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Mafia e antimafia, tra riforme e passi indietro! – Parte Finale

Sono giunto alla fine di questa “mini-serie” sulla giustizia, e vorrei concludere riepilogando con precisione ciò che accade a chi, armato di coraggio, prova a denunciare.

Come già accennavo ieri, la “Legge Cartabia” ha finito per scoraggiare chiunque avesse presentato un esposto, anche se spesso, più per motivi profondamente personali che per fare il proprio dovere di cittadini. Ora che la riforma impone di procedere solo tramite formale querela, molti hanno preferito ritirarsi, lasciando che il sistema li inghiottisse nel silenzio.

Alcuni mesi fa, mi trovavo in Tribunale a Messina come teste per la procura, e prima del mio intervento erano in calendario ben sette processi. Pensavo sarebbe stata una lunga attesa, che avrei impiegato almeno tutta la mattinata. Invece no. Il giudice apriva il dibattimento, chiamava i testimoni, e puntualmente gli avvocati comunicavano la rinuncia dei loro assistiti. Non è successo una volta, ma tutte e sette. In mezz’ora, ero già seduto per testimoniare.

Una dimostrazione lampante di come questa legge non serva a ridurre i processi, ma a farli evaporare prima ancora che inizino.

E poi c’è l’altro aspetto, quello più logorante. Quando denunci qualcosa che non ti riguarda direttamente, quando provi a fare la tua parte, il sistema ti accoglie con una serie infinita di intoppi.

L’udienza slitta di sei mesi per l’agenda del giudice, l’avvocato della difesa non si presenta bloccato in un altro tribunale. La volta successiva: il PM è assente per un “impegno istituzionale”. Poi tocca agli scioperi – prima i magistrati, poi i legali e infine gli uscieri – e quando finalmente sembra tutto a posto, l’imputato gioca la carta del “malore improvviso” e il processo si blocca di nuovo.

Nel frattempo, nessuno ti avvisa che l’udienza è saltata. E così, chi ha cercato solo di fare il proprio dovere, si ritrova a perdere tempo e denaro. Perché magari ha preso un aereo, essendo per lavoro in un’altra regione o addirittura all’estero. E lo Stato? Non ti rimborsa nulla. O meglio, mi dicono che puoi chiedere qualcosa per il biglietto del treno, rigorosamente di seconda classe.

Negli Stati Uniti, se grazie a una denuncia lo Stato smaschera una frode, chi ha contribuito viene premiato con una percentuale del recupero. Da noi, invece, sei tu a pagare. Sempre!

È comprensibile, allora, che chi ha già vissuto questa tortura preferisca rinunciare in partenza, evitando di riviverla. E così, l’illecito che avrebbe potuto essere fermato, prosegue indisturbato, mentre il sistema fa di tutto per scoraggiare chiunque provi a cambiare le cose.

Denuncia! È questo il mantra che ci ripetono in coro, dal Presidente della Repubblica all’ultimo funzionario di periferia. Peccato che nessuno di loro, quando si tratta di circostanze che non li riguardano personalmente, abbia mai avuto il coraggio di farlo davvero. Nessuno ha mai sacrificato un briciolo della propria comoda posizione, figuriamoci la carriera.

Basterebbe guardarsi intorno per capire come funziona questo sistema malato. Basterebbe ascoltare le inchieste giudiziarie che ci vengono vomitate addosso ogni giorno, con nomi e cognomi di politici inquisiti, coinvolti, condannati. Eppure, stranamente, eccoli lì, sempre gli stessi, che risorgono come zombi, pronti a riprendersi il loro posto come se nulla fosse.

È questo il Paese che abbiamo. Un Paese che non merita cittadini onesti, perché li schianta, li logora, li umilia. Un Paese che, per andare avanti, ha bisogno dei soliti meschini personaggi, quelli che da decenni si aggrappano alle poltrone e non hanno intenzione di mollare. Perché qui, chi denuncia perde. Chi tace, invece, sopravvive. E chi dovrebbe cambiare le cose, è troppo occupato a garantirsi l’immunità.

E allora, mi rivolgo ora a voi, cari Procuratori, con cui ho aperto questa serie di interventi – e permettetemi, in questa sede, di aggiungere due nomi che stimo profondamente: Nicola Gratteri, oggi Capo della Procura di Napoli, e Raffaele Cantone, alla guida della Procura di Perugia. A voi, che siete la parte sana del Paese, voi che ogni giorno sfidate questo sistema marcio, pongo una domanda semplice, ma straziante nella sua ovvietà: perché mai qualcuno dovrebbe ancora provarci?

Perché dovrebbe presentarsi in procura, denunciare alla Dia, segnalare alla Finanza, quando poi si ritrova solo contro un sistema che lo punisce per il suo coraggio? Quando scopre che i potenti indagati hanno più diritti dei cittadini onesti? Quando si accorge che i reati spariscano come neve al sole tra rinvii, prescrizioni e cavilli procedurali, ma anche quando alla fine si riesce a giungere ad una condanna?

Già… perché dovrebbe credere in uno Stato che, quando va bene, lo ignora, e quando va male, lo punisce per aver osato disturbare?

Voi lo sapete meglio di chiunque altro quanto costa, in termini di coraggio e solitudine, alzare la mano e dire “basta”. Eppure, nonostante tutto, continuate a farlo. Ma ditemi: quanti ancora resisteranno, prima di capire che qui la giustizia è un lusso, non un diritto? Quanti cittadini perbene dovranno sbattere la faccia contro questo muro di gomma, prima che qualcosa – finalmente – si rompa?

Con affetto (e molta amarezza),
Nicola Costanzo

P.S. Questo non è un addio, ma un invito a non arrendersi. Sappiate che non sarete soli in questa battaglia: finché ci sarà anche solo uno di voi disposto a lottare, troverete sempre persone come il sottoscritto al vostro fianco. Perché la speranza, quando diventa collettiva, smette di essere un’illusione e diventa un’arma!

Mafia e antimafia, tra riforme e (aggiunge il sottoscritto: ‘troppi’) passi indietro! – Quarta parte.

Eccoci qui, al penultimo atto di questo viaggio attraverso i meandri di mafia, antimafia e riforma giudiziaria. Ora, come promesso, parliamo di chi, come me, non abbassa lo sguardo davanti alle verità più scomode, quelle che bruciano, quelle che fanno girare la testa a tanti, ma che alla fine tutti noi, volenti o nolenti, ci ritroviamo a ingoiare…
E permettetemi di essere chiaro: urlare per un torto subìto in prima persona è una cosa, ben altra è alzare la voce per chi non ti ha mai fatto nulla di personale, ma opera in quell’ambiente che dovrebbe essere la casa della giustizia. Parlo di chi siede nelle istituzioni. Di chi fa politica. Di chi riceve incarichi dai Tribunali a nome dello Stato. Di chi dirige enti, associazioni e dovrebbe vigilare ed invece copre raggiri, truffe, soldi pubblici sperperati.

Ed allora: A chi giova questo silenzio? A chi conviene che i Tribunali continuino a nominare gli stessi nomi che, come dimostrano gli scandali di questi anni, persino di questi giorni, sono intrecciati a collusioni e corruzione? A chi serve un’antimafia che abbaia ma non morde? Chi ci guadagna da un sistema clientelare, tentacolare, radicato, che tiene in piedi la politica col voto di scambio e si nutre della criminalità attraverso appalti, concessioni, finanziamenti?

E qui arriva il punto. Il problema non sono solo i corrotti. Il vero cancro è chi, in questi anni, non ha voluto o saputo fare leggi serie, permettendo alla corruzione di diventare sistema. Un sistema in cui il silenzio è omertà. Dove nessuno denuncia, perché denunciare significa sfidare un meccanismo che ti schiaccia.

Difatti… cosa succede quando qualcuno prova a fare il proprio dovere? Prendiamo il caso di chi ricopre incarichi dirigenziali, con responsabilità civili e penali che potrebbero costargli la libertà. Fintanto che un dipendente o professionista non deve rispondere personalmente, su aspetti tecnici, amministrativi, di sicurezza sul lavoro, ambientali o gestionali, potrei ancora comprendere (senza però giustificare…) quel voltarsi dall’altra parte. Quel fare finta di non vedere. Ma quando uno risponde in prima persona, quando mette a rischio non solo il posto ma la propria libertà, senza essere nemmeno l’amministratore della società, allora la domanda sorge spontanea: perché? Perché accettare di diventare complici, quando tra l’altro non si riceve nulla in cambio? Quando l’unica ricompensa è soltanto la possibilità di continuare a lavorare?

È pura follia? O forse no. Forse è l’effetto di quel meccanismo perverso di sottomissione al datore di lavoro, soprattutto nelle aziende private gestite con metodi patriarcali. Ancora peggio quando l’impresa è legata a doppio filo alla criminalità organizzata, quando quei soldi che circolano sono capitali riciclati, quando quel sistema può contare su dirigenti e funzionari pubblici compiacenti, pronti ad aprire le porte ad appalti milionari. E così il cerchio si chiude. La stessa persona che dovrebbe vigilare, che ha responsabilità penali, che potrebbe perdere tutto, tace. Per paura? Per convenienza? Per quel senso distorto di lealtà che trasforma dipendenti in complici? Intanto, il meccanismo continua a macinare vittime e profitti. E la mafia ringrazia.

E quel dipendente o professionista che ha denunciato? Che fine fa? Diventa un sopravvissuto. Un fantasma professionale. Inizialmente, molte di queste imprese, se il soggetto non si è già esposto pubblicamente, non hanno un sistema di selezione abbastanza sofisticato da individuare certi difetti caratteriali. Non cercano coscienze, cercano esecutori. Così, all’inizio, quel professionista viene assunto. Poi, gradualmente, emerge la verità: quel soggetto non è disposto a mediare. Non chiuderà gli occhi davanti a fatture truccate, a materiali scadenti, a norme di sicurezza ignorate, a gestione rifiuti taroccate. Non diventerà complice di quel gioco sporco che l’impresa, o meglio, quel fantoccio amministrativo messo lì dalla criminalità organizzata, considera normalità.

E allora scatta la trappola. Se il dipendente o professionista ha la fortuna, o la sfortuna, di non avere disperato bisogno di quel lavoro, può fare ciò che ho fatto io più volte: guardarli negli occhi e mandarli a fanculo. Ma non prima di aver denunciato tutto. Documenti alla mano. Prove inconfutabili. Peccato che, per quanti non hanno la forza di resistere a quel sistema colluso, si ritrovino, dopo aver provato a compiere il proprio dovere, ad essere neutralizzati. Già… le denunce finiscono in un cassetto, i procedimenti si arenano e intanto, quel professionista scomodo viene marchiato come problematico, poco flessibile, non un team player. La sua carriera si inceppa. Le porte si chiudono…

Già, è così che funziona a chi svolge l’incarico di professionista, un po’ meno problemi hanno coloro che svolgono la loro funzione da dipendenti, perché quest’ultimi possono sempre trovare un’impresa, se non nella propria terra, certamente in qualsivoglia altra regione del paese o ancor meglio all’estero. E così tutto prosegue indisturbato. Da una parte, l’impresa criminale che continua a operare, protetta da una rete di connivenze, dall’altra, chi ha provato a rompere il muro dell’omertà e si ritrova solo, con un futuro professionale in frantumi o lontano dove non può dare fastidio…

Eppure, qualcuno continua a denunciare. Non per dignità o per rabbia, ma per quel senso del dovere che neanche questo sistema marcio può riuscire a cancellare. La domanda che in questi anni mi sono chiesto – sia come associato di alcune note associazioni di legalità, ma anche come delegato per la provincia di Catania di una di esse – è: quanto ancora resisteremo prima che l’antimafia smetta di essere uno slogan e torni a essere una battaglia?

E allora veniamo al punto cruciale: cosa succede davvero quando si denuncia? Soprattutto oggi, con la tanto celebrata riforma Cartabia che doveva cambiare le regole del gioco? Perché qui, vedete, il paradosso è atroce. Tu denunci. Metti a repentaglio la tua carriera, la tua tranquillità, a volte la tua sicurezza personale. Lo fai credendo nello Stato, nelle istituzioni, in quella giustizia che dovrebbe premiare chi ha il coraggio di dire basta. E invece ti ritrovi solo. Sempre!

La riforma prometteva tempi più celeri, maggiori tutele per chi denuncia. Ma nella realtà? I processi continuano a durare anni. Le indagini si impantanano. Le prescrizioni fioccano. Intanto, chi ha denunciato viene emarginato professionalmente. Già, non è un team player. Subisce ritorsioni sottili ma devastanti. Mobbing, demansionamento. Attende i tempi di una giustizia in un limbo che logora l’anima.

Mentre tutti gli altri? Quelli che partecipano, che si fanno corrompere, che svendono la loro dignità, o nei migliori casi, si fanno i cazzi loro e girano la testa dall’altra parte. Quei corrotti che continuano a prendere mazzette. Quelle loro amiche imprese opache che continuano ad aggiudicarsi gli appalti, e poi cercano, attraverso subappalti o pseudo noli a caldo o freddo, quelle imprese che eseguono per conto loro i lavori appaltati. E i funzionari collusi che dovrebbero controllare? Lasciamo perdere… non solo restano al loro posto, ma con il tempo vengono pure promossi.

Riassumendo, il sistema ha una perfezione diabolica. E difatti: chi denuncia paga subito. Chi è denunciato paga forse anni dopo, se mai pagherà. E la riforma Cartabia? A parole, un passo avanti. Ma nei fatti i tempi processuali restano biblici. Le tutele per i whistleblower sono più teoriche che pratiche. L’impunità di sistema non viene minimamente scalfita.

Io continuerò a denunciare, lo sapete. Ma ditemi: quando realizzeremo che uno Stato che non protegge davvero chi denuncia è uno Stato che, di fatto, tutela i corrotti? Perché alla fine, il messaggio in ogni territorio è sempre lo stesso: fatti i fatti tuoi, abbassa la testa, tanto non cambia nulla.

E chi non ci sta? Quello paga. Sempre. E il peggio? Che tutti lo sanno, ma fanno finta di non sapere.

Mafia e antimafia, tra riforme e passi indietro! – Parte terza

Allora, riprendendo nuovamente l’incontro dal punto di vista del nostro Procuratore aggiunto Sebastiano Ardita, mi piace iniziare da quella sua prima dichiarazione: “chi ha pensato a questo tipo di riforma, non ha la lontana idea di come si svolgono le indagini”. Già… ascoltando questa sua affermazione, non so se ridere o piangere pensando alle conseguenze nefaste che questa nuova riforma comporterà.

Proseguendo – sottolinea il procuratore Ardita – non ci si deve limitare a indagare ‘su’, ma è fondamentale avvalersi ‘anche’ delle intercettazioni telefoniche che, pur non essendo l’unico strumento investigativo, una volta disponibili possono rivelarsi fondamentali. Devono essere usate in modo efficace, altrimenti non ha senso interromperle dopo soli 45 giorni. Significa che se un’indagine preliminare rivela attività sospette in un certo luogo tra determinate persone, e si ha la possibilità legittima di ascoltare cosa si dicono, dopo quei 45 giorni – che passano in un attimo – tutto viene interrotto e il lavoro svolto va perduto.

Ma qui il problema non è tanto il senso della norma, che è abbastanza chiaro a tutti. Il problema è il motivo per cui queste norme vengono fatte. L’idea diffusa è che siano create proprio per ostacolare l’attività giudiziaria. Consentitemi di ribadirlo: queste norme sembrano fatte per creare un argine all’attività giudiziaria! E quanti di voi non hanno pensato la stessa cosa? Già… la verità è che questa è la reale motivazione dietro la riforma.

E allora, il procuratore Ardita chiarisce in modo inequivocabile ciò che io stesso sostenevo ieri su quel “sistema tentacolare e sedimentato”. In fondo, dice Ardita, è la stessa idea che ci siamo fatti guardando la riforma sulla separazione delle carriere. Cioè? Premesso che molte riforme penali sembrano avere un’eterogenesi dei fini – ottenendo risultati opposti a quelli dichiarati – non sappiamo ancora quali saranno gli effetti concreti di alcune di queste modifiche.

Sappiamo però che, per quanto riguarda le intercettazioni, il processo penale subirà un grave indebolimento. Ma ciò che fa più riflettere è che queste riforme siano state ideate da chi, in qualche modo, vuole mettersi al riparo dalle indagini. E questo è il grande equivoco. Perché finché esisterà una classe dirigente che pensa solo a scambiare favori, a intascare tangenti per appalti, a ottenere vantaggi personali da atti amministrativi, sarà sempre in una condizione di debolezza strutturale. Nessuna riforma potrà mai proteggerla.

L’unico modo per essere al riparo è svolgere il proprio lavoro con dignità, passione e onore, servendo lo Stato con integrità. A tal proposito, vale la pena ricordare le parole di Papa Leone XIV nel suo discorso ai parlamentari di 68 Paesi: “La politica non è un mestiere, è una missione di verità e di bene!”.

Ardita prosegue: solo così si può arginare davvero qualsiasi indagine o processo, non certo creando meccanismi di separazione delle carriere o dipendenze dall’Esecutivo, di cui ancora non conosciamo le reali conseguenze. Lo stesso vale per le intercettazioni. Il punto cruciale è capire perché vengono fatte certe riforme. Se l’obiettivo fosse davvero rendere il processo più efficiente o ottenere risparmi, questa non è la strada giusta. Quando entrammo in magistratura, le intercettazioni erano costose, ma oggi il loro costo è pari a quello di una normale telefonata.

Quella che negli anni ’90 era una spesa enorme per intercettare un cellulare, oggi è un costo irrisorio per lo stesso servizio. Quindi è una grande menzogna sostenere che queste riforme servano a risparmiare. Il vero scopo è palesemente quello di limitare l’attività giudiziaria. E questo è un nonsenso, perché ciò che va corretto non sono gli strumenti per contrastare i reati, ma le condotte illecite di chi dovrebbe servire lo Stato.

Purtroppo, dopo questo intervento – come avevo già scritto nel mio primo post – ho dovuto lasciare l’incontro per andare a prendere mia figlia all’aeroporto. Tuttavia, ho potuto seguire il resto della discussione il giorno successivo grazie allo streaming pubblicato a questo link: https://www.youtube.com/watch?v=JXw2WZ4Bv6Y&t=887s&ab_channel=ANTIMAFIADuemilaTV.

Vi consiglio di ascoltarlo, perché le domande poste ai Procuratori dal giornalista Giuseppe Pipitone de “Il Fatto Quotidiano” sono estremamente rivelatrici. Dimostrano ancora una volta come in questo Paese le leggi non siano fatte per combattere l’illegalità, ma per proteggere quel sistema marcio che, negli ultimi trent’anni, è stato governato da chi ha preso il potere con astuzia e lo ha mantenuto promulgando norme ad personam…

Mafia e antimafia, tra riforme e passi indietro! – Parte seconda.

E allora, continuando con quanto riportato ieri, entro nel merito per esperienza diretta di ciò che accade a un cittadino che decide di compiere il proprio dovere, senza che quest’ultimo abbia alcuna necessità morale di prendere a esempio gli insegnamenti di quegli uomini coraggiosi dello Stato, ricordati nel discorso del procuratore Di Matteo, non solo come vittime della mafia, ma per la loro dedizione e professionalità.

Osservare quella foto in cui due di quei magistrati sono ritratti sorridenti insieme, già… quanti di voi l’avranno vista esposta in bella mostra, quasi fosse un altarino, appesa alle pareti di quegli uffici istituzionali, come se la loro semplice presenza bastasse a motivare moralmente chi vi lavora. Già, se solo un’immagine potesse trasmettere quei veri valori, quel senso di servizio e devozione per l’incarico ricoperto. Ma se andiamo a scavare, scopriamo come la maggior parte di quei soggetti abbia ottenuto quel ruolo non per merito, non attraverso un concorso pubblico, ma grazie alla solita raccomandazione politica. E allora, ditemi, cosa possiamo aspettarci da chi si è già compromesso in partenza?

Ecco perché ritengo ormai inutile continuare a organizzare incontri per parlare di mafia, collusioni, corruzione, di un “sistema tentacolare e sedimentato”. Già… invece potrei gentilmente invitare i due procuratori, Ardita e Di Matteo, a una giornata al mare, sì, per fare un bel bagno e parlare del nostro Paese, o meglio, della mia meravigliosa isola, la Sicilia, con la sua cultura, la sua cucina, le sue tradizioni, il mare e la montagna, un paradiso per chi cerca relax e bellezza. Peccato che la realtà sia un’altra: viviamo in una terra marcia, da nord a sud, dove la maggior parte dei miei connazionali si è piegata a quel sistema clientelare e tentacolare chiamato politica, e nei casi più gravi si è lasciata foraggiare come pecore dalla criminalità organizzata, con buste e mazzette che arrivavano puntuali ogni mese.

E allora, mi rivolgo a quella parte sana che ancora esiste, esigua ma a cui voglio ancora credere, anche se ancora troppo timida nel compiere il proprio dovere e denunciare ciò che avviene illegalmente intorno a sé. Domani descriverò cosa succede quando qualcuno prova a fare la cosa giusta, sia come cittadino che come professionista.

Ma permettetemi di chiudere con un messaggio che ho ricevuto su WhatsApp dalla mia amica Romj, che ho menzionato nel post di ieri: “Nicola, ti ringrazio per avermi avvisato dell’intervista ai due procuratori. Come sempre, belle parole, ma nessuna risposta per chi, come me o te, si è esposto in prima linea. Oggi, senza entrare nei dettagli, nonostante tre condanne contro un professionista grazie alle nostre denunce, il sistema giudiziario continua a proteggerlo, lasciando in ostaggio lo Stato, l’amministratore giudiziario e 800 famiglie. In questi anni ho subito aggressioni, minacce, danni alla mia casa, costruita con sacrifici. La mia vita è trascorsa tra tribunali e uffici, sono testimone per due Procure, eppure nessuno mi ascolta. Alcuni magistrati sono scappati davanti alle mie richieste. Le associazioni antimafia tacciono, e la stampa d’inchiesta, quella che fa gli eroi quando conviene, ha avuto paura della complessità del caso e delle persone coinvolte. Nicola, nel mio cuore credo ancora nella giustizia, ma il problema è che non c’è nessuno che ascolta…”

Ecco perché scrivo. Perché quando le istituzioni tacciono, quando i magistrati voltano le spalle, quando la stampa ha paura, resta solo la voce di chi, come Romj, continua a lottare nonostante tutto. E questa voce non può rimanere inascoltata.

Mafia e antimafia, tra riforme e (aggiunge il sottoscritto: ‘troppi’) passi indietro! – Parte prima.

Perdonate la franchezza, ma nel trattare quest’argomento non mi limiterò a sfiorare la superficie.
Ci sono momenti in cui il silenzio diventa complice, ed è proprio quando tutti abbassano lo sguardo che bisogna avere il coraggio di guardare più in profondità.

Affronterò quindi senza reticenze tutte le criticità che, secondo il sottoscritto, colpiscono chi – senza secondi fini o interessi personali – cerca semplicemente di fare il proprio dovere di cittadino o professionista. Persone che provano a portare alla luce verità scomode, denunciando fatti gravi, solo per scontrarsi con un apparato statale che sembra volerli ignorare.

E qui viene il bello: perché spesso non è solo questione di omissione, ma di attiva resistenza!

Già, un sistema che preferisce la retorica alle azioni concrete, mentre dall’altra parte la mafia si evolve, infilandosi con nonchalance in settori apparentemente legali: Appalti, finanziamenti, riciclaggio!

Tutti ambiti dove fioriscono le relazioni pericolose tra chi dovrebbe combattere il crimine e chi invece ci nuota dentro. Il vero cancro non è solo la mafia spudorata, ma quel mondo grigio di professionisti, funzionari e politici che fanno da ponte tra legalità e illegalità, mantenendo sempre le mani apparentemente pulite.

Prima di approfondire, però, un doveroso ringraziamento a due figure che da sempre ammiro: i procuratori Sebastiano Ardita e Nino Di Matteo. Uomini che hanno messo in campo non solo le loro competenze, ma – ahimè – anche le loro vite.

Ieri sera, come molti miei concittadini, mi sono recato ad Aci Castello per assistere al loro incontro “Mafia e Antimafia, tra riforme e passi indietro”. Purtroppo un impegno improrogabile mi ha costretto ad andare via prima del previsto, ma non prima di aver colto alcuni spunti fondamentali.

Tra l’altro, in piazza ho incontrato una cara amica – la stessa con cui in questi anni abbiamo denunciato fatti gravissimi, ottenendo anche importanti condanne – e le ho chiesto gentilmente di intervenire al mio posto, per porgere loro alcune domande che avrei voluto fare personalmente. Mentre preparavamo questo passaggio di testimone, ho potuto comunque ascoltare i primi interventi…

Di Matteo, con quella grande sensibilità che lo caratterizza, ha iniziato innanzitutto rivolgendo un pensiero alla tragedia che sta colpendo la popolazione di Gaza, ma ha anche preso una posizione netta contro i silenzi e le politiche del nostro governo che, non solo continua a vendere armi allo Stato d’Israele, ma evidenzia – a differenza di altri Stati – di non voler riconoscere lo Stato Palestinese.

Riprendendo quindi con l’incontro, il procuratore ha iniziato con lucidità ad affrontare i “passi indietro” compiuti in tema di riforme sulla giustizia, in particolare: la separazione delle carriere, l’approvazione dell’abuso d’ufficio, quella che lede il principio assoluto dell’obbligatorietà dell’azione penale, e infine, la riforma sulle intercettazioni.

Permettetemi di aggiungere una riflessione su quanto occorso in questi lunghi anni, ad esempio, nella lotta alla mafia: l’esclusione di magistrati del calibro di Scarpinato dalla Commissione Antimafia, oppure quanto accaduto con il decesso del boss Messina Denaro ed il suo arresto, che si è dimostrato inconsistente, avendo portato con se nella tomba tutti quei segreti cruciali riferiti alle stragi del ’92-’93.

Mi riferisco all’archivio di documenti recuperati sicuramente da questo “prediletto” del boss di cosa nostra, Totò Riina, conservati immagino dentro quella sua cassaforte, stranamente mai recuperata dal gruppo dei Carabinieri del ROS, forse perché qualcuno – molto in alto del nostro Stato – ha imposto di non intervenire, per evitare che quei documenti e i suoi legami venissero portati alla luce.

Ah… quanto mi pento oggi di non essere entrato da ragazzo nelle forze dell’ordine, già, quando mi era stato richiesto di farne parte; sono certo – conoscendomi – che nessun ordine di un qualsivoglia superiore sarebbe riuscito in quell’occasione a limitare il mio agire!

Ma come sappiamo tutti, si è preferito non intervenire per celare quanto vi era contenuto, evidenziando – e non solo in quell’occasione – una volontaria “sordità selettiva” verso quelle verità scomode.

Quello che emerge chiaramente oggi – secondo il procuratore Di Matteo – con questa nuova riforma è una giustizia a due velocità: una, giustizia che magari può essere a volte rigorosa, veloce, certe volte spietata, nei confronti delle manifestazioni criminali degli “ultimi” della società, e una giustizia, viceversa, con le armi spuntate, nei confronti delle manifestazioni criminali del potere, nei reati commessi da quei cosiddetti “colletti bianchi”.

Già… aggiungerei un metodo antimafia distorto, dove la Commissione parlamentari adottano logiche politiche invece di indagare a fondo, ma soprattutto dove, la riforma della giustizia messa in atto, in particolare con la separazione delle carriere, non sposta di un millimetro il reale problema della giustizia in questo paese e cioè la lentezza dei processi; una riforma che può portare, anzi, inevitabilmente porterà, ad una fuoriuscita del Pm dall’ambito della giurisdizione e a un controllo degli uffici del pubblico ministero, da parte dell’esecutivo.

Basti vedere quello che accade in tutti gli altri stati, quello che è previsto in tutti gli ordinamenti in cui c’è la separazione delle carriere, tra il pubblico ministero e il giudice, e costatare come in tutti quei Paesi, vi è una forma di controllo “penetrante” del potere esecutivo, quindi, del governo, della politica al governo in quel momento, sul pubblico ministero, alla faccia diciamo, del principio della separazione dei poteri e del necessario bilanciamento e controllo dei poteri suddivisi (legislativo, esecutivo e giudiziario).

Facendo sempre riferimento alla separazione delle carriere (paragono questo passaggio subliminale, al tocco magistrale di un grande Direttore d’orchestra, sì… questa nota aggiuntiva, evidenzia qualcosa di finemente “orchestrato”), il procuratore ricorda infatti non solo la vicenda della P2 di Licio Gelli ma di come, come questo punto, sia stato un vero e proprio – cavallo di battaglia – del governo Berlusconi.

Questa nuova riforma, non ha nulla a che vedere col funzionamento della giustizia, non ha nulla a che vedere nemmeno con la parità delle parti, la parità delle parti è nel processo, la parità delle parti significa che all’avvocato e alle parti private devono essere attribuiti gli stessi strumenti di poter provare una circostanza che vengono conferiti al pubblico ministero; ma non ci può mai essere una parità istituzionale tra chi, come il pubblico ministero – per costituzione e per legge – ha l’unico obbligo di ricercare la verità e chi come l’avvocato, ha invece un obbligo deontologico di difendere – a tutti i costi – la posizione del proprio assistito.

Quindi, il concetto della parità delle parti viene oggi rappresentato in maniera strumentale, perché la parità delle parti deve essere all’interno del processo, ma non significa potere, diciamo, parificare una parte istituzionale, qual è quello del pubblico ministero, con la parte privata, all’avvocato, su un piano più generale.

Ecco perché questo post, ma soprattutto i prossimi, che sto per scrivere non saranno in alcun modo “leggeri”.

Sì… parlerò di come denunciare significa scontrarsi con un sistema che marginalizza chi prova a fare luce, con un’informazione assente che sempre più dimostra d’essere superficiale e ahimè politicizzata, con istituzioni che mostrano un’indifferenza sconcertante e soprattutto con un mondo sociale e imprenditoriale che mette da parte chi ha dimostrato essere non solo onesto, ma soprattutto coraggioso.

Ma non solo, significa ahimè fare i conti con quell’esercito di persone “perbene” che, dietro scrivanie linde e colletti inamidati, tengono in piedi proprio quel sistema marcio e corruttivo!

Ed infine, il giudizio finale espresso dal procuratore – facendo leva sui 33 anni di esperienza dedicati in magistratura – e quindi, su quali conseguenze negative questa riforma costituzionale sulla separazione delle carriere, produrrà nel tempo una condizione dannosa.

Il procuratore Di Matteo, ha difatti dichiarato d’esser sempre più convinto che: la professionalità di un magistrato viene arricchita dall’avere svolto entrambe le funzioni; non c’è miglior giudice di quello che sa come si svolgono sul campo le indagini, come altresì non c’è miglior pubblico ministero – che magari per aver fatto anche il giudice – abbia fin dall’inizio quella cultura della prova, quel senso della necessità di acquisire una prova piena, che può derivare dalla sua precedente funzione di giudice.

In fondo sono stati giudici e pubblici ministeri come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Rosario Livativo, Antonino Saetta, soltanto per parlare dei nostri colleghi, dei nostri colleghi uccisi e, non mi pare che fossero magistrati che non hanno dato buona prova di se.

Separare il Pm, farne una cosa completamente diversa dal giudice, già dall’inizio, significa comunque creare una categoria di funzionari dello Stato – potentissima – che inevitabilmente assumerebbe la caratteristica di un organismo di super-polizia, assumerebbe la caratteristica il pubblico ministero, di diventare un accusatore a tutti i costi, proprio perché altro rispetto al giudice, altro per mentalità , altro per studi, altro per formazione e questo finirebbe per accrescere a dismisura il suo potere, ma soprattutto per diminuire le garanzie del cittadino, nella fase più delicata che è quella delle indagini preliminari.

Quindi, a chi mi accuserà nei prossimi giorni di essere troppo duro, rispondo anticipatamente dicendo loro: guardate i fatti. I fatti gridano, anche se molti (già… purtroppo molti, anche tra voi) fingono di non sentirli.

Nei prossimi giorni, nella seconda e terza parte di questo post, entrerò nel merito delle mie motivazioni personali, perché certe verità – consentitemi – non possono essere racchiuse in poche righe.

GAZA: Fermatevi ora, prima che sia troppo tardi!

Stasera mi ritrovo a scrivere, ancora una volta, con il cuore stretto e la mente affollata di domande senza risposta.
Quante volte abbiamo ripetuto le stesse parole, denunciato le stesse atrocità, invocato la stessa pace?

Eppure, nella Striscia di Gaza, il tempo sembra essersi fermato in un limbo di sofferenza, dove il fragore delle bombe sovrasta il grido dei civili, dove l’umanità vacilla sotto il peso di un conflitto che nessuno riesce – o vuole – fermare.

Scrivo non per abitudine, ma per dovere. Perché il silenzio è complice, e l’indifferenza è una ferita ancora più profonda. Gaza non è solo una notizia di sfondo, un titolo da scorrere distrattamente: è una tragedia che si consuma da anni, davanti agli occhi del mondo, mentre la comunità internazionale brancola tra inezie diplomatiche e ipocrisie.

Le immagini si ripetono, sempre uguali, sempre più insopportabili. Corpi senza vita riversi per terra, donne che urlano il dolore di una perdita che non riescono nemmeno a comprendere appieno, uomini che scavano tra le macerie con le mani a pezzi, sperando di trovare un respiro, un segno, una vita da salvare. Gaza piange, muore, si spezza ogni giorno di più, eppure il mondo sembra incapace di reagire. Si discute, si accusa, si cerca una colpa da attribuire, come se in mezzo a tutto questo dolore ci fosse ancora spazio per la giustizia delle parole. Ma non c’è nessun conflitto, non nel senso che conosciamo. C’è una carneficina annunciata, una strage quotidiana che non lascia scampo.

Ogni giorno si contano nuove vittime, sempre più giovani, sempre più innocenti. Trenta persone uccise mentre aspettavano di ricevere un po’ di cibo. Due ragazzi colpiti da un drone mentre cercavano di recuperare medicine per un fratello malato. Altri cinquanta domani, forse schiacciati sotto il peso delle bombe, forse spenti dalla fame che avanza silenziosa e crudele. I numeri non raccontano più la guerra, raccontano solo la fine di vite che non hanno avuto il tempo di iniziare. Gaza non è un campo di battaglia, è un cimitero a cielo aperto, dove i bambini imparano a conoscere il suono delle esplosioni prima di quello delle risate.

Eppure c’è ancora chi parla di guerra necessaria, di obiettivi strategici, di difesa. Ma di quale difesa si parla, quando intere famiglie vengono cancellate in un attimo? Chi difende quei corpi senza sepoltura, chi protegge le madri che non hanno più figli da abbracciare?

Il popolo palestinese non è né Hamas né un esercito in guerra, è gente comune, uomini, donne, bambini che vivono intrappolati tra due fuochi, costretti a subire senza poter scegliere. Sono vittime, non complici. Sono prigionieri, non ostaggi volontari. Sono esseri umani che ogni mattina si svegliano chiedendosi se quel giorno rivedranno il sole o saranno solo un altro numero in una lista infinita.

E noi, da lontano, ci permettiamo il lusso dell’indignazione a scaglie, a intermittenza. Un post, un commento, un momento di silenzio sui social, e poi si volta pagina. Intanto, nelle stanze dei potenti, si continua a negoziare, a stringere accordi, a fare finta che questa tragedia non riguardi nessuno. Ma riguarda tutti. Perché ogni volta che si decide che certe vite valgono meno delle altre, si apre una crepa nell’umanità intera. E quando oggi è Gaza, domani potrebbe essere un’altra città, un altro popolo, un’altra strage mascherata da necessità.

Basta con le parole vuote, con le condanne che restano sulla carta. Basta con le finte mediazioni che non portano a nulla. Gaza ha bisogno di qualcuno che alzi la voce e non la abbassi più, che smetta di parlare per iniziare ad agire. Ha bisogno che qualcuno abbia il coraggio di dire basta, subito.

Perché ogni minuto che passa è un altro bambino che muore, ogni vita spezzata, ogni bambino che non rivedrà il cielo, ogni famiglia cancellata dall’orrore, chiedono giustizia. E allora continueremo a parlare, a condividere, a urlare questa verità scomoda, finché qualcosa non cambierà. Perché dietro ai numeri e alle statistiche ci sono volti, storie, un popolo che resiste nonostante tutto.

E il loro sangue non è solo sulle mani di chi preme il grilletto, ma anche su quelle di chi continua a guardare e a tacere. Non possiamo permettere che Gaza diventi un simbolo dell’oblio. La sua voce deve riecheggiare più forte dell’odio. E la nostra coscienza, collettiva e individuale, non può dormire!

La Mafia? Non spara più, ma rilascia fattura…

Già, la mafia non spara più come una volta, ma uccide ancora, silenziosamente, con metodi meno appariscenti eppure infinitamente più devastanti.
Uccide le imprese oneste, strangola l’economia reale, soffoca lo sviluppo di intere comunità, impedendo che il merito possa aprire la strada a chi lavora con dignità e trasparenza .

E mentre molti si compiacciono del fatto che non si vedano più sparatorie per strada, non si accorgono che il cancro si è semplicemente spostato dentro i bilanci delle aziende, nei bandi d’appalto, nelle assunzioni pilotate, negli appalti truccati…

La mafia di oggi non ha bisogno di mostrare la pistola, perché ha imparato a indossare la giacca, a parlare con tono pacato, a firmare contratti, a sedersi ai tavoli delle trattative dove si decidono investimenti milionari.

Il suo restyling non è purificazione, ma travestimento!

Si è ripulita in superficie, ha cancellato l’immagine cruenta del passato, ma dentro continua a marcire dello stesso veleno che da decenni corrompe le coscienze, piega le volontà, comprime la libertà.

Parliamo di un’infezione che non ha mai smesso di diffondersi, anzi, si è adattata, ha mutato forma, infiltrandosi nel tessuto produttivo del paese con una capacità di mimetismo impressionante.

Non urla più minacce al telefono, ma impone condizioni attraverso intermediari rispettabili, uomini di fiducia che operano all’ombra di società regolari, cooperative modello, consorzi virtuosi.

E così, mentre le forze dell’ordine celebrano arresti importanti, la rete continua a espandersi, silenziosa, capillare, radicata in ogni settore che genera reddito e influenza.

Basti pensare alla provincia di Trapani, dove anche dopo la cattura di Matteo Messina Denaro, non si è affatto spenta la presenza mafiosa, al contrario, negli ultimi nove mesi la procura nazionale ha emesso settanta misure interdittive antimafia, un numero che non lascia spazio a illusioni: la mafia non è sconfitta, si è riorganizzata.

La mafia è ovunque, in particolare nei cantieri, nei centri logistici, nelle strutture ricettive, nelle filiere agricole, nei progetti energetici, portando con sé quel sistema di potere parallelo che decide chi lavora, chi vince gli appalti, chi viene escluso.

Ma d’altronde il legame con certi segmenti del potere politico e istituzionale non si è mai spezzato, anzi, si è fatto più sottile, più difficile da individuare, ma certamente solido e sono proprio quei referenti istituzionali a farsi promotori delle collusioni e di quel diffuso malaffare.

La Commissione d’inchiesta sulla mafia e la corruzione lo ha ribadito con chiarezza: la mafia, da nord a sud, ha sempre avuto una particolare abilità nel penetrare l’economia locale e difatti non si limita a estorcere, ormai produce, gestisce, investe, ricicla, già… si presenta come imprenditore serio, attento alle normative, sensibile all’ambiente e al territorio.

Ma dietro quei bilanci in ordine, dietro quelle certificazioni ambientali, dietro anche quelle donazioni benefiche sociali, si nasconde un vero e proprio sistema di controllo basato sul clientelismo, favoritismo, costrizione e compravendita del voto.

E ciò che rende tutto ancora più grave è che questa presenza non è più percepita come anomalia, ma è spesso vista come normalità, quasi una condizione inevitabile per sopravvivere in certi contesti.

Perché sono tanti, troppi, coloro che accettano quel sottobosco di vantaggi immorali: la bustarella mensile, il posto di lavoro garantito a un parente senza titoli, l’appalto assegnato senza gare vere, la protezione contro le ispezioni.

E ogni volta che qualcuno accetta un privilegio illegittimo, anche se lo fa per disperazione o per paura, diventa complice inconsapevole di un sistema che soffoca il futuro.

Ho letto in questi giorni quanto riportato dell’ex presidente della Commissione Cracolici che ha colto nel segno quando ha dichiarato: i mafiosi temono due cose, la galera e la perdita del patrimonio, certo, ma soprattutto temono di perdere la reputazione.

Perché la loro forza non sta soltanto nel denaro o nell’intimidazione, ma nella credibilità sociale che riescono a costruirsi. Sono considerati uomini di parola, imprenditori capaci, benefattori del paese, mentre in realtà sono accumulatori di potere illegittimo, che usano la legalità come maschera per perpetuare il dominio.

Ed è proprio qui che risiede il pericolo maggiore: quando la mafia non viene più vista come nemica, ma come parte integrante del sistema, quando il cittadino comune smette di indignarsi e comincia a dipendere dai suoi meccanismi perversi!

Ed è per questo che combatterla richiede molto più delle retate o dei processi, sì… richiede di una rivoluzione culturale che finora non c’è stata, di un rifiuto netto e quotidiano ad ogni compromesso, di una necessaria educazione alla legalità che parta dalle scuole, ma soprattutto si sviluppa dalle famiglie e nei luoghi di lavoro.

Perché finché ci sarà qualcuno disposto a scambiare la propria dignità con un vantaggio effimero, la mafia continuerà a respirare, a crescere, a prosperare.

Ma soprattutto, finché la società civile non farà sentire forte e chiaro il proprio “NO”, essa resterà viva, non nelle strade, ma nei palazzi, nei conti bancari, nei progetti che dovrebbero servire il bene comune e invece alimentano quel loro impero di falso progresso

33 anni di bugie! Perché la strage di Borsellino è ancora un segreto di Stato?

Era il 19 luglio 1992 quando una bomba di inaudita violenza squarciò il silenzio di via D’Amelio a Palermo, spegnendo per sempre le vite di Paolo Borsellino e dei cinque agenti della sua scorta.

Trentatré anni dopo, quel boato continua a riecheggiare nelle coscienze di chi cerca ancora verità, nonostante i depistaggi, le omissioni e i silenzi istituzionali che hanno avvolto questa strage in una fitta nebbia.
Mentre le commemorazioni ufficiali si susseguono con il loro rituale di retorica e ipocrisia politica, c’è una voce che rompe il coro ben orchestrato dell’oblio: quella di Salvatore Borsellino, fratello del magistrato assassinato, che con coraggio indica senza mezzi termini quelle che furono – a suo giudizio – le cause acceleranti della strage.

Quell’intervista rilasciata ai francesi il 21 maggio 1992 non fu un episodio casuale, ma un atto di straordinaria lucidità e determinazione. In quelle dichiarazioni, Paolo Borsellino fece i nomi di Vittorio Mangano, Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi, tessendo un filo che legava il potere mafioso a quello politico e imprenditoriale.

Un collegamento pericoloso, scomodo, che forse rappresentò il punto di non ritorno. Salvatore Borsellino lo ricorda con amarezza: suo fratello sapeva di aver scavato troppo in profondità, di aver sollevato un velo su connivenze che molti preferivano lasciare sepolte. Eppure, non si tirò indietro, consapevole che la giustizia non può essere esercitata a metà.

C’è un altro tassello che completa questo tragico puzzle, sempre secondo il fondatore del movimento Agende Rosse. Quel discorso tenuto da Paolo Borsellino alla biblioteca comunale di Palermo, in cui si dichiarò pronto a testimoniare sull’attentato di Capaci, fu l’ultimo atto di una sfida lanciata alle forze oscure che già tramavano nell’ombra.

Non aveva mai indagato direttamente su Berlusconi e Dell’Utri, eppure la sua voce rappresentava una minaccia troppo grande per essere ignorata. L’archiviazione dell’inchiesta nel 2001 da parte del gip di Caltanissetta non è che l’ultimo capitolo di una storia fatta di verità negate e giustizia incompiuta.

Oggi, mentre il Paese si prepara a un’altra commemorazione formale, è tempo di rompere il cerchio del silenzio. Le nuove generazioni meritano di conoscere non solo i nomi delle vittime, ma anche quelli dei mandanti e dei complici che ancora camminano liberi.

Il messaggio di Salvatore Borsellino è un faro in questa notte di omertà istituzionale, un invito a non accontentarsi delle verità ufficiali ma a continuare a scavare, a chiedere, a pretendere risposte. Perché la storia d’Italia non potrà mai essere riscritta finché questi nomi rimarranno nascosti nell’ombra, protetti da quel sistema di potere che ha trasformato le stragi del ’92 in una ferita ancora aperta.

Forse un giorno, quando i fili di questa intricata matassa verranno finalmente dipanati, capiremo perché trentatré anni non sono bastati a fare piena luce su via D’Amelio…

Fino ad allora, restano le parole di Salvatore Borsellino, ultimo custode di una memoria scomoda ma necessaria, e l’impegno di chi non si rassegna a vedere la giustizia tradita.

Perché continuare a commemorare non basta più: è tempo di verità, senza se e senza ma!

Giustizia negata, giustizia fatta: il dramma di chi non crede più nello Stato.


Sabato 4 febbraio 2017: Ecco cosa può accadere… quando non c’è giustizia!!!

Mercoledì 31 maggio 2017: Giustizia ritardata è giustizia negata!!!

Mercoledì 5 agosto 2020: L’animo umano non appare mai così forte e nobile, come quando rinuncia alla vendetta e osa perdonare un torto!!!

Sabato 3 febbraio 2024: Ma in questo Paese, chi paga effettivamente per i reati commessi???

Sabato 27 luglio 2024: Se questo è esser genitori: già… si comprende il perché accadono ogni giorno tragedie come quelle che purtroppo andiamo vivendo!!!

Quando una madre piange un figlio ucciso per un paio di cuffie, cosa resta da dire? Le parole si spezzano, e lo Stato — quello stesso Stato che dovrebbe punire, proteggere, garantire — diventa un eco lontano, un meccanismo arrugginito che gira a vuoto.

Eppure, quante volte l’abbiamo ripetuto: “Giustizia ritardata è giustizia negata”. Lo scrivevo nel 2017, e oggi, a distanza di anni, la storia si ripete con una ferocia quasi rituale. Madri che urlano in diretta tv, padri che impugnano pistole, familiari che smettono di aspettare. Perché? Perché i tribunali assolvono, le pene si riducono, i colpevoli tornano in strada prima del dolore delle vittime. E allora diventa inevitabile che qualcuno decide di chiudere i conti da solo…

Quelli sopra riportati non sono dei semplici post, sono moniti lasciati cadere nel tempo, pietre lanciate in uno stagno troppo spesso immobile. E oggi, mentre l’eco di un colpo di pistola risuona in una piazza, quelle parole tornano a bussare alla nostra coscienza con domande scomode: Avevamo previsto tutto questo? E soprattutto, potevamo evitarlo?

Perché quando la giustizia istituzionale vacilla, ciò che avanza non è il caos, ma qualcosa di più pericoloso: la rassegnazione. Quella stessa rassegnazione che trasforma un padre in giustiziere, una vittima in carnefice, un lutto in una condanna a vita senza appello. Non è un caso, non è follia. È il risultato matematico di un sistema che ha smesso di contare i fallimenti mentre illudeva di contare i giorni di pena.

Eppure, persino in questo baratro, una verità rimane: la giustizia “fai-da-te” non restituisce i figli uccisi, non risana le ferite, non costruisce società migliori. Al massimo, crea nuovi lutti e nuovi vuoti. Ma come biasimare chi, dopo anni di attesa, si è visto consegnare dalle istituzioni non una sentenza, ma un’amara beffa?

Forse il vero interrogativo non è “perché l’ha fatto?”, ma “cosa abbiamo fatto noi per evitarlo?”. Abbiamo ascoltato abbastanza le vittime? Abbiamo preteso che ogni condanna fosse all’altezza del dolore inflitto? O abbiamo accettato, con silenzio complice, che i tribunali diventassero fabbriche di promesse non mantenute?

Quel colpo di pistola ha ucciso due volte: un uomo, e simbolicamente, l’ultimo barlume di fiducia in uno Stato che dovrebbe proteggere ma troppo spesso delude. Ora tocca a noi scegliere: continuare a discutere di eccezioni e casi isolati, o ammettere che dietro ogni “gesto folle” si nasconde una lunga scia di giustizia mancata.

Perché come scrivevo anni fa, “l’animo umano è nobile quando perdona”… ma prima di arrivare alla nobiltà, deve attraversare il deserto della giustizia. E quando nel deserto non si trova neppure una goccia d’acqua, perfino i più forti possono impazzire.

Finchè non estirpiamo questo marciume, non ci sarà  futuro per il Paese.

C’è qualcosa di profondamente malato nel modo in cui il potere si muove, qualcosa che va ben oltre la corruzione occasionale e che affonda le sue radici in un sistema costruito per proteggere se stesso e i suoi protagonisti. 

Osservate con attenzione tutti quei politici che all’improvviso decidono di dimettersi, quasi sempre poco prima che emergano notizie poco piacevoli sul loro conto, noterete come il più delle volte, non si tratta di vere rinunce ma solo di manovre preventive, una sorta di passo indietro calcolato per non bruciare definitivamente la propria immagine e lasciare aperta una porta da cui rientrare quando l’attenzione si sarà spostata altrove. 

A questi soggetti si sommano poi tutta una serie di imprenditori che, pur essendo sotto inchiesta (o addirittura esser stati già condannati…), continuano a vincere appalti pubblici, aggiudicandosi commesse milionarie come se nulla fosse. 

Tutti sanno, ma nessuno fa niente! Le Istituzioni tacciono, chi dovrebbe vigilare sembra guardare da un’altra parte e alla fine ci ritroviamo a parlare di quei meschini impiegati pubblici, “infedeli”, che compaiono puntualmente nelle liste dell’agenda di quell’imprenditore che ogni mese si premura di far arrivare a ciascuno la sua bustarella.

Questo non è frutto del caso, né tantomeno di singole deviazioni morali. No, è qualcosa di più strutturato, un meccanismo perverso e perfettamente oliato dove politica e alcuni pezzi dello Stato si intrecciano in un gioco sporco che ha poco a che fare con il bene comune e molto con l’arricchimento di pochi. 

Pensiamo ai casi recenti: politici indagati per associazione a delinquere, voto di scambio, tangenti, truffa, turbativa d’asta. Sono centinaia i nomi coinvolti, eppure molti di loro occupano ancora ruoli di potere, altri gestiscono affari con la stessa naturalezza di sempre, distribuendo incarichi e favori ai loro fedelissimi. 

La cosa più assurda non è neanche il fatto che siano finiti nei guai, quanto il modo in cui il sistema reagisce al loro allontanamento apparente. Si crea immediatamente un vuoto che viene colmato da altri imprenditori con interdittive alle spalle, da funzionari infedeli che ormai da anni alterano gare d’appalto senza mai essere fermati, cui seguono assessori che fanno da ponte tra soldi pubblici e interessi privati.

E quando finalmente qualche inchiesta giudiziaria comincia a scoperchiare il vaso, ecco che improvvisamente arrivano le dimissioni, sempre motivate da ragioni personali o familiari. Una commedia all’italiana, recitata così tante volte da aver perso ogni credibilità. Ma quanti sono realmente caduti in disgrazia? 

Quanti hanno davvero pagato per i loro errori? Ormai da oltre trent’anni assistiamo a questa sceneggiata, riproposta in ogni città, in ogni regione, come se fosse diventata la regola e non l’eccezione. Non si tratta più di singoli episodi isolati, ma di un vero e proprio metodo, consolidato nel tempo e ormai radicato nella nostra quotidianità.

L’imprenditoria malsana, quella che negli anni abbiamo visto sfilare in televisione, sui giornali e sui social, non ha servito soltanto la criminalità organizzata, ha altresì alimentato anche quel pezzo dello Stato che avrebbe dovuto controllarla. 

Funzionari, dirigenti, politici che invece di vigilare sono diventati complici, garantendo che il flusso di denaro e soprattutto i favori non si interrompessero mai. Un circolo vizioso in cui la politica si nutre di affari sporchi e gli affari sporchi si nutrono della politica, in un abbraccio mortale che strangola ogni possibilità di cambiamento.

Allora chiedo: chi mai potrà smantellare questo meccanismo? Se la politica continua a perseguire i propri interessi opachi, gli scandali che leggiamo ogni giorno saranno semplicemente fuochi di paglia, destinati a spegnersi senza lasciare traccia. 

La corruzione non è più un incidente di percorso, è diventata strutturale, quasi inevitabile. È come un cancro che si autoalimenta grazie a politici corrotti finanziati da imprenditori poco puliti o legati alla criminalità, i quali a loro volta chiedono favori a burocrati che, in cambio della carriera, chiudono entrambi gli occhi.

Ma una speranza c’è. Forse dobbiamo tornare a quel momento storico del 1945, quando il Paese, dopo anni di guerra e umiliazioni, seppe rialzarsi, capì che era necessario ricostruire tutto, partendo da zero e abbandonando il marciume del passato. 

Solo così potremo sognare un’Italia diversa, equa, senza diseguaglianze, senza ladri nascosti dietro poltrone istituzionali. Dobbiamo trovare il coraggio di estirpare questa malattia, di liberare il Paese da chi lo sta soffocando, perché solo eliminando il male alla radice potremo sperare di riavere un Paese degno di essere chiamato tale.

Sì… ma tanto non succede niente.

Quante volte l’abbiamo detto dopo ogni scandalo? 

Già… dopo ogni arresto per corruzione, traffico di potere, concussione: un funzionario con le mani nel vaso, un politico che riceve denaro al buio, un colletto bianco che stringe accordi sporchi. 

Eppure la solita eco torna puntale: Sì… ma tanto non succede niente

Ma come potrebbe cambiare qualcosa in questo Paese che difende chi sbaglia? Sì… dove lo Stato scrive leggi come scudi, non come spade, un Paese che promuove norme che non spazzano via il marcio ma viceversa lo incastonano nel sistema, rendendolo intoccabile? Dove la complicità si maschera da legalità e chi dovrebbe pagare non paga mai? 

E tutto questo grazie allo Stato stesso, ai suo uomini/donne che promuovono queste riforme per pararsi il c…, una politica che non solo non agisce, ma firma, ratifica e soprattutto si piega a chi ha interesse a non cambiare mai!

Io nel mio piccolo ci ho provato. Già molti anni a portare alla luce scheletri che altri volevano sepolti, ma ogni volta ritrovo semrpe lo stesso schema: gente farabutta che fa dell’illegalità il proprio vivere, sostenitori e lecchinio che promuovo e foraggiano con le loro azioni quotidiane quel sistema illegale a cui poi si somma una giustizia lenta, inceppata, con leggi trasformate in scappatoie e così chi denuncia, quei pochi esigui individui che hanno fatto della purezza d’animo il loro vivere quotidiano, non solo devono scontrarsi con quei muri di gomma collusi, ma ahimè vengono traditi da chi viceversa avrebbe dovuto proteggerli.  

Il tradimento più grave? Non è solo la corruzione, ma la sua normalizzazione, l’averla trasformata in routine, in prassi. Perché quando diventa “normale”, diventa invincibile!

Ogni riforma che rallenta i processi, ogni norma che protegge i colpevoli, ogni legge scritta su misura per i potenti: non è una battaglia contro il crimine. È un accordo con esso!

E lo Stato? Lo Stato è certamente complice. Quelle norme approvate per finta, quelle regole scritte a favore di chi comanda, sono un colpo al cuore di chi crede ancora in uno Stato giusto ed equo.

Che schifo. Che vergogna…. dopo anni a cercare di cambiare le cose, a rompere schemi immutabili, ci si ritrova con le mani vuote, perché chi doveva riscrivere le regole, le ha ridisegnate per chi non vuole che nulla si muova…

E allora sì, forse è tempo di contare i giorni, di pensare a una vita diversa, lontano da questo Paese ingrato, dove lo Stato non protegge i cittadini, ma i potenti. Dove la corruzione non è un cancro da estirpare, ma un affare da gestire.

Ma prima di andare via – riferendomi a tutti quei soggetti ancora perbene – dovrebbero chiedersi: fino a quando permetteremo che il gioco resti sempre lo stesso?

Sì… immagino che starete pensando: “ma tanto non succede niente”. Ed allora iniziate voi con i vostri gesti: rifiutatevi quando vi viene chiesto un “favore”, abbandonate quelle adulazioni che sanno di “ipocrisie ricamate“, non scambiate la vostra dignità per una promessa o una bustarella, sapendo a priori che accettandola, si diventa indissolubilmente compromessi, con quei soggetti corroti e con quel sistema marcio da loro rappresentato, che negli anni, avevate criticato e odiato!

E tu, da che parte stai? Quella di chi aspetta o di chi prova ( o quantomeno proverà…) a cambiare le cose?

La gestione delle carceri: un fallimento annunciato?

Le carceri italiane sono ormai il simbolo di una gestione pubblica disastrosa, caratterizzata da scelte politiche e amministrative che hanno prodotto conseguenze devastanti. 
Le circolari ministeriali e le disposizioni adottate negli ultimi anni hanno generato un effetto a catena di reati, aggressioni e rivolte, mentre il governo delle strutture detentive appare sempre più condizionato dagli interessi mafiosi.

Il danno economico derivante da questa situazione è incalcolabile: miliardi di euro dispersi tra inefficienze, costi di riparazione e spese straordinarie legate alla gestione delle emergenze. 

Eppure, nonostante la gravità del problema, le responsabilità contabili, civili e forse anche penali non sono mai state adeguatamente approfondite. 

Nel frattempo, gli agenti penitenziari, ormai stremati da un sistema che li abbandona, non hanno strumenti efficaci per impedire che le mafie controllino l’interno delle carceri.

Per spezzare questo ciclo vizioso, è necessario riscrivere le regole, costruendo un modello basato sulla civiltà e sulla speranza per i detenuti. Tuttavia, ciò non può significare concedere ulteriore spazio ai gruppi criminali più pericolosi, che oggi approfittano della debolezza delle istituzioni per rafforzare il loro controllo. 

Occorre impedire a una minoranza mafiosa di dettare legge e vietare qualsiasi forma di autogestione degli spazi condivisi, che di fatto trasforma le sezioni detentive in vere e proprie roccaforti della criminalità organizzata.

Le recenti indagini della magistratura palermitana hanno messo in luce falle gravissime nel sistema di sicurezza, con l’introduzione indiscriminata di telefoni cellulari e altri strumenti di comunicazione illeciti. 

Oggi, persino le sezioni di alta sicurezza non riescono più a garantire un controllo adeguato: i boss mafiosi possono continuare a comandare e a reclutare nuovi adepti, trasformando il carcere in un centro operativo per le loro attività criminali.

L’unico regime che ancora riesce a contrastare questo fenomeno è il 41bis, che limita drasticamente i contatti con l’esterno e impedisce il controllo mafioso sugli spazi comuni. Tuttavia, anche questa misura sembra destinata a essere smantellata nel tempo, rendendo il carcere sempre più irrilevante rispetto alle sue due funzioni principali: garantire la sicurezza dei cittadini e rieducare i condannati.

L’introduzione dei telefoni nelle carceri è un fenomeno ormai fuori controllo. 

La libera circolazione dei detenuti all’interno delle strutture rende estremamente semplice il contrabbando di dispositivi, che possono essere lanciati dall’esterno, trasportati dai droni o introdotti durante i colloqui con i familiari. 

Un cellulare in mano a un boss significa la possibilità di continuare a gestire il traffico di droga, impartire ordini ai propri affiliati e persino commissionare omicidi.

Fino a qualche anno fa, chi introduceva un telefono era sottoposto a misure disciplinari rigorose, e gli utilizzatori venivano immediatamente trasferiti. Oggi, invece, il numero di sequestri è in costante aumento, ma le sanzioni sono praticamente inesistenti. Il sistema sembra aver alzato bandiera bianca.

Quali prospettive per il futuro?

Per invertire questa deriva serve una classe dirigente preparata e determinata, capace di interrompere il binomio retorica-incompetenza che da anni grava sulle scelte politiche in materia carceraria. 

Ma prima ancora, è necessaria una presa di coscienza collettiva sugli errori commessi, sulle inefficienze del sistema e sulle conseguenze di un approccio sempre più permissivo nei confronti della criminalità organizzata.

Il carcere non deve diventare un luogo di tortura, ma nemmeno un territorio senza regole in cui la mafia continua a dettare legge. 

Ripristinare un sistema sicuro e funzionante è un dovere verso le vittime della criminalità, verso gli agenti penitenziari che ogni giorno rischiano la vita e verso tutti i cittadini che meritano uno Stato forte e credibile.

Il nemico invisibile: quando la corruzione resiste più della mafia!

Mentre il vento soffiava forte sulla Sicilia, le parole del procuratore Maurizio De Lucia risuonavano come un campanello d’allarme in un’aula gremita di persone.

I reati di pubblica amministrazione? “Non siamo in grado oggi di contrastarli adeguatamente!

Con queste parle e con voce ferma, carica di preoccupazione, si è espresso il Procuratore durante un convegno e la sua, non è una semplice constatazione, ma ahimè, una vera e propria denuncia di un sistema in affanno. 

Il magistrato nella sua disanima ha altresì elencato tutta una serie di problematiche e di ostacoli attualmente presenti nel sistema giudiziario: il carico di lavoro insostenibile dei GIP, la precedenza dovuta al codice rosso, le nuove procedure che impongono interrogatori preventivi prima di applicare misure cautelari, per non parlare del limite di 45 giorni per le intercettazioni!

Un mosaico di impedimenti che rendono la lotta alla corruzione quasi impossibile e chissà, viene il sospetto che quanto compiuto con queste nuove normative, serva principalmente a promuovere l’illegalità o quantomeno a proteggerla!!!  

Non posso che sorridere pensando al contrasto che il nostro paese ha dedicato alla mafia, con strumenti sempre più sofisticati, pool di magistrati e forze dell’ordine, ma anche cittadini comuni che hanno dedicato la loro vita a quella lotta, cui si sono sommate legislazioni speciali, per poi scoprire che il vero nemico, più resiliente e adattabile, forse non è più “Cosa Nostra“, bensì quel cancro silenzioso che divora le istituzioni dall’interno. 

La corruzione in Italia ha assunto ormai i contorni di una consuetudine, un malcostume che si infiltra in ogni anfratto della società, dal piccolo comune di provincia ai grandi palazzi del potere. Essa non fa rumore come le bombe mafiose, non lascia cadaveri per strada, ma lentamente erode la fiducia dei cittadini nello Stato e nelle sue istituzioni. 

D’altronde è diventata quasi una prassi accettata, un modo di fare, dove il confine tra lecito e illecito si è fatto sempre più labile. Nei corridoi degli uffici pubblici, nelle anticamere dei potenti, nei consigli di amministrazione, si è sviluppato un linguaggio fatto di cenni, di mezze parole, di silenzi eloquenti, dove ogni favore presuppone un contraccambio, dove ogni pratica ha il suo prezzo, ufficiale o nascosto che sia. 

La corruzione moderna ha saputo creare un sistema che si autoalimenta dove pubblico e privato si fondono in una danza pericolosa di interessi incrociati. Il funzionario che velocizza una pratica, il politico che orienta un appalto, l’imprenditore che offre una tangente mascherata da consulenza, il professionista che falsifica una perizia, tutti ingranaggi di una macchina ben oliata che gira indisturbata. 

Questo sistema ha di fatto creato una società parallela dove il merito viene soppiantato dalla raccomandazione, dove l’onestà diventa un ostacolo alla carriera, dove chi rispetta le regole viene visto come un ostacolo da eliminare o quantomeno da costringere al silenzio!!!

Nel frattempo la mafia mostra il suo volto feroce, la corruzione indossa abiti eleganti, frequenta salotti buoni, parla lingue straniere, usa tecnologie avanzate per nascondere i suoi traffici. E così…. mentre la mafia intimidisce e minaccia, la corruzione seduce e corrompe, offrendo vantaggi immediati in cambio di piccole o grandi deviazioni dal sentiero della legalità e il cittadino comune si trova così di fronte a un bivio: resistere in un mondo che sembra premiare chi aggira le regole o adeguarsi al malcostume imperante.

Comprenderete come le conseguenze di questa pervasiva accettazione della corruzione sono devastanti anche se meno visibili di un attentato mafioso: Servizi pubblici inefficienti, sprechi di risorse, aumento delle disuguaglianze, perdita di competitività dell’intero sistema Paese. 

La corruzione diventa così non solo un problema morale ma un vero e proprio freno allo sviluppo economico e sociale, ecco perché le parole di De Lucia ci ricordano che nonostante le leggi, nonostante i proclami, nonostante gli sforzi di magistrati e forze dell’ordine oneste, il sistema attuale non è attrezzato per combattere efficacemente questo nemico invisibile. 

Sì… servirebbero più risorse, procedure più snelle, maggiore coordinamento, ma soprattutto una rivoluzione culturale che rimetta al centro il valore dell’onestà e del bene comune. Bisognerebbe partire dalle nuove generazioni, mostrare loro che esiste un’alternativa al sistema corrotto, che si può vivere con dignità senza scendere a compromessi con la propria coscienza. 

Certo, mentre formiamo i giovani di questa nazione, il malaffare purtroppo continua a diffondersi, silenzioso e inarrestabile, negli uffici pubblici come nelle aziende private, nelle grandi città come nei piccoli paesi, alimentato dall’indifferenza di molti e dalla complicità di troppi, ed è una battaglia che rischiamo di perdere se non prendiamo coscienza che la vera mafia oggi non è più solo quella delle lupare e dei pizzini, ma quella ben più insidiosa che si annida tra le pieghe della burocrazia, nella normalizzazione dell’illegalità, nella assuefazione collettiva al malaffare. 

So bene come questa sfida sia ardua, ma non impossibile, bisogna che ciascuno faccia la propria parte, rifiutando la logica del favore, denunciando le irregolarità, pretendendo trasparenza, soltanto così potremo sentirci persone dignitose e auspicare di poter lasciare un giorno ai nostri figli un Paese migliore, libero non solo da questo cancro chiamato “mafia”, ma soprattutto da quella diffusa corruzione che oggi sembra quasi inattaccabile!

La giustizia perfetta senza pregiudizi o condizionamenti? Quando i robot sostituiranno i magistrati!

Ascolto le notizie riportate in Tv sulla giustizia e mi chiedevo cosa accadrebbe se applicassimo la tecnologia AI al sistema giudiziario?
Già… immaginiamo un mondo in cui i magistrati siano sostituiti da robot in grado di interpretare la legge in modo impeccabile, senza influenze esterne, condizionamenti o pregiudizi!
Già, in questo, un “magistrato robot” avrebbe capacità straordinarie e non indifferenti.
Ad esempio… una memoria infinita: potrebbe incamerare tutta la legislazione passata e vigente, accedendo a ogni norma, articolo o regolamento in pochi secondi.
Ed ancora, sarebbe in grado di realizzare un aggiornamento istantaneo: le nuove normative non richiederebbero anni di studio, ma solo pochi minuti di upgrade.
Cosa dire inoltre sulla “coerenza” assoluta; questa… grazie all’analisi in tempo reale di tutte le sentenze emesse, potrebbe adottare interpretazioni giuridiche coerenti, sì… basate su precedenti consolidati.
Ma non solo, nessuna imparzialità: sì…niente pressioni politiche, correnti, interessi personali o condizionamenti emotivi. Solo la legge, applicata in modo rigoroso e oggettivo.
Ma allora, è davvero possibile percorrere questa strada per una giustizia perfetta?
Certo, in molti ora diranno che, se da un lato l’IA (intelligenza artificiale) potrebbe eliminare gli errori umani, i ritardi burocratici e le disparità d’interpretazione, dall’altro farebbe sorgere domande importanti…
La legge è solo una questione di logica, o c’è un elemento umano – come l’equità, la comprensione del contesto sociale e la capacità di adattarsi a casi eccezionali – che un robot non potrebbe mai replicare?

Chi sarebbe responsabile in caso di errori o decisioni controverse e, soprattutto, siamo pronti a delegare decisioni che riguardano la libertà e la vita delle persone a una macchina?
Tuttavia, l’idea di un magistrato robot affascina, ma allo stesso tempo spaventa. Se da un lato rappresenta un’opportunità per rendere la giustizia più efficiente e imparziale, dall’altro ci costringerebbe a riflettere su cosa significhi davvero “giustizia” e su quanto l’elemento umano sia insostituibile.
E allora, ditemi: cosa ne pensate? Quanto siete disposti a fidarvi di un sistema giudiziario gestito dall’intelligenza artificiale?

Riflessione sul problema dello smaltimento dei rifiuti: un confronto tra Sicilia e altre regioni italiane.

Il recente intervento dei Carabinieri del Noe (Nucleo Operativo Ecologico) nelle province di Taranto, Matera e Cosenza ha riportato all’attenzione un problema che affligge da sempre il nostro Paese e, in particolare, la mia amata Sicilia: lo smaltimento illecito dei rifiuti, speciali e non.

L’operazione ha portato all’arresto di nove persone e al sequestro di oltre 4.000 tonnellate di rifiuti abbandonati in capannoni dismessi e aree agricole. 

Un’ennesima conferma di come il traffico illecito di rifiuti sia un fenomeno strutturato e organizzato, spesso gestito da vere e proprie associazioni criminali.

Ma questo caso non è solo la prova della gravità del problema ambientale in Italia. È anche l’occasione per riflettere sulle differenze di approccio tra le varie regioni nel contrastare questi reati.

In alcune zone del Paese, come quelle coinvolte in questa operazione, le forze dell’ordine e le procure dimostrano una capacità di intervento tempestiva ed efficace. In altre viceversa, come ad esempio la Sicilia, il fenomeno sembra affrontato,  con minore incisività. 

Troppe volte infatti, chi cerca di denunciare, si scontra con un apparato burocratico che, anziché proteggere, ostacola e ancor più scoraggia…. E così, chi con coraggio prova a fare la cosa giusta finisce per trovarsi solo, esposto a rischi e difficoltà.

All’estero, in Paesi come gli Stati Uniti, chi denuncia non solo è tutelato, ma può anche beneficiare di incentivi (economici) proporzionali al danno svelato: fino al 30% del valore recuperato, con cifre che possono arrivare a milioni di dollari. 

In Italia, invece, accade proprio l’opposto. Chi denuncia si ritrova spesso invischiato in procedimenti giudiziari interminabili, affronta rinvii infiniti e deve sostenere di tasca propria tutti i costi: viaggi, avvocati e soprattutto tempo perso. Tutto questo per aver fatto il proprio dovere di cittadino, senza alcun interesse personale, ma solo per difendere il bene comune.

Tornando quindi alla questione principale, la gestione illecita dei rifiuti segue un copione noto: i rifiuti “spariscono” nel nulla, smaltiti illegalmente per evitare i costi di un trattamento regolare. 

Questo sistema, da interessi finanziari illeciti, non solo devasta l’ecosistema, ma mette a rischio la salute pubblica e rafforza circuiti criminali che prosperano a scapito di tutti noi.

In Sicilia, il fenomeno è particolarmente diffuso, ma operazioni come quella in Puglia o in Campania sono alquanto rare. D’altronde, basti osservare tutte le testate di cronaca nel web per costatare come – in questi ultimi anni – le inchieste per questa tipologia di reato, si siano contate sulle punta di una mano…

Già… parliamo d’indagini che spesso si arenano di fronte a una rete di complicità e omertà che rende difficile individuare e perseguire i responsabili, in particolare quando quei soggetti sono fortemente legati alla criminalità organizzata o evidenziano di godere di protezioni politiche e ahimè, anche istituzionali…

Questo divario nell’efficacia dei controlli solleva un interrogativo: perché non adottare un approccio uniforme e coordinato su scala nazionale?

L’operazione dei Carabinieri del Noe, coordinata dalla Procura di Lecce, dimostra che contrastare il fenomeno è possibile, ma perché sia davvero efficace servono interventi costanti, non azioni sporadiche. È necessaria una strategia nazionale che rafforzi i controlli, aumenti le risorse per la tutela ambientale e, soprattutto, protegga e incentivi chi ha il coraggio di denunciare.

Lo smaltimento illecito dei rifiuti non è solo una questione ambientale: è un’emergenza sociale ed economica che richiede un impegno concreto da parte di tutte le istituzioni. 

La Sicilia, come altre regioni del Sud Italia, non può più permettersi di restare indietro in questa battaglia. È tempo di agire con la stessa determinazione dimostrata dai Carabinieri del Noe, per garantire un futuro più sostenibile e giusto per tutti.

Quando la mafia si insinua nei Comuni: il rischio di perdere lo Stato!

Il prefetto di Catania ha disposto, su delega del ministro dell’Interno, l’accesso ispettivo al Comune di Paternò per «verificare l’eventuale sussistenza di elementi concreti, univoci e rilevanti su collegamenti diretti o indiretti con la criminalità organizzata di tipo mafioso».

La Commissione si è insediata il 31 gennaio e, come previsto dal Testo unico sull’ordinamento degli Enti locali, dovrà concludere gli accertamenti entro un massimo di sei mesi. Questa indagine amministrativa è fondamentale per verificare se l’attività del Comune sia stata condizionata da interessi illeciti, minando la legalità e la trasparenza dell’ente.

Ciò che m’interessa evidenziare o quantomeno far comprendere è cosa significa, concretamente, un’infiltrazione mafiosa all’interno di un Comune!

Innanzitutto partiamo dal controllo del territorio attraverso la politica e la burocrazia…

L’inchiesta che ha portato all’accesso ispettivo parte da un’operazione condotta dai carabinieri nell’aprile del 2024, che ha fatto emergere presunte infiltrazioni mafiose nella gestione delle aste di terreni e immobili. Complessivamente, sono 49 le persone indagate, tra cui esponenti politici locali, imprenditori e affiliati a un clan mafioso.

Tra le accuse più gravi vi è lo scambio elettorale politico-mafioso, un meccanismo che consente ai clan di ottenere favori e potere all’interno delle amministrazioni pubbliche. Secondo l’accusa, in occasione delle elezioni comunali del 2022, sarebbero stati garantiti voti in cambio dell’assunzione di soggetti vicini alla criminalità organizzata in un’azienda che opera nel settore della raccolta e smaltimento rifiuti.

Comprenderete bene come un simile sistema non si limita a garantire il successo elettorale di determinati candidati, ma permette alla mafia di entrare direttamente nella gestione del Comune, influenzando appalti, assunzioni e decisioni strategiche.

Il vero pericolo si concretizza quando la mafia prende il posto dello Stato, controllando le istituzioni e spegnendo la democrazia.

Difatti, quando la criminalità organizzata riesce a infiltrarsi in un’amministrazione comunale, i danni per la comunità sono enormi e questi si manifestano ahimè su più livelli:

Innanzitutto ad essere distrutta è proprio la democrazia: il voto perde il suo valore reale e la rappresentanza politica viene distorta, favorendo solo gli interessi di gruppi criminali invece che quelli della collettività.

Ed ancora, una gestione illecita delle risorse pubbliche: i finanziamenti destinati al miglioramento dei servizi per i cittadini vengono dirottati per arricchire gruppi mafiosi e imprenditori compiacenti. Strade, scuole, servizi sociali vengono trascurati perché il denaro pubblico viene utilizzato per alimentare clientele e reti di potere.

C’è poi il condizionamento degli appalti pubblici: le gare d’appalto vengono pilotate per favorire aziende vicine ai clan, escludendo imprese oneste e creando un mercato drogato in cui a vincere non è chi offre il miglior servizio, ma chi è più vicino alla mafia. Questo porta a lavori di scarsa qualità e all’aumento dei costi per la collettività.

A ciò si aggiunge il sistema delle raccomandazioni e delle assunzioni pilotate, non solo nelle imprese affiliate, ma anche nel settore pubblico: quando i clan riescono a far entrare loro uomini negli uffici comunali o nelle società partecipate, hanno accesso a informazioni riservate, possono rallentare o favorire pratiche burocratiche e bloccare controlli su attività illecite. In questo modo, il Comune diventa un ingranaggio della macchina mafiosa.

Tutto ciò determina un’evidente crescita dell’illegalità e quando i cittadini vedono che le istituzioni sono controllate dalla mafia, aumenta purtroppo la sfiducia nello Stato e si rafforza l’idea che rivolgersi ai clan sia l’unico modo per ottenere favori, lavoro o sicurezza. 

Ed è questo che genera quel maledetto circolo vizioso in cui la mafia diventa sempre più forte e difficile da sradicare.

Ecco perché sono fondamentali le indagini condotte dalle forze di polizia, perché solo attraverso di esse si può cercare di ancora avere una forma di vigilanza democratica: denunciare, vigilare e pretendere trasparenza sono gli strumenti più potenti per difendere la nostra democrazia e impedire che il crimine organizzato soffochi il futuro delle nostre comunità.

Perché solo grazie alle verifiche condotte nei Comuni della nostra regione che si può tentare di comprendere se le amministrazioni sia realmente condizionate dalla criminalità organizzata e nel caso in cui emergessero elementi concreti, si potrebbe arrivare allo scioglimento dell’ente per infiltrazioni mafiose, come già avvenuto in passato in altri nostri comuni siciliani.

E quindi, se da un lato le istituzioni devono rimanere vigili per evitare che la criminalità si impossessi delle strutture pubbliche, dall’altro è fondamentale che i cittadini prendano coscienza della gravità del problema e pretendano trasparenza e legalità da chi governa le loro città. 

Solo così si può spezzare il legame tra mafia e politica e restituire ai comuni il loro vero ruolo: essere al servizio della collettività, e non di interessi criminali!!!

Il ritorno del re dei paparazzi: Corona scatena il caos con un nuovo scandalo.

Nel 2014 parlando di Fabrizio Corona concludevo un post con questa frase: La legge non può rendere giustizia… quando colui che detiene il potere (esecutivo) tiene in mano anche la legge!!!

Ed ora dopo tanti anni, questo mio coetaneo ed anche amico/conoscente (non so se si ricorda delle serate trascorse insieme da ragazzo nelle tante discoteche di Catania, Recanati (Giardini Naxos) ed anche Taormina, quando il sottoscritto organizzava come PR…), ha deciso nuovamente di far parlare di sé, tornando alla ribalta con le sue solite rivelazioni esplosive.

Sappiamo bene come, alcuni anni fa, durante il periodo più buio della sua vita, già… quando si trovava rinchiuso in un penitenziario (ricordiamolo: senza aver ucciso nessuno), sia stato costretto a pagare caro per alcune dichiarazioni che coinvolgevano uno dei membri di una delle famiglie più potenti d’Italia. Una famiglia che, da sempre, ha avuto un’influenza enorme sulle sorti del Paese, muovendo come fossero pedine, i protagonisti della nostra politica nazionale.

In quell’occasione, Corona fu messo a tacere e sono stati in molti, forse per paura o per non restare coinvolti, ad avergli voltato le spalle, già… quasi che egli avesse la peste; non il sottoscritto che viceversa ha sempre preso le sue difese, basti rivedere alcuni post scritti sin dal 2014:

– http://nicola-costanzo.blogspot.com/2014/05/fabrizio-corona-non-tutti-gli-uomini.html

– http://nicola-costanzo.blogspot.com/2015/06/fabrizio-corona-finalmente-libero.html

– http://nicola-costanzo.blogspot.com/2018/06/non-e-larena-fabrizio-corona-non-tutti.html

Ho sempre pensato (ed il sottoscritto, forse, avrebbe fatto lo stesso…) che, per poter uscire da quella situazione critica, egli abbia dovuto firmare qualche liberatoria, sì… rinunciando di parlare pubblicamente su quanto accaduto in quella notte, a quel noto “rampollo”… ma soprattutto, a non divulgare le prove di cui è sicuramente ancora in possesso.

Ora che è finalmente uscito da quel tunnel, ha deciso di riprendersi ciò che gli spetta, tornando a immergersi nell’ambiente in cui un tempo brillava: quello dei social media.

E così, il “re dei paparazzi” è tornato alla carica!!!

Dopo aver pubblicato il “Libro Nero” su Totti e Ilary Blasi e quello dedicato ai “Ferragnez”, ha ora deciso di accendere i riflettori su un nuovo caso che coinvolge nientemeno che il Presidente del Senato, Ignazio La Russa, e la Ministra del Turismo, Daniela Santanchè.

In occasione della presentazione del suo libro alla Mondadori a Milano, Corona ha rivelato di aver ricevuto una telefonata da La Russa, il quale gli avrebbe chiesto di non diffondere il nome di un’amica di suo figlio, coinvolta in una presunta storia di tradimento.

Di per sé, la notizia potrebbe sembrare di poco conto, ma assume un peso diverso se a chiedere l’eventuale favore fosse stato realmente il Presidente del Senato. Questo, naturalmente, solleverebbe non poche riflessioni…

Ovviamente da parte degli ambienti vicini al presidente La Russa, arriva una netta smentita: nessun contatto con Corona! 

Lui, però, insiste sulla sua versione e promette di rivelare i dettagli.

Staremo a vedere come andrà a finire…

CONTINUA

Tratta di esseri umani: un crimine inaccettabile, soprattutto nel 2025!

La tratta di esseri umani priva le vittime di dignità, libertà e diritti fondamentali. In Europa si contano almeno 15.000 vittime, ma il numero reale è probabilmente molto più alto. 

Le donne e le ragazze sono le più colpite dallo sfruttamento sessuale, mentre gli uomini subiscono principalmente il lavoro forzato. I minori, soprattutto migranti non accompagnati, e persone vulnerabili come individui LGBTIQ, con disabilità o appartenenti a minoranze etniche, sono particolarmente esposti a questo crimine.

I trafficanti approfittano delle disuguaglianze sociali e della povertà, aggravate dalla pandemia. Per contrastarli, la strategia dell’UE punta su prevenzione, protezione delle vittime e pene più severe. 

Tra le misure previste: criminalizzazione dell’uso dei servizi offerti dalle vittime, contrasto allo sfruttamento lavorativo e campagne informative. Fondamentale è anche il supporto psicologico e sociale per il reinserimento delle vittime.

Serve un’adeguata formazione per forze dell’ordine, operatori sanitari e pubblici ufficiali, affinché le vittime possano denunciare senza paura. 

Inoltre, la cooperazione con i Paesi di origine e transito delle vittime è cruciale per garantire protezione e assistenza.

Perchè fermare la tratta di esseri umani non è solo un dovere morale, ma una battaglia per la giustizia e i diritti umani.

Come smantellare il modello operativo della criminalità organizzata?

Sì… per smantellare il modello operativo della criminalità organizzata, è necessario un approccio più articolato e soprattutto su più livelli. 
Innanzitutto, le forze dell’ordine debbono essere dallo Stato sostenute affinchè possano rafforzare le indagini per smantellare le strutture delle organizzazioni criminali e contrastare così tutte quelle attività ad alta priorità, mettendo in atto altresì la cooperazione transnazionale tra gli Stati membri dell’UE.

Un altro aspetto cruciale infatti riguarda l’eliminazione delle risorse finanziarie della criminalità organizzata! 

Bisogna colpire i profitti generati dai gruppi criminali attraverso il rafforzamento delle leggi sul sequestro e la confisca dei beni illeciti. Inoltre, un attento monitoraggio delle operazioni finanziarie consentirà di individuare e bloccare i flussi di denaro sospetti, prevenendo così il riciclaggio. E’ fondamentale la collaborazione con il settore privato, incluse banche e imprese, diventa quindi essenziale per intercettare transazioni anomale e spezzare i circuiti di finanziamento illecito.

Parallelamente, occorre prevenire l’infiltrazione della criminalità organizzata nell’economia legale. L’acquisizione di aziende in difficoltà da parte di gruppi criminali rappresenta una minaccia concreta e, per contrastare questo fenomeno, è necessario potenziare la vigilanza sugli investimenti sospetti e introdurre misure di supporto per le imprese in crisi, così da sottrarle all’influenza delle organizzazioni malavitose.

Un altro pilastro essenziale riguarda la protezione delle istituzioni e della società civile. 

La corruzione, strumento principale della criminalità organizzata, deve essere combattuta con politiche di trasparenza più rigorose, maggiore protezione per i whistleblower e controlli stringenti sui funzionari pubblici. Inoltre, diventa prioritario sensibilizzare la cittadinanza sui rischi della criminalità organizzata e promuovere una cultura della legalità, a partire dall’educazione nelle scuole, per giungere fin dentro le case degli italiani, attraverso messaggi in Tv per diffondere e incentivare l’assunzione di responsabilità del singolo verso la collettività .

Infine, l’uso della tecnologia rappresenta una leva strategica per il contrasto alla criminalità. L’intelligenza artificiale e le tecnologie avanzate offrono strumenti efficaci per individuare schemi di riciclaggio, monitorare il dark web e prevenire attacchi informatici. Le istituzioni devono investire in soluzioni digitali per migliorare l’efficienza delle indagini e garantire una risposta rapida ed efficace alle minacce emergenti.

Certo, la lotta alla criminalità organizzata richiede un grande impegno, coordinato e costante, già… non basta semplicemente perseguire i singoli reati:, ma occorre agire a livello strutturale per interrompere i flussi finanziari illeciti, rafforzare la trasparenza nelle istituzioni e impedire l’infiltrazione nell’economia legale.

Solo con un approccio sistemico e una forte cooperazione internazionale sarà possibile smantellare il modello operativo della criminalità organizzata e restituire ai cittadini quella fiducia e sicurezza, che oggi vedono ahimè molto distante.

Mi viene da piangere per il Procuratore Gratteri…

Non so voi, ma ogni volta che vedo in TV o leggo un articolo sul mio omonimo, il Procuratore Nazionale Nicola Gratteri, mi vien da piangere…

L’altra sera l’ho rivisto su La7 da Lilli Gruber, e ancora una volta ho provato un senso di amarezza profonda.

Penso a chi dedica la propria vita a questo Paese, rischiando tutto, e a chi invece non ha mai mosso un dito, anzi, fa carriera restando nell’ombra, seduto dietro una scrivania.

È così che funziona qui, ed è così che continuerà finché il sistema clientelare e giudiziario resterà colluso, legato a quelle correnti politiche che decidono chi deve avanzare senza merito e chi, invece – come Gratteri – deve essere ostacolato, quasi esiliato, solo perché fa bene il proprio lavoro.

Mi torna in mente la vicenda di Giovanni Falcone, ostacolato nella sua nomina a Consigliere Istruttore del Tribunale di Palermo. Oggi la storia si ripete con Gratteri, escluso dalla Procura Nazionale Antimafia perché non allineato a certe logiche di potere. Lo aveva già previsto, tanto da dichiarare in un’intervista: “Io lo sapevo, ma ho scelto di non iscrivermi a nessuna corrente. Non conosco nemmeno il 50% dei membri del CSM, non li riconoscerei per strada, perché non li frequento“.

Qualcuno ha deciso di sbarrargli la strada. Forse perché ha indagato troppo, su mafia, ‘ndrangheta, camorra… certamente più di tutti loro messi insieme. E questo ha dato fastidio.

Ora, da Procuratore di Napoli, si ritrova sotto attacco: un’inchiesta si sgretola, i reati vanno in prescrizione, le accuse si rivelano inconsistenti, il processo si chiude nel nulla. Con un costo umano, politico e istituzionale, altissimo.

E allora sì, mi viene da piangere. Perché vedo il silenzio della stampa – e chissà, magari qualcuno sotto sotto ride pure. Perché nessuno lo difende???

Certo, Gratteri è un uomo, può sbagliare. Uno, due, tre, quattro, cinque volte.

Ma finché continuerà a indagare con onestà, senza piegarsi a pressioni o interessi di parte, resterà una delle poche figure di cui questo Paese può ancora fidarsi. Ed io, pur comprendendo talune critiche giuste e forse anche costruttive, beh… come dicevo, preferisco sempre un magistrato che, ogni tanto, possa commettere un errore piuttosto che uno che non sbaglia mai… perché in malafede.

Dal silenzio del passato all’azione nel presente

Sento in questi mesi paragonare il genocidio della Shoah all’attuale questione palestinese.

Perdonatemi, ma chiunque possieda una mente libera e quindi incondizionata non potrà – leggendo le prossime righe – giungere alle mie stesse riflessioni.

Pensare anche soltanto di paragonare la “soluzione finale” – lo sterminio sistematico e premeditato degli Ebrei in tutta Europa, perpetrato da menti malate naziste – è profondamente sbagliato. Un crimine, per come è stato progettato e perpetrato, disumano, che non colpì solo gli Ebrei, ma anche Rom, persone con disabilità, oppositori politici, scrittori, omosessuali e tanti altri considerati “indesiderabili”. Una ferita indelebile nella storia dell’umanità, un abisso morale da cui non ci siamo mai completamente risollevati e che ha segnato per sempre la nostra coscienza collettiva.

Ciò che accadde allora non può né deve mai essere giustificato. E il solo pensiero di paragonare quella tragedia alla questione palestinese è, a mio avviso, inappropriato.

Sebbene ciò che sta accadendo in questi mesi in Palestina possa essere definito una strage di innocenti, e in alcuni casi un crimine contro l’umanità, trovo pericolosi i parallelismi tra Nakba e Shoah che proprio alcuni illustri storici vorrebbero in queste ore riproporre.

Premesso che ogni violenza, specialmente contro donne e bambini, è sempre abominevole, tuttavia, non si possono mettere sullo stesso piano due tragedie di natura e contesto così diversi. Questo non significa negare la gravità di quanto sta accadendo oggi, ma è essenziale mantenere un linguaggio preciso e rispettoso della storia.

Voglio sottolineare che il mio intento non è sminuire l’una tragedia rispetto all’altra. Entrambe meritano attenzione: la Shoah per l’eredità storica e morale che ci ha lasciato, e la questione palestinese per l’urgenza di una soluzione che tuteli i diritti umani di tutte le persone coinvolte.

Ciò che invece lascia perplessi è l’uso politico della Shoah contro i palestinesi, quando è storicamente noto che quest’ultimi non hanno avuto alcun ruolo in quella tragedia. Non furono responsabili dell’antisemitismo né del Nazismo, eppure oggi si trovano a subire un’oppressione sistematica da parte di chi, più di ogni altro, dovrebbe conoscere il valore del rispetto per la vita umana.

Perché, allora, non imparare dal passato? Sì… diversamente da 80 anni fa, quando si preferì tacere, è nostro dovere intervenire con urgenza per trovare una soluzione, giusta e definitiva, per il popolo palestinese.

FINE PRIMA PARTE 

L'ombra della mafia sulle imprese e sui fondi pubblici

Mentre continua a gestire e ampliare i propri traffici illeciti, come droga, prostituzione, racket ed usura – tutti settori che generano enormi profitti – la mafia rivolge il suo interesse verso un obiettivo più subdolo e strategico: il controllo delle attività imprenditoriali attraverso il riciclaggio di denaro. Questo meccanismo non solo le consente di nascondere i guadagni illeciti, ma anche di consolidare il proprio potere economico e sociale.

Recentemente, durante la relazione di inaugurazione dell’anno giudiziario, il presidente della Corte d’Appello di Palermo, Matteo Frasca, ha lanciato un allarme chiaro: nonostante i colpi inferti negli ultimi anni, la mafia continua a essere una forza criminale attiva, con l’obiettivo di penetrare nell’economia legale e intercettare i fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr). Frasca ha sottolineato come la capacità della mafia di infiltrarsi sia strettamente legata alla persistenza di collusioni con settori politico-amministrativi, che fungono da ponte per il controllo del territorio e per l’accesso alle risorse pubbliche.

Un aspetto cruciale è rappresentato dalla capacità della mafia di rinnovarsi. Anche dopo arresti e processi che hanno decapitato i vertici delle organizzazioni, queste riescono rapidamente a ricostituire le proprie strutture di comando, mantenendo vive le regole mafiose tradizionali e trovando nuovi alleati per rafforzare la propria influenza.

Tra gli obiettivi principali dell’organizzazione spiccano le opere pubbliche realizzate sul territorio. Attraverso atti estorsivi, la mafia esercita pressioni su imprese affidatarie, fornitori e subappaltatori, sfruttando ogni opportunità per trarre vantaggi economici. Questo modus operandi non sarebbe possibile senza la complicità di imprenditori senza scrupoli, che accettano di collaborare con l’organizzazione criminale per ottenere favori o protezione, diventando parte integrante del sistema mafioso senza subirne direttamente le conseguenze.

Questa situazione richiede una risposta ferma e coordinata da parte della società civile, delle istituzioni e delle forze dell’ordine. Combattere la mafia significa non solo colpire i suoi esponenti principali, ma anche spezzare la rete di complicità e connivenze che ne garantisce la sopravvivenza.

Solo attraverso un impegno congiunto si potrà impedire che la mafia continui a infiltrarsi nell’economia legale, compromettendo il futuro di intere comunità. Il messaggio deve essere chiaro: non c’è spazio per chi antepone i propri interessi personali al bene comune.

La complicità dello Stato: un'illusoria lotta alla criminalità organizzata.

Stasera voglio riprendere un mio vecchio post del 2013. Sono passati 12 anni, ma nulla è cambiato. Anzi, molte cose sono peggiorate, forse troppe…
 
Lotta alla criminalità“. Quante volte abbiamo sentito questa espressione? Eppure, più che una lotta, sembra un’operazione cosmetica, utile a decorare discorsi preconfezionati durante campagne elettorali o celebrazioni ufficiali. Dietro queste parole non c’è la sicurezza dei cittadini, ma un teatrino politico in cui l’interesse reale è tutt’altro.

Ogni giorno, i notiziari riportano rapine, violenze, spaccio, estorsioni e altri crimini che, anziché diminuire, si moltiplicano. E lo Stato? Dove si trova quando la criminalità si evolve e cresce sotto i nostri occhi?

Si dice di non generalizzare, che lo Stato è presente e combatte. Ma i fatti dimostrano il contrario: le azioni si limitano a interventi sporadici, a operazioni dal forte impatto mediatico ma prive di un vero seguito. Nel frattempo, la criminalità si riorganizza, si insinua nei settori economici e istituzionali, trasformando il malaffare in sistema.

Dopo le stragi e le grandi operazioni di facciata, la lotta alla criminalità si è trasformata in compromesso. Non c’è prevenzione, non c’è visione strategica. L’impegno dello Stato sembra più mirato a gestire che a estirpare il problema, lasciando spazio a un sistema che ormai si nutre di collusioni, connivenze e silenzi.

Cosa serve davvero? Un sistema che prevenga il crimine prima che si manifesti? Un impegno reale nel sostenere le famiglie disagiate, educare i giovani, creare opportunità di lavoro? Pene certe, giuste e celeri, senza vie di fuga per i criminali?

Ma tutto questo rimane un miraggio, perché è qui che emerge la vera sconfitta dello Stato. La criminalità organizzata non è solo tollerata: in molti casi, è protetta. Esistono figure istituzionali che, dietro una maschera di rispettabilità, lavorano attivamente per mantenere intatto il sistema. Non per incapacità, ma per volontà.

Il punto più infame è proprio questo: lo Stato che dovrebbe combattere il crimine ne è spesso complice. Non solo con le sue omissioni, ma con le sue azioni. Chi è chiamato a rappresentare la legalità si piega a interessi privati, trasformando le istituzioni in strumenti di potere al servizio di pochi.

Il contrasto alla criminalità organizzata non è una priorità, ma una farsa. Perché cambiare lo status quo significherebbe colpire quegli stessi interessi che alimentano carriere politiche e arricchiscono chi, in teoria, dovrebbe difenderci. Fino a quando questo sistema resterà intoccabile, ogni discorso sulla lotta al crimine sarà solo una recita ben orchestrata.

Ed è questo il vero tradimento dello Stato verso i suoi cittadini: aver abdicato al suo ruolo di garante della giustizia, scegliendo di convivere con il male invece di combatterlo.

Come è possibile che ancora oggi, nel 2025, si continuino a commettere reati come quelli che sto per descrivere?

Mi chiedo se sia normale trovarsi ad ascoltare inchieste giudiziarie che rivelano sempre gli stessi scenari: militari dei comandi provinciali della Guardia di Finanza che, attraverso indagini accurate, portano alla luce un inquietante panorama fatto di emissioni di fatture per operazioni inesistenti, dichiarazioni omesse e mancati versamenti dell’IVA.

Sono meccanismi complessi, messi in atto con l’intento di produrre fatture false per decine e decine di milioni di euro, utilizzate poi per evadere imposte sui redditi e sul valore aggiunto. Un modus operandi consolidato, che sembra ripetersi quasi come una prassi.

E così, a fatti compiuti e con il denaro ormai volatilizzato, si procede con sequestri preventivi e confische, mentre si effettuano arresti di quegli “imprenditori” – o meglio, “prenditori” – che per anni hanno costruito un sistema basato su violazioni fiscali. Al momento opportuno, queste stesse persone riescono a ottenere la chiusura d’ufficio delle società coinvolte, sottraendosi così ulteriormente alle proprie responsabilità.

Certamente, l’obiettivo dello Stato è recuperare quanto più possibile le somme illecitamente sottratte e smantellare gli schemi fraudolenti, ma la realtà ci mostra un sistema di controllo e garanzia che spesso si rivela inefficace.

E quando a questo si aggiunge l’ulteriore beffa di incaricare “Amministratori giudiziari” che, durante il loro mandato, commettono a loro volta atti fraudolenti o comunque infedeli – come raccontano le cronache di questi giorni – viene naturale pensare che il problema non sia circoscritto a pochi casi isolati. Si tratta di un sistema profondamente malato, che sembra resistere a ogni tentativo di cambiamento.

Ma perché? C’è forse una volontà latente di mantenere le cose come stanno? Un equilibrio che avvantaggia sia chi froda il sistema sia chi, in teoria, dovrebbe vigilare, ma si accontenta di raccogliere i frutti di incarichi ispettivi ben retribuiti?

Siamo di fronte a un “cane che si morde la coda“, dove chi dovrebbe rappresentare la giustizia e la legalità finisce per alimentare lo stesso sistema che dovrebbe combattere.

Se non si interviene con una revisione radicale delle procedure, dei controlli e delle responsabilità, il rischio è che questo ciclo di frodi, indagini e inadempienze continui senza fine. Serve un sistema che non solo sanzioni, ma soprattutto prevenga. Un sistema che metta al centro trasparenza, tecnologia e meritocrazia, capace di smantellare le reti di complicità e corruzione.

Eppure, resta un dubbio amaro: si vuole davvero cambiare o tutto questo serve a garantire il perpetuarsi di un sistema che, in fondo, fa comodo a troppi?

Se continuiamo a tollerare questa situazione, non sarà solo lo Stato a perdere; saremo tutti noi, cittadini onesti, a pagare il prezzo più alto!!!

Criminalità giovanile: un futuro diverso è possibile se diamo ai giovani una vera alternativa.

Basta leggere qualsiasi studio sul fenomeno della criminalità per capire come i giovani siano i più vulnerabili a scivolare nell’illegalità. 

Le statistiche parlano chiaro: la delinquenza è più diffusa tra i giovani e raggiunge il picco tra i 20 e i 25 anni, per poi diminuire gradualmente con l’età. 

Questa tendenza evidenzia come l’attività criminale inizi spesso precocemente, alimentata dall’immaturità, dall’inesperienza e dalla difficoltà nel riconoscere i pericoli, inclusi i soggetti che spingono verso il malaffare.

I giovani, in questa fase della vita, sono più inclini a comportamenti impulsivi, ribelli e meno conformisti. 

Questi fattori, insieme a una maturità sociale non ancora pienamente sviluppata, contribuiscono a renderli più esposti alle attività illecite. Ed è proprio per questo che è essenziale intervenire: sostenere i ragazzi nel loro percorso di crescita psicologica e sociale è la chiave per allontanarli dalle lusinghe della criminalità.

Osservando in questi lunghi anni il mondo lavorativo posso affermare, senza alcuna incertezza, che i giovani coinvolti in attività criminali svolgano ruoli marginali, spesso i più rischiosi e facilmente identificabili, come furti o rapine. 

Al contrario, le attività criminali più sofisticate, come quelle nel mondo economico o ai vertici delle organizzazioni mafiose, sono riservate a chi ha raggiunto una posizione consolidata con l’età. Questo scenario rende ancora più urgente offrire ai giovani opportunità alternative che possano dare loro un senso di appartenenza e realizzazione senza dover ricorrere al crimine.

Laddove la disoccupazione e l’esclusione sociale sono più forti, l’adesione a una “cosca” spesso appare come l’unica via per ottenere promozione sociale e affermazione personale.

E allora, cosa possiamo fare? Lo Stato ha il dovere di offrire ai ragazzi percorsi di formazione, lavoro e crescita che li aiutino a dire “NO” alla criminalità, anche in contesti difficili. Dare loro una vera alternativa significa sottrarli alla morsa della criminalità organizzata, offrendo un futuro migliore non solo a loro, ma anche alla nostra società.

Se vogliamo davvero contrastare la criminalità giovanile, dobbiamo smettere con le chiacchiere sterili e investire seriamente in programmi che mettano i giovani al centro, perché ogni ragazzo salvato dal crimine è un passo verso una società più giusta e sicura per tutti.

Potere e omertà: La politica nelle mani della mafia.

Di poche ore è l’ennesimo processo con rito abbreviato relativo all’inchiesta su presunte infiltrazioni mafiose e casi di corruzione in un Comune alle falde dell’Etna.

In particolare, la Procura ha chiesto la condanna dell’ex sindaco per voto di scambio politico-mafioso e per alcuni presunti episodi di corruzione.

Come già avviene da tempo nelle pagine del mio blog, non intendo entrare nel merito delle inchieste giudiziarie, quelle competono ai Tribunali e ai siti web dedicati alla cronaca. 

Viceversa, come studioso dei comportamenti umani, e in particolare delle condotte che emergono quando fenomeni politici si intrecciano con soggettività mafiose, mi soffermo sugli effetti e sulle gravi conseguenze che tali dinamiche producono non solo nel territorio amministrato, ma anche nella società civile.

Non bisogna mai confondere la posizione di coloro che ricoprono incarichi istituzionali e, al tempo stesso, giustificano il proprio operato infedele attribuendolo a fattori esterni, come le organizzazioni mafiose. Questo atteggiamento permette a tali organizzazioni di stabilire e consolidare un rapporto capace di estendere i propri tentacoli verso la sfera politica e le istituzioni pubbliche.

In questo modo, l’associazione mafiosa acquisisce un carattere di autonomia e sovranità, elevandosi a una posizione di parità rispetto allo Stato. Ciò le consente di imporre le proprie regole, escludendo quelle statuali, e di affermare una logica di dominio che si concretizza nell’accumulazione di ricchezza. Tale ricchezza, a sua volta, le permette di agire come un soggetto sovrano, capace di legare a sé (alcuni) uomini politici o persino intere organizzazioni di potere, come i partiti.

Nel corso degli anni, l’associazione mafiosa ha strutturato un sistema a doppio binario che opera su due fronti paralleli. Da un lato, vi è la manovalanza, impegnata nei traffici illeciti; dall’altro, vi sono i cosiddetti “colletti bianchi”, che si occupano di politica, preferenze elettorali, appalti, raccomandazioni e gestione della manodopera. Si tratta di una struttura dotata di regole, procedure e sanzioni proprie, un vero e proprio ordinamento giuridico parallelo.

Affrontare un problema di tale portata si rivela estremamente complesso… 

Non mancano esempi di illustri studiosi, uomini politici e magistrati che, nonostante anni di impegno e tentativi, non sono riusciti a scardinare questa rete pervasiva. Le continue inchieste giudiziarie sui rapporti tra mafia e politica, regolarmente depositate dai sostituti Procuratori nazionali, rappresentano un drammatico promemoria della profondità e della resilienza di questo sistema. Tuttavia, tali inchieste sono anche un segno che la lotta non è ferma, e che la consapevolezza è il primo passo per costruire un futuro in cui legalità e giustizia possano prevalere.

Come la reclusione può scardinare il sistema del silenzio.

La detenzione, soprattutto se improvvisa, rappresenta uno spartiacque nella vita di chi, abituato al comfort del proprio status, si ritrova catapultato in una realtà completamente estranea. 

Pentirsi, raccontare ciò che è accaduto nel corso della propria carriera, elencare i nomi e le dinamiche di un sistema che ha permesso l’ascesa e garantito privilegi: tutto questo diventa un’opzione concreta. Un’opzione dettata non solo dal desiderio di alleggerire la propria posizione giudiziaria, ma anche dalla necessità di ritrovare una libertà che ora appare lontana, irraggiungibile.

La privazione della libertà personale colpisce tutti, ma in maniera più acuta chi non ha mai vissuto a contatto con il crimine o con contesti degradati. 

E quindi, per chi è abituato a una vita fatta di certezze e privilegi, il carcere è un mondo alieno, fatto di spazi limitati, rigide regole e costante esposizione a uno stress emotivo senza precedenti.

Ditfatti, è proprio in questo ambiente, dove la fragilità umana viene messa a nudo, che nasce un bisogno primordiale: uscire!!!

E spesso, il prezzo di questa libertà è la collaborazione. Collaborare significa trasformare il peso della reclusione in una spinta a raccontare, a svelare i retroscena di un sistema che, fino a poco prima, veniva vissuto come normale.

Però… a differenza del delinquente abituale, che vede il carcere quasi come una tappa ciclica della propria esistenza, il “colletto bianco” si sente ingiustamente perseguitato, negando inizialmente ogni responsabilità. Ma con il passare dei giorni, tra il peso delle accuse, la solitudine e il pensiero costante rivolto ai propri cari, si fa strada una nuova consapevolezza. La paura interiore cresce, insieme alla pressione esterna.

Ogni ora trascorsa in prigione diventa un momento di riflessione forzata: le cause che hanno condotto a quella situazione, le dinamiche professionali, i compromessi morali accettati per ottenere vantaggi. Tutto riaffiora con prepotenza, mettendo a nudo non solo le azioni passate, ma anche le fragilità emotive e relazionali di chi si trova a confrontarsi con un ambiente spietato.

E così, da quel conflitto interiore nasce una decisione: collaborare. Non per eroismo o redenzione, ma per necessità. Perché solo attraverso la verità, o una sua versione negoziabile, si può sperare di barattare la reclusione con una via d’uscita. Ed è in quel momento che il sistema trova la sua leva più potente.

E se fosse proprio in quel baratto che si cela l’inizio della fine per i grandi meccanismi di malaffare? Quando un singolo pezzo decide di parlare, il castello, per quanto imponente, può iniziare a vacillare. Ma c’è un’altra faccia della medaglia.

Non tutti, infatti, scelgono di collaborare. Per alcuni, la paura di perdere la posizione privilegiata raggiunta è troppo forte, ma ancor più lo è il terrore di trovarsi invischiati in dinamiche ben più grandi di loro. Collaborare significherebbe esporsi non solo a ripercussioni personali, ma anche a rischi per i propri familiari. Quella scelta, apparentemente salvifica, potrebbe trasformarsi in un pericolo imminente, un passo verso una spirale di minacce e pressioni che mettono a repentaglio tutto ciò che hanno di più caro.

Ed è qui che il silenzio diventa la loro unica arma di difesa. Un silenzio che, spesso, non è una decisione autonoma, ma il frutto di un sistema che, dall’esterno, fa di tutto per proteggerli. Non tanto per l’interesse verso la loro persona, quanto per salvaguardare il proprio equilibrio, garantendo che nessun dettaglio trapeli, che nessuna parola sveli le crepe di un’organizzazione costruita su connivenze e segreti.

La realtà del “non detto” si intreccia così con quella del carcere: un luogo dove il prezzo della verità e quello del silenzio convivono, separati solo dal coraggio o dalla paura di chi si trova a decidere. Alla fine, la vera domanda rimane: quanto siamo disposti a tollerare un sistema che si alimenta del silenzio, e quanto, invece, siamo pronti a lottare per rompere il muro che lo protegge?

La mafia Imprenditoriale: Radici profonde, rami ovunque…

È evidente a tutti noi siciliani che gli insediamenti imprenditorial-mafiosi siano decisamente più radicati nella nostra regione rispetto al Nord Italia, non a caso, in Sicilia si contano circa 240 cosche con oltre 7.000 affiliati!!!

Per comprendere meglio l’impatto di questa presenza, basta confrontare questi numeri con quelli della ‘ndrangheta calabrese, oggi considerata la mafia più pericolosa: quest’ultima conta “solo” 160 cosche e circa 5.500 affiliati. 

È chiaro, dunque, quanto Cosa Nostra incida negativamente sul nostro territorio!!!

Va detto, però, che queste associazioni non si limitano a operare nei loro territori d’origine, al contrario, estendono le proprie attività criminali al Centro e al Nord Italia, stabilendo veri e propri “uffici di rappresentanza“. 

Queste, pur mascherati da realtà imprenditoriali legali sotto il profilo giuridico e amministrativo, spesso si trasformano in filiali operative, funzionali a riciclare il denaro proveniente dalla casa madre. In tal modo, riescono a far prosperare il loro business, incrementando a dismisura i profitti.

Non c’è settore dell’economia o della vita civile che sia immune da questa aggressività criminale, inoltre, la prassi consolidata delle imprese a partecipazione mafiosa ha portato molti imprenditori, un tempo onesti, ad adattarsi a queste dinamiche.

Pensare, però, che queste nuove formazioni mafiose siano semplicemente soggetti imprenditoriali è fuorviante. 

Un simile approccio rischia di ridurre la mafia a un insieme di comportamenti isolati, quando in realtà essa opera come una struttura ben definita e radicata, con modalità specifiche e una strategia chiara.

La responsabilità di questa situazione, così come del debole contrasto a essa, risiede principalmente nella mancata comprensione della fenomenologia mafiosa nella sua complessità. 

La politica, spesso, preferisce soprassedere per meri interessi personali, perpetuando un sistema basato sul “do ut des” e questo atteggiamento fa sì che molti scelgano di chiudere un occhio, partecipando indirettamente al sistema, piuttosto che impegnarsi nel contrasto alla mafia.

AMMINISTRATORE GIUDIZIARIO ARRESTATO

Il tema degli amministratori giudiziari è stato affrontato più volte su questo blog (e non solo), con particolare attenzione alle modalità attraverso cui alcune imprese sottoposte a sequestro o confisca sono state, di fatto, gestite senza soluzione di continuità dalle stesse organizzazioni cui erano state sottratte.

E infatti, il nuovo procuratore capo di Messina, Antonio D’Amato, si è distinto, a differenza di altri colleghi che negli anni sembravano aver “dormito” o addirittura “celato” esposti ufficialmente protocollati. 

Ricordo a chi di dovere che tali esposti dovrebbero ancora trovarsi negli archivi del Tribunale e quindi nella disponibilità dei sostituti procuratori che potrebbero ora, finalmente, riprenderli in mano…

Per cui, grazie alle investigazioni condotte attraverso intercettazioni, monitoraggi e, pare, con il contributo di un collaboratore di giustizia, si è scoperto che questa situazione era resa possibile, secondo l’accusa, dalla complicità di un amministratore giudiziario.

Come spesso ripeto, l’antimafia, in questi lunghi anni, è servita a molti, specialmente a coloro incaricati di gestire beni e imprese confiscate. 

Ricordo che parliamo di un patrimonio immenso, spesso a scapito delle imprese stesse e dei loro titolari, sottoposti a provvedimenti interdittivi.

Basti pensare al caso di un magistrato, allora presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, finito sotto processo insieme ad altri imputati. Secondo l’accusa, quel magistrato avrebbe gestito i beni confiscati alla mafia in modo clientelare, creando un vero e proprio “sistema“. Al suo fianco agivano fedelissimi, tra cui commercialisti, professori universitari, amministratori giudiziari, uomini in divisa e persino familiari. Secondo i PM nisseni, questo gruppo rappresentava il “cerchio magico” del presidente.

Ma d’altronde è sufficiente recarsi in alcuni uffici per notare come tra i collaboratori vi siano professionisti, dipendenti e altre figure legate, in qualità di familiari, parenti o amici, a referenti istituzionali. Ed è per questi motivi infatti che questi ultimi, abitualmente, affidano loro quegli incarichi di gestione e amministrazione.

Nel caso specifico, l’impresa in questione era già stata destinataria di diversi provvedimenti giudiziari di sequestro e confisca, divenuti definitivi dopo procedimenti penali e misure di prevenzione. Tuttavia, nonostante l’amministrazione giudiziaria, secondo l’inchiesta in corso, l’impresa continuava a essere gestita dagli stessi soggetti interdetti. Questo sarebbe stato reso possibile grazie alla complicità dell’amministratore giudiziario, completamente asservito.

L’attività investigativa ha permesso di ricostruire il modus operandi degli indagati, finalizzato alla creazione di illeciti guadagni grazie alla complicità dell’amministratore giudiziario. Per tali motivi, il Giudice per le Indagini Preliminari, su richiesta della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Messina – Direzione Distrettuale Antimafia, ha applicato una misura restrittiva nei confronti dell’indagato.

Mi chiedevo – discutendo con un amico – come questa vicenda mettesse ora in evidenza un ulteriore paradosso: lo Stato, a seguito dell’arresto dell’amministratore giudiziario, si ritrova ora nella necessità di nominare un nuovo referente per la gestione dei beni sequestrati. Una situazione che non solo rappresenta un evidente fallimento del sistema, ma che getta un’ombra pesante sulle istituzioni, dimostrando come i loro stessi rappresentanti possano risultare altrettanto corrotti. La fiducia dei cittadini ne risulta gravemente compromessa, poiché ciò che dovrebbe essere garanzia di legalità si trasforma spesso in ulteriore occasione di abusi e malaffare!!!

La criminalità organizzata: una piaga che distrugge il territorio e tradisce i suoi concittadini!

La criminalità organizzata è una piaga che impoverisce tutti, in quanto non porta alcun beneficio nemmeno al proprio territorio d’origine e ancor meno ai propri conterranei!!!
Ed allora viene spontaneo porsi una domanda: che fine fanno i patrimoni illeciti provenienti dalle attività criminali e perché tutto quel denaro accumulato non produce benessere e occupazione nelle proprie regioni?

La risposta è desolante e soprattutto chiara!!! 

I proventi delle attività criminose, spesso frutto di traffici illeciti e racket, vengono di norma trasferiti verso Paesi e mercati offshore, al riparo da controlli e vincoli normativi. Si pensi, ad esempio, alle Antille olandesi, o alle grandi operazioni di riciclaggio che coinvolgono le piazze finanziarie internazionali. Non è un caso che Caracas, un tempo dominio di potenti boss siciliani, sia stata recentemente teatro di un’inchiesta che ha portato alla luce un cartello di cosche calabresi impegnate nel traffico di stupefacenti verso l’Europa. 

Questo spostamento dei capitali determina un impoverimento strutturale delle regioni d’origine, come Sicilia, Calabria, Campania e Puglia, aggravando una già critica condizione economica e sociale.

Il meccanismo è doppiamente distruttivo. Da un lato, le risorse accumulate illegalmente non vengono reinvestite nel territorio, ma esportate verso mercati più sicuri, innescando un ciclo di depauperamento economico, dall’altro, l’azione delle mafie sul territorio – attraverso il pizzo e altre forme di estorsione – soffoca l’imprenditoria locale, alimentando evasione fiscale e scoraggiando nuovi investimenti. 

Questo doppio colpo porta a una progressiva desertificazione economica, con alti tassi di disoccupazione e una stagnazione dei redditi.

Da quanto sopra si comprende come la criminalità non apporta nulla al territorio e ai suoi conterranei; al contrario, lascia dietro di sé una condizione infetta e corrotta, certamente peggiore di quanto non fosse prima. 

L’illusione che l’accumulo di grandi ricchezze da parte delle organizzazioni mafiose possa generare un ritorno positivo è smentita dai fatti: la loro attività distrugge la fiducia, soffoca il potenziale produttivo e annienta le prospettive di crescita.

A tutto ciò si aggiunge un elemento globale: la libertà dei movimenti di capitali, uno dei dogmi della globalizzazione liberale, facilita il riciclaggio del denaro sporco. 

I paradisi fiscali, veri e propri architravi di un sistema finanziario senza leggi, offrono rifugio a immense ricchezze illegali. 

Ecco perché la lotta contro questi meccanismi è oggi più che mai una priorità, come dimostrano le azioni promosse da organizzazioni come ATTAC (Associazione per la Tassazione delle Transazioni Finanziarie per l’Aiuto ai Cittadini), impegnate a contrastare la dittatura di un mercato globale che favorisce diseguaglianze e ingiustizie.

Per combattere efficacemente questo fenomeno è necessario un approccio integrato che includa il rafforzamento delle leggi contro il riciclaggio, un controllo più stringente sui flussi di capitali e, soprattutto, un’azione culturale che punti a scardinare il consenso sociale di cui spesso le mafie godono nei territori in cui operano. 

Solo così sarà possibile invertire la rotta e restituire speranza e dignità alle comunità colpite dalla criminalità organizzata. Il resto sono soltanto chiacchiere che non faranno certamente cambiare questo stato di cose!