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Dal Governo: Stop alla mafia in TV”. Ma il rischio è cancellarla dall’agenda reale, non dallo schermo!


Ok… va bene, parliamo di questa idea: far sparire la mafia dai film, dalle serie, dalle storie che girano intorno a noi.

Lo so, lo so bene, non si tratta di cancellarla del tutto, quanto piuttosto di toglierle quel velo di fascino che, per troppi anni, le è stato cucito addosso da una narrazione troppo spettacolare, troppo compiaciuta, quasi ammirata. 

L’intento è condivisibile, anzi necessario: non vogliamo che i nostri ragazzi guardino a quegli uomini come a modelli, non vogliamo che l’oscurità venga scambiata per forza, l’arroganza per coraggio, la violenza per potere. Il punto, però, non è nascondere la realtà, ma raccontarla senza orpelli, senza mitizzarla. 

Perché la mafia non è un’invenzione da sceneggiatura, è un fatto, un tessuto che ha attraversato e ancora attraversa vite, quartieri, intere regioni, e persino le stanze del potere; nasconderla sarebbe non solo inutile, sarebbe ipocrita: una sorta di patto tacito con l’ignoranza, un modo per non guardare in faccia la verità.

Serve invece una rappresentazione più onesta, più cruda, che non risparmi i dettagli scomodi: quegli uomini, nella maggior parte dei casi, non sono eroi, menti raffinate, ma neppure architetti del male, sono spesso individui ignoranti, culturalmente vuoti, cresciuti in contesti senza affetto né regole, dove l’unica lingua parlata è quella del dominio e del sospetto.

Peraltro, la ricchezza accumulata non è libertà, è una gabbia dorata che non possono nemmeno aprire: non viaggiano, non frequentano, non godono, vivono sempre in allerta, con lo sguardo fisso alle spalle, come se il mondo intero fosse una minaccia.

E alla fine, molti di loro finiscono come tutti gli isolati: soli. Rinchiusi in celle di massima sicurezza, abbandonati dagli stessi che un tempo li osannavano, dimenticati persino dai familiari. Non c’è gloria in quella fine. C’è solo il vuoto di una vita spesa a costruire niente, se non paura!

Ma qui sta il nodo più difficile da sciogliere: non basta cambiare il modo in cui si racconta la mafia, se poi non si ha il coraggio di guardare a chi le tiene aperte le porte ogni giorno.

Non parlo dei picciotti, dei piccoli spacciatori, di chi obbedisce e basta, senza chiedere, di chi spara, percuote, minaccia di persona, cioè di chi fa il “lavoro sporco” in prima persona senza chiedere…

No… mi riferisco a di chi indossa un completo, firma delibere, stringe accordi in sale riunioni, di chi evidenzia “mani pulite”, sapendo di avere la coscienza “sporca”. Sono loro il motore nascosto, il collante, il sistema che trasforma un’organizzazione criminale in un apparato quasi istituzionale.

Eppure, mentre si discute se una serie tv, un film, sia troppo morbido o troppo cruento, quella rete continua a tessersi indisturbata, sotto gli occhi di tutti, anzi, spesso proprio grazie allo sguardo distolto di molti o proprio di coloro che propongono l’abolizione di quelle trame romanzate.

Le mafie oggi non sparano più in piazza, non ammazzano i giudici in mezzo alla strada – per fortuna – ma sono più forti che mai, perché hanno imparato a mimetizzarsi, a parlare il linguaggio dell’economia, della burocrazia, del consenso. 

Sono dentro le gare d’appalto truccate, nei contratti gonfiati, nelle nomine pilotate, nei silenzi compiacenti, nelle assemblee dei consigli comunali. Non c’è bisogno di armi quando hai chi ti fa passare un atto inosservato: la violenza si trasforma in omissione, in complicità, in corruzione.

Le inchieste lo dicono ogni ogni giorno, ogni settimana, ogni mese, senza clamore, senza titoloni: non si tratta di sparatorie, ma di firme, di bonifici, di verbali falsificati, di relazioni tecniche appositamente taroccate. Eppure dal nostro governo si preferisce dibattere di film e fiction, come se la verità potesse essere cancellata cambiando un copione, mentre la realtà continua a marciare, silenziosa e implacabile.

Allora sì, raccontiamola meglio, la mafia! Ma questa volta non per far bella figura davanti alle telecamere di una Tv utilizzata a modello “propaganda” o per accontentare le sensibilità del momento, sì… raccontiamo perché chi ci governa, chi decide, chi ha potere di scelta, si senta ora chiamato in causa, senza che un pentito o un boss prima di morire da dentro il carcere abbia deciso di parlare…

Perché la vera battaglia non si combatte sul set di una serie, ma nelle aule di tribunale che vanno potenziate, nei controlli che vanno resi più efficaci, nelle scuole dove bisogna insegnare a riconoscere il clientelismo prima ancora che la violenza. E se non si ha il coraggio di guardare lì – dove stanno le mani che stringono, non quelle che sparano – ogni discussione sulle storie inventate resta solo rumore di fondo, un diversivo comodo, quasi colpevole.

Perché quel sistema non vive solo di omertà e intimidazione: vive di consenso, di complicità elettorale, di voti che vengono raccolti proprio grazie a quei legami. E fino a quando non si avrà il coraggio di chiamare le cose con il loro nome – senza giri di parole, senza eufemismi, senza distrazioni inutili -nessun cambiamento sarà reale! Sì… nessuno.

La confisca c’è, l’indagato pure. Ma chi ha permesso che accadesse? Quando lo strumento della legalità si incaglia nel suo stesso meccanismo.


C’è un’impresa, confiscata da anni, che è riuscita a muoversi come se nulla fosse cambiato.

C’è ora un processo, con richieste di condanne pesanti, e un pubblico ministero che si presenta in persona, segno che la materia non è secondaria, né accidentale.

C’è un nome che non serve citare, perché non è di quello che si tratta: quello che conta è che l’impresa abbia continuato a funzionare dopo la confisca, nonostante la confisca, quasi grazie alla confisca, se è vero che chi la doveva custodire ne è diventato parte attiva.

C’è un amministratore giudiziario oggi indagato per concorso esterno e peculato aggravato, e questo da solo basterebbe a far suonare un campanello: uno solo, ma forte.  

Eppure il punto non è neanche lui, già… il punto è che qualcuno, all’interno del Tribunale – non di Messina, bensì di Catania – avrebbe potuto, anzi avrebbe dovuto leggersi, una decina di anni fa, le segnalazioni che qualcun altro aveva depositato (per non voler aggiungere “protocollato) con cura, anche con timore, ma con la speranza che qualcosa cambiasse.

Non erano voci, non erano sospetti: erano documenti, date, firme, ma soprattutto circostanze concrete, inequivocabili.

Se qualcuno quei documenti li avesse letti e, soprattutto, li avesse presi sul serio, oggi non saremmo qui a sentire un Pm chiedere pene così alte per reati che, di fatto, potevano essere interrotti molto prima.

Chissà se, in questo momento, quel “qualcuno” – di cui si conosce nome e cognome, anche se non serve, in questa sede, scriverli – non stia controllando il telefono più del solito, non stia ripensando a scelte fatte o dovrei dire… non fatte, non stia misurando il rischio che la persona ora sotto processo, decida di parlare, non solo di ciò che ha fatto, ma di ciò che è stato permesso.

Non è fantasia, non è suggestione: è una possibilità che conoscono bene coloro che hanno seguito la vicenda fin dall’inizio, ne conoscono i passaggi, le omissioni, i silenzi che pesano più delle parole.

E forse –  per ora solo forse – c’è chi oggi, pur stando dentro le istituzioni, non sa più come muoversi: ogni passo rischia di incrinare non un singolo errore, ma un intero sistema fatto di sguardi bassi, di fascicoli chiusi in un cassetto, di silenzi scambiati per prudenza e di scelte giustificate come “opportunità”, ma che forse hanno radici più opache.

Chissà se una luce più insistente – quella, per dire, di un’inchiesta condotta con metodo e pazienza, lontana dal clamore ma vicina ai documenti – potrebbe finalmente illuminare quei meandri in cui la legalità si perde non per violenza, ma per omissione.

Non serve chissà quale rivelazione: a volte basta qualcuno disposto a voltare pagina, davvero, e a leggere fino in fondo.

C’è chi ieri ha parlato di estorsione, di violazione della pubblica custodia, di sottrazione di beni sequestrati – tutti reati gravissimi – e lo ha fatto con chiarezza, con rigore.

C’è chi ha confermato che l’impresa, nonostante la confisca, non ha mai smesso di operare sotto certe logiche…

C’è chi ha ascoltato, ieri, le arringhe della difesa, e chi ha notato l’assenza – significativa – di due parti civili che avrebbero dovuto esserci: l’Agenzia nazionale per i beni confiscati e il Comune. 

E c’è chi, leggendo tutto questo, non prova rabbia, non prova soddisfazione, ma un senso profondo di stanchezza morale: perché non è la prima volta, non sarà l’ultima… e ogni volta si ripete lo stesso schema. La denuncia arriva, qualcuno la riceve, nessuno la legge fino in fondo, oppure preferisce insabbiarla nell’ultimo cassetto.

Finché non è troppo tardi, fintanto che improvvisamente non diventa notizia, dopo che arriva un’inchiesta giudiziaria, un processo, sì… per ricordare ciò che un semplice atto di attenzione avrebbe potuto evitare.

Ma forse – mi viene ora da chiedere – andava bene così?

La grammatica del potere.


Buonasera. Mentre ascolto i telegiornali, nazionali e regionali, seguo l’inesorabile scandire delle inchieste e mi fermo a considerare la natura di quel potere che ci governa. Si muove attraverso referenti che si interfacciano con meccanismi illegali e silenziosi, quasi invisibili, eppure così profondamente incisivi per la comunità. La sua pressione è costante, simile a quella di un’infezione che si autoriproduce, giorno dopo giorno, senza bisogno di giustificarsi. E allora la domanda sorge spontanea, persistente: quanti altri anni dovremo attendere prima di ribaltare questo stato di fatto?

È proprio questa l’impressione che mi rimane, ascoltando ogni giorno le parole di quei giornalisti che ormai ripetono quelle notizie come se appartenessero alla normalità, come il bollettino meteorologico. E si osservino, quelle “cicale” intervistate, che offendono con la loro presenza le stesse istituzioni che dovrebbero rappresentare. Basta guardare i loro occhi nello schermo per comprendere quanto poco siano limpidi, quanta opacità vi sia nei loro sguardi.

Il dato più assurdo è che i miei connazionali sanno perfettamente che non si tratta di episodi isolati, non sono più responsabilità individuali da isolare e condannare. Quello che avviene da ormai troppo tempo è una pratica consolidata, una sorta di grammatica condivisa del comando. In questo lessico, la corruzione non è più un’anomalia, bensì il modo stesso in cui si parla, si decide, si progetta.

Non provano alcuna vergogna nel commettere certi reati alla luce del sole, o nel celarsi dietro appuntamenti furtivi in luoghi dove si sa non esserci telecamere. Oggi basta sedersi in un bar, mentre si prende un caffè, durante una telefonata amichevole. È in questi momenti, apparentemente innocui, che si decide quella cosiddetta consulenza “tecnicamente necessaria”, quell’incarico che arriva dopo anni di fedeltà silenziosa.

È una corruzione che non ha paura, anzi si espone affinché tutti vedano e, in un certo senso, “comprendano” come stanno le cose. Del resto, questi soggetti sanno bene di poter fare affidamento su chi li sta osservando. Perché anch’essi, compromessi da quel sistema clientelare, sono gli stessi individui che proteggono quella struttura. Non solo con complicità tacite, ma attraverso un’intera architettura di relazioni, di debiti, di promesse non dette ma perfettamente comprese.

Parlo di una corruzione che non imbarazza più nessuno, perché ormai fa parte del contesto. Come il rumore di fondo in un bar, come una porta chiusa in un ufficio pubblico. Sì, come il silenzio dei cittadini che hanno imparato, con il tempo, a non chiedere spiegazioni e soprattutto a non fare domande.

Eppure, tutti sanno cosa vi sta dietro. Vivono ogni giorno quanto avviene nel proprio ambito professionale, sono perfettamente consapevoli del comportamento disonesto che viene messo in campo. Dal più umile lavoratore qualificato al più alto dirigente che si presta a concedere proroghe insensate, dietro una gara fatta su misura, dietro ogni nomina che appare più legata a un ringraziamento che a una competenza.

In tutto ciò che avviene intorno a noi, c’è sempre qualcosa di più grave del semplice malaffare. C’è la costruzione, pezzo dopo pezzo, di un sistema in cui non si vince per merito, ma per appartenenza. Non si cresce per capacità, ma per obbedienza. Non si leggono più i curriculum, e ancor meno si chiede “cosa sai fare”. Perché tutto gira intorno alla persona che ha fissato quel colloquio, la stessa a cui successivamente – a seconda da quale parte della scrivania ci si trova – si dovrà dare, o ricevere, qualcosa.

E così gli anni passano. Senza colpo ferire, si smantella ogni idea di futuro collettivo, di equità sociale, di contrasto all’illegalità. Il tutto viene sostituito da una gestione sterile del presente, in cui il potere non costruisce, non innova, non investe. Semplicemente, come un cancro, si riproduce. Anno dopo anno, progetto dopo progetto, genera dipendenza anziché opportunità, conformismo anziché partecipazione.

Allora mi chiedo: cosa resta a chi, come me, non vuole piegarsi? A chi ancora prova a guardare la propria terra con occhi non rassegnati? Forse nulla. Sì, serve a poco nominare le cose con il loro nome: una corruzione sistemica, diffusa, quotidiana. Resta, è vero, la possibilità di chiedere giustizia, non solo nei tribunali ma anche nelle piazze. Sempre più esigue e con una partecipazione che di solito non nasce dal desiderio di far sentire una voce per il bene comune, ma per un tornaconto esclusivamente personale. Sì… per quell’orticello che minaccia scioperi in cambio di un aumento, di una riforma fiscale, e appena, da quei governi, si ha la certezza di aver ottenuto quanto richiesto, ecco che, prese le briciole, si torna felicemente a casa.

Per fortuna, qualcosa di quella protesta autentica resta. Non nelle parole riportate dalle testate dei giornali o in certe pagine web, solitamente nelle mani di imprenditori fortemente collusi con il sistema, ma nei blog, nei commenti, nelle email che ancora, per fortuna, vengono scambiate tra cittadini liberi e moralmente onesti. Certamente stanchi, ma non ancora rassegnati.

Sì, a noi esigui paladini resta la possibilità di ricordare a tutti quei ragazzi – non ancora infettati dal sistema e, ahimè, a volte dai propri familiari – che la legalità non è un optional morale, ma il fondamento stesso della dignità umana e di una comunità che vuole restare tale. Senza di essa, tutto il resto serve solo da decoro superficiale. Quanto a me, se proprio devo mostrarmi, preferirei esser ricordato come chi ha combattuto per la giustizia sociale, piuttosto che come uno spettatore compiacente.

Perché, in fondo, non è la presenza della corruzione a fare più paura, quella, sapete bene, in forme diverse c’è sempre stata. È la sua normalizzazione a essere spaventosa. Quell’assenza di indignazione, di domande, di quella sana e irriducibile insofferenza che dovrebbe animare chiunque abbia a cuore la vita comune.

Ecco perché continuo a scrivere. Non per ricevere contributi finanziari, né per obbligare il lettore a piegarsi a logiche promozionali. Ancora meno mi serve stimolare clamore o accumulare notorietà. Non sarà mai il numero dei follower a far accrescere la mia, già personale, autostima. Continuo a scrivere per denunciare, per segnalare, per far svergognare qualcuno, o più di uno. Non perché sia certo di riuscire a cambiare questo stato di fatto. Ma perché, finché qualcuno lo fa, qualcosa, da qualche parte, non è ancora morto del tutto.

Catania: Un primato che brilla, sì… di oscurità!


Ed ecco che la conferma arriva puntuale e inesorabile come un tramonto sull’Etna: non resta che sedersi, come quel signore disteso sul tavolo del mio quadro, a contemplare un paesaggio dietro di sé, bellissimo, incandescente e inesorabilmente immobile, mentre intorno tutto precipita…

Il dato sulla “qualità delle amministrazioni locali” ci ha regalato un balzo degno di un’atleta specialista in fuga all’indietro: ultimo posto nazionale.

Non un passo falso, non un infortunio momentaneo, no… un vero traguardo. Il risultato di un anno in cui sguardi alti e maniche basse hanno lavorato in perfetta sincronia, come due ingranaggi oliati dalla rassegnazione, per produrre quel piccolo miracolo che solo l’incuria, coltivata con metodo, può portare a compimento.

Nella classifica generale sulla qualità della vita, siamo scivolati al 96° posto, tredici gradini verso il basso, con la grazia di chi scende una scala mobile rotta senza neanche accorgersene. E mentre sprofondiamo, a brillare beffardamente c’è solo la nostra illuminazione pubblica sostenibile, premiata come faro nel buio.

Peccato che quel faro, per chi percorre la tangenziale davanti all’aeroporto Fontanarossa – vedasi quanto ho scritto a suo tempo al link: http://nicola-costanzo.blogspot.com/2024/07/sindaco-e-assessorato-alla-viabilita.html – sia ancora un’ipotesi astratta. Forse chi ha redatto il report non ha mai guidato di notte da quelle nostre parti, o forse semplicemente ha scelto l’illuminazione metaforica, quella che si accende un attimo prima di chiudere il documento.

Alla voce ambiente e servizi il crollo è stato “solo” di sette posizioni – una sorta di applauso di consolazione da parte del destino, ma la vera opera d’arte – quella che meriterebbe un allestimento in una galleria di performance tragicomiche – è il tracollo in demografia e società: trentacinque posizioni in meno, un record da Guinness dell’apatia collettiva.

Sì… moriamo di più di tumori, usciamo prima da scuola, come se il sapere fosse un bagaglio troppo pesante da portare oltre la terza media. Eppure, per un paradosso degno di Pirandello, continuiamo a fare figli e abbiamo pochi anziani a carico. La nostra gioventù, così, ha tutto il tempo del mondo per assistere in diretta al declino… con comodo, seduta in prima fila, magari sgranocchiando popcorn forniti dalla rassegnazione generazionale.

E il lavoro? Siamo al 98° posto! Le imprese qui falliscono più che altrove, ma almeno le pensioni di vecchiaia scarseggiano, forse perché qui si invecchia più in fretta, forse perché la pensione arriva solo dopo aver superato l’esame di realtà…

E la giustizia? La sicurezza? Be’, quelle sono le colonne portanti della stabilità: stabili nella mediocrità, solide nella precarietà, un esempio raro di coerenza amministrativa.

Insomma, una cosa sola possiamo dire con certezza, in mezzo a questo mare di oscillazioni: la nostra capacità di confermare il peggio è straordinariamente affidabile. Una costante, in un universo di variabili.

Naturalmente, a commentare il disastro ci pensa la politica – in particolare l’opposizione, che declama con la solita litania: “destra”, “scelte miopi”, “mancanza di visione”. Hanno ragione, certo… ma viene da chiedersi, mentre snocciolano dati con la solennità di chi fa finta di meravigliarsi, di non sapere, quando a quei loro stessi discorsi non è mai seguita un’azione chiara (con il rischio di dover perdere la propria poltrona…) se non ribadire ciò che oggi suona, come un déjà vu, le solite chiacchiere in salsa catanese.

Perché il problema, vedete, non è solo di chi oggi amministra – no… non sto parlando della criminalità organizzata, quella è un’altra storia, troppo nota per essere rievocata qui come se fosse un colpo di scena in una serie già vista – il vero dramma è quel coro muto di assenze: di responsabilità scaricate, di competenze dimenticate, di promesse che evaporano come la pioggia sulla lava rovente.

Da quando sono arrivato in questa città, i problemi sono rimasti sempre gli stessi, come vecchi mobili impolverati che nessuno butta via perché “tanto, prima o poi serviranno”. Sì… son cambiati i volti – quasi mai i cognomi – a volte le sigle di partito, ma la musica no… quella è sempre la stessa, un valzer lento e stonato, dove chi non balla viene guardato come un intruso. Del resto, come recita una delle massime più sagge di questa terra: se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi.

E i cittadini? Niente… loro semplicemente ballano. Cambiano casacca con la disinvoltura di chi sa che il vero potere non è nelle idee, ma nelle file. Si rivolgono a chi è appena salito sul carro dei vincitori, non per convinzione, ma per sopravvivenza, per ottenere un posto, per sbloccare una pratica, per comprare un silenzio. E intanto, passo dopo passo, accompagnano quotidianamente con le proprie azioni quel carro, con la tranquilla consapevolezza che, “sì… così è più comodo”… per tutti!

Tranne, forse, per quel signore disteso sul tavolo. Lui sembra aver capito che comodo non vuol dire giusto, ma solo più lento. E che, prima o poi, anche il tramonto sull’Etna finisce. Poi – ahimè – viene il buio. Già… quello vero.

Il silenzio che fa affari…


È sera e il sole sta scendendo lentamente – sono costretto a una deviazione fastidiosa, sì: lavori in corso sull’autostrada, anticipati poco prima da un ragazzo al distributore, e ora, da lontano, osservo le macchine che stendono l’asfalto, i fari accesi nonostante il crepuscolo non sia ancora buio – e già la mente corre in avanti, a ciò che accadrà tra qualche ora o al massimo domani: le strisce di vernice fresca, i cartelli piantati in tutta fretta, le indicazioni stradali ancora coperte da un telo trasparente – quante volte abbiamo visto quella scena, identica, ripetuta con una precisione quasi teatrale, come se fosse parte di un copione ben collaudato.

E così mentre la macchina procede purtroppo a passo d’uomo a causa della confusione venutasi a creare, ripenso a tutti quei cantieri aperti, chiusi, riaperti, mai davvero conclusi – come se il cantiere non fosse il luogo dove si costruisce qualcosa, ma piuttosto uno spazio sospeso, un palcoscenico mobile in cui il lavoro vero è secondario rispetto alla circolazione di altro: denaro, favori, silenzi. 

Eppure nessuno protesta, nessuno chiede, a partire da chi, per incarico istituzionale, dovrebbe farlo per primo – e non lo fa per ignoranza, ma perché sa che porre certe domande, ad alta voce, significherebbe accendere una luce troppo forte in un luogo dove tutti hanno imparato a muoversi al buio e quella luce, invece di illuminare, rischia di bruciare chi la tiene accesa.

Del resto, se così non fosse, non avremmo di continuo quelle inchieste giudiziarie ormai familiari, quelle che parlano chiaro pur usando un linguaggio cauto, quasi smorzato, come se ogni parola dovesse essere pesata non per la sua verità, ma per le conseguenze che potrebbe scatenare – e così, nei documenti, i nomi dei protagonisti veri restano assenti, sostituiti da sigle, ruoli generici, frasi passive – l’appalto è stato aggiudicato, la variante è stata approvata, come se nessuno avesse deciso, nessuno avesse firmato, nessuno avesse guidato la mano di chi ha scritto. 

Eppure c’è sempre stato qualcuno, in piedi dietro la scrivania, che ha organizzato, indirizzato, protetto e ora, messo sotto torchio, si ritrae, si fa piccolo, parla poco, non detta più regole con la stessa sicurezza di un tempo, anzi si comporta come se fosse lui la vittima di un equivoco.

Resta in penombra, certo, in attesa che la tempesta passi, convinto, forse non a torto, che passerà davvero, e che alla fine tornerà tutto come prima, perché intorno a lui c’è un sistema che non si limita a proteggerlo: lo alimenta, lo rigenera, lo rende necessario. 

I suoi amici – o meglio, i suoi alleati – faranno di tutto pur di non restare impigliati a loro volta: firmeranno pareri, produrranno certificazioni, condivideranno versioni alternative dei fatti, perché la priorità non è la trasparenza, ma la sopravvivenza del meccanismo, e quella struttura ha bisogno di opacità, di silenzi compiacenti, di opportunità che si ripetono con la regolarità di un orologio difettoso ma affidabile.

Mi torna spesso in mente una frase, pronunciata da chi conosce quei meccanismi dall’interno: non è più la corruzione che urla, è quella che sussurra – quella educata, discreta, quasi istituzionalizzata, che avanza con le scarpe pulite e il lessico impeccabile di chi sa usare le procedure come schermo – tecnicismi al posto di scelte, pareri al posto di responsabilità, carte in regola al posto di sostanza.

È una corruzione silenziosa, che non ha più bisogno di bustarelle: le ha rese superflue, sostituendole con tempi che si dilatano oltre ogni plausibilità, con varianti in corso d’opera che nascono non per necessità tecnica, ma per convenienza amministrativa, con gare formalmente regolari in cui, però, nessuno sembra voler gareggiare davvero – come se il risultato fosse già scritto altrove. È una corruzione che si mimetizza tra le pieghe della legalità: ditte che vanno a vincere appalti in regioni dove non hanno sede, non hanno nemmeno una baracca, figuriamoci un addetto, eppure si aggiudicano opere milionarie, per poi affidarle a terzi, spesso piccole imprese locali, pagandole un terzo di quanto incassano loro stesse dal committente pubblico. Il risultato? Un meccanismo virtuoso solo per chi lo pilota: più costi, meno trasparenza, zero controllo e un po’ di mazzette che girano di mano in mano. 

Eppure qualcuno osserva, sì… qualcuno incrocia quei dati, anche se non presenta denunce, non per rassegnazione, ma per lucida consapevolezza: sa da tempo come un esposto formale, in certi contesti, non è un atto di giustizia, ma un invito a essere neutralizzato. Allora sceglie un’altra strada: verifica chi ha vinto, chi ha perso, chi compare sempre nelle stesse gare, chi firma le relazioni tecniche, chi approva le varianti, chi sta in silenzio quando qualcosa non torna ed usa quegli strumenti per farli emergere attraverso i media, i social e soprattutto quei programmi televisivi che hanno fatto la storia di questo Paese, sì… nell’ambito del giornalismo investigativo.  

Non serve gridare nomi, non solo perché sarebbe inutile, ma perché il problema non sono gli individui, sono i meccanismi che li proteggono, li riproducono, li rendono intercambiabili. Basta guardare la “White list” delle imprese ammesse, redatta da chi avrebbe dovuto vigilare e invece ha delegato ogni verifica a una firma in calce: senza chiedersi chi c’è realmente dietro quelle società, quali legami, quali precedenti, quali silenzi comprati in anticipo. Sì… certo, i documenti sono in regola, ma la regolarità formale è spesso la maschera più efficace dell’illegalità sostanziale!

Allora questa terra continua a scivolare, non con un crollo improvviso, ma con una serie infinita di piccole cessioni: un silenzio qui, un compromesso là, un occhio chiuso oggi nella speranza di un favore domani. E qualcuno, incredibilmente, chiama tutto questo buonsenso, realismo, quieto vivere, come se il quieto vivere fosse il diritto di non vedere, di non sapere, di non dover scegliere.

Non vedo, non sento, non parlo e così, dopo anni di osservazione, di domande senza risposta, di segnalazioni cadute nel vuoto, mi chiedo, senza retorica e ancor meno enfasi: verrà mai qualcuno che deciderà, semplicemente, di non voltarsi dall’altra parte?

Non credo proprio…

Il condominio tradito: malagestione, collusioni, giustizia che tarda!


Riprendo stamani a parlare di un tema che, pur essendo quotidiano per molti, viene spesso taciuto finché non diventa insostenibile.

Mi riferisco alla gestione dei condomini, un ambito che dovrebbe garantire tranquillità e sicurezza e che invece troppo spesso si trasforma in una trappola silenziosa, dove chi paga regolarmente finisce per accollarsi debiti a tre zeri, cifre che mai avrebbe immaginato di dover sostenere.

Già… perché quanto accade il più delle volte non sono errori contabili banali, ma veri e propri buchi neri creati con metodo sofisticato: bilanci infedeli, oneri fiscali mai versati, decreti ingiuntivi occultati, spese senza giustificazione alcuna, registri compilati in modo da rendere impossibile qualsiasi verifica. Tutto avviene nell’ombra, fino a quando non è troppo tardi.

Ecco che così la casa, questo rifugio intimo, si svela all’improvviso un campo minato. Chi si è sempre comportato con correttezza si trova a dover pagare per gli altri, non solo i morosi – che pure esistono – ma soprattutto per chi, pur ricevendo regolarmente i contributi di tutti, li ha dirottati altrove. Non è una svista, non è una distrazione: è una strategia!

Si gonfiano le fatture, si pilotano gli appalti per le manutenzioni, si incassano somme in contanti, si usano i beni comuni per servizi privati, si baratta quella gestione – in particolare quando le proprietà si trovano in località turistiche note, di montagna o di mare – con favori ad amici, funzionari, dirigenti, talvolta persino forze dell’ordine, affinché possano godersi, insieme ai propri cari, periodi gratuiti di villeggiatura, in cambio di silenzi compiacenti.

E quando i conti non tornano, la colpa come sempre ricade sempre sui condomini: “non avete controllato”, “non avete partecipato all’assemblea”, “non avete chiesto copie”, come se aver fiducia fosse un reato.

Ed è qui che inizia la seconda fase, quella ancora più amara. Quando qualcuno prende coraggio, presenta un esposto, denuncia, chiede l’intervento delle autorità, si scontra con un sistema che sembra progettato per logorare la pazienza, la salute, le risorse. Gli anni passano, le udienze vengono rinviate per motivi futili, gli incartamenti giacciono in attesa di essere letti – e nel frattempo, chi ha commesso gli atti non è sospeso, non è allontanato, i suoi beni (e quelli dei familiari) non vengono sequestrati. Tutto continua a operare, magari con un nuovo nome, un parente, un prestanome, un socio di comodo.

Sono veri e propri esperti: sfruttano i vuoti normativi, come l’assenza di limiti chiari sui movimenti tra conti condominiali, e creano un caos tale che persino il successore, per tentare di ricostruire i conti, deve affidarsi a un revisore esterno. Eppure, di fronte a spostamenti di centinaia di migliaia di euro, a conti ridotti a otto euro nonostante i pagamenti regolari di tutti, la reazione istituzionale è spesso un silenzio assordante.

Perché dietro quelle cifre non c’è solo un’amministrazione negligente, ma vere truffe – specie quando si inseriscono voci fittizie per indurre in errore e ottenere un profitto illecito. C’è appropriazione indebita, ogni volta che si utilizza il denaro comune come se fosse proprio. C’è danno all’erario, quando si omettono versamenti obbligatori sperando nella prescrizione o in una futura sanatoria. C’è bancarotta fraudolenta, quando si crea un buco deliberato per trarne vantaggio personale.

E in casi estremi, quando l’organizzazione è ramificata e coinvolge più soggetti, emergono elementi che configurano vere e proprie associazioni a delinquere – specie se a fare da sfondo sono meccanismi di riciclaggio, estorsione, o tentativi di accedere a fondi pubblici con documenti falsi. In questo contesto si innesta una gravissima circostanza di cui nessuno vuole parlare: molti di quegli immobili, in particolare quando si trovano in località isolate e soprattutto nei periodi “fuori stagione”, cioè quando non sono utilizzati dai proprietari e molte volte restano in mano all’amministratore per la gestione insieme ai cosiddetti “beni comuni”, probabilmente questi sono stati utilizzati dalla criminalità organizzata per celare chissà… anche “latitanti”.

Eppure, il cittadino che denuncia viene spesso isolato, ridicolizzato, talvolta minacciato. Vi sono assemblee che degenerano in aggressioni fisiche. Vi sono amministratori che, anziché consegnare i registri all’amministratore giudiziario nominato dal Tribunale, li affidano a terzi o li fanno sparire, denunciandone il furto – rendendo così impossibile qualsiasi transizione legale.

E non solo: vi sono uffici delle autorità competenti – per fortuna non tutti; tra essi vi è anche chi opera in maniera puntuale e corretta – che, pur ricevendo esposti dettagliati e documentati, li archiviano come “beghe condominiali”, come se non sapessero che un condominio con un migliaio di unità ha un bilancio superiore a quello di molti comuni. Come se non dovessero sapere che, in assenza di trasparenza, ogni assemblea può diventare un teatro di coercizione, ogni convocazione un atto di potere.

Quindi, non basta dire che servono figure professionali riconosciute; serve a poco ipotizzare un elenco nazionale, se non si parte da un filtro reale: carichi pendenti puliti, casellari giudiziari verificabili, obblighi societari applicati con la stessa severità di qualsiasi altra impresa. Un condominio non è un’entità astratta: è una comunità, è un patrimonio collettivo, è spesso una piccola società con entrate, spese, dipendenti, fornitori, obblighi fiscali. E come tale va trattato, con regole chiare, controlli efficaci, sanzioni certe.

La legge offre strumenti – il diritto d’accesso ai documenti, la revoca giudiziaria, la querela per truffa, la nomina di un revisore – ma sono inutili se non si accompagna a un cambio di mentalità. Se non si smette di considerare legittimo ogni silenzio, ogni delega in bianco o falsificata, ogni voto espresso per compiacere chi ha fatto un favore. Se non si accetta che il diritto di critica, anche aspro, è un dovere, non un’aggressione. Se non si capisce che una convocazione infilata sotto la porta non ha valore, che un amministratore che non consegna i registri commette un reato, che ogni condomino ha il diritto di sapere, di chiedere, di opporsi.

Alla fine, il problema non è la complessità della norma, ma la facilità con cui si accetta che la legge valga solo per chi non ha potere. E finché sarà così, la casa non sarà mai davvero un rifugio. Sarà solo il luogo in cui ci si sente in trappola – e dove chi ha le mani in pasta, come dice un vecchio detto, “non pinia”.

Confiscare sì, ma senza dimenticare chi ha pagato per farlo!


Da anni si parla di confisca come di qualcosa di simbolico, un gesto pubblico che rappresenta una sorta di rito laico della giustizia, in cui beni vengono sottratti a chi li ha accumulati con l’inganno, i raggiri, le truffe, ma anche le complicità silenziose di referenti istituzionali corrotti e di esponenti della classe politica, cui si aggiungono, in taluni casi, referenti criminali che, con metodi coercitivi, hanno alterato la libera concorrenza, il tutto per consegnare idealmente alla collettività – come se la restituzione fosse già avvenuta solo perché un cancello è stato riaperto e una targa cambiata – una società insediata al posto di un sistema criminale.

Ma, consentitemi di dire che tra quel simbolo e la vita reale c’è una distanza abissale, fatta di scartoffie, di silenzi burocratici, di procedure che avanzano con la lentezza di chi non ha fretta, di chi purtroppo ha paura o teme ritorsioni personali e familiari nel dover gestire quei beni, pur sapendo che non è lui a dover rischiare di non pagare l’affitto, di non poter curare i propri dipendenti, di dover spiegare ai propri cari perché il lavoro che credeva stabile è svanito insieme a tutti i benefici finora ricevuti.

Perché lui è lo “Stato”, ed è stato messo lì per gestire gli altrui beni, e poco importa se la procedura sia legittima o meno: saranno i successivi gradi di giudizio a stabilirlo. Il suo unico compito è fare in modo che quei beni vengano gestiti, e poco importa se l’impresa riuscirà ad andare avanti, perché fintanto che esiste qualcosa da prendere, da spartire, da affidare, ben vengano sequestri e confische: sono garanzia di attività per molti professionisti, ciascuno legato a filo diretto con quel Tribunale che si occupa della gestione di quei beni – mi riferisco a figure come magistrati, custodi giudiziari, amministratori nominati e via dicendo.

Abbiamo letto, in questi anni, quanto accaduto a Palermo con l’inchiesta sull’ex Presidente dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati, anche se va detto che l’ultima sentenza, del 19 ottobre scorso, della sesta sezione penale della Cassazione ha cancellato quasi una ventina di capi d’imputazione relativi a quel presunto Sistema, ovvero a quel giro di mazzette e favori legato all’affidamento delle amministrazioni giudiziarie dei beni confiscati alla mafia. Al momento è impossibile dare una risposta definitiva, perché mancano ancora le motivazioni della decisione della Suprema Corte, ma un dato è evidente: dei 74 capi d’imputazione inizialmente contestati all’ormai ex magistrato, ne sono sostanzialmente rimasti in piedi tre, per corruzione e concussione.

Permettetemi, tra l’altro, di aggiungere quanto ho letto stamani su un amministratore giudiziario coinvolto in un’inchiesta nella provincia di Messina, attualmente ai domiciliari con braccialetto elettronico, dopo che la Corte di Cassazione ha rigettato il suo ricorso, confermando il quadro indiziario e mantenendo invariata la misura cautelare.

Da quanto sopra emerge con chiarezza che la gestione da parte dei Tribunali dei beni sequestrati e successivamente confiscati è stata, di fatto, fallimentare sotto tutti i punti di vista: non sto qui a elencarli, sebbene li conosca perfettamente.

Difatti, proprio il sottoscritto – che ha denunciato, che ha insistito, che ha anticipato le spese per una procedura fallimentare che nessuno voleva avviare, perché, a dir di molti, tanto sarebbe finita male comunque – ancora oggi, incredibilmente (ma non sorprendentemente… in un sistema clientelare e mafioso), si ritrova in una posizione grottesca: sono un creditore privilegiato, sì, ma privilegiato solo sulla carta, perché quel riconoscimento non è riuscito finora a farmi ricevere quanto mi è dovuto – seppure è proprio grazie al sottoscritto che si è riusciti a recuperare quasi 500.000 euro tra fatture a suo tempo non pagate e beni venduti nel corso della procedura. 

A tal proposito però desidero rendere un doveroso plauso al curatore fallimentare, per il lavoro svolto fin qui: auspicando che porti a termine la sua attività con la stessa professionalità e correttezza dimostrate sino ad ora – tanto che, una volta conclusa la vicenda, farò in modo che il suo operato sia conosciuto, anche attraverso il mio blog, citando espressamente il nome dell’avvocato che sta seguendo la procedura. Mi sento di farlo perché, rispetto a quello che abbiamo purtroppo constatato negli anni – troppi suoi colleghi, infatti, hanno finito per lasciare alle spalle solo vuoti e silenzi, quando non qualcosa di peggio – questa volta la gestione appare diversa, concreta e soprattutto trasparente.

Desidero però riconoscere anche il ruolo che ho avuto personalmente in questa vicenda: senza la mia iniziativa, senza le denunce presentate a mie spese, senza la tenacia – solitaria, ma mai rassegnata – di chi ha scelto, da sempre, di non voltarsi dall’altra parte, è lecito affermare con certezza che molte di quelle confische non sarebbero neppure state avviate, molti di quei patrimoni sarebbero rimasti intoccati, e la maggior parte di quelle condanne non avrebbero avuto neppure un fascicolo d’archivio.

Va detto che la Cassazione, con la sentenza 37200 del 14 novembre scorso, ha provato a correggere un difetto strutturale: non basta che il credito nasca prima del sequestro, serve che sia accertato in tempi utili, e questo accertamento non può dipendere solo dalla rapidità di un avvocato o dalla disponibilità economica di un cittadino.

Ma la sentenza, per quanto importante, non risolve il problema di fondo, che non è giuridico, ma culturale: finché resterà implicito, in molti uffici, in molte stanze dove si decidono le destinazioni dei beni, che chi si espone è un ingenuo, che chi denuncia è un rompiscatole, che chi pretende giustizia è un problema da gestire più che un diritto da tutelare, allora non cambierà nulla, neanche con cento sentenze.

Perché la confisca, quando funziona davvero, non è solo la sottrazione di un bene, ma il riconoscimento di un torto, la restituzione di un’opportunità, la riammissione di una persona alla dignità di chi ha fatto la sua parte e merita di vederne il frutto.

Invece, ancora oggi, chi ha pagato di persona, chi ha rischiato sul serio, chi ha messo in gioco non solo la propria professione ma anche la propria credibilità, si sente dire che deve aspettare, che deve capire, che ci sono procedure, che bisogna rispettare le priorità, come se la priorità non fosse mai stata, fin dall’inizio, la sua voce, il suo coraggio, la sua scelta di non tacere.

E intanto i beni confiscati entrano in circuiti dove, talvolta, si annidano nuove forme di opacità: consulenze vengono affidate non per competenza ma per vicinanza, le liste dei beneficiari assomigliano più a un elenco di fedeltà che a un piano di riuso sociale, e chi ha denunciato si trova ad attendere invano – non perché non abbia diritto, ma perché, pur avendolo per primo, essendo stato l’unico e il solo ad esporsi in prima persona, viene scavalcato da chi ha atteso, da chi faceva parte — e poi si è celato — direttamente o indirettamente, di quell’orticello, e che dunque dovrebbe attendere, o quantomeno trovarsi in fondo alla fila, nell’equa suddivisione che tanto si invoca.

Non si tratta di dover veder riconosciuti meriti, ancor meno riconoscimenti pubblici – finora, per quanto compiuto, non ne ho mai ricevuti, a eccezione di qualche nota di merito che ricorre, quasi a ogni piè sospinto, nelle sentenze – ma si tratta, semplicemente, di essere coerenti: se lo Stato usa lo strumento della confisca per affermare che la legalità ha un valore reale, allora quel valore deve valere anche per chi ne è stato il primo custode, non solo per chi ne gestisce le conseguenze una volta che il rischio è passato.

Altrimenti, e lo sappiamo bene, la confisca resta propaganda, una cerimonia, un’immagine da cartolina, mentre la giustizia resta fuori, in attesa, con le tasche vuote e la pazienza logorata da cinque anni di silenzi che non sono casuali, ma strutturali.

Perché il vero fallimento, oggi – e lo confermano le sentenze del Tribunale – è quello del sistema che continua a premiare chi si muove dentro le sue maglie e a punire chi prova a rammendarle.

E ogni volta che un creditore come me rimane in attesa, non è solo una pratica in sospeso: è un segnale che arriva chiaro a chi vorrebbe fare lo stesso e si ferma un attimo prima, perché sa già come va a finire.

Forse, allora, la prossima riforma non riguarderà solo le tempistiche delle ammissioni al passivo, ma qualcosa di più delicato: la fiducia.

Perché quella che si è persa in cinque anni di attesa – e che nessuna sentenza, per quanto giusta, potrà mai restituire – è la fiducia in questo Stato e nelle sue Istituzioni. Ed è il motivo per cui non mi sento più di dover collaborare con chi richiede al sottoscritto informazioni, documenti protocollati, ma ahimè andati persi all’interno di quei palazzi: gli stessi documenti che, se invece di essere insabbiati nell’ultimo cassetto fossero stati portati alla luce, avrebbero reso inutili molte di quelle inchieste oggi condotte da talune procure nazionali.

Ma chissà… forse lo Stato – soprattutto chi lo rappresenta – non teme le voci, ma il loro contrario: vuole che quei pochi cittadini ancora onesti, col tempo, imparino a tacere. Già… proprio come tutti gli altri!

25 Novembre: una data importante che interroga le nostre coscienze…


Ripropongo oggi un post che avevo scritto ieri, 25 novembre, una data che si ripete ogni anno con il suo carico di dolore e di moniti. È una giornata in cui le bandiere sventolano a mezz’asta per le donne che non ci sono più, un promemoria collettivo che dovrebbe scuoterci dal torpore.

Eppure, ogni volta che questa ricorrenza ritorna, mi chiedo quanto sia profonda la distanza tra le parole che pronunciamo e la realtà che continuiamo a tollerare.

Leggi vengono approvate, decreti si susseguono, eppure il fiume di sangue non si arresta. Si discute di braccialetti elettronici, di ammonimenti, di inasprimenti delle pene, come se la violenza fosse un problema di ingegneria sociale da risolvere con un regolamento più severo. Ma il cuore del male rimane intatto, protetto da un muro di indifferenza e da una cultura che fatica a riconoscere l’odio per quello che è.

Ci hanno detto che settantacinque coltellate non sono crudeltà, ma solo inesperienza. Una sentenza che sembra uscita da un racconto distopico, dove la sofferenza più atroce viene ridotta a una mancanza di pratica, come se il male avesse bisogno di un manuale di istruzioni.

Questo non è un errore giudiziario, è il sintomo di una malattia culturale che pervicacemente si rifiuta di vedere la violenza maschile per quello che è. Non un raptus, non un incidente di percorso, ma un meccanismo di potere, un linguaggio tossico fatto di possesso e di distruzione. Un sistema che, di fronte all’evidenza più macabra, continua a cercare attenuanti, a chiamare l’odio con nomi più gentili, come “delirio” o “eccesso passionale”.

Finché continueremo a farlo, finché la crudeltà dovrà essere dimostrata come un optional e non l’essenza stessa del femminicidio, allora nessuna legge basterà. Perché le leggi possono condannare, ma solo la cultura può riconoscere e prevenire. Ci illudiamo che un provvedimento legislativo possa essere la panacea, mentre il problema affonda le sue radici in un terreno incolto, dove sono assenti l’educazione al rispetto e l’alfabetizzazione emotiva.

Sono gli uomini che odiano le donne, perché hanno paura di loro, della loro forza, della loro intelligenza, della loro libertà. Vedono il rapporto non come una crescita comune, ma come una sfida da vincere, un territorio da dominare. A me, nella mia vita, è sempre stato chiaro che le donne vanno solamente amate, già, per come ho fatto io in tutta la mia vita. È una verità semplice, che dovrebbe essere il fondamento di ogni rapporto.

E allora viene da chiedersi, cosa dovrà ancora succedere. Quante Giulia, quante vite spezzate dovranno ancora attraversare le nostre cronache prima che si ammetta l’ovvio. Che non esiste una violenza contro le donne normale, che ogni femminicidio è già di per sé un atto di crudeltà inaudita. E che finché continueremo a sminuirla, a cercare scappatoie, a chiamarla con altri nomi, nessuna donna sarà mai al sicuro.

L’invito a non voltarsi dall’altra parte, a denunciare, a intervenire, rimane un imperativo categorico. Perché il silenzio e l’indifferenza uccidono tanto quanto un pugnale. E forse, è proprio questa indifferenza la complicità più grande, quella che permette a tutto questo di ripetersi, anno dopo anno, in una data che dovrebbe ricordarci un impegno, e che invece rischia di diventare solo una triste liturgia della nostra incapacità di cambiare.

Disparità giudiziarie e opacità amministrative condominiali: il potere di chi sceglie di non tacere!


Mi è capitato (ahimè) in questi ultimi anni, di osservare con crescente amarezza come, in certi contesti giudiziari, il sistema si muova con la prontezza di una “Formula 1”, mentre altrove, di fronte a vicende ben più gravi, ho assistito a un’inerzia sconcertante, se non a una vera e propria indulgenza strutturale.
Prendete il caso di Palermo: un ex amministratore di condominio, responsabile di oltre trenta stabili, finisce agli arresti domiciliari e il giudice per le indagini preliminari, su richiesta della Procura, dispone immediatamente il sequestro preventivo di quasi duecentomila euro, presunto profitto dei reati contestati: appropriazione indebita e autoriciclaggio.

Le indagini, coordinate dalla sezione di polizia giudiziaria della Guardia di Finanza e guidate dal colonnello Antonio Campo, nascono da cinque querele presentate da altrettanti rappresentanti di condomini, insospettiti da ammanchi emersi nel passaggio tra vecchio e nuovo amministratore.

Secondo le indagini non si tratta di sviste contabili, ma di un meccanismo organizzato: rendiconti falsificati, surplus creati ad arte, somme convogliate su conti personali, poi suddivise tra carte prepagate intestate all’indagato e alla moglie, infine spese su piattaforme di gioco online – una a Malta, l’altra in Italia. L’analisi dei flussi finanziari ha ricostruito con chiarezza il percorso del denaro, come un filo che non si spezza, ma si attorciglia intorno a scelte precise, calcolate.

Eppure, proprio mentre leggevo il comunicato stampa di questa operazione – tanto esemplare quanto rara nella sua efficienza – non ho potuto fare a meno di confrontarla con quanto accade altrove: inchieste pendenti che sono durate anni, beni mai sequestrati, professionisti coinvolti in condotte amministrative e finanziarie gravissime, eppure mai sottoposti a misure analoghe, nemmeno lontanamente paragonabili.

Alcuni di quei casi hanno visto addirittura il Tribunale competente nominare un amministratore giudiziario – segno inequivocabile del livello di gravità raggiunto – eppure, al di là della forma giuridica, la sostanza si dissolve in una gestione opaca, dove le responsabilità si smorzano, le sanzioni si annacquano, e ciò che dovrebbe apparire intollerabile finisce per essere tollerato, quasi normalizzato.

Ho espresso più volte, anche in esposti ufficiali, il mio profondo disagio di fronte a certe leggerezze operative – a decisioni prese come se stessimo parlando di bollette dimenticate, non di risorse sottratte a comunità, spesso fragili, di persone che pagano regolarmente per vedersi poi private dei servizi essenziali.

Non credo più – per esperienza diretta – che si tratti soltanto di differenze procedurali o di carichi di lavoro diseguali. C’è qualcosa di più profondo: una sorta di geografia morale dei tribunali, dove la pressione politica, le infiltrazioni mafiose, e talvolta anche la presenza discreta ma capillare di logge massoniche, finiscono per piegare l’applicazione della legge verso esiti divergenti.

Lo dico senza enfasi polemica, ma con la lucidità di chi osserva da anni, da una posizione non comoda – quella di delegato in associazioni di legalità – e che ha la responsabilità, giorno dopo giorno, di tenere accesa l’attenzione su quei passaggi silenziosi in cui la giustizia, invece di essere uguale per tutti, diventa un bene distribuito a dosi diseguali.

Questo caso a Palermo, per quanto limitato nella sua dimensione, è importante non perché sia eccezionale, ma perché è coerente: dimostra che quando ci sono volontà, competenza e autonomia, si può intervenire con tempestività, tutelando i cittadini e restituendo dignità a un sistema che spesso sembra averla smarrita.

Mi auguro – lo dico sinceramente, senza alcuna ironia – che non rimanga un’iniziativa isolata, ma diventi, per ciascun Tribunale siciliano (evito di fare nomi – per il momento…), un modello replicabile, anche perché, finché resteremo in questa condizione di duplice standard, sarà difficile chiedere ai cittadini di continuare a credere, non tanto nelle leggi – sì… quelle ci sono – quanto in chi le applica.

Per cui, se leggete queste righe e vi riconoscete in una situazione simile – un rendiconto poco chiaro, spese gonfiate, un cambio di amministratore con ammanchi inspiegabili – non chiudete il post e lasciate che tutto scorra via. Fermatevi, raccogliete i documenti che avete (verbali, estratti conto, fatture, comunicazioni) e confrontatevi con altri condomini e se i dubbi diventano certezze, non abbiate paura di agire.

Basta un esposto scritto, ben argomentato, inviata alla Procura della Repubblica competente per territorio, o alla locale Sezione della Guardia di Finanza. Già… non serve essere esperti: serve essere precisi. Indicate, nomi, date, somme e discrepanze.

Ed ancora, se il vostro condominio ha beneficiato di incentivi statali – bonus facciate, sismabonus, ristrutturazioni con cessione del credito – potete anche verificare se gli interventi risultano tracciati (vedasi il portale di Openpolis che monitora i cantieri finanziati con fondi pubblici) o se le procedure di affidamento sono registrate nel sistema ANAC. Spesso, una semplice incongruenza visibile in rete – un importo dichiarato di 50.000 euro che in banca diventano 80.000 – è già un campanello d’allarme.

Io, come delegato per la legalità, e insieme a chi ogni giorno lavora per rendere trasparente ciò che qualcuno vorrebbe tenere nell’ombra, sono a disposizione per aiutarvi a formulare una segnalazione efficace. Non vi chiedo di fare da soli ciò che il sistema dovrebbe garantirvi per diritto: vi chiedo solo di non tacere. Perché ogni silenzio, anche il più breve, è un segnale di assenso.

Scrivetemi, condividete, verificate: Agite!

Insieme, possiamo trasformare l’amarezza in responsabilità, e la responsabilità in cambiamento.

Resto – come faccio da anni – in ascolto.

Sistema Sicilia…


La storia sembra ripetersi, come se in questa terra il tempo non scorresse… ma girasse in tondo, lasciando impronte sempre uguali ma su strade diverse, quasi a volerci ricordare che nulla cambia veramente.

Già… proprio come in passato, oggi ritroviamo nuovamente Totò Cuffaro al centro di un nuovo scandalo – interrogato dal Gip con accuse pesanti quali: associazione a delinquere, corruzione e turbativa d’asta. Ho letto che mentre si presentava in Tribunale avrebbe detto ai giornalisti di avere “fiducia nella giustizia“.

Una frase che suona come un ritornello familiare, il refrain di un sistema che non ha mai davvero cambiato pelle. Come sapete non condivido nulla di quel sistema che da sempre condanno con tutte le mie forze, ma resto altresì convinto che le sue dimissioni da segretario della Dc e la rimozione degli assessori a lui vicini, siano solo la punta dell’iceberg, sì… le prime onde di uno scandalo che scuote il palazzo, ma non ne mina le fondamenta.

Perché il sistema, quello vero, è molto più grande di un solo uomo. Dietro l’ex Presidente della regione, si nasconde una rete di relazioni che si estende in ogni angolo dell’isola fino a giungere a Roma, coinvolgendo figure istituzionali come ex ministri e attuali deputati. 

Ho letto inoltre di consorzi di imprese che esistono più nei documenti che nei cantieri, già… quest’ultimi sono riusciti a ottenere decine di appalti pubblici grazie a quelle relazioni giuste. Come sapete, non entro nel merito dei nomi specifici – non m’interessano né quelli e ancor meno i cognomi dei loro referenti – ma è evidente come queste entità, muovendosi con sorprendente agilità tra commesse milionarie e relazioni politiche di alto livello, abbiano costruito imperi che ora rischiano di sgretolarsi, come molti di quelli che abbiamo visto in questi anni crollare su se stessi, sì… credo che sia solo questione di tempo!

E cosa dire della sanità, di quel settore che dovrebbe essere sacro e invece è diventata la cassaforte della corruzione, il luogo dove si decidono destini e fortune? Gare pilotate, concorsi truccati, punteggi modificati in silenzio, tutto avviene alla luce del sole, senza vergogna, come se fosse la norma. La novità, come riportavo alcuni giorni fa, è che oggi la corruzione non si manifesta più solo attraverso le classiche buste marroni con mazzette di banconote, ma attraverso scambi di utilità più sottili, già… più socialmente accettabili, che creano dipendenze destinate a riproporsi nel tempo.

Non è più solo il denaro, ma la capacità di distribuire opportunità, di creare reti di potere, di controllare la burocrazia. Mentre i cittadini comuni faticano a ottenere un visto, un permesso, un servizio pubblico, chi sa muoversi tra le pieghe dell’opacità ottiene tutto con una semplice telefonata e di queste telefonate, ogni giorno, se solo potessimo ascoltarle, ve ne sono a centinaia… 

Già, ciascuna di esse potrebbe realizzare quella storica pubblicità della “SIP” con protagonista l’attore Massimo Lopez e quel celebre slogan: “il telefono allunga la vita“, aggiungendo oggi: “non solo quella, ma anche il potere“.

Sì, il denaro non conta più nulla, ciò a cui tutti ambiscono è la promessa di un posto di lavoro, l’aggiustamento di un punteggio, la nomina a un incarico prestigioso, quello scambio silenzioso tra un politico e un imprenditore, tra un funzionario e un professionista, tra una personalità istituzionale che ha il potere e chi lo cerca.

E così, mentre la politica regionale cerca di assestarsi dopo questo terremoto, con vertici di maggioranza rinviati e nomine bloccate, ciò che resta è la sensazione amara che alla fine, nulla cambi veramente. La nostra Regione Siciliana è tornata a essere un luogo di mera intermediazione, dove tutto si fa “alla luce del sole, senza vergogna“.

Mentre il “sistema” Sicilia continua ad essere un intreccio inestricabile di potere, affari e silenzi, che prospera nell’ombra, resistente a ogni scandalo, a ogni inchiesta, a ogni promessa di cambiamento. La mafia, pur non essendo più il regista, rimane comunque la prima beneficiaria collaterale, sempre pronta a intercettare gli effetti economici di quei flussi illeciti. E sì, perché nonostante tutto, nonostante le inchieste, nonostante gli arresti, quell’infezione continua a diffondersi, silenziosa, implacabile, inevitabile. Perché la corruzione, quando diventa “Sistema”, non conosce fine!!!

E forse, proprio per questo, non conoscerà mai fine, perché in questa terra, dove la linea tra legale e illegale è così sottile da diventare invisibile; chi decide cosa è giusto e cosa è sbagliato? Chi decide chi deve restare e chi deve andare? Chi decide chi merita una seconda possibilità e chi no?

Nello scrivere queste parole ho ripensato alla fiction “Il Capo dei capi” interpretata dal bravissimo attore Claudio Gioè, nella parte del boss di “cosa nostra” Toto Riina, mentre discute con l’amico di sempre Binnu (Bernardo Provenzano): “I Corleonesi nunn’ hanno bisogno ru stato! Ave trent’anni che mettiamo le leggi senza bisogno di scriverle e siamo noi che le facciamo rispettare, siamo noi che decidiamo qua va a crepare e qua va a vivere, qua va a pigliare gli appalti e chu resta morto de fame, chi se ne deve andare a Roma e chu resta cu u’ culo pe’ terra… hann’a trattare cu’ mia, Binno! Qui lo stato sono io!”

Consentitemi di uscire per un istante dalla serietà di questo post, aggiungendo come a tal proposito – senza togliere meriti all’interpretazione di Gioè – molti miei amici che hanno potuto osservare alcuni anni fa, quella stessa parte realizzata (ovviamente per scherzo) dal sottoscritto, con la collaborazione di una delle mie figlie – un video modificato attraverso un filtro se non ricordo male del social “Tik Tok” – dichiaravano che ero da Oscar…

Riprendendo per concludere: la risposta è semplice… sono sempre loro, quelli che siedono ai tavoli del potere, quelli che controllano le chiavi del sistema. E finché non cambierà questo “sistema“, ogni inchiesta, ogni arresto, ogni dimissione, non sarà che l’ennesima goccia nel mare di un male che, come ripeto e scrivo da 15 anni in questo Blog: è diventato “cosa nostra“, di conseguenza parte del Dna di questa terra!

Il mio incontro con i ‘paladini della legalità’: perché scappano davanti alla mie proposte concrete? Il motivo (celato) è che minaccia il loro sistema di potere!


E allora mi ritrovo a pensare a questi ultimi anni, a tutti quegli incontri con i cosiddetti “paladini della legalità”: candidati alla Regione, ex Presidenti, Sindaci, dirigenti pubblici e persino quei professionisti a cui i Tribunali hanno affidato incarichi di fiducia. 

Li avvicinavo dopo i loro comizi, durante convegni i cui resoconti avrete letto sicuramente nei giornali e/o sui social, e all’inizio mi illudevo, sì… ascoltavo le loro parole roboanti contro le ingiustizie, la loro curiosità quasi affamata per le inchieste in corso, e credevo di aver trovato degli alleati.

Insieme ad essi analizzavo l’ombra lunga che avvolge la mia Sicilia, un’oscurità che si insinua tra i corridoi dei palazzi, tra i documenti fatti sparire, ma pensavo fosse colpa della solita torpida burocrazia, la carta che ammuffisce, un problema di inefficienza e non di male organizzato.

Poi, con il passare del tempo, qualcosa si rompeva. Gli stessi soggetti, così cortesi e disponibili sin dal primo incontro, alzavano un muro di gomma alle mie proposte più concrete. Li rivedevo e sentivo un’ostilità improvvisa, un fastidio persino per la mia presenza; restavo lì, muto, a chiedermi dove avessi sbagliato, cosa avessi detto di errato, ma non mi veniva in mente nulla.

Erano loro che cambiavano registro, che si ritraevano, che fingevano di non riconoscermi e io, ingenuamente, continuavo a credere che fosse un malinteso, un incidente di percorso, non il sintomo inequivocabile di un sistema che si stava proteggendo.

Gli anni passano, e la verità affiora con la pazienza cinica di chi sa aspettare. Quegli stessi soggetti, spariti per un po’ – magari per una qualche indagine che li ha lambiti – magicamente ritornano. E non ritornano da soli, già… scopro che tutti quei nomi, insieme a molti degli indagati di cui erano a conoscenza per i loro incarichi, non erano affatto sconnessi, ma anzi, perfettamente intrecciati in una tela che unisce politica, affari e persino le loro stesse famiglie.

Come si dice a Catania: “nenti fari, ca tuttu si sapi”. Ed è così che vengo a scoprire come i familiari di alcuni di loro abbiano svolto, e ancora svolgano, incarichi lucrosi per gli amici degli altri. Professionisti che sulla carta dovrebbero colpire gli illeciti, siedono invece allo stesso tavolo con gli indagati, e tutti insieme banchettano in un silenzio complice che sa di tradimento.

Che schifo, mi viene il disgusto solo a ripensarci, ed hanno avuto il coraggio di parlare con il sottoscritto di legalità. Se solo questa parola potesse trasformarsi in una pandemia, contagiare tutti quelli che la pronunciano a denti stretti senza mai metterla in pratica, allora forse qualcosa cambierebbe.

Purtroppo il mio auspicio non si è realizzato. Quel sistema, per quanto infetto, non miete vittime tra i suoi custodi, anzi, prosegue impeccabile, ben oliato, come un orologio che segna sempre l’ora del favore, della raccomandazione, della mazzetta che passa di mano in mano fino ai piani più alti. E nessuno ferma nulla, né la magistratura né le forze dell’ordine, perché l’infezione è ormai sistemica, capillare, persino rispettabile nelle sue forme più subdole.

Mi rifugio allora nelle parole antiche, in quella giustizia divina che non ammette ambiguità. “Chi pecca morirà”, dice il profeta Ezechiele. E se il giusto si volta e commette il male, è per quel male che morirà. Non è una minaccia, è una legge di armonia, un richiamo alla coerenza che l’uomo moderno ha dimenticato. L’Epistola ai Romani lo ricorda: non dobbiamo prestare le nostre membra, le nostre mani, i nostri occhi, come strumenti d’iniquità.Tutto deve essere in armonia con la giustizia.

E così, quando vedo quelle persone che parlano di legalità mentre le loro azioni servono solo a perpetuare il male, penso che forse, solo un Giudizio così radicale e senza appello potrebbe purificare questa terra martoriata.

Ed allora, forse, è tempo che io riprenda a pregare…

Quel filo del potere illegittimo non si spezza da solo…


Non è facile raccontare ciò che si ascolta senza mai sentirsi veramente sicuri di averlo compreso fino in fondo, perché qui, in questa terra che continua a nutrire sogni e disillusioni con uguale generosità, il male non arriva avvisandoti con i passi pesanti di chi vuole farsi notare, ma con quelli attutiti di chi sa già di essere atteso. 

È un andare e venire silenzioso, quasi familiare, tra uffici, incontri al bar, corridoi di palazzi dove nessun cartello indica la giusta direzione, ma tutti – incredibilmente – sanno dove devono voltarsi, e così, mentre fuori la giornata inizia a prendere forma ed il sole batte su quelle nostre strade dissestate, qualcuno da dentro quell’ufficio sta firmando qualche documento, qualcun altro viceversa sta tacendo, e un terzo sta preparando il conto da presentare a chi di dovere… 

Si potrebbe pensare che i numeri siano freddi, distanti, quasi rassicuranti nella loro impersonalità, eppure quei duecentocinquanta nomi all’interno di quei fascicoli d’inchiesta aperti tra il 2020 e oggi, sono di fatto persone reali, non solo volti sfocati di foto segnaletiche, ma dirigenti e funzionari che incontravi ogni giorno, anche di domenica al supermercato, parliamo di professionisti, di politici, di assessori che sorridevano alla festa del quartiere, mentre quelle ruspe scavavano il terreno per un appalto che nessuno aveva richiesto.

Eppure i dati parlano chiaro: cinque inchieste su quarantotto in un solo anno, ottantadue persone indagate su poco meno di seicento in tutta Italia, un tasso che non si spiega con la sfortuna, né con la geografia, ma con una logica profonda, sedimentata, quasi istituzionalizzata. 

La Sicilia tra l’altro non rappresenta un’eccezione, anzi… è un vero e proprio laboratorio, un luogo dove si osserva (ahimè… con una certa tragicità) come la corruzione non sia mai stata solo un reato, ma una forma di governo parallelo, una grammatica condivisa tra chi sa e chi non chiede.

E non è neppure una questione di mancanza di controlli, di leggi troppo deboli o di una magistratura troppo lenta a causa di una burocrazia che riempie costantemente di faldoni quelle loro scrivanie, no…  è che il sistema, nel tempo, ha imparato a vestirsi meglio, a togliersi la cravatta sporca e a indossare un completo sobrio, a sostituire la busta con la stretta di mano, il favore con la raccomandazione “tecnica”, la tangente con la consulenza “strategica”. 

Non è più questione di chi prende, ma di chi permette, di chi interpreta, di chi tace sapendo che quel silenzio ha un prezzo e di conseguenza… un ritorno. Le relazioni opache, di cui ho sentito pronunciare in queste ore dal generale Napolitano – nuovo comandante della Guardia di finanza di Palermo – non sono un difetto del sistema, sono il sistema stesso: non un cancro da estirpare, ma un tessuto che si rigenera perché continua a essere nutrito, ogni giorno, da chi preferisce non guardare troppo da vicino per non dover poi scegliere da che parte stare.

Mi chiedo… non tanto come sia possibile che accada ancora, ma come sia possibile che, nonostante tutto, qualcuno si continui a stupirsene. Perché non è la corruzione a essere eccezionale, qui: è l’onestà a esserlo.

È quell’impiegato che rifiuta, l’imprenditore che non abbassa lo sguardo, il funzionario che scrive una relazione senza omettere quel dettaglio scomodo, a sembrare fuori posto, già… a rischiare di essere considerato un ingenuo, o peggio, un traditore. Eppure, sono loro, forse, a tenere ancora accesa una possibilità: non quella di una rivoluzione improvvisa, ma quella di una resistenza quotidiana, minuta, fatta di scelte che non finiranno mai sui giornali, di documenti consegnati in tempo, di firme messe senza guardare da che parte spirava il vento.

Perché alla fine, non si tratta di sconfiggere un nemico lontano, ma di riconoscere che quel filo del potere illegittimo non si spezza da solo: si spezza ogni volta che qualcuno decide di non passarlo oltre.

E forse, è proprio lì – in quel preciso momento tra esitazione, silenzio e soprattutto scelta – che sta ancora, incredibilmente, la speranza. Non quella retorica, da discorso ufficiale, ma quella più vera, più fragile: quella che si esercita quando nessuno ti vede, quella che finalmente hai deciso lo stesso di compiere!

La corruzione non ha più confini: Quando la talpa indossa la divisa!


In questi giorni mi sono trovato a leggere pagine di una storia che purtroppo ha il sapore amaro di chi vorrebbe che certe circostanze non accadessero mai, già… una di quelle vicende che ci fanno riflettere su quanto il male possa infiltrarsi persino laddove dovremmo sentirci più al sicuro.
La notizia peggiore parla di un alto ufficiale, un uomo che indossa una divisa simbolo di onore, e che invece viene accusato di averne tradito il giuramento, sussurrando segreti dell’istituzione a chi quelle indagini avrebbe voluto eluderle.

Sì… l’immagine di una talpa che, invece di scavare nella terra, scava nell’archivio sacro della giustizia, avvisando un uomo già condannato in passato e i suoi alleati che l’occhio della legge si stava posando nuovamente su di loro.

Ciò che lascia sgomenti non è solo l’atto in sé, ma il contesto in cui si inserisce, un quadro fosco che sembra ripetersi con una sconcertante regolarità. A distanza di molti anni, lo stesso personaggio sembra poter ancora contare su qualcuno pronto a macchiare quella divisa in cambio di cosa, forse di un favore, di una raccomandazione, di un posto di lavoro per una persona cara.

È l’abituale logica del baratto che sostituisce quella del dovere, la stessa che trasforma un presidio di legalità in una stanza dei bottoni occulta. I magistrati parlano di un comitato d’affari che si muove nell’ombra, capace di infiltrarsi e deviare la macchina amministrativa, una trama che sembra riavvolgere il nastro fino ai giorni delle talpe di un lontano passato.

Emerge così il racconto di un incontro clandestino, organizzato nello studio di un legale, dove le parole sussurrate valgono più di qualsiasi documento ufficiale. L’ex governatore, attraverso un amico, viene a sapere che un colonnello vuole vederlo per questioni delicate, e il sospetto che si tratti di informazioni riservate sulle indagini a suo carico diventa rapidamente certezza.

L’unica soluzione è incontrarlo, guardarlo negli occhi e ascoltare. Le telecamere di sorveglianza catturano i volti, i tabulati confermano gli spostamenti e il quadro diventa sempre più nitido e desolante. Quel faccia a faccia non era una cortesia tra conoscenti, era il luogo dove la riservatezza delle indagini veniva mercificata.

Poco dopo, in una conversazione intercettata, l’ex governatore racconta al suo braccio destro il contenuto di quell’incontro. Il consiglio era di fare attenzione, di vigilare sulle proprie parole e su quelle di chi li circonda, un monito che suona più come un’ammissione di complicità che come un generico avvertimento.

Ma il punto cruciale, quello che trasforma una rivelazione in un patto osceno, arriva dopo. Le informazioni preziose, quelle che potrebbero scongiurare guai giudiziari, avevano un prezzo non detto ma chiarissimo. In cambio delle notizie riservate, si chiedeva un posto di lavoro per la moglie in un programma di microcredito. È questo il baratto, lo scambio che umilia la divisa e tradisce la fiducia di tutti noi.

E così, mentre leggevo su questa notizia mi chiedevo: dove è il limite, dove finisca l’errore e inizia la corruzione sistemica? Cosa fare quando chi dovrebbe essere il baluardo della trasparenza diventa egli stesso una falla?

Una cosa è certa… non ci sono più alibi, quanto accade è un male che non conosce confini, che non si ferma davanti a nessun simbolo di autorità e che macchia in modo indelebile non solo le persone, ma l’idea stessa di giustizia che faticosamente cerchiamo di preservare.

Sì… oggi è toccato a loro, a quei nomi che deliberatamente scelgo di non riportare perché non meritano l’attenzione di queste pagine, ma domani chissà. La riflessione che mi porto a casa è amara, ma necessaria. La vigilanza deve essere costante, perché l’integrità è un bene fragile, e la sua difesa non ammette pause.

Catania: la prossima pagina dell’inchiesta!


C’è un momento, prima che la notizia si adagi come fosse polvere su una scrivania dimenticata, in cui essa vibra, non come fatto, ma come segnale. Già… proprio come un avviso scritto in una lingua che conosciamo bene, anche se facciamo finta di non capirla.

Ora quel segnale non è solo l’eco di una sentenza né il rilancio di un comunicato stampa: è il peso specifico di ottantamila euro in contanti, gli ennesimi soldi a nero che circolano in questo Paese, e lasciatemi ricordare come, in tutti questi anni, nessun governo nazionale ha mai voluto adottare provvedimenti veri contro il riciclaggio e i pagamenti in nero, trovati chiusi nell’ennesima cassaforte, nascosta tra le mura di una casa in città o in una tenuta fuori mano.

Non è tanto la cifra a colpire – ormai sappiamo che i numeri si gonfiano, si riducono, si mimetizzano – quanto il gesto di nasconderla, di tenerla lì, ferma, come un’assicurazione silenziosa, un pegno in attesa di essere riscattato o di corrompere chiunque si mostri disposto a farsi infettare.

È la conferma che, contrariamente a quanto dichiarato ieri dal Presidente Mattarella – «la mafia tracotante che fu sconfitta» – la sua totale distruzione non è mai avvenuta. Anzi, quel sistema non è in crisi: funziona benissimo, più florido che mai.

Certo, funziona per pochi (infetti) e contro tutti: appalti, sanità, assunzioni, gare che si aprono e chiudono con la stessa facilità di una saracinesca. Un sistema criminale «pubblico», non per servire, ma per selezionare, per garantire che quella casta sopravviva, che il cerchio resti chiuso, che le mani che stringono siano sempre le stesse, anche se i volti cambiano, le generazioni si susseguono e le etichette politiche si rinnovano.

Non è corruzione occasionale, non è una deviazione momentanea: è un metodo consolidato, oliato, che si ripete, si perfeziona, si trasmette. Un linguaggio condiviso, fatto di pressioni discrete, rinvii strategici, punteggi modificati in silenzio, commissioni che decidono non per quello che vedono, ma per ciò che gli viene suggerito.

E chi credeva che tutto questo fosse circoscritto a un ufficio, a una provincia, si sbagliava. Il contagio non rispetta i confini amministrativi: segue le relazioni, i favori, i debiti non scritti, dalla costa occidentale fino alle pendici dell’Etna, lungo strade secondarie che non compaiono sulle mappe, ma solo sulle agende private.

Non sono più solo le parole intercettate a raccontare questa storia: sono i corpi che si irrigidiscono al suono di un telefono, le dimissioni annunciate con ritardo, i sit-in silenziosi davanti ai palazzi, con striscioni che non gridano rivoluzione, ma chiedono una cosa sola: rispetto. Ma rispetto di cosa? Per chi lavora onestamente, per chi aspetta un’assunzione meritata, una strada riparata non per grazia ricevuta, ma per diritto?

Mentre alcuni sperano che l’inchiesta si esaurisca tra verbali e interrogatori programmati per venerdì, qualcosa già si muove più a est. Sì… Catania non è un’ipotesi: è una direzione. Lo sento nell’aria, nel modo in cui certe telefonate si interrompono prima del previsto, nelle carte ricontrollate all’improvviso, nei nomi cancellati da liste e protocolli.

Non è fantasia: quando un sistema viene scosso davvero, non crolla pezzo a pezzo, ma tutto insieme. E saranno in molti a dover piangere. Chi ha costruito la propria fortuna su fondamenta marce non può non tremare, soprattutto chi, insieme alla sua famiglia, ha goduto di un «improvviso» benessere senza mai chiedersi da dove venisse..

Perché questa volta non si tratta di coprire, archiviare o attendere che il tempo cancelli tutto. Questa volta, la luce entra da più finestre. E anche se qualcuno spera che il clamore si spenga, ciò che è stato commesso – l’infamia con cui si sono macchiati – non svanirà!

Perché lì, nell’asettico mondo virtuale, nulla viene cancellato. I nomi, i cognomi, le date resteranno per sempre, scolpiti nella memoria digitale che non perdona. E quando qualcuno proverà a dimenticare, basterà un click per ricordare chi ha tradito, come ha tradito, e a chi è costato. Perché la verità, una volta esposta, non torna più nell’ombra.

Luca Attanasio: Lo Stato che non ascolta i suoi eroi.


Ed allora ci risiamo.

Già… mi ritrovo a scrivere di questa storia e mi chiedo se il tempo qui da noi non sia un inganno, un cerchio che gira su se stesso senza mai spezzarsi.

Rileggo i miei post, già di quando l’ambasciatore Attanasio e il carabiniere Iacovacci furono uccisi in quel viaggio mai autorizzato, quando scrissi di documenti scomparsi e dei sospetti che preannunciavano una tempesta, già… come nuvole cariche di pioggia.

Prevedevo che la verità sarebbe stata sepolta, che lo Stato avrebbe preferito il silenzio alla responsabilità ed oggi più che mai, capisco che non ero io a essere pessimista: era il sistema a essere già marcio, allora come adesso.

I familiari in queste ore hanno chiesto una commissione d’inchiesta, non per vendetta, ma per poter dire alle loro figlie che quei morti non sono stati inutili. Una richiesta che dovrebbe essere scontata, se non fossimo in Italia, dove persino il dolore deve passare al vaglio della convenienza politica.

E difatti… la maggioranza non firma, non si presenta, lascia che la sala resti vuota come un teatro dopo l’ultimo atto. Un silenzio che non è assenza di rumore: è un urlo, è la conferma che quelle vite, per chi conta, non valgono neppure una firma su un foglio.

Mi tornano allora in mente le parole della moglie di Luca Attanasio, quando parlava di verità per le sue bambine, di un futuro in cui il loro papà non sarebbe stato solo un nome su una lapide. Penso oggi a cosa le starà passando per la mente mentre osserva che gli stessi uomini e donne per cui suo marito ha lavorato, per cui è morto, non trovano neppure cinque minuti per ascoltarla?

Non si tratta di disorganizzazione, di impegni presi, di mancanza di tempo, no… è mero calcolo, la consapevolezza che – in fondo – nessuno chiederà conto a chi lascia nel dimenticatoio chi ha servito lo Stato.

Ma d’altronde basti ripensare ancora una volta a quel viaggio in Congo, alle scorte mai arrivate, alle responsabilità svanite nel fumo dei comunicati stampa, già… come se la morte di due uomini potesse essere cancellata con un colpo di penna. Ed ora, guarda caso, il copione si ripete qui, nel cuore delle nostre istituzioni!

La verità non è più un obiettivo: è una merce di scambio, un favore da concedere solo a chi sa negoziare meglio. E quando la morte di un ambasciatore o di un carabiniere diventa una questione di colore politico, allora non stiamo più parlando di errori. Stiamo parlando di un sistema che sa benissimo cosa sta facendo.

Qualcuno dirà che è inutile arrabbiarsi, che “tanto è sempre stato così”. Ma io non ci credo. Non ci posso credere quando ripenso a quei volti, a quelle storie interrotte, a quelle madri, mogli e figli che non vedranno più i loro cari tornare a casa.

La verità non è un lusso, non è un’opzione per chi ha tempo da perdere. È un dovere, e quando lo Stato rinuncia a questo dovere, non è solo colpa: è complicità! Perché lasciare nel buio chi ha dato la vita per le istituzioni è come uccidere con lentezza, con la crudeltà dell’indifferenza.

E allora mi chiedo: se l’ambasciatore Attanasio fosse stato meno uomo e più politico, se avesse imparato a tacere quando serviva, a non fidarsi troppo, a non andare in quel viaggio “non autorizzato”, chissà… forse sarebbe ancora qui.

Ma soprattutto, forse oggi non sarebbe solo un nome cancellato tra i comunicati, un fastidio da archiviare tra le “questioni scomode”. La sua colpa, forse, è stata quella di credere davvero nel ruolo che rivestiva, di pensare che la divisa che indossava valesse più dei giochi di palazzo e forse, in fondo, è per questo che lo hanno lasciato solo.

Ma io – a differenza loro – non l’ho dimenticato. Non ho dimenticato il suo impegno per le comunità del Nord Kivu, il suo lavoro per i progetti scolastici, quel modo di guardare il mondo come se ogni persona fosse già un ponte verso la pace.

Ecco perché nella foto che ho realizzato lo immagino seduto in una poltrona senza tempo, circondato da un movimento sfocato che sembra il caos del mondo in fuga. Dietro di lui, una luce intensa lo avvolge, e tra le mani un libro – il suo – che non avrà mai il tempo di finire: “Luca Attanasio, un ambasciatore di pace”, scritto da Fabio Marchese Ragona; un racconto che non parla solo di diplomazia, ma di un uomo che, spogliandosi di giacca e cravatta, entrava nelle baracche di Goma per ascoltare chi nessuno ascoltava. Un uomo che costruì una famiglia con Zakia, musulmana, e insegnò alle sue figlie che la fede non divide, ma unisce.

I racconti di chi lo ha conosciuto svelano un eroismo quotidiano: il giovane cresciuto in oratorio che non ebbe paura di sognare in grande, il diplomatico che preferiva le strade polverose alle sale dei ricevimenti, il marito e padre che portava a casa non solo storie di conflitti, ma semi di speranza. Questo è il Luca che non voglio dimenticare. Non il nome su un comunicato, non la vittima di un agguato, ma l’uomo che credeva possibile un mondo migliore, anche quando nessuno lo vedeva.

Forse è lì che vive oggi, in quel confine tra il terreno e l’eterno, dove la sua voce non è stata spenta, ma trasformata in un sussurro che ci ricorda: la verità non muore, anche quando lo Stato cerca di cancellarla. E finché qualcuno continuerà a raccontare chi era davvero, quel sussurro diventerà grido!

La metastasi perfetta e un sistema ormai diffuso che si auto-assolve.


Ho letto ieri dell’ennesima inchiesta giudiziaria della Procura di Palermo compiuta sugli appalti pilotati, con i nomi riportati degli indagati, ed allora mi ritrovo a pensare a questa ondata di arresti, a questa ridda di nominativi che riempiono le cronache e che parlano un linguaggio antico eppure sempre attuale.

Appalti pilotati, dicono, e la mente corre a quelle stanze dove si decide, dove si dovrebbe servire il pubblico bene e invece si tessono trame private. È un male che non conosce quartiere, ormai, che ha messo radici profonde e che sembra aver imbevuto ogni livello del potere, dalla politica che dovrebbe legiferare, ai dirigenti e ai funzionari che dovrebbero amministrare.
Si parla di un ex governatore, di un deputato di un “partello” (per chi non lo sapesse, non è un errore grammaticale, ma un termine volutamente dispregiativo per sminuire l’istituzione partitica), di un ex ministro, di manager sanitari, di direttori generali.

Volti noti e altri meno noti, ma tutti accomunati da quell’unico, sottile filo che lega carriere e affari opachi. Persone che hanno avuto in mano la salute pubblica, le opere, il territorio, e che avrebbero dovuto essere garanti e invece, si sospetta, siano diventati ingranaggi di un sistema marcio.

Sì… è questa la normalità che ci ritroviamo, un pantano in cui sembra che tutto giri intorno a logiche di favore, di spartizione, di illecito, di raccomandazioni, di clientelismo, etc…

E mi chiedo, in questo scenario, cosa possiamo attenderci da una riforma della giustizia voluta da un governo che oggi si regge proprio su forze politiche i cui esponenti, alcuni già condannati, altri indagati, figurano in queste inchieste.

Non serve essere di una parte per vedere la realtà, basta essere onesti con se stessi. Si poteva forse sperare in una sterzata verso la trasparenza, in un cambio di passo? A guardare come vanno le cose, non ci si poteva aspettare diversamente. È un circolo vizioso che si autoalimenta, una palude che nessuno ha davvero interesse a bonificare.

La sensazione amara, che si fa sempre più forte, è che in questo paese andrà ahimè sempre peggio. È uno schifo che non accenna a diminuire, anzi, pare si stia normalizzando, diventando quasi folklore, un dato di fatto contro il quale è inutile indignarsi. E forse la cosa più terribile è questa rassegnazione, questo smarrimento di fronte a un male che sembra ormai incurabile.

Già… non so più cosa ci potrà salvare da questo schifo…

Se si vogliono conoscere i nomi degli indagati, questo è uno dei tanti link che parla dell’argomento sul web: https://www.lasicilia.it/news/cronaca/3004513/appalti-pilotati-i-nomi-di-tutti-gli-indagati.html?ch=1

RESISTERE!


Talvolta le parole appaiono consumate, quasi svuotate del loro significato più profondo, eppure alcune conservano un potere antico, una risonanza che scuote l’anima. RESISTERE!
È questa la parola che scelgo, che abbiamo scelto, come un faro nell’oscurità di un presente spesso sconcertante.

Non è un titolo, ma è il battito del cuore di tutti coloro che avvertono un profondo malessere, un disagio viscerale verso uno stato di cose che non ci rappresenta più, e che anelano a un cambiamento non più rimandabile, un cambiamento definitivo.

Mi torna in mente l’immagine della mia pagina di Facebook – https://www.facebook.com/resistworld – e quella citazione attribuita a Malcolm X che sembra scavata nella pietra della nostra contemporaneità: «Se non state attenti, i media vi faranno odiare le persone che vengono oppresse e amare quelle che opprimono».

Queste parole non sono un semplice monito, sono una lente di ingrandimento gettata sul meccanismo più subdolo dei nostri tempi, quello che ci porterebbe, quasi senza accorgercene, a sostenere per il carnefice mentre guardiamo con sospetto la vittima, un ribaltamento della realtà che intorpidisce le coscienze e spegne la volontà.

E proprio oggi, l’associazione LIBERA, a cui ho l’onore di appartenere, ci ricorda con parole chiare e dolorose perché quella vigilanza sia più cruciale che mai. Negli ultimi giorni si sono riaffacciate modalità criminali e barbare, atti vigliacchi concepiti per mettere a tacere chi della verità e dell’informazione libera ha fatto la propria bandiera. È un colpo che ci ferisce tutti, che ci riporta a pagine buie che credevamo di aver voltato, e invece no, ci siamo ancora in mezzo, e questo ci grida che non possiamo più permetterci di essere spettatori.

C’è un mondo che resiste, sì… un mondo fatto di persone comuni, di cittadini che, in silenzio o a gran voce, hanno compiuto la scelta più importante: hanno deciso da che parte stare. È il mondo di chi non si volta dall’altra parte quando passa l’ingiustizia, di chi crede nella verità anche quando è scomoda, di chi ha il coraggio di mettere in discussione il potere e di fare domande che bruciano. È fatto di chi difende i diritti di tutti, anche dei più invisibili, di chi non si rassegna ma costruisce alternative concrete, di chi si ostina a credere nel bene nonostante tutto, di chi agisce con la ferma determinazione di non lasciare indietro nessuno.

Ecco perché mi permetto in questo post di riportarvi la nota pubblicata in questi giorni dall’associazione LIBERA: Negli ultimi giorni si sono riaffacciate modalità criminali per mettere a tacere chi della verità e dell’informazione libera ha fatto il proprio lavoro. Un atto barbaro e vigliacco che ci riporta indietro nel tempo, ma che ci ricorda quanto sia ancora necessario prendere parte. E Resistere! C’è un mondo che resiste. Un mondo fatto di persone comuni, cittadine e cittadini che hanno scelto da che parte stare. È il mondo di chi non si volta dall’altra parte, di chi crede nella verità, di chi mette in discussione il potere, di chi fa domande scomode, di chi difende i diritti, di chi costruisce alternative, di chi si ostina, di chi non lascia indietro nessuno, di chi agisce, di chi non si rassegna alle ingiustizie. Noi la nostra scelta l’abbiamo fatta. Adesso tocca a te!

Sì… noi tutti, in LIBERA, quella scelta l’abbiamo fatta da tempo, piantando i nostri piedi sul terreno della legalità e della giustizia sociale. Ma una scelta, da sola, non basta. Deve diventare un coro, un movimento, un’onda che non si può più fermare. E allora consentitemi di rivolgervi una domanda, semplice e diretta, che bussa alla porta della vostra coscienza: e tu? La tua scelta qual è? Perché il tempo di sperare che qualcun altro sistemi le cose è finito, è scaduto. È giunto il momento, il tuo momento, di fare la tua parte. Il futuro non aspetta, e la storia ci guarda.

Di Matteo contro il sistema che piega la giustizia.


Con un gesto carico di quella amarezza che solo le delusioni profonde sanno lasciare, Nino Di Matteo ha consegnato le sue dimissioni dall’Associazione Nazionale Magistrati.
Questa decisione, maturata nel silenzio e nella riflessione, non è che l’epilogo di un disagio crescente, la presa d’atto che all’interno di quel consesso continuano a prevalere logiche correntizie e calcoli di opportunità politica, dinamiche che ha sempre rifiutato e contrastato persino da membro del Consiglio Superiore della Magistratura.
È un addio amaro, che parla di ideali traditi e di un’istituzione che, invece di essere baluardo di indipendenza, sembra aver smarrito la sua strada, piegandosi a quelle stesse influenze che dovrebbe combattere.

E così, mentre si accinge a proseguire la sua battaglia a titolo personale, come del resto ha sempre fatto anche quando l’Anm preferiva il silenzio, la sua voce si leva a denunciare il pericolo incarnato dalle riforme degli ultimi anni.

A partire dalla riforma Cartabia fino al più recente progetto sulla separazione delle carriere, questi interventi minano alle fondamenta l’indipendenza della magistratura, il principio di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge e l’efficacia della lotta alla criminalità.

La sua scelta non è una ritirata, ma un cambio di trincea, l’affermazione che certe battaglie per l’integrità dello Stato sono troppo importanti per essere confinate dentro un’associazione che sembra aver dimenticato la sua missione.

C’è un’amara ironia nel fatto che sia un magistrato simbolo della lotta alla mafia a dover constatare, quasi come una rivelazione tardiva, che la giustizia in questo Paese è da tempo fragile e profondamente compromessa.

È un sistema dove le logiche di potere e gli interessi forti, siano essi politici o imprenditoriali, hanno finito per infiltrarsi persino laddove dovrebbe vigere solo il rigore della legge.

La sua uscita non è un episodio isolato, ma un sintomo di un male antico, la testimonianza vivente di come la giustizia sia spesso costretta a subire il peso di giochi che nulla hanno a che fare con il suo compito di garantire verità e giustizia.

Questa presa di posizione arriva in un momento cruciale, mentre si avvicina la battaglia referendaria sulla giustizia, e rappresenta un colpo durissimo per la credibilità dell’associazione.

Dimostra, senza bisogno di ulteriori prove, come la giustizia in Italia mostri da troppo tempo i segni di una fragilità strutturale, dove l’indipendenza è continuamente erosa e le decisioni rischiano di essere condizionate da calcoli estranei al diritto.

La sua scelta è un monito severo, un atto d’accusa contro un sistema che sembra aver normalizzato la sua sottomissione alle logiche del potere, e che forse, proprio per questo, non merita più il nome di “giustizia”.

Quanti morti servono prima che il governo impari a intervenire dove conta? Le procedure di sicurezza sono solo carta straccia.


Ogni giorno leggo, ahimè, numeri sempre più crescenti, sperando che finalmente qualcuno, da quei palazzi istituzionali, potesse comprendere la profondità dell’emergenza.

Debbo ammettere che, in tutti questi anni, mi sono sbagliato, già… perché mentre cercavo di analizzare quei dati e proponevo – anche in questo blog – una serie di possibili soluzioni, mi sono reso conto che la situazione reale, ahimè, è ancora più tragica e allarmante di quanto immaginassi.

Tutto quel fiume di carta, quelle montagne di documenti inutili servono a poco se, alla fine, manca del tutto la verifica sul campo, il controllo effettivo capace di impedire alle aziende di ricorrere a stratagemmi pur di strappare fino all’ultimo minuto di lavoro da persone ormai stremate.

Una stanchezza fisica che si trasforma in disattenzione, in un attimo di fatalità: la diretta conseguenza di una cultura del lavoro malata, dove la produttività viene prima della vita umana e le procedure di sicurezza sono viste come ostacoli da aggirare.

Dietro quei numeri, infatti, si nascondono le storie di chi paga il prezzo più alto: lavoratori più vulnerabili che affrontano rischi enormemente superiori, un divario inaccettabile che parla di sfruttamento e di una tutela minore per chi ha meno voce in capitolo.

È una strage silenziosa e selettiva, e la sua geografia è eloquente: alcune regioni del paese vivono in una perenne emergenza, sintomo di un problema radicato e di un sistema di controlli che evidentemente non funziona – o non arriva in modo uniforme.

I settori più colpiti sono noti da anni per la loro pericolosità, eppure sembra che poco o nulla cambi nelle dinamiche che portano a queste tragedie. È agghiacciante constatare l’aumento delle morti durante il semplice tragitto verso il lavoro: un logoramento che si estende ben oltre i cancelli dell’impresa.

Ciò che davvero mi fa arrabbiare, oltre alle vite spezzate, è la sensazione che tutta l’impalcatura normativa rischi di trasformarsi in un gigante burocratico dai piedi d’argilla. Si parla sempre di nuovi accordi e linee guida, ma tutto ciò non serve a nulla se manca il coraggio di andare a scovare e punire severamente quelle imprese che, per profitto, alimentano un sistema di illegalità e sfinimento.

Alla fine, dietro queste mie analisi si nasconde una verità scomoda che forse nessuno vuole realmente affrontare: molto spesso, la sicurezza viene sacrificata sull’altare del risparmio. O chissà, magari perché il sistema viene costantemente “oliati” da chi di dovere, e così tutto finisce per passare in secondo piano.

Lo ripeto: serve una strategia totalmente diversa da quella finora messa in campo – da chi, tra l’altro, seduto da sempre in quelle poltrone, non sa neppure cosa significhi lavorare, sporcarsi le mani, né tantomeno comprendere quali meccanismi adottare per far finire, o quantomeno ridurre a un banale incidente (che, naturalmente, può sempre capitare), tutto questo.

Serve qualcosa che vada oltre la preparazione di documenti sterili e poco verificabili, visto che la maggior parte di essi si basa su vere e proprie autocertificazioni.

Manca, invece, il controllo serio. E soprattutto manca la volontà di far crescere una cultura del lavoro che ponga la dignità della persona al centro. Perché finché continueremo a contare i morti invece di proteggere i vivi, ogni numero sarà soltanto una sterile confessione della nostra indifferenza.

Quando la giustizia ha un prezzo, chi difende la verità?


Se fosse vero ciò che sta emergendo, non c’è nulla di cui stare allegri, anzi, è proprio il contrario, perché l’ombra della corruzione si allunga su luoghi dove dovrebbe essere bandita per definizione, quelli in cui si amministra la giustizia.
Non parlo in questa sede – cosa che ho già fatto in un mio precedente post – di errori e/o di valutazioni discutibili, ma di qualcosa di molto più grave: la possibilità che decisioni fondamentali siano state comprate, che archiviazioni decisive siano scattate non per mancanza di prove, ma per denaro. E se questo fosse realmente confermato, allora non stiamo più parlando di un caso isolato, di una crepa, ma di un sistema che potrebbe avere infettato parte di quel sistema giudiziario, un cedimento strutturale profondo nel sistema che noi tutti diamo per scontato per le sue funzioni, secondo legge e imparzialità.

Immaginare quindi che un magistrato, invece di seguire il codice, segue un conto in banca, diventa difficile da credere (anche se sono certo, ciascuno di noi, l’avrà pure pensato almeno una volta nel corso della propria vita…). Immaginare quindi investigatori che, anziché di cercare la verità, nascondono gli indizi perché qualcuno ha pagato per farli tacere, già… sembra di leggere la trama di un libro scritta dall’autore John Grisham…

Ma questa volta – ahimè – potrebbe non trattarsi di fantasia, sono elementi che emergono da inchieste serie, condotte da procure che ora indagano proprio chi avrebbe dovuto vigilare. Il punto ora non è sapere chi ha fatto cosa, al sottoscritto ad esempio non interessa qui nominare persone, perché i nomi li puoi trovare ovunque, online, nei giornali, nelle carte processuali. Quello che mi tormenta è il perché.

Perché oggi si riaprono certe vicende? Perché ora saltano fuori appunti con cifre e nomi accostati a richieste di archiviazione? Chi ha deciso che era il momento di scavare? E soprattutto, chi ha permesso che tutto questo accadesse anni fa, senza che nessuno alzasse la voce?

Sembra che durante una perquisizione domiciliare è stato trovato uno scarabocchio a mano, con parole come “archivia” e una cifra che parla di denaro. Certo, potrebbe essere un promemoria, una nota spese, una coincidenza. Ma se quel foglio nasconde un patto, allora cambia tutto. Cambia il senso di ogni decisione presa, cambia il valore delle indagini, dei silenzi, delle omissioni.

Se poi ovviamente saltano fuori movimenti bancari anomali, prelievi in contanti, assegni tra familiari che non quadrano con le loro entrate, allora il mistero s’infittisce. Ma sembra inoltre che vi siano anche altre circostanze: intercettazioni mai trascritte, frasi sul pagamento di “quei signori lì”, contatti opachi tra indagati e forze dell’ordine, incontri lunghi quando invece sarebbero bastati pochi minuti. E poi, vi è un ex maresciallo che sta con l’indagato per oltre un’ora prima della notifica, un luogotenente che sembra sapere troppo, un procuratore che archivia in fretta, senza approfondire, senza chiedere verifiche bancarie su possibili pagamenti. Troppe anomalie per essere solo sfortunate coincidenze.

Tuttavia, mentre tutto questo emerge, qualcuno continua a dire che non c’è nulla di male, che si tratta di semplici spese legali, che l’appunto non prova niente. Ma se davvero non provava niente, perché perquisire case, smartphone, computer? Perché coinvolgere tante persone, tra magistrati, carabinieri, familiari? Perché indagare sui flussi di denaro se non ci fosse il sospetto concreto che qualcosa sia stato comprato? E soprattutto, perché archiviare così in fretta un’inchiesta su un possibile autore alternativo in un omicidio così controverso, senza lasciare spazio a dubbi, senza permettere contraddittorio, senza voler vedere ciò che altri volevano nascondere?

Forse la domanda più grande non è se ci sia stata corruzione, ma quanto in profondità arrivi. Perché se un procuratore può essere influenzato, chi garantisce che non succeda altrove? Se chi doveva indagare ha fatto finta di non vedere, chi ci protegge dalla manipolazione del sistema?

Perché se tutto questo è vero, allora non stiamo parlando solo di un caso giudiziario, ma di una fiducia collettiva spezzata. La gente crede nella giustizia finché pensa che sia cieca e imparziale. Quando scopre che potrebbe invece avere un prezzo, smette di credere nel processo, nelle sentenze, nelle istituzioni. E quando cade quella fiducia, il danno è irreversibile.

Mi chiedo allora cosa ci sia davvero dietro queste nuove analisi. Sono il frutto di una ricerca tenace della verità o rispondono ad altro? A pressioni mediatiche? A esigenze procedurali tardive? O forse, finalmente, qualcuno ha deciso di fare pulizia là dove nessuno osava guardare?

Non lo so. So solo che quando la corruzione mette radici nei palazzi della giustizia, non corrompe solo persone, corrompe il senso stesso del diritto. E a quel punto, non importa più chi ha ucciso o chi è innocente: importa chi ha deciso di far vincere una versione dei fatti piuttosto che un’altra. E se quella decisione è stata pagata, allora la verità non ha più voce

Perché ormai diserto le commemorazioni delle stragi? Ve lo dico: non sopporto più gli ipocriti sui palchi.


Stamani voglio confessarvi una verità…
Da qualche tempo evito di partecipare alle commemorazioni ufficiali degli anniversari delle stragi, tutte, non solo quelle più note del ’92 e ’93, sì… e questo per due precisi motivi.

Il primo è legato a una sensazione di crescente fastidio, quasi di nausea, già… nel ritrovarmi in luoghi solenni dove si parla di memoria, di dolore, di giustizia, mentre poi dinnanzi a me, su quel palco, siedono personaggi che indossano la maschera del rispetto per le vittime, ma che poi, appena scendono dal palco, stringono mani e salutano affettuosamente proprio coloro che – in qualità di eredi di quei passati criminali, rappresentanti diretti di chi ha provocato le migliaia di morti in questo Paese – garantiscono loro affari e soprattutto voti.

Il secondo motivo è più profondo, più interiore: ho smesso di riconoscermi in quelle cerimonie perché mi sembrano sempre più vuote, ripetitive, sì… rituali sterili che servono a dare l’impressione di ricordare senza mai veramente voler capire.

Mi chiedo spesso cosa resti davvero di quegli omicidi, di quelle stragi, sì… dopo i minuti di silenzio, dopo i discorsi letti con voce tremula, dopo quelle bandiere poste a mezz’asta. Sembrano da quel palco commossi, ma ditemi: cosa è rimasto di fatto dell’operato di Falcone, di Borsellino? Io sento ancora un silenzio assordante, in particolare su chi – da quelle poltrone istituzionali – li ha traditi, su chi ne ha ostacolato il lavoro, su chi ha lasciato che venissero barbaramente uccisi insieme agli uomini e alle donne della scorta.

In questi giorni ho avuto modo di acquistare in una bancarella e letto alcuni romanzi di una saga mafiosa di Vito Bruschini: il primo capitolo di questa saga, “Romanzo mafioso. L’ascesa dei corleonesi”, racconta, con un tessuto narrativo sorprendente e un’accurata aderenza alla Storia del nostro Paese, la nascita e l’espansione capillare del fenomeno mafioso in Italia e nel mondo e soprattutto coloro che – legati al mondo politico e imprenditoriale – li hanno protetti e permesso l’ascesa.

Ecco perché ho cominciato a disertare quegli eventi, non per mancanza di rispetto, ma proprio per rispetto estremo verso chi è caduto. Perché non posso stare accanto a chi oggi piange in pubblico e ieri ha stretto alleanze con chi festeggiava in privato quelle stesse bombe, che hanno poi permesso la nascita di taluni attuali partiti

Sono stanco di ascoltare retoriche sulla legalità, in particolare da chi ha protetto tutti quei colletti bianchi mai toccati dalla giustizia, da chi ha favorito i depistaggi con il silenzio o con le parole sbagliate al momento giusto.

Ma d’altronde la verità è stata soffocata, l’agenda rossa è ora nelle mani di chi ha in qualità di puparo il potere di ricattare quanti siedono su queste nuove poltrone, sì… qualcuno di quei suoi predecessori è stato incredibilmente riabilitato, qualcun altro è riuscito a passare a nuova vita senza così pagarne le conseguenze, altri ancora grazie ad accordi e ricatti hanno potuto beneficiare del dubbio, riuscendo così ad esser riabilitati, quantomeno per poter far continuare (in quel contesto di “casta”) i propri familiari.

Certo, avrei voluto vedere un Paese capace di non rimandare la storia, gli eventi, la verità… ed invece tutto continua ad essere rimandato, già… per non trovar mai risposta.

Ma la circostanza peggiore è che ogni volta che si prova ad andare oltre il racconto (artefatto) ufficiale, si finisce per essere additati come complottisti, disturbatori, sì… di quella pax sociale che garantisce a molti, collusione, raccomandazione, compromesso, clientelismo e soprattutto illegalità.

Ed allora io resto ancora in attesa di conoscere le risposte: chi tra le istituzioni ha avuto interessi opposti alla verità? Chi aveva bisogno che certi magistrati sparissero? E soprattutto, perché ancora oggi, ad oltre trent’anni di distanza, nessuno vuole raggiungere l’unica verità? Ed infine, quali nomi ancora mancano all’appello e nessuno vuole portare alla luce?

Sicuramente la verità processuale non arriverà mai, non certo con l’attuale governo e chissà, forse neppure con uno formato da quella sinistra che ha di fatto permesso – rendendosi complice – le stragi che ben conosciamo.

La verità storica comunque non potrà mai essere cancellata, verrà un giorno in cui tutto esploderà, i dossier usciranno fuori e i nomi di quei complici verranno portati alla giustizia della memoria, e quel giorno saremo lì a bisogna chiedere conto a chi ha detenuto il potere, a chi ha mantenuto il silenzio, a chi ha costruito carriere sulle macerie di quegli anni!

Perché noi tutti non possiamo permettere che una società dimentichi chi ha pagato con la vita per aver creduto nello Stato, una società che perde la memoria perde anche se stessa, diventando proprio come quella che osservo in questi giorni: docile, plasmabile, pronta ad ingoiare qualsiasi narrazione gli viene indottrinata, sì… pur di non dover guardare negli occhi il suo passato sporco.

D’altronde “Un discorso che abbia persuaso una mente, induce la mente che ha persuaso a credere nei detti e a consentire nei fatti.” (Gorgia da Lentini, ca. 485 a.c. – 375 a.C.)

Ed allora pur stando lontano da quei palchi, dentro di me porto ogni giorno quel loro insegnamento, e cerco di riproporlo con la formazione, col mio blog, con le denunce, perché a differenza di quanti in molti pensano, quel passato non è stato cancellato, non è stato sepolto, non è morto, anzi è più vivo che mai, già… perché fintanto che ci saranno persone perbene, questo Paese avrà la forza di rialzarsi.

L’impressione è che tutti in questo Paese siano all’arrembaggio!!!


Stamattina, seduto al bar di Sferro – una frazione del comune di Paternò, in provincia di Catania, a suo tempo un villaggio nato come alloggio per gli operai delle grandi opere pubbliche – con una tazza di cappuccino in mano ancora calda, ho lasciato che il brusio della sala mi portasse via con i pensieri, verso ricordi che credevo smarriti.

Poi, un gesto dell’amico che avevo invitato mi ha richiamato al presente. “E tu che ne pensi?”, mi ha chiesto. Così, voltandomi, ho agganciato i frammenti di quella conversazione e, quasi senza accorgermene, ho coinvolto nel discorso quel gruppo di suoi conoscenti.
Ripetevano: “L’impressione è che tutti in questo Paese siano all’arrembaggio!”. Quella frase, così cruda eppure carica di un senso quasi poetico, mi ha trafitto, già… come un arpione lanciato da chissà quale nave fantasma in mezzo a un mare in tempesta…

“Arrembaggio”, pensavo tra me, mentre ripetevo mentalmente la parola come se fosse un incantesimo arcaico. Ed ecco che subito mi sono apparsi davanti agli occhi i volti segnati dal sale e dalla crudeltà dei pirati dei grandi romanzi d’avventura: Long John Silver che ride beffardo ne “L’isola del tesoro” di Robert Louis Stevenson, oppure il Capitano Nemo, già… che domina gli abissi in “Ventimila leghe sotto i mari” di Jules Verne, o ancora, il feroce “Capitano Hook” di J.M. Barrie, sempre in bilico tra paura e vendetta, e per finire, i predatori senza patria che solcano gli oceani nel “Capitano Blood” di Rafael Sabatini. Uomini senza bandiera se non quella dell’avidità, pronti a salire sul ponte delle navi altrui con sciabole sguainate e occhi pieni di brama.

Eppure, ascoltando quei discorsi al bar, non si stava parlando di bottini sepolti su isole lontane né di mappe con la X rossa segnata su un punto, ma viceversa si faceva riferimento alle bollette che lievitano, ai posti di lavoro persi, alle promesse politiche svanite, sì… come schiuma tra le dita.

La metafora del pirata, però, calzava a pennello, perché oggi sembra che ognuno, in qualche modo, stia preparando la propria scialuppa per raggiungere la nave accanto, non per aiutare l’equipaggio, ma per portargli via tutto ciò che può.

È un periodo in cui rubare, aggirare, approfittare, appare spesso più intelligente che agire con onestà e chi rispetta le regole sembra destinato a rimanere indietro, mentre chi – viceversa – sa arruffianare, mentire, truccare i conti, viene ammirato come un nuovo eroe dei tempi moderni.

Ed ecco quindi che la nostra società è diventata un oceano infinito popolato da vascelli in fuga e da predatori in caccia, dove nessuno si fida del timoniere e neppure del compagno di cabina.

Ma allora cosa c’è dietro questa sensazione diffusa, quasi viscerale, di vivere in un’era di saccheggio generalizzato? È davvero l’avidità umana a essersi improvvisamente moltiplicata, oppure è la paura a guidare questi comportamenti?

Chissà… forse la colpa è da ricercarsi in questo futuro incerto, quando ogni giorno da quei Tg giungono nuove notizie su conflitti, stragi, crisi, precarietà, ingiustizia, e quindi l’istinto primario prende il sopravvento: sopravvivere a tutti i costi, anche a costo di dover calpestare il nostro vicino, in fondo, se credi che il mondo stia per affondare, perché non provare a salvare almeno il tuo baule?

E così, lentamente, ci si convince che anche gli altri stiano facendo lo stesso, e allora diventa giusto farlo per primo, sì… prima degli altri! Ed è così che nasce una sorta di corsa al ribasso morale, dove l’etica viene considerata un peso inutile da abbandonare sul ponte per correre più veloce.

Mi chiedo però se questa visione sia davvero fedele alla realtà o se invece non sia il frutto di un racconto collettivo che si autoalimenta. Perché è innegabile che esistano casi eclatanti di corruzione, di speculazione, di furto delle nostre risorse pubbliche, ma possiamo dire con certezza che “tutti” siano ormai diventati “pirati”?

O forse è solo che i veri predatori, quelli rumorosi e spregiudicati, occupano tutta la scena, mentre la maggior parte della gente continua a lavorare in silenzio, a pagare le tasse, ad aiutare il vicino di casa, a tenere insieme i cocci senza fare titoli sui giornali? La percezione dell’arrembaggio generalizzato potrebbe essere amplificata dai media, dal web, dai discorsi nei bar appunto, fino a trasformarsi in una narrazione dominante, capace di plasmare il nostro sguardo sulla realtà, anche quando non corrisponde interamente alla verità.

E allora mi torna in mente un’altra immagine, meno epica ma forse più necessaria: quella del marinaio stanco che, pur vedendo altre navi attaccate e saccheggiate, decide di non issare la bandiera nera, ma di continuare a navigare con la sua rotta, magari offrendo soccorso a chi galleggia tra i relitti.

Perché forse il vero atto di ribellione in un’epoca di arrembaggi non è difendere il proprio tesoro a colpi di moschetto, ma ricordare che il mare è grande abbastanza per tutti, e che viaggiare insieme, condividendo fatica e speranza, potrebbe essere l’unica via per evitare che nessuno affondi. Certo, il tesoro condiviso brillerà meno di quello accumulato da un solo uomo, ma sarà un tesoro che non richiede sangue, tradimento o rimorso.

Ecco, forse è proprio questo il mio dubbio: stiamo assistendo a un crollo del senso di comunità, a una rinuncia collettiva all’idea che il bene comune possa ancora avere valore? Oppure, dietro questa retorica dell’arrembaggio, si nasconde una voglia repressa di giustizia, di equilibrio, di riscatto?

Mi piace pensare che dentro ognuno di noi ci sia ancora un po’ di capitano onesto, confinato in un angolo della coscienza, che osserva la tempesta e si chiede se non sia il caso di cambiare rotta, non per paura del nemico, ma per amore della nave, per rispetto del mare, e per non dimenticare che, alla fine, nessun pirata è mai stato felice del suo tesoro…

Non siete eredi dei padri, ma dei figli che quei padri hanno ucciso.

Sì… avrei dovuto pubblicare questo post alcuni giorni fa, ma purtroppo alcuni impegni ed altri post che avevo preparato hanno avuto la precedenza e quindi ho dovuto posticipare questa pubblicazione.

C’è però un motivo più profondo: quando la notizia mi ha raggiunto, sono rimasto senza parole. È un paradosso, perché le sue sono state tra quelle che più mi hanno trasmesso la vicinanza e la forza di Peppino Impastato.

Oggi, provando a superare quello sconforto, voglio unirmi al ricordo di Luisa Impastato che dice: ci lascia un altro pezzo grande della nostra storia, una storia di ragazzi che volevano cambiare il mondo sfidando il potere della mafia. Con profonda gratitudine e sincera tristezza salutiamo Salvo Vitale, fondatore di Radio Aut e da sempre testimone della lotta, che ha incarnato con straordinaria coerenza il senso più autentico della testimonianza quotidiana. La sua voce è stata un esempio luminoso di libertà e responsabilità, capace di guidare intere generazioni a comprendere che il cambiamento nasce da ciascuno di noi.

Era lui, nel film “I cento passi”, a essere interpretato da Claudio Gioè nel momento del monologo più straziante e vero, quello che squarcia il velo dell’omertà. In quel monologo diceva: domani leggerete che Peppino si è suicidato, che ha abbandonato la politica e la vita, come Pinelli, come Feltrinelli, tutti suicidi. Poi non leggerete proprio niente, perché i giornali parleranno di altro, perché chi se ne frega del piccolo siciliano di provincia. E concludeva, con un’amarezza che era un pugno nello stomaco per tutti: spegnete questa radio, tanto si sa che niente può cambiare, e diciamolo una volta per tutte che noi siciliani la mafia la vogliamo, perché ci dà sicurezza, perché ci identifica, perché ci piace. Noi siamo la mafia!
Ma Salvo Vitale, quel ragazzo di Cinisi nato nel 1943, amico e compagno di battaglie di Peppino Impastato, a quella rassegnazione non si è mai arreso, nemmeno nei momenti più difficili. Ha invece custodito e rinnovato la memoria collettiva, trasformandola in azione concreta.

Difatti, dopo la morte di Peppino, ha continuato la sua attività attraverso “Radio Aut”, lavorando senza sosta per cercare la verità, puntando il dito contro il boss Gaetano Badalamenti, insegnando storia e filosofia ai giovani, perché la cultura arrivasse a tutti. Con le sue parole, i suoi gesti e il suo impegno costante ha mostrato cosa significhi contrastare le mafie sul piano civile e culturale, senza paura, senza piegarsi.

Ecco perché a lui va la mia gratitudine, sì… per la strada che ha tracciato con dignità e coraggio, una strada lastricata dalla forza semplice di persone che non hanno accettato di essere “Nuddu ammiscatu cu nenti”, un esempio, insieme a quello di Peppino, che ogni giorno orienta il mio cammino, già… di chi crede – ancora tra mille difficoltà – nella giustizia e soprattutto nella democrazia, ricordando a me e a tutti voi, che la vera sicurezza non viene dalla sottomissione, ma dal riscatto!

Quando il lavoro onesto diventa un rischio: curnutu e vastuniatu!

C’è un silenzio che pesa più di qualsiasi parola, soprattutto dopo aver fatto tutto ciò che ti era stato chiesto.
Sì… hai voluto seguir la strada dritta, hai così compilato ogni modulo, superato i controlli, persino quelli che sembrano inventati apposta per scoraggiare chi non ha alcuna protezione o appoggio…

Hai altresì presentato i documenti antimafia, come se la tua onestà dovesse essere dimostrata, come se fossi tu il sospettato, no… chi ti commissiona il lavoro.

Eppure, non hai mai alzato la voce, hai continuato a camminare dritto, convinto che prima o poi qualcuno avrebbe visto il tuo impegno e avrebbe così riconosciuto il tuo valore.

E quando finalmente arriva quel contratto, già… quel pezzo di carta sembra promettere un futuro in salita, sì… lo guardi con gli occhi lucidi di chi non ci credeva più.

Non era stato un colpo di fortuna, ma il risultato di anni di fatica, di scelte difficili, di rinunce difficili, le stesse che poi hanno fatto arricchire i tuoi avversari.

Eri comunque pronto a metterci il tuo impegno, la faccia, i mezzi, il tempo, ormai eri dentro, non hai ricevuto alcun acconto e così hai investito il tuo denaro, pensando comunque che alla fine, se avresti fatto bene il tuo dovere, qualcuno avrebbe fatto il suo…

Ed allora la tua imprese lavora senza sosta, sì… con la stessa cura che metteresti per realizzare casa tua; rispetti i tempi, superi gli imprevisti, risolvi problemi che – come solitamente accade – non dipendono da te, completi quindi un mese di lavori, verifichi la contabilità consegnata dalla tua D.l. e dopo qualche giorno emetti la fattura concordata, in attesa dei fatidici 60/90 gg…

Sì… aspetti quel pagamento, lo aspetti con la pazienza, già perché sai che nel mondo degli appalti il denaro viaggia lento, aggiungerei… troppo lento: Sessanta, novanta e a volte anche centoventi giorni, ti dicono che è normale…

Ma stranamente (o dovrei dire “spesso”) dopo tutto quel tempo, il bonifico non arriva!!!

Ed allora, chiami, mandi solleciti, mostri documenti, fatture, verbali di consegna, ma ricevi solo silenzi e le classiche risposte vaghe, già… le stesse che come neve al sole si sciolgono improvvisamente… ed allora ti rivolgi ai legali, iniziano le procedure dei decreti ingiuntivi, ed invece di vedere finalmente una soluzione, ecco che ti arriva una “bella” comunicazione: il contratto è disdetto.

“Curnutu e vastuniatu” così si dice a Catania, non perché hai sbagliato, non per la tua inadempienza, ma perché ti sei permesso – già… hai osato chiedere a quel Committente (che siede alla del padre…) – i tuoi soldi, i tuo diritti, già… ciò che ti spetta per legge!!!

Ma di quale legge parliamo? Una legge che tutela i ladri e colpisce gli onesti…? Sì… è quando ti rivolgi allo Stato che comprendi tutto il tuo fallimento, già… quando entri in un’aula di Tribunale che comprendi di non aver più una rapida soluzione ai tuoi problemi, anzi il più delle volte, vieni punito per aver preteso il rispetto delle regole.

Sei un estraneo in un gioco di cui non conosci le regole, o meglio, in cui le regole cambiano a seconda di chi le fa e soprattutto chi le deve seguire.

Non importa se hai rispettato ogni vincolo, ogni obbligo, loro possono disattendere “impunemente” ogni obbligo, possono cancellare quel rapporto istaurato come se fosse un errore di battitura e così, mentre tu lotti per non affondare, per pagare i tuoi operai, i fornitori, per mantenere aperta un’impresa che magari ha radici profonde in questo territorio, loro, sì… questi grandi appaltatori, se ne stanno al riparo, protetti da centinaia di clausole che sembrano fatte apposta per salvarli, anche quando sono loro a creare i problemi!!!

Nel frattempo mentre tu aspetti invano i tuoi pagamenti… fallisci, mentre loro – viceversa – ricevono quei fondi pubblici previsti e consegnati loro da una politica che utilizza quel sistema per raccomandare parenti e familiari, ma soprattutto per foraggiare un sistema parallelo, illegale, che poi ricambia attraverso preferenze elettorali, si con quel noto scambio di voti.

Ma infatti da “Siciliano” mi sono sempre chiesto: perché affidare questi lavori a chi non vive qui, a chi non conosce il territorio, a chi non ha alcun interesse a costruire qualcosa di duraturo? Perché non dare direttamente appalto a chi ha le competenze, a chi ha le maestranze, a chi da generazioni tiene in piedi l’economia di questa terra? Perché inserire un anello intermedio che non aggiunge valore, ma solo costi, ritardi e rischi?

Ma forse anch’io la risposta la so da sempre: Sì… forse perché quel collegamento non è mai stato tecnico, ma politico? Forse perché dietro quei nomi vi sono appoggi, raccomandazioni, scambi di favori che nulla hanno a che fare con la trasparenza o il merito, ma servono principalmente ad oliare questo sistema marcio!

Ma quando ne parlo a gran voce, quando pubblico i miei post, sì… sono in molti a darmi ragione, ma poi girato l’angolo, scrollano le spalle, già… come se questo meccanismo perverso sia inevitabile, mi sembra il classico discorso dello sconfitto! Ma la verità è che nella maggior parte dei casi, molti di essi, appartengono – direttamente e/o indirettamente – a quel sistema clientelare e collusivo, sì… sono proprio essi, i loro figli, parenti e amici, ad essersi genuflessi e ad aver approfittato e ancora approfittano di quel marciume

Credetemi… quanto riporto non è rabbia, non me ne fotte un caz…, tanto – come dico sempre – io mi accontento del mio piatto di pasta, di più tanto non posso mangiarne…- e quindi, non ho bisogno di “LORO”, sì… di quei politici, di quegli imprenditori mafiosi e collusi (ancor più di quei loro lacchè – incompetenti – chiamati “teste di legno”),ed ancora, di amici e conoscenti che operano nel servizio pubblico (finora mi sono sempre rivolto – a pagamento – ai servizi privati…), non ho bisogno di raccomandazioni, perché mi sento abbastanza preparato che solitamente le imprese a fare una “cinquina” assumendomi e mai il contrario, difatti, in questi miei 35 anni di servizio, nessuno mai ha pensato di licenziarmi, difatti, in quelle poche circostanze, sono stato io ad inviare le dimissioni – solitamente per giusta causa.

D’altronde come potrei convivere in un’impresa, avendo la consapevolezza che essa appartiene, di fatto – ad un’associazione criminale o permette quotidianamente che metta in campo meccanismi fraudolenti, gli stessi che poi le permettono di evadere e quindi incassare migliaia e migliaia di euro…

parliamo di semplici raggiri (ma sono truffe che lo Stato – ahimè – non riesce neppure a comprendere o quando ci riesce è ormai troppo tardi… eppure sono lì…sotto i loro occhi, ma a volte ho come l’impressione che quei soggetti si trovino nella “stanza con l’elefante”) ma d’altronde lo Stato punisce chi le regole le rispetta, mentre premia o forse dovrei dire “ricompensa”, chi riesce a far durare più a lungo questo sistema, d’altronde lo stesso che lo tiene in vita.

E così… in questi anni, centinaia di imprese oneste siciliane hanno chiuso, non per incapacità, ma viceversa, per mancanza di giustizia.

Perché alla fine quello che manca davvero in questa terra non è il denaro, ma il senso di quel diritto che ormai nessuno, sembra più voler far rispettare! E quindi: Curnutu e vastuniatu!

Giustizia a senso unico: nei nostri appalti, chi opera onestamente subisce il torto e la beffa. E lo Stato, invece di punire, paga i “General Contractor” con indennizzi miliardari.

Dove si cela la giustizia in questo paese, quando si parla di contratti e di lavoro onesto?

Già… ti sei fatto in quattro. Hai seguito ogni regola, presentato ogni documento richiesto, persino quelli antimafia, per dimostrare la tua trasparenza e la tua serietà.

Hai superato ogni ostacolo, ogni verifica, per aggiudicarti quel piccolo pezzo di un appalto molto più grande, convinto che il merito e la correttezza avessero ancora un valore.

Poi, quasi a volerti mettere alla prova ulteriormente, ti è stato chiesto di fare da banca a chi ti ha commissionato il lavoro, rilasciando una fideiussione a garanzia dei lavori da compiere.

Incredibile… dovrebbero essere loro a rilasciarla a garanzia dei pagamenti! Pagamenti che, come si sa, nei casi migliori non arriveranno prima di centoventi lunghissimi giorni.

Eppure, hai accettato anche questo, sopportando il peso di un flusso di cassa strangolato, nella speranza che almeno il rapporto di lavoro fosse basato sul rispetto reciproco. Hai creduto in quel patto, investito risorse, mezzi e la tua professionalità, pensando di aver finalmente costruito qualcosa di solido.

Ma poi, all’improvviso, il silenzio. I pagamenti promessi non arrivano più, le comunicazioni si fanno rarefatte, i responsabili con cui hai interloquito spariscono e ti ritrovi a inseguire un credito che sembra essersi volatilizzato nel nulla. E la reazione, quando osi far valere le tue ragioni e chiedere ciò che ti spetta di diritto, è di una durezza inaudita.

Subisci non solo il torto del mancato pagamento, ma anche la beffa della disdetta del contratto!

Sì… per aver semplicemente preteso che venga rispettato un accordo, ti vedi recidere il rapporto alle radici. È un paradosso amaro che lascia senza parole, dove la parte che ha già sopportato ogni onere si ritrova punita per aver rivendicato un diritto.

Ma il colmo dell’ingiustizia è sapere che, mentre tu lotti per vedere riconosciuti i tuoi crediti, quel general contractor che ti ha messo in crisi è al sicuro. Già… perché alcuni di questi soggetti hanno ricevuto, da quella stessa politica con cui intrattengono rapporti opachi, dei veri e propri salvagenti economici.

Garanzie pubbliche, clausole contrattuali capestro, che prevedono la corresponsione di indennizzi milionari, a volte persino miliardari, nel caso in cui la commessa venga interrotta per motivi ufficialmente dipendenti dallo Stato.

Così, mentre la tua impresa rischia il collasso per quei pagamenti mai ricevuti, loro, non solo non pagheranno nessuno, ma incasseranno una lauta buona uscita. Una somma che permetterà ad essi di superare indenni la crisi che hanno creato ad altri, ma non solo, di trarne addirittura un ingente profitto, forse superiore a quello che avrebbero ottenuto portando a termine l’opera in maniera corretta.

E allora ti chiedi: dove sono finiti i protocolli di legalità tanto sbandierati? Valgono forse solo per una parte della filiera, mentre le imprese più piccole, quelle che materialmente realizzano l’opera, devono soltanto subire e tacere?

È una vergogna che sta lacerando il tessuto produttivo di questa terra. Ci si dimentica troppo spesso delle migliaia di imprese, alcune operanti da generazioni, che in vent’anni hanno chiuso i battenti proprio a causa di queste dinamiche perverse.

General contractor, spesso consorzi del nord Italia, si aggiudicano appalti milionari e poi li gestiscono in modo da lasciare dietro di sé una scia di fallimenti e debiti insoluti. La circostanza più assurda è che nessuno, finora, ha pagato per questo. Nessuna sanzione amministrativa, men che meno penale, per aver devastato un intero ecosistema economico.

E allora sorge spontanea una domanda, amara e diretta: perché affidare i lavori a questi grandi soggetti, quando sono le nostre imprese, quelle del territorio, a doverli materialmente realizzare? Perché creare un intermediario così potente e spesso così distante dalle reali esigenze del progetto?

Un’idea, purtroppo, me la sono fatta. Basta guardare alle migliaia di assunzioni gestite attraverso le segreterie politiche, che spesso si intrecciano in modo poco trasparente con gli stessi soggetti che, casualmente, si aggiudicano le commesse più succulente.

Sì… lo vado ripetendo ormai da anni: è un gioco dove a perdere sono sempre i soliti, quelli che con il sudore della fronte cercano solo di lavorare onestamente.

I nuovi don Lolò: imprigionati nella giara della loro avidità!

Buongiorno a tutti, condivido con voi una riflessione che mi è venuta rileggendo una delle novelle più potenti di Pirandello.
I siciliani disonesti, ladri e soprattutto avidi di potere e denaro, sono come quel don Lolò Zirafa, già… il protagonista della novella di Pirandello, un uomo ossessionato dalla brama del possesso, che vive nella perenne e logorante diffidenza nei confronti del prossimo.

Ma non solo, spinto da quella identità che lo contraddistingue, ha la perenne convinzione che chiunque possa derubarlo, sottraendogli la cosiddetta “roba” a cui ha consacrato tutta la sua esistenza. Ed allora trascorre il suo tempo inseguendo e accanendosi verso chiunque possa intaccare quel suo potere e nel far ciò, dissipa il suo denaro in processi persi in partenza.

Anche il suo legale – che pur si arricchisce grazie alla nevrosi del suo cliente – arriva al punto di non sopportarlo più ed ecco perché quella sua parabola è un monito perfetto e sempre attuale.

Pensate a don Lolò, che dopo aver acquistato una giara enorme per la sua oliva, la trova inspiegabilmente rotta a metà. La sua mente sospettosa lo spinge immediatamente dall’artigiano Zi’ Dima, un uomo di cui, ovviamente, non si fida per niente…

È questa diffidenza patologica a portarlo alla rovina. Non si accontenta del collante proposto da Zi’ Dima per riparare il danno e, convinto di essere furbissimo, lo obbliga a rinforzare tutto con una saldatura di ferro, per paura di essere raggirato. E qui inizia la trappola.

Zi’ Dima, per eseguire quell’ordine insensato, è costretto a entrare nella giara, rimanendovi poi tragicamente intrappolato una volta terminato il lavoro. L’artigiano capisce subito che l’unica via d’uscita è rompere quel vaso, ma si rifiuta di farlo perché non vuole pagare i danni di una colpa che non è sua. Don Lolò, davanti a questa scena, non vede la paradossale disgrazia di un anno, ma solo la minaccia per la sua proprietà.

È ossessionato dal volere un risarcimento per la sua “roba”, esattamente come certa gente oggi è ossessionata dall’apparire ricca e potente a tutti i costi. Alla fine, accecato da un impeto di rabbia incontenibile, è proprio lui a dare il calcio che distrugge la giara.

E così, con le sue stesse mani, don Lolò libera l’artigiano e distrugge il simbolo stesso della sua ricchezza, uscendo sconfitto e beffato. È la perfetta allegoria di un sistema malato dove l’avidità e la diffidenza portano all’autodistruzione.

Come don Lolò, chi vive nell’illegalità e nello sfruttamento dei propri conterranei finisce per ritrovarsi imprigionato nella giara che lui stesso ha costruito, una prigione di terracotta fatta di sospetti, paure e solitudine, dove l’unico modo per uscire sarebbe distruggere tutto ciò che si è accumulato con tanta avidità.

Mi consola profondamente pensare che tutto il frutto della loro vita meschina, quell’accumulo spasmodico di potere e ricchezza, sia destinato a ridursi a nulla, per poi trasformarsi in altro.

Come insegnava Lavoisier: nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma. Quel potere tanto agognato e difeso con ogni nefandezza, un giorno si dissolverà in polvere, e a beneficiarne non saranno neppure i loro stessi familiari, che non avranno lasciato alcuna stirpe degna di questo nome, ma bensì soggetti totalmente estranei e indifferenti alla loro misera storia.

La politica che sopravvive grazie al voto di scambio: il circuito perfetto tra mafia, consenso e appalti.

Buongiorno a tutti, oggi voglio condividere con voi una riflessione profonda su un male che affligge il nostro Paese da decenni, un cancro che si insinua nelle pieghe della nostra democrazia e ne corrode le fondamenta.
È mia ferma convinzione che in gran parte delle regioni italiane, specialmente quelle dove la presenza mafiosa è più radicata, non siano più i cittadini a decidere liberamente chi debba salire al potere, ma sia piuttosto un sistema trino, perfetta e perversa fusione di tre attori, già… tutti legati come i tre frutti della foto.

Eccoli quindi, per primi i politici (affiliati direttamente o che sanno di poter godere di quelle organizzazioni criminali), seguono quanti legati al mondo del lavoro (imprenditori compiacenti, segreterie politiche, caf, taluni sindacati, associazioni, circoli, resp. delle risorse umane, e coloro inseriti appositamente all’interno di quei cosiddetti “General Contractor”, etc… ) ed infine – quest’ultima non manca mai – la “criminalità organizzata”, che riesce a manipolare il consenso elettorale in cambio di favori illeciti.

Questo meccanismo perverso rappresenta una delle più gravi distorsioni del nostro sistema democratico, dove la volontà popolare viene sostituita da calcoli opportunistici e interessi criminali.

Il voto di scambio è purtroppo una realtà consolidata in molti territori, dove la mafia o altre organizzazioni criminali stabiliscono patti segreti con esponenti politici, garantendo loro un ampio sostegno elettorale in cambio di finanziamenti, appalti pubblici e altre utilità.

Questi accordi illeciti avvengono lontano dagli occhi dei cittadini, nelle stanze del potere dove si decidono le sorti delle comunità, e sono spesso difficili da scoprire e perseguire a causa della loro natura opaca e delle complicità che coinvolgono.

Dall’altra parte, la politica concede beni pubblici e risorse che dovrebbero essere destinate allo sviluppo collettivo, ma che invece vengono dirottate verso interessi privati e criminali.

Gli appalti vengono assegnati non in base alla meritocrazia o all’efficienza, ma secondo logiche di affiliazione e complicità, dove gli “amici degli amici” ricevono favori e contratti lucrosi senza alcun riguardo per la legalità o il bene comune.

Lo stesso vale per i posti di lavoro, che spesso vengono distribuiti a familiari o a persone vicine a questa organizzazione, già… come ricompensa per il sostegno elettorale offerto, creando un sistema di clientelismo che soffoca la meritocrazia e impoverisce la comunità.

Un meccanismo perverso che non solo distorce il mercato del lavoro, ma mina alla base la fiducia dei cittadini nelle istituzioni, alimentando un circolo vizioso di sfiducia e rassegnazione .

L’ingranaggio di questo sistema corruttivo deve chiudersi perfettamente, in modo che ciascun attore coinvolto ottenga i propri benefici.

E così, la mafia consolida il suo potere sul territorio e accede a risorse economiche preziose e la politica garantisce la propria sopravvivenza e il proprio mantenimento al potere, anche a costo di svendere pezzi dello Stato e dei suoi principi fondamentali.

In questo modo, gli interessi criminali e quelli politici si fondono in una simbiosi perversa che danneggia soprattutto i cittadini onesti.

Purtroppo, molte inchieste giudiziarie hanno portato alla luce queste dinamiche, ma troppo spesso vengono soffocate dai media o da quei giudici che sono complici di questo sistema, preferendo mantenere il silenzio piuttosto che affrontare la verità scomoda che emerge dalle indagini.

È inquietante d’altronde notare come certe inchieste vengano aperte e portate avanti per anni, per poi essere magari archiviate o ridimensionate in modo da non intaccare realmente le strutture di potere coinvolte.

Non possiamo più permettere che questa situazione continui a perpetuarsi, perché il prezzo che paghiamo come comunità è troppo alto: è il prezzo della dignità, della giustizia sociale e della stessa democrazia, che viene svuotata di significato e ridotta a una mera formalità. Dobbiamo pretendere che la politica si purifichi da queste pratiche illegali e che ritrovi la sua vocazione originale di servizio verso i cittadini e il bene comune.

È necessario che tutti, cittadini e istituzioni, ancora parte sana del Paese, alzino la guardia e combattiamo con determinazione questo fenomeno, denunciando ogni abuso e pretendendo trasparenza e accountability da parte di chi ci governa, perché solo così potremo sperare in un futuro migliore per il nostro Paese. La lotta alla corruzione e al voto di scambio non deve essere una battaglia di parte, ma un impegno collettivo per ridare credibilità alla nostra democrazia.

Ed allora, rivolgendomi a tutti coloro che finora non sono stati intaccati da quel marciume, ecco, vi chiedo di non voltarvi dall’altra parte, di non cadere nella trappola del disincanto e della rassegnazione, ma di essere vigili e attivi nel difendere i valori della legalità e della giustizia, perché solo attraverso un impegno corale potremo sconfiggere questo sistema malato e costruire una società più equa e trasparente per noi e per le generazioni future. Il cambiamento parte da ciascuno di noi, dalla nostra volontà di non accettare compromessi e di pretendere il rispetto delle regole da parte di chi ci amministra.

Grazie per avermi ascoltato e spero che questa riflessione possa contribuire ad accendere una luce su un problema che troppo spesso viene taciuto o sottovalutato, ma che rappresenta una delle principali minacce per il nostro vivere civile e per la nostra democrazia.

Costruiamo insieme un futuro dove il voto sia davvero libero e la politica torni a essere uno strumento di servizio e non di potere personale o criminale, altrimenti ne pagheremo tutti le conseguenze.

P.s. Ringrazio per la foto, l’amico Fabio Corselli: http://www.fabiocorselli.it

I raggiri di Ferragosto sono i più esilaranti… peccato non siano una barzelletta!

Ferragosto, si sa, è il periodo della spensieratezza e così, mentre la maggior parte del Paese si gode il sole in spiaggia, il silenzio della montagna o il rumore di una griglia accesa, c’è chi, invece, approfitta di questa tregua collettiva per muoversi nell’ombra…

E no, non sto parlando di fantasmi, ma di raggiri, truffe e abusi che sembrano moltiplicarsi proprio quando gli uffici giudiziari sono ridotti all’osso e le procure lavorano a rilento.

Ho letto alcune notizie in questi giorni sul web che, più che indignarmi, mi fanno sorridere amaramente…

Perché è tutto così prevedibile, eppure nessuno sembra accorgersene. Le forze dell’ordine? Prese tra turni ridotti e emergenze estive. Le procure? Metà in ferie, l’altra metà probabilmente sommersa da pratiche o, peggio, gestita da chi ancora non ha l’esperienza per riconoscere ciò che sta davanti ai suoi occhi.

E difatti, mentre i cittadini credono di vivere in un Paese dove la legalità non va in vacanza, la realtà è ben diversa. Chi vuole agire illegalmente sa benissimo che agosto è il mese perfetto: meno controlli, meno personale, ma soprattutto meno attenzione!

E se per caso qualcuno – già… con il mio stesso acume, ma diversamente da me che non ricopro ruoli istituzionali – si dovesse accorgere di qualcosa che non va… già, cosa fare? Basterà, come al solito, aspettare…

Sì… aspettare che un esposto, magari scritto nei modi e nei tempi imposti dalla Legge Cartabia – quella stessa legge che, guarda caso, sembra fatta apposta per scoraggiare le denunce – giunga sulla sua scrivania. E nel frattempo? Nel frattempo, tutto procede come al solito, con la complicità di chi, invece di vigilare, abbassa lo sguardo o, peggio, finge di non vedere.

Mi chiedo: è davvero solo incapacità? O c’è dell’altro? Perché certe dinamiche sembrano ripetersi con una precisione quasi sospetta. Funzionari compiacenti, pratiche che si perdono nel vuoto, tempistiche che coincidono troppo bene con le assenze dei vertici. E dovrei aggiungere quanto, ahimè, ho scoperto… ma così sarebbe troppo semplice, quantomeno per chi dovrebbe scoprire i raggiri posti in atto.

Continuare ad aiutarli non mi sembra più così corretto: d’altronde, è quello il loro lavoro (sono loro a prendersi le “coccarde”). E quindi, se non sanno compiere bene il proprio lavoro, forse, chissà… dovrebbero cambiarlo!

Già… basterebbe loro ricordare le parole del giudice Borsellino: «A fine mese, quando ricevo lo stipendio, faccio l’esame di coscienza e mi chiedo se me lo sono guadagnato».

E così, mentre il sottoscritto scrive questo post, le truffe e i raggiri continuano. E chi si ritrova – da semplice cittadino – a combattere contro questo sistema illegale, resta solo, sì… perché chi dovrebbe proteggerlo, alla fine… gli rema contro.

Ecco perché scrivo. Sì, lo faccio per tutti quei soggetti istituzionali che considerano Ferragosto come il periodo dei bagni, delle grigliate, delle gite al lago o in montagna, mentre invece dovrebbero iniziare a dedicare il proprio tempo a chiedersi cosa succede davvero in questa nostra regione, mentre tutto intorno dorme.

Perché se è vero che la legalità non dovrebbe mai andare in ferie, allora qualcuno dovrebbe spiegare perché, invece, sembra proprio che sia così…

Ovviamente, mi rendo disponibile – come sempre, d’altronde, nei miei ultimi quindici anni – a spiegare a qualche funzionario inquirente cosa sta, ahimè, accadendo. Già… purtroppo sotto gli occhi di tutti. Anzi, no: sotto i loro occhi. Ma forse, ahimè, non se ne sono accorti. O forse – e qui sta il dramma – per muoversi hanno bisogno di un esposto formalmente presentato, altrimenti, di loro iniziativa… non possono agire, già… nemmeno dinnanzi alla più palese delle violazioni!

Ma d’altronde, è questo il Paese che – proprio grazie alla nuova riforma sulla giustizia – si vuole ottenere! Dove ogni denuncia deve superare un percorso a ostacoli degno delle olimpiadi burocratiche, mentre i furbi continuano a fare il bello e il cattivo tempo.

Complimenti vivissimi ai geni che hanno realizzato questo splendido sistema giuridico. Già… che progresso, signori miei… che progresso.