragilità. Già… la nostra incapacità di leggere queste mosse come parti di un unico, grande disegno destabilizzante e la nostra riluttanza a comprendere che siamo di fronte a una sfida esistenziale per un mondo libero e basato su regole condivise.

Forse, la prossima volta, un drone non cadrà in Polonia ma nel nostro paese, sì… mentre i nostri governanti vengono intervistati e stanno “sterilmente” rispondendo alle domande di quei giornalisti in Tv, evidenziando con le loro risposte, di non aver compreso cosa stia realmente accadendo: vedrete… quanto tutto ciò accadrà, quando quel drone non riuscirà ad essere abbattuto – ma viceversa porterà con sé un carico di distruzione letale – beh… a quel punto, ogni discorso, anche questo mio, sarà di fatto, totalmente inutile.

Il tempo per le riflessioni sta finendo, sostituito dal rombo dei motori e dal sibilo dei missili in cieli che credevamo inviolabili…

Papa Leone XIV, non ripetere gli errori dei tuoi predecessori!

Secondo il sottoscritto, quanto affermato dal rabbino Eliezer Simcha Weisz è corretto, perché non si dovrebbe mai fare differenza tra popolazioni che, purtroppo, oggi soffrono per motivi diversi, ma ugualmente devastanti.
Chi subisce le conseguenze della violenza non può essere diviso in categorie, né tanto meno dimenticato, come sembra aver fatto Papa Leone XIV equiparando le vittime di Gaza a quelle ucraine senza riconoscere le specificità morali e storiche di ciascun conflitto.

Già… questo non può essere il messaggio che ci si aspetterebbe dal “vicario di Cristo”, il quale dovrebbe invece operare con maggiore discernimento, evitando di appiattire realtà complesse in una generica condanna della sofferenza.

Ha perfettamente ragione il rabbino Weisz (membro del Gran Rabbinato d’Israele), quando ha espresso il suo disappunto in una lettera al Papa, sottolineando come l’equiparazione tra le vittime palestinesi e quelle ucraine, senza alcun riferimento agli ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas, abbia ferito profondamente la comunità ebraica: “Tutte le persone che soffrono meritano preghiere, ma non tutte le sofferenze sono causate dalle stesse mani”, ha ribadito Weisz, criticando una narrazione che ignora le responsabilità di Hamas nel conflitto e la legittima difesa di Israele.

Questa non è la prima volta che Weisz contesta le posizioni del Vaticano. Già a gennaio aveva accusato Papa Francesco di alimentare l’antisemitismo moderno attraverso un approccio sbilanciato, equiparando una democrazia come Israele a un’organizzazione terroristica come Hamas. “Avete tracciato una falsa equivalenza morale”, scriveva allora, denunciando una distorsione della realtà che rischia di riaccendere antichi pregiudizi.

Dietro queste dichiarazioni e gli incontri che seguiranno, però, si nasconde una questione più ampia: la spartizione del mondo e dei territori che interessano alle grandi potenze. Il dialogo tra Vaticano e leader religiosi ebraici non è solo una questione teologica, ma un riflesso di dinamiche geopolitiche in cui le sofferenze delle popolazioni diventano meri strumenti di negoziazione.

Quando il Papa incontra rappresentanti del regime iraniano, che apertamente invoca la distruzione di Israele, o quando accoglie presepe con simboli palestinesi, invia messaggi che vanno ben oltre la spiritualità, toccando nervi scoperti della politica internazionale.

Il rischio è che, in questo gioco di equilibri, le vittime reali vengano dimenticate, ridotte a numeri in una contabilità di guerra…

E così, mentre i leader discutono di alleanze e confini, migliaia di civili continuano a morire, e la loro sofferenza viene strumentalizzata per giustificare ulteriore violenza.

Ecco, forse, invece di cercare colpevoli o stabilire gerarchie del dolore, sarebbe più utile chiedersi come fermare tutto questo prima che sia troppo tardi. Ma ho l’impressione che chi oggi potrebbe rappresentare la differenza, costituendo di per sé la parte sana e moralmente giusta, preferisca – come scrivevo alcuni mesi fa nel mio articolo “Il potere di un gesto: da Ponzio Pilato…” link: https://nicola-costanzo.blogspot.com/2025/06/il-potere-di-un-gesto-da-ponzio-pilato.html – proseguire con quelle stesse azioni, sì… con quel lavarsi le mani.

Perché quando il male avanza e i potenti tacciono, non è mai per ignoranza. È per calcolo. E la storia, purtroppo, ci insegna che questo calcolo lo pagano sempre gli innocenti!

Israele e gli Houthi: Il braccio di ferro nel Mar Rosso.

Israele ha dimostrato più volte di saper colpire con precisione, come nel caso dei raid in Iran, e adesso si prepara a individuare nuovi bersagli nello Yemen ed in Libano per infliggere colpi ancora più significativi agli Houthi e agli Hezbollah.
Una fonte militare israeliana, però, non ha nascosto la complessità crescente di queste operazioni, ammettendo che gli strumenti attualmente a disposizione non sono sufficienti a fermare del tutto i lanci missilistici. Eppure, una cosa è chiara: Tel Aviv non ha intenzione di restare con le mani in mano.

Gli attacchi aerei israeliani hanno già centrato il porto di Hodeidah, un punto nevralgico per gli Houthi, colpendo direttamente bulldozer, camion e perfino un serbatoio di carburante.

Nel frattempo l’organizzazione sciita libanese avrebbe allestito una serie di hub logistici nei distretti di Batroun, Jbeil, Minieh e Akkar, tutti situati nella parte settentrionale del Paese, strutturando quell’area in maniera autonoma, non solo nei mezzi e nelle decisioni, ma soprattutto, con le armi.

L’uso crescente dei droni, lanciati direttamente dalle basi israeliane, ha permesso di ridurre i rischi per i piloti, dimostrando una strategia sempre più raffinata e mirata e nonostante la fermezza israeliana, replicare agli stessi modelli usati contro di essa, sembra al momento improbabile.

Già… la distanza geografica nel caso dello Yemen e la mancanza di una rete di intelligence altrettanto solida in quei territori, rendono difficile applicare lo stesso approccio utilizzato a Gaza o in Iran. Gli Houthi, dal canto loro, non si fermano nel cercare di sviluppare nuove capacità militari, spinti dal supporto di quest’ultimi, anche se i risultati non sempre seguono.

Difatti… ogni tentativo di ricostruire le infrastrutture portuali viene puntualmente vanificato da nuovi bombardamenti, come a ribadire un messaggio inequivocabile: ogni sforzo di riparazione verrà punito con nuovi attacchi!

Nel frattempo, gli Stati Uniti lanciano un nuovo monito: Teheran starebbe riorganizzando le milizie alleate nella regione, e gli Houthi potrebbero presto ricevere armamenti ancora più sofisticati.

In questo equilibrio instabile, però, nessuno può dire con certezza come andranno le cose. Le rotte del Mar Rosso, strategiche per il traffico marittimo mondiale, potrebbero presto trasformarsi in un teatro di conflitti imprevedibili, dove ogni mossa genera reazioni a catena.

E in questo gioco di specchi, dove le intenzioni si confondono con le azioni, l’unica certezza è che il prossimo colpo, in qualsiasi momento, potrebbe cambiare tutto.

Netanyahu e il piano silenzioso: da Gaza alla Cisgiordania, l’ombra dell’annessione!

Da tempo il sottoscritto anticipava che il governo Netanyahu avrebbe trasformato la risposta all’Operazione Diluvio (al-Aqṣā) in un’occasione per riprendersi Gaza, e oggi quelle ipotesi stanno diventano realtà.

La decisione del gabinetto di sicurezza israeliano di approvare l’occupazione di Gaza City non è che l’inizio di un disegno più ampio, quello che – sempre secondo il sottoscritto – porterà, tra qualche anno, a estendere il controllo anche sulla Cisgiordania.
Il piano, approvato dopo dieci ore di discussioni accese, prevede lo smantellamento definitivo di Hamas, ma anche qualcosa di più profondo: la rimozione di ogni autonomia palestinese nella Striscia. L’IDF si prepara a entrare in Gaza City, un’area finora evitata, evacuando circa un milione di persone verso i campi profughi centrali, mentre i terroristi rimasti verranno assediati e neutralizzati.

Abbiamo visto come il capo di stato maggiore, abbia tentato di opporsi, sostenendo l’impossibilità di garantire una risposta umanitaria a uno spostamento così massiccio, ma la sua voce alla fine è rimasta inascoltata. Netanyahu e il ministro della Difesa Israel Katz hanno viceversa spinto per un’azione decisa, fissando simbolicamente la scadenza delle operazioni al 7 ottobre 2025, secondo anniversario del massacro.

I cinque principi approvati dal gabinetto non lasciano spazio a interpretazioni: fine dell’arsenale di Hamas, ritorno degli ostaggi (vivi o morti), smilitarizzazione di Gaza, controllo israeliano sulla sicurezza e un’amministrazione civile alternativa, che escluda tanto Hamas quanto l’Autorità Palestinese.

Tutto ciò conferma ciò che già avevo a suo tempo riportato: la risposta israeliana al 7 ottobre non si limiterà alla vendetta, ma sarà l’occasione per ridisegnare i confini del potere nella regione e Gaza è soltanto il primo passo!

Verso una seconda “Nakba”? Il destino ineluttabile di Gaza…

Faccio seguito a quanto scritto ieri, puntualizzando i motivi che potrebbero portare in questi anni al totale esodo del popolo palestinese dalla Striscia di Gaza e, in seguito, dalla Cisgiordania, oltre alla fine del gruppo militare Hamas. 

La mia opinione è che si stia preparando un’operazione militare congiunta tra Stati Uniti e Israele, ufficialmente presentata come un’azione per liberare gli ostaggi israeliani ancora detenuti, ma con l’obiettivo più ampio di annientare definitivamente Hamas e svuotare quel territorio, forse per trasformarlo, come dichiarato da Trump tempo fa, in un luogo di villeggiatura.

Questa riflessione trova conferma in fonti ben informate che riferiscono come Hamas abbia già iniziato ad adottare misure drastiche per impedire qualsiasi infiltrazione israeliana nei luoghi dove sono nascosti gli ostaggi, vivi o morti che siano. Ogni movimento sospetto viene monitorato, e chiunque cerchi di individuare quei nascondigli viene considerato una spia al servizio di Israele. 

L’ordine è chiaro: giustiziare immediatamente chiunque si avvicini senza autorizzazione e, nel caso in cui le forze israeliane riescano a localizzare i prigionieri, ucciderli prima che possano essere liberati.

Dopo una temporanea sospensione di queste direttive durante la tregua dello scorso gennaio, ora sono state ripristinate con ancora maggiore severità. Hamas ha ribadito ai suoi membri che, in caso di estrema necessità, gli ostaggi dovranno essere eliminati. Israele, dal canto suo, ha avvertito che se non ci sarà una liberazione immediata, la situazione potrebbe degenerare rapidamente, lasciando spazio solo alla forza bruta e non più alla diplomazia.

Trump, intanto, spinge per una linea dura: niente tregua con Hamas. Gli Stati Uniti hanno dichiarato che il gruppo non ha mostrato alcuna reale volontà di raggiungere un accordo, nonostante i ripetuti tentativi di mediazione, e che agisce in modo incoerente e senza buona fede. Di conseguenza, stanno valutando opzioni alternative per riportare a casa gli ostaggi, probabilmente attraverso un’escalation militare.

Il governo israeliano, invece, sembra ancora credere che Hamas sia interessato a un negoziato, ma sta giocando una partita al rialzo, chiedendo condizioni che Netanyahu ha definito “irrealistiche“. Questo atteggiamento ha creato tensioni persino all’interno della Striscia di Gaza, dove alcune fazioni più pragmatiche vorrebbero accelerare un accordo, mentre altre rifiutano qualsiasi compromesso.

Purtroppo, tutto questo non fa che avvicinare lo scenario che temo da tempo: una distruzione totale di Hamas, sì, ma al prezzo di un nuovo esodo forzato della popolazione palestinese, già stremata da anni di conflitto e ora sull’orlo della carestia. 

La comunità internazionale continua a discutere, ma le parole non bastano più. Senza un intervento concreto, ciò che resta di Gaza rischia di diventare solo un altro capitolo nella lunga storia di sofferenza di questo territorio.

Macron? Non conta nulla!!! Il sogno di uno Stato Palestinese resta un’utopia!

“Macron? È un bravo ragazzo, ma non conta nulla”!

Così Trump liquida con una battuta il tentativo del presidente francese di riaccendere il dibattito sul riconoscimento della Palestina. E mentre l’ironia dell’ex inquilino della Casa Bianca risuona come un colpo di frusta, il silenzio imbarazzato degli alleati europei tradisce una verità scomoda: nessuno, in fondo, ha davvero intenzione di sostenere questa causa.
Le parole di Macron si sono infrante contro un muro di indifferenza, lasciando intravedere quello che ormai è un destino segnato per il popolo palestinese.

La presa di posizione francese avrebbe potuto rappresentare una svolta, un segnale di speranza in un contesto internazionale sempre più arido. Invece, è diventata l’ennesima dimostrazione di quanto il tema palestinese sia ormai ridotto a mera retorica.

Trump ha bollato l’iniziativa come “irrilevante”, gli Stati Uniti hanno risposto con sarcasmo, e l’Europa – Germania e Italia in testa – si è affrettata a prendere le distanze. Tutti concordi nel sostenere che la pace richiede “negoziati realistici”, ma nessuno disposto a mettere in discussione lo status quo. Perché, in realtà, quel negoziato non interessa a nessuno.

E allora viene da chiedersi: di quale Stato palestinese stiamo parlando? Di quello proclamato da Arafat nel 1988, rimasto confinato nelle carte ingiallite delle risoluzioni ONU? O forse di quello che, giorno dopo giorno, viene eroso da insediamenti israeliani, operazioni militari e una lenta ma inesorabile pulizia demografica?

La verità è che, da quasi sessant’anni, i territori palestinesi sono occupati de facto, e la comunità internazionale ha scelto di voltarsi dall’altra parte. Quella che oggi viene spacciata per una “questione di sicurezza” – la lotta a Hamas, la liberazione degli ostaggi – non è altro che l’ultimo capitolo di una strategia ben più ampia: svuotare la Palestina della sua gente, cancellarla dalla mappa.

Macron ha provato a alzare la voce, e il risultato è stato un coro di sberleffi. Isolato, ridicolizzato, trattato come un illuso che non capisce le regole del gioco. Eppure, il gioco è chiaro: si sta scrivendo la fine della causa palestinese, e nessuno ha intenzione di intervenire.

Gli Stati Uniti e Israele lavorano già da tempo a un piano per smantellare Hamas, ma sappiamo bene che, una volta finita la guerra, non ci sarà spazio per una riconciliazione. Ci sarà solo l’esodo. Un popolo costretto ad abbandonare la propria terra, mentre il mondo applaude alla “stabilità” ritrovata.

Tra pochi anni, guarderemo indietro e tutto apparirà ovvio. Le operazioni militari, le dichiarazioni di facciata, i negoziati eternamente rimandati: ogni tappa è stata progettata per condurre a un unico esito. La Palestina non tornerà più com’era, perché qualcuno ha deciso che non deve esistere.

E chi prova a opporsi, come Macron, viene zittito con una risata. Domani scriverò più nel dettaglio su cosa ci aspetta: non solo bombe e retorica, ma una fredda pianificazione politica che sta trasformando l’espulsione di un popolo in un fatto compiuto!

La strana alleanza del Medio Oriente: quando nemici storici si uniscono (e la Bibbia lo aveva previsto).

La Turchia si trova oggi al centro di un intricato scenario mediorientale, dove le tensioni geopolitiche sembrano ripercorrere antiche profezie…
Il ministro degli Esteri turco Hakan Fidan ha lanciato un monito chiaro: qualsiasi tentativo di dividere la Siria verrà interpretato come una minaccia diretta alla sicurezza nazionale turca.

Questo avvertimento risuona come un’eco lontana delle parole di Ezechiele, che oltre 2500 anni fa predisse un’alleanza improbabile tra Russia, Iran e Turchia contro Israele.

Oggi, quelle stesse nazioni, storicamente divise da conflitti religiosi e politici, si ritrovano stranamente unite nel teatro siriano.

Israele, accusato da Ankara di fomentare la divisione in Siria, ha intensificato i suoi attacchi nella provincia di Sweida, colpendo obiettivi militari siriani sotto il pretesto di proteggere la comunità drusa. Questi sviluppi hanno scatenato proteste nelle alture del Golan occupato, dove i manifestanti chiedono le dimissioni del governatore siriano Abu Muhammad al-Jolani.

E così… mentre le tensioni sembrano autoalimentarsi, un drone israeliano ha preso di mira un convoglio di tribù siriane, lasciando morti e feriti. Nel contempo, le forze democratiche siriane, si rifiutano di consegnare le armi a Damasco, sostenendo che un accordo costituzionale sia l’unica via per integrare i curdi nell’esercito siriano.

Ma cosa unisce davvero Turchia, Russia e Iran in questa crisi? La risposta andrebbe ricercata nelle loro economie. Già… mentre il mondo vive un boom economico, questi tre paesi lottano contro sanzioni, inflazione e instabilità interna. L’Iran, con il riyal crollato dopo l’attacco d’Israele e Usa, vede i cittadini riversarsi sull’oro come ultimo rifugio. La Russia, minacciata dai giacimenti di gas israeliani nel Mediterraneo, teme di perdere il monopolio energetico in Europa. Ed infine la Turchia con Erdogan che si erge a mediatore tra Mosca e Kiev, cerca disperatamente di consolidare la sua influenza regionale.

Ezechiele descrisse una guerra scatenata dall’avidità di nazioni in crisi, pronte a saccheggiare le ricchezze di Israele. Oggi, la Siria sta diventando il campo di prova di quella profezia.

Nel frattempo Baku ha ospitato colloqui segreti tra funzionari siriani e israeliani, mentre le forze affiliate al governo di Jolani sono accusate del massacro di 1.426 alawiti. Il quadro è fosco, eppure sembra seguire un copione già scritto. La domanda che sorge spontanea è: stiamo assistendo all’inverarsi di una profezia biblica, o è solo una sinistra coincidenza dettata da calcoli politici ed economici?

La Turchia, sunnita, e l’Iran, sciita, hanno combattuto per secoli, eppure oggi condividono un nemico comune. La Russia, storicamente in conflitto con entrambe, ora le affianca in Siria. Israele, con le sue scoperte di gas e le sue ambizioni regionali, diventa il bersaglio perfetto per nazioni affamate di risorse.

Forse la vera profezia non è nella guerra, ma nella disperazione economica che spinge vecchi rivali a unirsi. Speriamo solo che il futuro riservi una pagina diversa da quella scritta millenni fa…

SIRIA: Una crisi che nessuno sa più come fermare…

La situazione in Siria continua a essere estremamente fragile, con una tensione che si è fatta – negli ultimi giorni – sempre più palpabile.

Le forze governative guidate dal presidente Ahmad Ḥusayn al-Sharaa si trovano sotto pressione, non solo per il crescente malcontento interno, ma anche per le pressioni esterne che temono un rapido peggioramento della crisi.

Israele ha infatti intensificato i suoi attacchi aerei, dichiarando di voler impedire una presunta “uccisione di massa” di drusi da parte delle forze leali al governo siriano.

Questo intervento, seppur motivato da una presunta difesa dei diritti umani, ha ulteriormente destabilizzato una regione già scossa da scontri violenti tra fazioni armate, tribù beduine e comunità druse, soprattutto nella provincia meridionale di Sweida. .

Le violenze registrate nelle ultime settimane hanno messo a dura prova la capacità del governo di al-Sharaa di mantenere il controllo su tutto il territorio nazionale. Il presidente aveva promesso di proteggere le minoranze settarie del Paese, ma gli eventi sembrano andare nella direzione opposta.

Dopo le uccisioni di massa di alawiti a marzo, ora sono i drusi a subire gravi violenze, alimentando timori di una spirale di vendette settarie. Nonostante le dichiarazioni ufficiali che ribadiscono l’impegno per l’unità nazionale, molti osservatori internazionali avanzano dubbi sulla reale volontà o capacità del governo di evitare una frammentazione del Paese.

L’ex ministro israeliano della Difesa, Ehud Barak, ha espresso apertamente le sue preoccupazioni in un’intervista a Beirut, sottolineando come il governo di al-Sharaa debba urgentemente rivedere il proprio approccio. Secondo Barak, solo un governo più inclusivo e veloce nell’integrare le minoranze potrà evitare il collasso istituzionale.

Ha anche sottolineato come al-Sharaa debba “maturare” e comprendere che il suo attuale stile di governo non è sostenibile. Le pressioni esterne si fanno sempre più forti: gli Stati Uniti, attraverso il loro inviato speciale Tom Barrack, hanno esortato il presidente a riconsiderare le sue politiche, avvertendo che un’eventuale frammentazione del Paese potrebbe portare alla perdita del sostegno internazionale.

Il ministro dell’Informazione siriano ha cercato di rassicurare l’opinione pubblica, dichiarando che l’unità geografica della Siria non è in discussione e respingendo le accuse secondo cui le forze governative sarebbero responsabili di crimini contro i civili drusi.

Ha suggerito che alcuni video circolati sui social network potrebbero essere stati manipolati e ha ipotizzato che alcuni attacchi fossero stati effettuati da militanti dell’ISIS travestiti da soldati governativi. Ha anche sottolineato che le forze siriane non sono entrate a Sweida, in quanto avevano accordi con Israele per evitare ulteriori escalation. Tuttavia, queste dichiarazioni sembrano non aver convinto né l’opinione pubblica né la comunità internazionale. .

Il cessate il fuoco mediato dagli Stati Uniti la scorsa settimana ha posto fine agli scontri più violenti, ma la situazione rimane instabile. Al-Sharaa, nel suo discorso televisivo, ha dichiarato che l’intervento israeliano ha spinto il Paese verso una fase estremamente pericolosa.

Israele di contro, per come abbiamo potuto vedere nei vari Tg, ha colpito diversi obiettivi strategici tra cui il quartier generale del ministero della Difesa a Damasco, giustificando le azioni come parte della sua missione di proteggere i drusi, una comunità che gode di uno status particolare all’interno dello Stato ebraico. Comprenderete come, questo coinvolgimento diretto di una potenza straniera ha aggiunto una ulteriore complessità ad una crisi già di suo intricata. .

Il rischio concreto è che la situazione in Siria possa inasprirsi, con conseguenze imprevedibili per l’intera regione. D’altronde la mancanza di un piano di successione, l’instabilità interna e le pressioni esterne, rendono il futuro del Paese estremamente incerto.

Gli Stati Uniti e altri attori internazionali stanno cercando di contenere il caos, ma senza un reale impegno da parte del governo siriano a riformarsi e a includere tutte le componenti della società, il rischio di una guerra civile resta alto.

Ma forse, la vera domanda non è tanto chi governerà la Siria, ma se quel Paese potrà ancora essere governato…

Dai roghi di Alessandria ai missili di oggi: la cultura sempre sotto attacco.

Si racconta che Hitler abbia ordinato di risparmiare Oxford dai bombardamenti, forse per il suo valore come faro di conoscenza, forse perché sognava di farne il cuore del suo dominio europeo.
Quel che è certo è che, in quell’occasione, la guerra sembrò inchinarsi, seppur per un momento, davanti al peso sacro della cultura.

Oggi, invece, i missili non distinguono più tra caserme e biblioteche, tra soldati e studenti, tra laboratori e trincee. Volano ciechi, distruggono senza guardare, e quando colpiscono, è sempre la civiltà a perdere.

Proprio come Oxford, il “Weizmann Institute of Science di Rehovot” era un tempio del sapere, un luogo dove menti brillanti lavoravano alla frontiera della scienza: matematica, fisica, biologia, intelligenza artificiale.

Ma in questa guerra, nessun sapere è innocente. Le stesse scoperte che avrebbero potuto curare malattie o esplorare le stelle sono state piegate alla logica delle armi, trasformate in droni, laser, sistemi di difesa. E così, quando l’Iran ha risposto agli attacchi israeliani, ha preso di mira proprio quel simbolo, perché oggi la cultura non si protegge più, si usa come bersaglio.

Pochi ne hanno parlato. Le immagini dei danni sono svanite nel silenzio dei governi, come se la distruzione di un centro di ricerca fosse un dettaglio trascurabile, un effetto collaterale accettabile. Eppure, ogni volta che un missile cade su una biblioteca, un museo, un’università, è l’umanità intera a perdere qualcosa. Non solo muri e libri, ma secoli di progresso, di domande, di scoperte.

Forse è questo il paradosso più amaro: in un’epoca in cui la conoscenza è più accessibile che mai, continuiamo a bruciarla!

Già… siamo tornati ai tempi in cui il sapere era merce rara, custodita da pochi, negata ai molti. Solo che oggi non servono roghi o editti, basta un missile. E mentre le macerie fumano, ci illudiamo ancora di stare combattendo una guerra, quando in realtà stiamo solo scavando la nostra ignoranza!

Basta prenderci per il culo! Gaza non è un ‘danno collaterale’, è un massacro!

Le strade di Gaza sono ancora macchiate di sangue, mentre il mondo sembra voltarsi dall’altra parte.

Oggi il bilancio delle vittime si è aggravato ancora, con decine di persone uccise mentre attendevano un sacco di farina, un po’ d’acqua, un gesto di sopravvivenza. Trenta morti, sessanta feriti, numeri che si aggiungono a una lista già troppo lunga, mentre i corpi giacciono abbandonati sull’asfalto, testimoni muti di una tragedia che non conosce tregua. Poco lontano, altri due civili sono stati uccisi da un bombardamento, vicino a un centro di assistenza che dovrebbe essere un rifugio, non un bersaglio.
Dal 7 ottobre a oggi, i numeri sono diventati una litania straziante: 58.000 morti, 150.000 feriti, 900 persone uccise mentre cercavano cibo, 6.000 feriti nella disperata lotta per un pasto. Ma il vero orrore non è solo nei proiettili o nelle bombe, è nella fame che si allarga come un’ombra silenziosa. Un milione di bambini rischia di morire di stenti, mentre il cibo viene bloccato, mentre gli aiuti vengono distrutti, mentre il mondo discute, tergiversa, guarda altrove.

Eppure, qualcuno continua a parlare di “danni collaterali”, di obiettivi militari, di necessità strategiche. Ma come si può definire “collaterale” la morte di un bambino che non ha mai impugnato un fucile? Come si può giustificare l’assedio di un intero popolo, colpevole solo di essere nato dalla parte sbagliata del confine? Gaza non è un campo di battaglia, è una prigione a cielo aperto, dove i civili sono intrappolati tra due fuochi: da un lato, i raid che non distinguono tra militari e famiglie in fuga, dall’altro, le milizie che li usano come scudi, condannandoli a una morte certa.

Ma questa non è una guerra tra due fazioni, è una strage di innocenti. I palestinesi non hanno scelto questo conflitto, lo subiscono, giorno dopo giorno, senza via di fuga. Se cercano di scappare, vengono colpiti. Se restano, muoiono di fame. Se alzano la voce, vengono zittiti. E mentre i potenti del mondo discutono di alleanze, di equilibri geopolitici, di interessi economici, Gaza affonda in un bagno di sangue che potrebbe essere fermato, se solo ci fosse la volontà di farlo.

È ora di smetterla con le scuse, con i giochi di potere, con la complicità del silenzio. Gli Stati devono agire, non con dichiarazioni di facciata, ma con azioni concrete, con sanzioni, con pressioni reali, con la ferma decisione che nessuna strategia militare può giustificare la morte di migliaia di civili. Perché se oggi è Gaza a bruciare, domani potrebbe essere un’altra città, un altro popolo, un’altra generazione sacrificata sull’altare della guerra. Il tempo delle mezze misure è finito. Gaza non può più aspettare.

SIRIA: Medio Oriente in fiamme: il conflitto si espande, mentre la tregua resta un’illusione.

Per il secondo giorno consecutivo, i cieli di Sweida sono solcati da droni israeliani, mentre la cittadina siriana brucia ancora tra gli scontri tra drusi, beduini e forze governative.

Le dichiarazioni ufficiali parlano di “monitoraggio” e “preparazione a diversi scenari”, ma intanto i raid non si fermano, e il bilancio delle vittime cresce senza sosta.

E così, mentre dodici paesi annunciano un embargo sulle armi, segnando una svolta nella pressione internazionale, l’esercito siriano inizia a ritirarsi da Suweida.

Ma è una tregua fragile, interrotta dal boato degli attacchi israeliani a Damasco, che come abbiamo visto ieri, hanno colpito persino il palazzo presidenziale.

Sono oltre duecentocinquanta i morti in pochi giorni, e il confine tra Israele e Siria è diventato un caos di profughi e miliziani, con drusi che attraversano in entrambe le direzioni, disperati.

Le condanne si moltiplicano, dall’Iran all’Unione Europea, mentre gli Stati Uniti cercano di mediare una de-escalation che sembra essere sempre più lontana.

A Sweida, i leader drusi negano qualsiasi accordo con il governo, e la violenza continua a mietere vittime. Si parla di oltre trecento morti, in una spirale di odio settario che nessun cessate il fuoco riesce a fermare.

Ed allora Israele ha iniziato a spostare una parte delle sue truppe dislocate su Gaza verso il confine siriano, rafforzando così la propria presenza militare mentre i missili continuano a colpire obiettivi strategici.

“Non attraversate il confine”, avvertono le autorità israeliane ai drusi, ma come potete immaginare, la disperazione è più forte degli ordini. Intanto, l’Ue chiede il rispetto della sovranità siriana, ma le parole sembrano vuote, già… gettate al vento, mentre le immagini di distruzione che arrivano da Sweida e Damasco sono concrete.

Niente si placa e ancor meno si ferma.

Il conflitto che il Presidente Trump aveva annunciato come agli sgoccioli, si sta viceversa ( per come avevo anticipato) sempre di più estendendo, coinvolgendo nuovi territori, nuove comunità e ahimè nuove vittime.

E così mentre tutti i leader parlano di “pace”, di “transizione”, di “soluzioni”, il Medio Oriente brucia, ancora una volta, senza vederne più la fine…

Gaza City Resort: all-inclusive con vista sulle rovine!

Buongiorno,
a volte ho l’impressione che i nostri politici siano degli inetti o, quantomeno, impreparati, soprattutto quando si tratta di affrontare problemi di carattere globale. 
Poi leggo alcuni post o dichiarazioni di illustri leader mondiali, e comincio a pensare che, alla fine, l’ignoranza sia la madre di tutti i mali che affliggono la nostra società.
Prendiamo, ad esempio, le recenti dichiarazioni di Donald Trump sulla Striscia di Gaza. 
L’idea di trasformare Gaza in una sorta di località di villeggiatura, mentre il popolo palestinese vive una delle tragedie più profonde della sua storia, è non solo irrealistica, ma anche profondamente insensibile… 
Migliaia di persone sono senza casa, senza accesso a servizi di base, vivono in condizioni disumane. Pensare di risolvere tutto con un progetto edilizio o turistico è una visione miope che ignora le radici del conflitto e le sofferenze di un intero popolo.
È vero, il popolo palestinese ha bisogno di trovare una propria identità e di costruire un futuro di pace e stabilità. Ma questo non può avvenire sotto la minaccia di gruppi armati come Hamas, che, pur presentandosi come difensori della causa palestinese, hanno spesso contribuito a perpetuare il ciclo di violenza e sofferenza. La libertà e la democrazia non si costruiscono con le armi, ma attraverso il dialogo, la cooperazione e il rispetto dei diritti umani.
C’è bisogno di una vera e propria indipendenza da tutte quelle forze rivoluzionarie che, invece di favorire lo sviluppo di una società libera e giusta, alimentano odio e divisioni. Un Paese che vuole raggiungere un proprio status nella comunità internazionale non può farlo attraverso la violenza, ma deve puntare sulla diplomazia, sull’istruzione e sulla costruzione di istituzioni solide e trasparenti.
Non si può pensare di combattere per sempre. Arriva un momento in cui le parole devono avere il sopravvento sulle armi, altrimenti si resta prigionieri di un ciclo infinito di oppressione e vendetta. Chi detiene il potere, sia esso politico, militare o economico, ha la responsabilità di agire con saggezza e lungimiranza, non con coercizione e forza bruta.
È tempo che i palestinesi riprendano in mano le proprie vite, lottando non solo contro l’occupazione esterna, ma anche contro chi, all’interno, li strumentalizza per interessi personali o ideologici. Donne, bambini e intere famiglie sono spesso lasciati in balia di un destino crudele, utilizzati come pedine in un gioco politico che non tiene conto della loro dignità e dei loro diritti.
Certo, immaginare Gaza come un luogo prospero e pacifico, dove i palestinesi possano vivere in condizioni dignitose, sarebbe meraviglioso. Ma questa visione non può restare un’utopia. Negli anni, miliardi di dollari sono stati inviati nella regione, sia dalla comunità internazionale che dai Paesi arabi. Eppure, questi fondi non sono stati utilizzati per costruire scuole, ospedali o infrastrutture, ma per finanziare tunnel, armi e missili. Una scelta scellerata che ha alimentato ulteriore odio e distruzione, lasciando Gaza in macerie.
Oggi ci troviamo di fronte a una terra devastata, dove persino ripulire le macerie richiederà anni. E mentre il mondo guarda, ci si chiede: quando finirà questa spirale di violenza? Quando si capirà che la vera forza non sta nella distruzione, ma nella costruzione di ponti, nel dialogo e nella riconciliazione?
Il popolo palestinese merita di più. Merita un futuro in cui i bambini possano crescere senza paura, in cui le donne possano vivere con dignità e in cui gli uomini possano costruire un Paese libero e prospero. Ma questo futuro non arriverà finché prevarrà la logica della guerra e dell’odio.
Forse è arrivato il momento di smettere di guardare alla Palestina (e a Israele) solo attraverso le lenti del conflitto e di iniziare a pensare a soluzioni concrete, che mettano al centro le persone e i loro diritti. Perché, in fondo, la pace non è un sogno irrealizzabile, ma una scelta che richiede coraggio, umanità e volontà di cambiare.

Il conflitto in Medio Oriente: tutto si riduce a uno scambio di prigionieri?

Osservando quanto sta accadendo in questi giorni – dopo l’accordo di cessate il fuoco tra Israele e Hamas del 19 gennaio – ho ripensato ai quindici mesi di conflitto in quel territorio. 

Migliaia di civili uccisi, tra cui donne e bambini, la Striscia di Gaza ridotta a un cumulo di macerie, una devastazione totale. 

Mi chiedo: a cosa è servito tutto questo? Qual era, fin dall’inizio, il vero obiettivo di Hamas? Liberare i propri ostaggi (e forse alcuni familiari), sacrificando la popolazione civile?

Questa mattina Hamas ha rilasciato altri due ostaggi israeliani, con il previsto rilascio di un terzo nelle prossime ore: un cittadino con doppia cittadinanza, israeliana e statunitense. In cambio, Israele dovrebbe liberare 183 prigionieri palestinesi. Secondo Hamas, tra questi 18 stanno scontando l’ergastolo mentre 54 hanno condanne a lungo termine; i restanti sono abitanti di Gaza arrestati dopo l’attacco del 7 ottobre 2023.

I tre ostaggi liberati oggi – Bibas, Kalderon e Siegel – sono civili imparentati con altre persone sequestrate in quel tragico giorno. La moglie di Siegel e i figli di Kalderon erano stati liberati durante la breve tregua di novembre 2023. La vicenda della famiglia Bibas, invece, è ancora più drammatica: Yarden Bibas è il padre di Kfir e Ariel, due bambini di nove mesi e quattro anni al momento del rapimento, e marito di Shiri Bibas.

Hamas sostiene che i tre siano stati uccisi in un bombardamento israeliano nel 2023, ma Israele non ha conferme in merito. Secondo i termini dell’accordo, se fossero stati vivi sarebbero dovuti essere rilasciati prima degli uomini, cosa che non è avvenuta. La restituzione dei corpi degli ostaggi morti in prigionia è prevista nelle fasi successive del cessate il fuoco.

Questa volta il rilascio è stato meno caotico rispetto ai precedenti, quando gli ostaggi venivano liberati in mezzo a folle di palestinesi accorsi ad assistere alla scena, creando calche che rallentavano il trasferimento.

Ancora una volta sorge una domanda: la vera battaglia non dovrebbe essere per risolvere i problemi della società civile? Per trovare un modo pacifico di convivere con Israele, per costruire uno Stato Palestinese riconosciuto a livello internazionale? Per adottare processi che portino a una società più democratica e meno armata?

No, nulla di tutto questo. Il bilancio è solo quello di oltre 45.000 vittime civili, trasformate in scudi umani e carne da macello per gli interessi di un gruppo militare che si fa portavoce della liberazione di un popolo, ma che in realtà persegue solo il potere e la liberazione di alcuni suoi affiliati.

Quindici mesi di conflitto che hanno infiammato tutto il Medio Oriente: dal pogrom all’invasione di Gaza, dagli attacchi dei ribelli yemeniti alla crisi in Siria. Ma per cosa, esattamente?

Già…il dramma di Gaza: vite sacrificate per uno scambio di prigionieri…

La memoria tradita: dalla Shoah alla Nakba.

Riprendo nuovamente il tema principale, che ieri avevo momentaneamente sospeso per chiarire alcuni concetti a cui tenevo… 

Torno dunque alla comparazione che, nell’ultimo anno e fino a oggi, si è voluto tracciare tra le esperienze terribili vissute da ebrei e palestinesi in momenti diversi della storia.

In questi mesi, molti si sono posti una domanda: com’è possibile che Israele, in quanto Stato ebraico, possa oggi commettere i crimini che vediamo in televisione ai danni di una parte dei palestinesi, quelli di Gaza? Certamente, si tratta di coercizioni non paragonabili a quelle perpetrate dai carnefici nazisti, ma comunque gravissime dal punto di vista morale e umano.

La verità è che si è cercato di dimenticare in fretta una guerra mostruosa e, soprattutto, un “olocausto” che non sarebbe mai dovuto esistere. La memoria avrebbe dovuto impedirne la ripetizione, eppure il desiderio di ricostruire l’Europa e di pacificare gli Stati coinvolti nel conflitto ha portato a relegare il passato in un angolo. Si doveva dare speranza e un futuro ai profughi ebrei sopravvissuti alla Shoah, ma questo ha generato una conflittualità irrisolta.

La pace doveva fondarsi sulla comprensione della guerra e sull’accettazione dei suoi orrori, ma in questo processo la memoria ha lasciato spazio all’oblio. La massima sottintesa è diventata: «Ricordati di dimenticare la guerra e i suoi olocausti. La guerra è un mostro che non deve svegliarsi, non guardarla».

L’aver osservato in Tv la “Cerimonia di commemorazione dell’80° anniversario della liberazione del campo di concentramento e di sterminio di Auschwitz-Birkenau“, alla presenza di sopravvissuti e di numerosi Capi di Stato e di Governo, mi ha dato più l’impressione di voler allontanare e nascondere il delitto, piuttosto che far penetrare lo sguardo nella matrice profonda del crimine.

La verità è che l’Occidente ha goduto di una lunga pace non perché abbia realmente compreso le due guerre mondiali e la Shoah, ma per semplice paura, per una distensione meccanica seguita al trauma.

Ciò che accade oggi a Gaza non è altro che il proseguimento di una storia già vista. Gli anni della Nakba sono un passaggio di testimone che, pur senza la sistematica pianificazione dello sterminio, prosegue sotto una forma celata di pulizia etnica, mascherata da una presunta civiltà.

Basta osservare come, anche nel nostro Paese, l’attuale governo di destra abbia cercato di liquidare il Fascismo e il Nazismo come “malattie inspiegabili“, catastrofi naturali spuntate dal nulla, macchiando così il candido volto della nostra civiltà.

Questo sistema internazionale di pacificazione, costruito sulle rovine della Seconda guerra mondiale, ha paradossalmente generato una nuova era di democrazia e diritti, mentre riproduce ancora una volta lo sfruttamento e legittima l’oppressione coloniale. In questo contesto, la Nakba viene avallata, e al Sionismo viene garantito riconoscimento politico e impunità, in un territorio che non gli apparteneva.

Invece di trovare una soluzione pacifica e giusta per entrambi i popoli, che permettesse di far valere le proprie ragioni e di convivere, si è preferito imporre condizioni che, in questi 80 anni, hanno dimostrato di non portare alcun cambiamento. Il conflitto continua, e la storia si ripete.

Riflessioni e perplessità sulle parole di Papa Francesco.

Forse è tempo che il Papa consideri il ritiro, come già fatto dal suo predecessore Ratzinger, anche se per ragioni diverse, probabilmente legate a circostanze poco chiare accadute durante il suo pontificato.

Già… ho l’impressione che ogni volta che Papa Francesco venga intervistato senza l’ausilio di note preparate, tenda a lasciarsi andare a dichiarazioni che sorprendono o lasciano interdetti molti di noi.

Credo che queste sue affermazioni siano influenzate da una condizione psico-fisica in declino, comune a molti della sua età, che lo porta ad esprimere il proprio pensiero in modo eccessivamente aperto. Questo si manifesta particolarmente in commenti fortemente critici e talvolta troppo schierati.

Un aspetto cruciale è che le sue parole non rappresentano il pensiero di un comune cittadino, bensì quello della massima autorità religiosa cristiana, con una responsabilità verso oltre 2,3 miliardi di fedeli. Ogni dichiarazione dovrebbe essere ponderata con estrema attenzione, per evitare interpretazioni gravi e conseguenze irreversibili.

Un esempio significativo è rappresentato dalle sue recenti dichiarazioni durante un incontro con un accademico iraniano. Sebbene siano state in seguito chiarite come riferite alle politiche del premier israeliano Netanyahu e non agli ebrei o allo Stato di Israele in generale, le sue parole hanno suscitato ampie critiche. Questo ha portato a contestazioni per il modo in cui ha affrontato il tema del massacro a Gaza.

Se è vero che il Papa ha diritto di esprimere il suo pensiero, non può farlo in modo da coinvolgere l’intera comunità cristiana. Criticare apertamente il mondo ebraico, Israele o il premier Netanyahu per presunti comportamenti criminali legati all’alto numero di vittime civili a Gaza è una scelta inopportuna. Non è compito del Papa assumere il ruolo di giudice del Tribunale del diritto internazionale.

Non è la prima volta che Francesco prende posizione sulla guerra tra Israele e Hamas, iniziata dopo il terribile attentato terroristico del 7 ottobre 2023. Le sue dichiarazioni, come l’invito a valutare se quanto accade nella Striscia possa essere definito “genocidio”, hanno scatenato reazioni dure, tra cui quelle dell’ambasciata israeliana presso la Santa Sede. La posizione ufficiale del Vaticano, ribadita dal segretario di Stato cardinale Pietro Parolin, è stata di condanna dell’antisemitismo, ma il dibattito resta acceso.

Poco prima di Natale, il Papa ha sottolineato la crudeltà dei bombardamenti che colpiscono anche i bambini, definendo tali azioni non guerra ma barbarie. Tuttavia, il suo incontro con l’accademico iraniano Abolhassan Navab, presidente dell’Università delle religioni, ha fornito ulteriori spunti polemici. Navab ha elogiato Francesco per il suo coraggio nel difendere il popolo palestinese e il Papa avrebbe risposto ribadendo l’assenza di problemi con il popolo ebraico, ma criticando duramente Netanyahu per il mancato rispetto delle leggi internazionali e soprattutto dei diritti umani.

Queste parole, per quanto possano riflettere un’opinione personale, sono problematiche nel contesto del ruolo che il Papa riveste e il loro peso è amplificato dalla posizione che occupa e dalle implicazioni che ogni sua dichiarazione può avere sulla scena internazionale.

Il post continua…

Bisogna trovare urgentemente una soluzione per la popolazione di Gaza!

Sono trascorsi 450 giorni dall’inizio dell’aggressione a Gaza, e la sofferenza degli sfollati cresce drammaticamente. Pioggia e freddo estremo aggravano una situazione già insostenibile. Migliaia di persone vivono in rifugi improvvisati, incapaci di proteggersi dagli elementi, mentre il mondo sembra incapace di rispondere con l’urgenza necessaria.

In Cisgiordania, la situazione non è meno preoccupante. La Moschea di Al-Aqsa è stata oggetto di incursioni di massa da parte di centinaia di coloni, accompagnate da continui raid delle forze di occupazione in diverse aree. Questi atti non solo aumentano la tensione, ma alimentano un ciclo di violenza che sembra non avere fine.

Nel frattempo, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi (UNRWA) ha dichiarato che più di 100 tende a Khan Yunis sono state allagate dalle piogge, lasciando oltre 500 famiglie sulla costa di Gaza in condizioni disperate. L’assenza di infrastrutture adeguate e di un sostegno internazionale concreto rende ogni giorno più difficile la sopravvivenza di queste persone.

Le cifre diffuse dall’Organizzazione Mondiale della Sanità sono devastanti: oltre 45.000 persone sono state uccise, e tra queste, il 50% erano donne e bambini. Questo massacro è di per sè un motivo sufficiente per fermare immediatamente il conflitto. La distruzione su vasta scala della Striscia di Gaza non ha precedenti e richiede una risposta decisa da parte della comunità internazionale.

Tuttavia, la pace non può essere raggiunta unilateralmente. Anche il gruppo di Hamas deve assumersi le proprie responsabilità, liberando gli ostaggi israeliani. Solo un gesto di questo tipo potrebbe spingere l’opinione pubblica mondiale a fare pressione per una cessazione definitiva delle ostilità. Senza tale atto, il governo israeliano continuerà con il suo progetto (se pur non apertamente dichiarato) di espulsione sistematica degli arabi dalla Striscia di Gaza e dalla Cisgiordania.

È evidente come le azioni dell’esercito israeliano, tra cui la distruzione sistematica degli ospedali di Gaza, siano mirate a costringere i residenti a lasciare definitivamente la regione e trasferirsi in Egitto. Questa strategia è stata confermata dal quotidiano Haaretz, che ha riportato come la chiusura degli ospedali faccia parte di un piano per svuotare l’area settentrionale della Striscia di Gaza dai civili.

Nel frattempo, anche in Cisgiordania si verificano incursioni contro luoghi sacri, tra cui moschee, da parte di coloni protetti dalle forze di occupazione. Questi atti non fanno che aumentare il malcontento e la tensione all’interno della popolazione locale.

I colloqui di pace tra Hamas e Israele sono fermi. Le speranze di una ripresa delle negoziazioni sembrano legate all’insediamento del nuovo presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Tuttavia, l’incertezza rimane alta. 

Mentre i residenti nella Striscia di Gaza continuano a sperare che il 2025 porti la fine delle sofferenze e un nuovo inizio, il realismo impone un approccio più cauto. L’attuale programma del governo israeliano lascia poco spazio all’ottimismo.

Una soluzione duratura può essere raggiunta solo attraverso la creazione di uno Stato Palestinese indipendente, che garantisca diritti e sicurezza per entrambe le parti. Senza questo passo cruciale, ogni discussione sulla pace rimane solo una vuota retorica. 

L’umanità ha il dovere di agire, prima che sia troppo tardi!!!

Siria: un momento di svolta tra speranze e incubi.

La caduta del regime di Bashar al-Assad rappresenta un punto di svolta nella storia della Siria. 

Già… dopo anni di oppressione, violazioni e guerra civile, il crollo di un sistema autoritario potrebbe apparire come una vittoria per chi ha lottato per la libertà, tuttavia, ciò che accade dopo la caduta di un regime è spesso altrettanto importante di quanto accaduto prima.

La storia ci insegna che il vuoto lasciato da un dittatore non sempre viene riempito da un sistema migliore.

 L’Afghanistan, la Libia e l’Iraq ci offrono tristi esempi di come la caduta di un regime oppressivo possa essere seguita da anni di caos, violenza e nuove forme di oppressione. 

Sì… perché quando al potere emergono figure o movimenti che promettono stabilità a scapito della libertà, i sogni di democrazia e giustizia rischiano di svanire rapidamente.

Ecco perchè la situazione in Siria è ora particolarmente delicata, poichè con il crollo del regime di Assad, il Paese è frammentato e conteso da una miriade di attori: fazioni estremiste, comunità locali, minoranze etniche e potenze regionali e globali che perseguono i propri interessi. 

Tra questi spicca proprio Ha’yat Tahrir al-Sham, che, sebbene cerchi di mostrarsi moderata e di proporsi come forza di governo, porta con sé un passato e una visione politica che difficilmente si conciliano con i principi di pluralismo, diritti umani e inclusività.

Ciò che difatti preoccupa maggiormente è il destino delle minoranze e dei gruppi più vulnerabili. 

Sono molte infatti le comunità – dagli armeni ai cristiani, dai curdi ad altre minoranze religiose – che stanno per lasciare il Paese per timore di persecuzioni. 

Questo esodo riflette in modo chiaro la profonda sfiducia in queste nuove leadership, ma soprattutto impoverisce ulteriormente il tessuto sociale rendendo più difficile immaginare un futuro di pace e convivenza.

Le lezioni del passato ci mostrano che un cambiamento di leadership non può limitarsi a un semplice ricambio al vertice…

La Siria ha bisogno di un processo di transizione che tenga conto delle aspirazioni di tutti i suoi cittadini, inclusi coloro che hanno sofferto sotto il regime di Assad e coloro che temono le nuove fazioni al potere. La comunità internazionale deve assumersi la responsabilità di evitare che questo momento storico si trasformi in un nuovo incubo per il popolo siriano.

Stabilità e sicurezza non devono essere imposte a costo della libertà. Il rischio è quello di assistere alla nascita di un nuovo regime autoritario, che potrebbe essere persino più brutale e repressivo di quello appena caduto. La Siria non può permettersi di ripetere questo ciclo di oppressione.

È fondamentale quindi che si lavori per costruire un futuro in cui la democrazia, il rispetto dei diritti umani e la convivenza pacifica diventino realtà tangibili e non semplici slogan. 

Certo, la strada è lunga e piena di ostacoli, ma non possiamo abbandonare il popolo siriano proprio ora, quando il loro destino è più incerto che mai.

Siria nel caos: la fuga di Assad e le mire di Israele e Turchia sui territori strategici.

Le tensioni in Medio Oriente stanno raggiungendo un nuovo picco con sviluppi drammatici che rischiano di ridisegnare gli equilibri geopolitici della regione. 

Nel fine settimana le forze di terra israeliane hanno attraversato la zona demilitarizzata al confine tra Israele e Siria, entrando nel Paese per la prima volta dalla guerra dello Yom Kippur dell’ottobre 1973. 

L’operazione si inserisce in un contesto di rapidi cambiamenti sul terreno: i ribelli siriani hanno preso il controllo di Damasco, costringendo il presidente Bashar al-Assad a fuggire. Fonti locali confermano che Assad avrebbe lasciato il Paese dirigendosi verso un luogo non specificato, presumibilmente protetto da alleati regionali. La caduta di Damasco segna un punto di svolta in un conflitto decennale e apre nuovi scenari di instabilità.

Secondo le fonti citate, le forze israeliane ora controllano la cima del Monte Hermon, sul lato siriano del confine, oltre a diverse altre località strategiche ritenute essenziali per garantire il controllo della regione. Il Monte Hermon rappresenta un punto chiave sia per la sicurezza militare sia per la superiorità territoriale.

Israele, che ha operato segretamente in Siria per anni, giustifica questa mossa come necessaria per prevenire eventuali attacchi del gruppo militante libanese Hezbollah, sostenuto dall’Iran. 

La caduta di Assad, storico alleato di Teheran, potrebbe però indebolire l’influenza iraniana nella regione, creando un vuoto di potere che sia Israele che altre potenze, come la Turchia, sembrano intenzionate a sfruttare…

Nel frattempo, la Turchia osserva attentamente gli sviluppi con l’obiettivo di espandere la propria influenza nel nord della Siria. Ankara potrebbe tentare di approfittare della situazione per consolidare la sua presenza nelle aree contese, sfruttando il caos politico e militare.

Le preoccupazioni per l’integrità territoriale della Siria sono ora più vive che mai, con attori regionali che premono per ottenere vantaggi strategici. 

Ed infine, l’instabilità continua a peggiorare una situazione umanitaria critica, mentre la comunità internazionale osserva con apprensione una crisi che sembra destinata a ridefinire i confini e le alleanze nella regione.

Vedremo in questi mesi come si evolverà la situazione…

Hassad è scappato ma la tragedia siriana resta inalterata con oltre 50.000 sfollati ed una crisi umanitaria inasprita dai conflitti.

In Siria, con la fuga in Russia del presidente Bashar al-Assad, i combattimenti sono finalmente terminati, anche se l’ondata di sofferenza umana non si è ancira arrestata.

Infatti secondo l’ONU, sono oltre 50.000 le persone che erano state costrette ad abbandonare le proprie case e che adesso, in queste ore, stanno provando a rientrare…

Difatti va ricordato come prima della fuga del suo leader, le forze governative siriane, supportate dalla Russia, stavano ancora conducendo raid contro i ribelli filo-turchi, gli stessi che ora stanno per prendere il potere…

Dall’altro canto i raid israeliani e gli scontri tra gruppi rivali filo-turchi e filo-iraniani avevano non poco complicano uno scenario di per se frammentato e drammatico.

Questa ulteriore escalation ha portato peraltro ad una crisi umanitaria gravissima!!! 

Migliaia di famiglie, tra cui donne e bambini, sono senza cibo, medicine e rifugi sicuri. Gli stessi sfollati vivono in condizioni estreme: molti sono ammassati in campi improvvisati, privi di servizi essenziali o ancora intrappolati in zone di conflitto attivo e con il giungere dell’inverno e quindi del freddo aumentano esponenzialmente le sofferenze di chi ha già perso tutto.

Zone come Hama, Aleppo e la valle dell’Eufrate, già devastate dalla guerra, continuano ancora oggi ad essere bersaglio di bombardamenti, accentuando il dolore e il senso di abbandono di una popolazione già martoriata.

La Siria si sa… è un mosaico di interessi regionali e internazionali. La presenza infatti della Russia (e aggiungerei anche degli Stati Uniti) riflette la volontà di entrambe le potenze di mantenere un’influenza strategica nella regione, un elemento che rischia di acuire le tensioni globali tra Mosca e Washington. 

A ciò si aggiungono gli attacchi israeliani contro le infrastrutture legate all’Iran, alimentando il timore che il conflitto siriano possa ancora trasformarsi in un campo di battaglia per uno scontro più ampio tra i due Paesi…

Ripeto… la crisi siriana è soprattutto un dramma umano prima di essere una sfida geopolitica di portata globale!!!

Gli sfollamenti di massa richiedono ora una risposta umanitaria immediata e incisiva e non bastano i soli aiuti internazionali. 

Serve un impegno politico internazionale preciso per far ripartire uno Stato distrutto che, come abbiamo visto in questi lunghi anni, si alimenta principalmente di interessi stranieri, mentre è tempo che si restituisca a quel suo popolo una nuova e soprattutto definitiva, speranza di democrazia!!!

Mandati di arresto dalla Corte Penale Internazionale: si incrina il sostegno occidentale a Israele?

Dopo oltre un anno di conflitto devastante e un bilancio drammatico di circa 44.000 morti tra i palestinesi, la Corte penale internazionale (CPI) ha emesso i suoi primi mandati di arresto per crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi nella Striscia di Gaza e in Israele successivamente al 7 ottobre 2023.

Sotto accusa, su richiesta del procuratore capo Karim Khan, sono finiti il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu, l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant, e il capo militare di Hamas, Mohammed Deif. Quest’ultimo, tuttavia, è stato dichiarato morto da Israele in un raid aereo su Gaza, sebbene tale notizia non sia stata confermata ufficialmente da fonti indipendenti.

La decisione della Camera preliminare della CPI ha scatenato reazioni immediate e accese. Da parte israeliana, Netanyahu ha definito il verdetto “antisemita” e lo ha paragonato a un “nuovo processo Dreyfus”, mentre Gallant ha criticato aspramente la Corte, accusandola di “equiparare Israele e Hamas” e di “incentivare il terrorismo”. Dalla parte palestinese, Hamas ha accolto il provvedimento come un “passo importante verso la giustizia”, senza però fare riferimento diretto a Deif.

Sul piano internazionale, la decisione ha diviso la comunità globale. Gli Stati Uniti e l’Argentina si sono schierati al fianco di Israele. L’amministrazione Biden ha rigettato categoricamente il verdetto, esprimendo “profonda preoccupazione” e ribadendo di non riconoscere la giurisdizione della CPI su questa vicenda. Secondo il presidente argentino Javier Milei, il provvedimento “ignora il legittimo diritto di Israele a difendersi dagli attacchi costanti di Hamas e Hezbollah”.

L’Unione Europea, invece, per voce dell’Alto Rappresentante uscente Josep Borrell, ha difeso la legittimità dell’operato della CPI, sottolineando che “non si tratta di una decisione politica, ma di un pronunciamento giuridico che deve essere rispettato e applicato”. Borrell ha ribadito che la tragedia in corso a Gaza deve trovare una fine e che i Paesi membri dell’UE hanno l’obbligo di collaborare con la Corte.

Gli Stati aderenti allo Statuto di Roma – 124 in totale – sono infatti tenuti a eseguire i mandati di arresto nei confronti delle persone ricercate, inclusi i capi di governo. Questo rende estremamente complesso, se non impossibile, per Netanyahu e Gallant recarsi all’estero senza il rischio di arresto.

Il procuratore capo Khan ha difeso l’integrità del lavoro del suo ufficio, sottolineando che le accuse sono basate su prove verificabili e che le indagini proseguono, anche alla luce delle segnalazioni di nuove violazioni del diritto internazionale umanitario in corso a Gaza e in Cisgiordania. Israele, tuttavia, ha replicato con durezza, definendo Khan un “procuratore corrotto” e rilanciando accuse di condotta impropria nei suoi confronti.

Tra i primi Paesi a dichiarare piena collaborazione con la CPI c’è stata l’Olanda, che ospita la sede della Corte all’Aja. L’Italia, invece, attraverso il ministro degli Esteri Antonio Tajani, ha espresso sostegno generale alla CPI ma ha sottolineato la necessità di coordinarsi con gli alleati per decidere come affrontare la questione. Il ministro della Difesa Guido Crosetto, pur definendo la decisione della Corte “sbagliata”, ha ammesso che, qualora Netanyahu o Gallant visitassero l’Italia, il Paese sarebbe obbligato a rispettare il diritto internazionale e procedere all’arresto.

Sebbene l’effettiva consegna dei due leader alla Corte appaia improbabile, il valore dei mandati di arresto è anche simbolico. Questo procedimento rappresenta un monito sul fatto che, persino nei conflitti più aspri, il rispetto delle norme del diritto internazionale è imprescindibile. Parallelamente, resta aperto un altro caso all’Aja, stavolta dinanzi alla Corte Internazionale di Giustizia, che riguarda le accuse di genocidio mosse allo Stato di Israele, principalmente dal Sudafrica. La CPI, invece, si concentra esclusivamente sulle responsabilità individuali, sottolineando la necessità di distinguere tra azioni di Stato e responsabilità personali dei leader.

Israele prepara un'azione contro l'Iran!!!

Un’importante fonte della difesa israeliana ha dichiarato che esiste una concreta possibilità di un’azione militare contro il programma nucleare iraniano.

Le attuali condizioni, ha detto, rappresentano di fatto un’opportunità per colpire e disattivare gli impianti nucleari dell’Iran. 

Il Jerusalem Post ha aggiunto che a differenza del 2009, oggi c’è consenso tra le istituzioni israeliane sulla necessità di un’azione contro l’Iran.

Il ministro della Difesa israeliano Yisrael Katz l’11 novembre ha affermato che le condizioni per un attacco non sono mai state così favorevoli, un’opportunità per eliminare la minaccia nucleare iraniana e ottenere risultati non solo tramite la sicurezza ma anche la diplomazia.

Il 26 ottobre, Israele ha ordinato attacchi mirati a siti di produzione missilistica e di difesa aerea in Iran, e nel frattempo, Israele sta anche cercando sostegno globale per reintrodurre le sanzioni tramite il “meccanismo di snapback” dell’accordo nucleare del 2015, con l’obiettivo di limitare il programma nucleare iraniano.

Alcuni critici però avvertono che, pur se danneggiato, l’Iran potrebbe ricostruire le sue strutture, aumentando il rischio di un’ulteriore escalation…