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Eh si, siamo proprio un popolo di ferro!


Già… siamo finalmente giunti al momento della verità….
Così avevo scritto ieri, con una punta di amarezza e uno sguardo carico di scetticismo verso un’iniziativa che, fin dal suo annuncio, mi era apparsa più come un gesto mediatico che come un atto concreto di solidarietà; oggi, a distanza di poche ore, le immagini delle barche intercettate, dei volti stanchi ma incolumi degli attivisti, dei comunicati ufficiali che si susseguono tra Roma e Tel Aviv, sembrano confermare ciò che temevo: nonostante le buone intenzioni dichiarate, questa missione rischia di naufragare non sulle coste di Gaza, ma nell’ennesimo teatro dell’ipocrisia collettiva.

Sì, ventuno imbarcazioni su quarantaquattro sono state fermate da Israele, arrestate con modalità militari rapide ed efficienti, e i loro occupanti – italiani compresi – verranno espulsi. Certo, nessun ferito, nessuna vittima diretta, almeno per ora, ma una domanda rimane sospesa come fumo dopo l’esplosione: tutto questo era davvero necessario, o era prevedibile fin dall’inizio che si sarebbe concluso in un nulla sonoro?

Mi sono chiesto quindi: ma quanto coraggio ci sia stato davvero in chi ha deciso di salpare, e quanto invece fosse già scritto nel copione che, all’arrivo del primo ostacolo serio, ha portato quella presunta determinazione a cedere di fronte alla diplomazia e alle pressioni internazionali.

Ancora una volta, il governo italiano si è affrettato a muoversi non per sostenere l’iniziativa umanitaria, ma per garantire che i nostri connazionali non corressero troppi rischi, coordinando in anticipo con Israele le modalità dell’intervento, quasi si trattasse di un’operazione congiunta piuttosto che di un atto di disubbidienza civile.

Tajani parla di assistenza consolare, di cittadini in buone condizioni, di procedure di rimpatrio, mentre Crosetto anticipa freddamente che saranno portati ad Ashdod ed espulsi. Già… nulla di nuovo, tutto sotto controllo.

Ma allora ditemi: dov’è stata quella la protesta tanto decantata? Dove sono gli attesi gesti estremi che avrebbero dovuto sfidare il potere d’Israele, azioni che non si sarebbero dovute fermare dinnanzi al timore di essere isolati, respinti o anche arrestati?

Sì… qualcosa nel nostro paese si sta muovendo (se pur non mi trovo concorde con talune iniziate, come ad esempio l’occupare le università o il blocco delle scuole), a iniziare con gli scioperi. La mobilitazione cresce, e forse proprio qui, in questi cortei improvvisati, c’è più sincerità che su quelle barche, forse perché qui, tra i giovani che mettono in gioco il loro tempo e la loro sicurezza sociale, che si nasconde un’ombra di autentica ribellione.

Viceversa, chi era a bordo su quelle flottiglie, pur avendo osato salpare, sembra alla fine, essersi consegnato senza combattere, accettando passivamente il ruolo di simbolo destinato a essere neutralizzato.

Ovviamente riconosco il merito di aver riportato l’attenzione su Gaza, su una popolazione martoriata, esiliata e da troppo dimenticata, come riconosco che parlare ad alta voce di aiuti, blocchi e sofferenze costituiscano un atto necessario.

Ma non posso viceversa ignorare i dubbi che mi attanagliano: chi c’era realmente davvero dietro questa flottiglia? Quanta parte di essa era mossa da genuina compassione, e quanta da logiche politiche, strumentalizzazioni, ambizioni personali? Le notizie che arrivano, quelle che parlano di fondi legati a Hamas o a paesi vicini, non possono – vere o false che siano – essere ignorate, anche se vanno prese con le pinze. Ma quelle frasi bastano a insinuare il sospetto che, anche in mezzo al dolore altrui, ci sia spazio per il calcolo.

Sì… il ministro Tajani parla di “spiraglio di pace”, di sanzioni possibili verso Israele, di condanna agli insediamenti in Cisgiordania. Certo, parole importanti, forse persino coraggiose, se non fossero accompagnate da una pratica così cauta, così difensiva. D’altronde, condannare l’eccesso di reazione israeliana e poi coordinarsi con loro per evitare problemi ai nostri cittadini è una contraddizione evidente. È come dire: siamo contro la violenza, ma non fino al punto di mettere a rischio il nostro ordine. E allora dove sta il limite tra responsabilità e complicità?

Guardo le liste dei nomi degli italiani fermati: deputati, europarlamentari, attivisti noti. Alcuni li conosciamo di vista, altri solo per reputazione. Certo, so che hanno rischiato a compiere questa attraversata, ma so anche che molti di loro torneranno in Italia applauditi, intervistati, messi in prima fila nei talk show, mentre la situazione a Gaza resterà immutata!

E allora mi chiedo: chi ci guadagna da tutto questo? La popolazione palestinese? O piuttosto chi usa la loro sofferenza per costruirsi un profilo, per dimostrare un impegno che finisce quando finisce la diretta tv?

È l’emblema di una fallacia ricorrente, quella che trasforma il dolore in contenuto, la resistenza in performance. Mentre i media ci mostrano barche circondate da navi militari, mentre i social si riempiono di hashtag e video emozionati, la realtà continua a svolgersi altrove: nei campi profughi, negli ospedali senza medicine, nei quartieri rasi al suolo. E noi tutti, distratti da questi gesti simbolici, rischiamo di credere di aver fatto abbastanza solo perché abbiamo guardato.

Sì… forse speravo in qualcosa di più radicale, di più irriducibile, forse speravo che qualcuno decidesse di non tornare indietro, di restare aggrappato a quella barca fino all’ultimo miglio, di sfidare non solo la Marina israeliana, ma anche il cinismo di chi riduce ogni forma di protesta a un evento calendarizzato, controllato, previsto.

E forse, invece di scrivere da lontano, avrei dovuto esserci io su una di quelle barche, o meglio ancora, farmi paracadutare su Tel Aviv con una bandiera al seguito — non una bandiera palestinese, né rossa, né di parte — ma una bianca, sì, proprio bianca, come simbolo di pace, di resa reciproca, di umanità ritrovata oltre le barricate dell’odio e della retorica.

So bene che nessuno accoglierà questa provocazione, perché siamo abituati a gridare dalla sicurezza dei nostri schermi, a indignarci in gruppo, a occupare piazze per poi tornare a casa quando fa freddo. E così, anche stavolta, assistiamo al solito copione: tensione crescente, mobilitazione mediatica, picco emotivo, e infine una deflagrazione calibrata, perfettamente gestita, seguita dal silenzio più assoluto.

Nel frattempo, Gaza aspetta. Aspetta non le barche, non i manifesti, non gli hashtag. Aspetta la verità. Quella vera. Quella che nessuno ha il coraggio di pronunciare ad alta voce, perché cambierebbe tutto. E forse è proprio per questo che non arriverà mai…

Flottiglia? E’ il momento della verità!


Sì… il mio titolo preannuncia i miei dubbi sul fatto che questa “flottiglia” porterà fino in fondo le sue intenzioni, tentando concretamente di sbarcare sulle coste di Gaza per portare aiuti alla popolazione.
Certamente riconosco il merito di aver riportato l’attenzione su una tragedia immane, la strage di innocenti e l’esilio di un intero popolo, innescata dall’incursione di Hamas in Israele il 7 ottobre 2023, che è costata 1200 vittime e circa 450 ostaggi, di cui una cinquantina sono ancora prigionieri.

Tuttavia, conoscendo bene i miei connazionali, sono convinto che alla fine si concluderà in un nulla di fatto, e la maggior parte delle persone coinvolte farà marcia indietro già nel corso della giornata. Mi dispiace affermarlo, ma in questi lunghi anni ho visto poco coraggio attorno a me, per non dire nulla…

Difatti, la maggior parte delle persone, utilizza i media più per propaganda personale che per un altruismo genuino; anzi, quando si tratta di passare dalle parole ai fatti, quasi tutti si tirano indietro per non rimanere coinvolti in vicende personali.
È per questo che, pur augurandomi di sbagliarmi, non scommetterei un solo centesimo su questa iniziativa, che mi sembra più un’operazione politicizzata che un sentimento autentico e profondo verso chi soffre.

Aggiungo che, stando a quanto riportato in queste ore da Israele ( dobbiamo prendere l’informazione “con le pinze”) e cioè che dietro questa iniziativa vi sarebbero fondi proprio di Hamas e/o dei paesi islamici che li sostengono.

Le notizie dicono che la flottiglia è stata intercettata e che le comunicazioni sono state disturbate, ma la navigazione prosegue. Sì… gli israeliani sono comparsi stanotte poco dopo le 2.00 e a bordo è stato diramato il primo “interception alert”.

La nostra fregata italiana “Alpino” intanto, ha comunicato di non proseguire oltre, fermandosi al limite delle 150 miglia nautiche. Ecco, questo è il punto: sebbene il momento della verità sia arrivato e le operazioni di intercettazione siano in corso, resto scettico sulla reale determinazione dei partecipanti.

Quanto sopra, unito ai miei forti dubbi circa le reali intenzioni e la genuinità della missione, mi conduce a una conclusione purtroppo prevedibile: assisteremo all’ennesima delusione.

È l’emblema di una fallacia ricorrente. Mentre la pubblicità ci vuole “gente fatta di ferro”, nella realtà osservo troppo spesso figure effimere, pronte a infiammarsi per una causa ma incapaci di reggere alla prima avversità.

Associazioni “Antiracket e Anti usura”: Stando soltanto tutti insieme, si può pensare di cambiare le cose.


“Stando soltanto tutti insieme, si può pensare di cambiare le cose”!

È una frase che sento ripetere spesso, soprattutto in questi giorni, ma come abitualmente accade, mentre ascolto discorsi sul potere dell’unità, non posso fare a meno che chiedermi: quante volte abbiamo sentito queste parole trasformarsi in fumo, lasciando sul campo solo buone intenzioni e progetti abbandonati?
Si parla giustamente di comunità che “non si arrendono all’omertà”, di scelte coraggiose a favore della legalità, eppure, per esperienza, mi tornano in mente alcuni alcuni casi di negozianti che dopo aver firmato con grande entusiasmo l’adesione a talune associazioni, hanno poi preferito ritirarsi, sì… dopo la prima minaccia ricevuta.

Perché la legalità non è una semplice firma da apporre su un foglio, ma rappresenta un vero e proprio impegno, un vincolo che ti segue ovunque, a lavoro, a casa, un obbligo che ti sveglia di notte, che ti costringe a guardare negli occhi chi ti dice: “non farlo”.

Apprezzo sempre con entusiasmo il coraggio di quanti, in qualità di associati, hanno deciso di portare avanti la loro scelta, mi riferisco a commercianti e giovani imprenditori che sono entrati a far parte di quelle associazioni ed ora parlano di “forza del gruppo”, di solidarietà come scudo contro le intimidazioni.

Ma noi siciliani sappiamo bene come la mafia non attacchi il gruppo, viceversa attacca il singolo, lo isola, lo spaventa con un messaggio anonimo, con una furto, con un incendio, con una finestra di casa rotta solitamente all’alba…

Ho visto in vita mia troppe volte questa rete di legalità sgretolarsi, non per mancanza di numeri, ma per la paura silenziosa di chi, pur rimanendo iscritto, smette di alzare la voce; e quindi, la domanda che mi pongo sempre non è “in quanti siamo”, ma “quanti resisteranno quando toccherà a loro”?

C’è poi un dubbio che mi assilla e non accenna a svanire: quante di quelle adesioni nascono da una presa di coscienza autentica o sono viceversa frutto di pressioni esterne, di possibili rischi che si prevedono potrebbero compiersi, sì… chissà, forse a causa di una crescita imprenditoriale, oppure si tratta di un rischio che si vorrebbe evitare o ancor peggio di qualche intimidazione (mai rivelata) ricevuta, alla quale purtroppo non si sa come rispondere?

Ho notato in questi miei lunghi anni – in qualità di delegato di una Associazione di legalità – come, certe iniziative antimafia, siano diventate più un marchio di prestigio per chi vuole apparire “dalla parte giusta”, senza però mai sporcarsi le mani.

Leggo difatti di politici che citano le lotte di altri nei propri discorsi elettorali, imprenditori che sponsorizzano eventi per lavare la propria immagine, giovani commercianti che condividono post sui social senza però mai mettere piede in una qualsivoglia riunione o assemblea in cui si affrontano temi sociali a difesa della legalità.

D’altronde, quanto si prova a realizzare – senza però mai esporsi personalmente, senza denunciare alle Procure nazionali ciò di cui si è venuti a conoscenza, ripeto, senza minimamente pensare di entrare in un ufficio di polizia giudiziaria – è diventato per molti quasi un accessorio da sfoggiare, sì… la lotta alla illegalità viene difatti rappresentata da questi soggetti, quasi fosse una banale pratica quotidiana, ad esempio, attraverso un selfie dietro uno striscione, solitamente osserviamo quella foto posta con dietro le loro spalle l’immagine dei due giudici eroi, vittime della mafia.

Li conosco bene i miei conterranei e non sono nuovi a queste dinamiche, eccoli infatti nelle fiaccolate per le strade “indignati” dopo l’ultima estorsione, gridano slogan a squarciagola contro la criminalità, ma poi, col passar del tempo, il silenzio, le voci si affievoliscono, le assemblee si svuotano, e i problemi rimangono lì, nascosti dietro la facciata di una “comunità unita”!

Chissà… forse un giorno tutto sarà diverso, forse quando tutti quei professionisti non si limiteranno a firmare un documento, ma diverranno “sentinelle” attive; infatti, solo se racconteranno ai loro figli che pagare il pizzo è una sconfitta per tutti, se interverranno quando sentiranno qualcuno dire “è meglio stare zitti”, perché la decisione più importante non è quella di essere dei soci iscritti, ma quella di essere portatori di legalità, affinché tutte le coscienze coinvolte, inizieranno a svegliarsi.

Serve quindi un messaggio che si trasformi in azioni concrete: controlli incrociati tra commercianti, denunce collettive, sostegno economico a chi perde clienti dopo aver detto no al racket. Ho visto troppi progetti fallire perché si è creduto che bastasse riempire una sala per cambiare le cose. La mafia non teme le parole, teme i fatti. E i fatti richiedono tempo, risorse, e soprattutto uno Stato sempre presente e che non molli quando il clamore inizia a spegnersi…

Ecco perché, pur riconoscendo il valore simbolico di chi prova a contrastare quell’odiosa metodologia criminale, non posso nascondere il mio scetticismo, non verso le persone e il loro impegno, ma verso il sistema che le circonda. D’altronde ditemi, quando mai un Comune ha stanziato un solo euro per la sicurezza dei negozianti, commercianti e imprenditori?

Quanti sanno che certi cosiddetti “amici della legalità” sono poi gli stessi che hanno chiuso un occhio davanti ad appalti e/o subappalti sospetti? La legalità non è un evento, è una maratona, e spesso chi corre all’inizio non arriva al traguardo.

Ma forse, questa volta, proprio perché siamo stanchi di illuderci, possiamo davvero fare la differenza, sì… stando soltanto tutti insieme, ma soprattutto, stando insieme sempre!!!

Se la Bibbia non è sacra, perché leggerla ancora?

Che senso ha leggere la Bibbia sapendo che essa non rappresenti altro che un libro e che in esso non vi sia contenuta alcuna parola di Dio?
Perdonate oggi l’argomento affrontato, ma questa domanda, così diretta, scuote da tempo le fondamenta a cui sin da bambino ero stato erroneamente plagiato, in quanto – se pur parliamo di un testo che nei millenni è stato considerato sacro – esso in se non rappresenta altro che una successione di eventi più o meno fantasiosi, certamente anche storici, ed è forse proprio per quest’ultimo punto che merita da parte del sottoscritto una pensiero sincero.

Tuttavia, sappiamo bene come la Bibbia, di fatto, sia un libro scritto da uomini, e come nei secoli sia stato modificato, alterato, a seconda delle circostanze storiche, dei poteri dominanti, delle interpretazioni umane, eppure, anche ammettendo questo, rimane nella buona o cattiva sorte, un testo che ha plasmato civiltà, ispirato arte, guidato filosofie, e continua a farlo ancora oggi.

Certo, nessuno toglie che essa offra spunti di riflessione e significato, che le storie raccontate, le parabole, se pur frutto di fantasia o di una rielaborazione culturale, rappresentino insegnamenti morali e riflessioni sull’esistenza umana che possono arricchire la vita di chi la legge, indipendentemente dalle proprie convinzioni religiose.

Forse quindi il valore non sta nell’origine divina del testo, ma nella sua capacità di parlare all’uomo, di interrogarlo, di metterlo di fronte a domande scomode e universali: cos’è il bene? Cos’è il male? Come dovremmo vivere?

Già… in questo forse la Bibbia può trovare un senso, non tanto per diventare specchio di Dio, ma bensì per noi stessi, per superare le nostre paure, le avversità della vita, dare un senso alle nostre speranze, e forse chissà, anche ai nostri errori.

E allora, forse, leggerla – per molti – può avere un senso, proprio perché conserva in se quel sentimento umano, sì… aggiungerei troppo umano…

Già… ricorda ai suoi lettori che la ricerca di significato, di giustizia, di redenzione, non è un’esclusiva della fede, ma un’esigenza profonda dell’animo umano.

Ecco quindi che alla fine poco importa se essa rappresenti storia, mito, o simbolo: già… ciò che conta è ciò che lascia ai suoi lettori, le domande che pone e soprattutto le risposte che costringe a cercare.

Il sottoscritto resta in fondo legato ai suoi concetti e cioè che – pur avendola letto tutte quelle pagine sia da fanciullo e da adulto – alla fine, ho raggiunto quella necessaria convinzione di non aver alcun bisogno della Bibbia e ancor meso di quei suoi precetti o insegnamenti, che d’altronde già di mio, metto ogni giorno in evidenza, sì… attraverso le mie azioni quotidiane.

Ecco… forse, il vero miracolo che manca (a quella parte di umanità che crede in quel libro in quanto fedele…) alla Bibbia, non è tanto quello di parlare con Dio, ma di riuscire a trasmettere in concreto qualcosa di positivo a quegli uomini o a quelle donne, che – per come vedo – continuano ahimè a comportarsi come sempre e cioè in maniera ignobile!

Ma, a ben pensarci, la Bibbia cos’altro fa se non parlare di noi, già… come al solito.

Perfetta metafora dell’arroganza umana: persino Dio, nella nostra fantasia, non può fare a meno di raccontare le nostre meschine storie, i nostri drammi da quattro soldi, le nostre ipocrisie placcate d’oro.

E noi, invece di vergognarci, ci specchiamo in quelle pagine come se fossero un’assoluzione divina. Comodo, no? La santità in copertina e il marcio nel cuore. Amen.

Sfogliare prima di acquistare: il trucco per amare i tuoi libri.

Acquistare un libro senza conoscere l’autore non è facile, anzi, si rischia, per eccesso di curiosità, di non vedere accendersi in noi quella luce, già… quel necessario entusiasmo. 

Molto spesso infatti accade il contrario. Quei titoli finiscono per risultare sterili, pesanti nella lettura, con un inevitabile spreco di soldi.

Ecco perché ritengo fondamentale avere sempre un assaggio dello stile di un autore prima di impegnarsi in un acquisto, soprattutto quando si tratta di libri su argomenti impegnativi o poco familiari. Uno stile poco coinvolgente, infatti, può far sembrare il libro un investimento sprecato.

Si può provare a cercare estratti gratuiti su piattaforme come Google Play Libri, Amazon o persino sul sito dell’editore. Questi strumenti spesso offrono un’anteprima del contenuto, permettendo di capire se il modo di scrivere dell’autore risuona positivamente. 

Tuttavia, non sempre è possibile trovare un’anteprima. In questi casi, si tenta di cercare sul web un estratto del libro o almeno una recensione che possa dare un’idea più chiara dello stile dell’autore. Purtroppo, il più delle volte quanto cerchiamo non è disponibile online..

Altre volte, ci imbattiamo in contenuti concepiti per propagandare il libro o l’autore. Informazioni che non rappresentano una lettura diretta di un estratto e che, spesso, non riescono nemmeno a trasmettere un’idea chiara dello stile o dei temi trattati.

È così che ci rendiamo conto di come molti giudizi siano pensati più per promuovere l’opera che per fornire una reale analisi. Capita difatti che chi scrive una recensione non abbia nemmeno letto il libro, limitandosi a rielaborare informazioni fornite dall’editore o dall’ufficio stampa. Questo è un fenomeno purtroppo comune, non solo nel nostro paese e non solo in ambito letterario…

Viviamo ahimè in una società in cui spesso si privilegia l’apparenza rispetto alla sostanza. Questo crea inevitabilmente un clima di scetticismo, soprattutto tra coloro che cercano genuinità e autenticità. Ecco perché, quando si vuole un parere sincero, è meglio rivolgersi a lettori comuni o cercare opinioni in forum e/o blog indipendenti. In questi spazi è più probabile trovare critiche oneste e non influenzate.

Proprio pochi giorni fa, per ottenere un quadro più autentico, ho esaminato le opinioni dei lettori sul web riguardo a un libro che mi interessava. Le recensioni indicavano un apprezzamento per lo stile coinvolgente e la profondità tematica del testo. Tuttavia, leggendo con attenzione, ho notato alcune criticità nei giudizi.

Ad esempio, una lettrice dichiarava apertamente la propria stima per l’autore prima ancora di esprimere il suo commento. Questo mi ha fato pensare a un giudizio poco obiettivo. Quando si parte con un’opinione favorevole sull’autore, è inevitabile che la valutazione risulti influenzata. Non sappiamo se abbia apprezzato il libro per il contenuto o per un senso di affinità personale con l’autore stesso.

Un altro lettore raccontava di aver letto il libro in soli due giorni. Questo potrebbe indicare che il libro fosse effettivamente scorrevole e coinvolgente, ma lascia anche il dubbio di una lettura troppo rapida per un reale approfondimento. Sì… potrebbe essere stata una giornata particolarmente vuota di impegni, oppure una lettura superficiale…

Infine, un terzo commento sembrava più interessante: la lettrice descriveva l’ambito del romanzo e accennava a una linea narrativa. Tuttavia, il suo commento era troppo generico. Un’osservazione così ampia potrebbe essere stata formulata leggendo una sinossi o una recensione, senza una reale lettura del libro.

Questi esempi mettono in luce uno degli aspetti più complessi delle recensioni personali: l’influenza di preconcetti, situazioni personali e il livello di approfondimento reale di chi scrive. Ecco perché, ripensando a quei giudizi, resto convinto che sia fondamentale approcciarsi con cautela a tali valutazioni.

Perdonate il mio scetticismo, ma da tempo ho imparato a non giustificare certi atteggiamenti, specialmente quando si tratta di commenti anonimi sul web o sui social. Spesso, dietro a quelle parole apparentemente entusiastiche, si nasconde una mancanza di lettura concreta che non permette di comprendere davvero cosa ci sia di valido o unico in un libro.

Ecco perché consiglio, prima di acquistare un libro, di recarsi in libreria. In alcune di queste ad esempio, nella mia città di Catania ad esempio, dove il sottoscritto è abbonato, i titolari sono cortesi da permettere a chiunque di sfogliare il libro prima dell’acquisto. Questo consente di valutare personalmente lo stile dell’autore e soprattutto il contenuto dell’opera.

Non mi resta quindi che augurare a tutti Voi una buona lettura, ricordando come un libro ben scelto può salvarci da qualsiasi cosa, persino da noi stessi…