Archivi tag: responsabilità

Dal Governo: Stop alla mafia in TV”. Ma il rischio è cancellarla dall’agenda reale, non dallo schermo!


Ok… va bene, parliamo di questa idea: far sparire la mafia dai film, dalle serie, dalle storie che girano intorno a noi.

Lo so, lo so bene, non si tratta di cancellarla del tutto, quanto piuttosto di toglierle quel velo di fascino che, per troppi anni, le è stato cucito addosso da una narrazione troppo spettacolare, troppo compiaciuta, quasi ammirata. 

L’intento è condivisibile, anzi necessario: non vogliamo che i nostri ragazzi guardino a quegli uomini come a modelli, non vogliamo che l’oscurità venga scambiata per forza, l’arroganza per coraggio, la violenza per potere. Il punto, però, non è nascondere la realtà, ma raccontarla senza orpelli, senza mitizzarla. 

Perché la mafia non è un’invenzione da sceneggiatura, è un fatto, un tessuto che ha attraversato e ancora attraversa vite, quartieri, intere regioni, e persino le stanze del potere; nasconderla sarebbe non solo inutile, sarebbe ipocrita: una sorta di patto tacito con l’ignoranza, un modo per non guardare in faccia la verità.

Serve invece una rappresentazione più onesta, più cruda, che non risparmi i dettagli scomodi: quegli uomini, nella maggior parte dei casi, non sono eroi, menti raffinate, ma neppure architetti del male, sono spesso individui ignoranti, culturalmente vuoti, cresciuti in contesti senza affetto né regole, dove l’unica lingua parlata è quella del dominio e del sospetto.

Peraltro, la ricchezza accumulata non è libertà, è una gabbia dorata che non possono nemmeno aprire: non viaggiano, non frequentano, non godono, vivono sempre in allerta, con lo sguardo fisso alle spalle, come se il mondo intero fosse una minaccia.

E alla fine, molti di loro finiscono come tutti gli isolati: soli. Rinchiusi in celle di massima sicurezza, abbandonati dagli stessi che un tempo li osannavano, dimenticati persino dai familiari. Non c’è gloria in quella fine. C’è solo il vuoto di una vita spesa a costruire niente, se non paura!

Ma qui sta il nodo più difficile da sciogliere: non basta cambiare il modo in cui si racconta la mafia, se poi non si ha il coraggio di guardare a chi le tiene aperte le porte ogni giorno.

Non parlo dei picciotti, dei piccoli spacciatori, di chi obbedisce e basta, senza chiedere, di chi spara, percuote, minaccia di persona, cioè di chi fa il “lavoro sporco” in prima persona senza chiedere…

No… mi riferisco a di chi indossa un completo, firma delibere, stringe accordi in sale riunioni, di chi evidenzia “mani pulite”, sapendo di avere la coscienza “sporca”. Sono loro il motore nascosto, il collante, il sistema che trasforma un’organizzazione criminale in un apparato quasi istituzionale.

Eppure, mentre si discute se una serie tv, un film, sia troppo morbido o troppo cruento, quella rete continua a tessersi indisturbata, sotto gli occhi di tutti, anzi, spesso proprio grazie allo sguardo distolto di molti o proprio di coloro che propongono l’abolizione di quelle trame romanzate.

Le mafie oggi non sparano più in piazza, non ammazzano i giudici in mezzo alla strada – per fortuna – ma sono più forti che mai, perché hanno imparato a mimetizzarsi, a parlare il linguaggio dell’economia, della burocrazia, del consenso. 

Sono dentro le gare d’appalto truccate, nei contratti gonfiati, nelle nomine pilotate, nei silenzi compiacenti, nelle assemblee dei consigli comunali. Non c’è bisogno di armi quando hai chi ti fa passare un atto inosservato: la violenza si trasforma in omissione, in complicità, in corruzione.

Le inchieste lo dicono ogni ogni giorno, ogni settimana, ogni mese, senza clamore, senza titoloni: non si tratta di sparatorie, ma di firme, di bonifici, di verbali falsificati, di relazioni tecniche appositamente taroccate. Eppure dal nostro governo si preferisce dibattere di film e fiction, come se la verità potesse essere cancellata cambiando un copione, mentre la realtà continua a marciare, silenziosa e implacabile.

Allora sì, raccontiamola meglio, la mafia! Ma questa volta non per far bella figura davanti alle telecamere di una Tv utilizzata a modello “propaganda” o per accontentare le sensibilità del momento, sì… raccontiamo perché chi ci governa, chi decide, chi ha potere di scelta, si senta ora chiamato in causa, senza che un pentito o un boss prima di morire da dentro il carcere abbia deciso di parlare…

Perché la vera battaglia non si combatte sul set di una serie, ma nelle aule di tribunale che vanno potenziate, nei controlli che vanno resi più efficaci, nelle scuole dove bisogna insegnare a riconoscere il clientelismo prima ancora che la violenza. E se non si ha il coraggio di guardare lì – dove stanno le mani che stringono, non quelle che sparano – ogni discussione sulle storie inventate resta solo rumore di fondo, un diversivo comodo, quasi colpevole.

Perché quel sistema non vive solo di omertà e intimidazione: vive di consenso, di complicità elettorale, di voti che vengono raccolti proprio grazie a quei legami. E fino a quando non si avrà il coraggio di chiamare le cose con il loro nome – senza giri di parole, senza eufemismi, senza distrazioni inutili -nessun cambiamento sarà reale! Sì… nessuno.

Altro che terra santa, sembra viceversa – da 2000 anni – una terra maledetta!


Le cronache e le immagini che ci arrivano da Gaza e da ogni altra parte di quel territorio, mostrano la sofferenza fisica (e morale) di innocenti indifesi.

La violenza si sa… genera morte e distruzione, la vendetta genera odio e dolore, e così assistiamo a un percorso circolare in cui si rincorrono solo gli aspetti più bui dell’umanità. 

Una pace che non si apre, che non ammette solidarietà né comprensione, e che non fa altro che alimentare il male con altro male. Da millenni anni, secoli e in modo più acuto da quel maledetto ottobre, parliamo e scriviamo di questo. 

Eppure le parole, tutte le parole, sembrano scivolare via come acqua su una pietra levigata dall’indifferenza.

È stato superato da tempo ogni limite di sopportazione. Abbiamo visto le cause, immediate e lontane e il numero altissimo di vittime a causa di bombardamenti, scontri, esplosioni e soprattutto carenza assoluta di viveri. Innumerevoli appelli, mediazioni di papi, imam, patriarchi, rabbini, ayatollah, dalai lama, ma anche capi di stato, si sono infranti contro un muro di rifiuto e gli aiuti che sono riusciti a filtrare sono una goccia in un oceano di disperazione.

Vorrei chiedervi: Cosa spinge un essere umano a non fermarsi, a continuare a provocare dolore? Come si trasforma questa sensazione di impotenza che ci assale in qualcosa di concreto? Al sottoscritto sembra che dopo tante parole, l’indifferenza sia nuovamente calata come un velo pesante sul male della guerra, e che la paura ci abbia resi ormai muti. E come ripeto sempre in ogni occasione: il silenzio, si sa, ci rende complici.

Intorno a Gaza, intorno alla Palestina, sono stati eretti muri fisici, visibili, che bloccano l’accesso a chi non è “autorizzato”: aiuti, volontari, occhi del mondo. Ma intorno a tutta questa guerra è stata costruita un’altra barriera, invisibile e più spessa, che blocca l’ingresso alla verità. Una verità che sola potrebbe nutrire la giustizia e restituire dignità a una popolazione stremata. 

Cosa, o chi, impedisce davvero di aiutare esseri umani che vivono in condizioni disumane? Forse la loro debolezza fa paura. Forse la loro rassegnazione non scuote più le coscienze addormentate. Chi sono coloro che scelgono di seguire interessi economici o di potere, aumentando le spese per procurare morte mentre poco più in là c’è abbondanza di quanto servirebbe per vivere? Perché negare un farmaco, un pasto, un po’ di calore, a pochi passi da dove tutto ciò esiste? Il gelo di un terzo inverno, senza il calore della solidarietà, sembra non smuovere più cuori ormai induriti e disconnessi.

Sono domande che restano sospese, rivolte a tutti, perché di fronte a una situazione così disumana la responsabilità è collettiva e diffusa. E mentre ora il Natale si avvicina, con quel suo messaggio di luce, quella terra sembra affondare sempre più nelle tenebre di una maledizione antica. 

Già… da oltre duemila anni, forse anche a causa delle religioni che l’hanno contesa, è un luogo dove la guerra ha segnato l’esistenza dei suoi popoli, dove la pace non è mai stata una realtà, ma solo un’illusione lontana. Le dichiarazioni dell’ultimo anno, l’affannarsi sterile di politicanti e presidenti, non hanno fatto che evidenziare il totale fallimento di ogni politica messa in campo. Le loro parole risuonano vuote in un deserto di azioni efficaci.

Eppure, la risposta che ci viene proposta in questi giorni è la bella storiella (certamente fantasiosa) di un Bambino in povere fasce, nato in una grotta fredda e buia. Un Bambino che porta pace ai cuori senza pace, che è venuto per riconciliare i fratelli. Ed allora proviamo a prendere quanto di buono da quella storia raccontata, sì… celebriamo quel messaggio che dalla grotta di Betlemme è giunto fino a noi dopo più di duemila anni. Ma non possiamo farlo solo nel ricordo rituale o essendo di parte, già… da chi professa una qualsiasi religioni ed odia le altre.

La pace non è un’illusione, è una scelta di vita quotidiana e coraggiosa. È l’unica verità che può spezzare questo cerchio maledetto. È il coraggio di riuscire ad amare il prossimo, anche quando quel prossimo è oltre un muro, oltre un checkpoint, oltre l’abisso dell’odio che quella terra, da millenni, continua a generare!

Riforma del condominio: A volte le denunce presentate servono a migliorare (di molto) questo paese corrotto!


Sì… a volte basta un gesto, una scelta precisa, per far sì che qualcosa inizi a muoversi.

Non parlo di rivoluzioni, né ambisco a drammi o proclami; vorrei semplicemente sottolineare quel minimo coraggio che spinge un cittadino a fare ciò che molti si aspettano e – ahimè – pochi compiono: denunciare con i fatti, non con le parole!

Ho presentato documentazione completa alla Procura nazionale e alla Gdf della mia città, allegati ufficiali, integrazioni puntuali, nessuna illazione, solo prove.

Lo feci non per interesse personale, né per vantaggio diretto, e ancor meno per “salvaguardare il proprio orticello”, ma perché chi riceve un incarico – anche se compiuto in forma gratuita – ha il dovere morale di portarlo avanti con trasparenza, soprattutto quando intorno c’è confusione, opacità, forse illegalità. Peraltro, la sentenza di condanna che ne seguì non fu solo una vittoria giudiziaria, fu la conferma che qualcosa, in quel condominio, non funzionava da tempo.

Eppure, quanti anni ed ostacoli prima di arrivare fin lì. Quante porte chiuse, quanti silenzi imbarazzati, quante risposte evasive che sembravano uscite da un copione già scritto. Mi sono sentito come Don Chisciotte davanti ai mulini a vento, che per raggiungere il suo obiettivo deve attraversare sabbie mobili, superare muri di gomma, e avanzare senza mai sapere se quel che vede è reale o solo illusione. Ogni tentativo di dialogo interpretato come fastidio, ogni richiesta di chiarezza respinta come disturbo all’ordine delle cose.

Ricordo un collega, anni fa, sempre con gli occhi fissi sul monitor delle slot online, che senza voltarsi mi diceva: Nicola… non ora, non vedi che sono impegnato? Ecco, certe volte ho avuto la stessa sensazione: mentre tu cerchi di fare chiarezza, qualcuno altrove sta giocando con luci che girano piene di corone, campane e ciliegie, totalmente indifferente al caos che genera senza nemmeno accorgersene.

Ma fortunatamente non tutti sono così. C’è chi ancora crede nel proprio ruolo, nei valori della toga e della divisa, chi tra mille difficoltà continua a lavorare con senso del dovere, procuratori rigorosi, militari onesti, ma anche dirigenti e funzionari attenti, che pur tra bastoni tra le ruote, non abbassano la guardia. Ed è grazie anche a loro che infatti qualcosa si muove.

Ed allora finalmente ecco giungere quella riforma tanto auspicata, e permettetemi di fare un plauso anche a chi – seduto in quelle poltrone di governo – ha saputo ascoltare e prendere in mano l’argomento di migliaia di condomini e delle loro difficoltà, riportando il problema ai propri colleghi del Parlamento, affinché si realizzasse quella fondamentale – per non dire necessaria – riforma della gestione condominiale.

Il 17 dicembre scorso è stato presentato il progetto di legge “AC 2692”, una riforma attesa da tredici anni, dall’ultima modifica sostanziale della disciplina condominiale. Cambia molto, e non soltanto sulla carta. Pagamenti obbligatoriamente tracciabili, fine del contante, conti correnti condominiali come unico canale per incassi e spese: niente più transazioni nell’ombra. I creditori potranno agire direttamente sul fondo comune, senza dover inseguire singolarmente i morosi, e se le somme non bastano, i condòmini in regola pagheranno in anticipo, conservando però il diritto di rivalsa. Un sistema più efficiente, certo, ma anche più equo, purché accompagnato da controlli veri.

L’amministratore non sarà più chiunque, nemmeno se interno al condominio. Dalla laurea triennale in ambito economico, giuridico, tecnico o scientifico, al percorso formativo obbligatorio, fino all’iscrizione a un registro nazionale tenuto dal Ministero delle Imprese: la professionalità diventa requisito imprescindibile. Niente più improvvisazione. Accanto a lui nasce il revisore contabile condominiale, figura nuova, indipendente, con competenze specifiche e iscrizione a un albo dedicato. Controllo reale, trasparenza finanziaria, prevenzione dell’evasione: non sono slogan, sono strumenti concreti.

Anche il fisco entra in gioco: le spese condominiali ordinarie potranno essere portate in detrazione nella dichiarazione dei redditi. Un incentivo chiaro: pagare in tempo conviene. E chi non paga? L’amministratore potrà chiedere il decreto ingiuntivo solo dopo l’approvazione del rendiconto, entro 180 giorni dalla chiusura dell’esercizio. Tempi più lunghi, sì, ma più coerenti con una gestione corretta dei bilanci.

Chi esercita senza titolo rischia sanzioni pesanti, multe oltre i cinquemila euro. E in caso di reati gravi, si apre la strada alla confisca dei beni, anche di quelli posseduti dai familiari, se non ne viene dimostrata la legittima provenienza.

Non è punizione, è dissuasione. È il segnale che i tempi cambiano…

La confisca c’è, l’indagato pure. Ma chi ha permesso che accadesse? Quando lo strumento della legalità si incaglia nel suo stesso meccanismo.


C’è un’impresa, confiscata da anni, che è riuscita a muoversi come se nulla fosse cambiato.

C’è ora un processo, con richieste di condanne pesanti, e un pubblico ministero che si presenta in persona, segno che la materia non è secondaria, né accidentale.

C’è un nome che non serve citare, perché non è di quello che si tratta: quello che conta è che l’impresa abbia continuato a funzionare dopo la confisca, nonostante la confisca, quasi grazie alla confisca, se è vero che chi la doveva custodire ne è diventato parte attiva.

C’è un amministratore giudiziario oggi indagato per concorso esterno e peculato aggravato, e questo da solo basterebbe a far suonare un campanello: uno solo, ma forte.  

Eppure il punto non è neanche lui, già… il punto è che qualcuno, all’interno del Tribunale – non di Messina, bensì di Catania – avrebbe potuto, anzi avrebbe dovuto leggersi, una decina di anni fa, le segnalazioni che qualcun altro aveva depositato (per non voler aggiungere “protocollato) con cura, anche con timore, ma con la speranza che qualcosa cambiasse.

Non erano voci, non erano sospetti: erano documenti, date, firme, ma soprattutto circostanze concrete, inequivocabili.

Se qualcuno quei documenti li avesse letti e, soprattutto, li avesse presi sul serio, oggi non saremmo qui a sentire un Pm chiedere pene così alte per reati che, di fatto, potevano essere interrotti molto prima.

Chissà se, in questo momento, quel “qualcuno” – di cui si conosce nome e cognome, anche se non serve, in questa sede, scriverli – non stia controllando il telefono più del solito, non stia ripensando a scelte fatte o dovrei dire… non fatte, non stia misurando il rischio che la persona ora sotto processo, decida di parlare, non solo di ciò che ha fatto, ma di ciò che è stato permesso.

Non è fantasia, non è suggestione: è una possibilità che conoscono bene coloro che hanno seguito la vicenda fin dall’inizio, ne conoscono i passaggi, le omissioni, i silenzi che pesano più delle parole.

E forse –  per ora solo forse – c’è chi oggi, pur stando dentro le istituzioni, non sa più come muoversi: ogni passo rischia di incrinare non un singolo errore, ma un intero sistema fatto di sguardi bassi, di fascicoli chiusi in un cassetto, di silenzi scambiati per prudenza e di scelte giustificate come “opportunità”, ma che forse hanno radici più opache.

Chissà se una luce più insistente – quella, per dire, di un’inchiesta condotta con metodo e pazienza, lontana dal clamore ma vicina ai documenti – potrebbe finalmente illuminare quei meandri in cui la legalità si perde non per violenza, ma per omissione.

Non serve chissà quale rivelazione: a volte basta qualcuno disposto a voltare pagina, davvero, e a leggere fino in fondo.

C’è chi ieri ha parlato di estorsione, di violazione della pubblica custodia, di sottrazione di beni sequestrati – tutti reati gravissimi – e lo ha fatto con chiarezza, con rigore.

C’è chi ha confermato che l’impresa, nonostante la confisca, non ha mai smesso di operare sotto certe logiche…

C’è chi ha ascoltato, ieri, le arringhe della difesa, e chi ha notato l’assenza – significativa – di due parti civili che avrebbero dovuto esserci: l’Agenzia nazionale per i beni confiscati e il Comune. 

E c’è chi, leggendo tutto questo, non prova rabbia, non prova soddisfazione, ma un senso profondo di stanchezza morale: perché non è la prima volta, non sarà l’ultima… e ogni volta si ripete lo stesso schema. La denuncia arriva, qualcuno la riceve, nessuno la legge fino in fondo, oppure preferisce insabbiarla nell’ultimo cassetto.

Finché non è troppo tardi, fintanto che improvvisamente non diventa notizia, dopo che arriva un’inchiesta giudiziaria, un processo, sì… per ricordare ciò che un semplice atto di attenzione avrebbe potuto evitare.

Ma forse – mi viene ora da chiedere – andava bene così?

Quando la corruzione non è anomalia. È metodo! (Seconda parte)


Ciò che da circa trent’anni si sta compiendo in questo nostro Paese è chiaro e ahimè terribile: si sta selezionando una classe di peggiori, perché la disonestà diventa strategia vincente!

Questo processo – evidente a tutti – ha di fatto degradato in modo visibile la qualità della vita, dei servizi, della democrazia stessa, normalizzando l’illegalità, sì… fino a farla apparire giustificabile.

È quasi diventata una componente strutturale del nostro vivere, ma non solo: questa normalizzazione è come un veleno che genera rassegnazione, che fa credere che le mafie, la corruzione, l’illegalità diffusa siano qualcosa d’invincibile, e ciò serve esclusivamente affinché essi possano prosperare proprio grazie a questo clima di indifferenza e disincanto, nella complicità silenziosa di chi pensa solo al proprio minuscolo orticello, lo stesso che frutta indegno vantaggio.

Come dicevo nella prima parte di questo post, la mia terra è quarta in questa classifica, ma in fondo è solo un dettaglio in un malessere che è nazionale, che dal Sud arriva al Centro e al Nord, con nomi e modalità forse diverse, ma con la stessa, identica sostanza: l’interesse privato che divora il pubblico, il bene comune che si riduce a merce di scambio.

Non è un’anomalia, ci viene detto con forza. È un sistema che si adatta, si evolve, usa tecniche sofisticate o si nasconde dietro leggi fatte su misura, conflitti di interesse tollerati, relazioni opache. La questione, comprenderete, va ben oltre la singola mazzetta, il singolo concorso truccato.

Sono all’opera meccanismi che consolidano un potere irresponsabile, che catturano lo Stato per trasformarlo in una risorsa per pochi. Invocare pene più severe non basta (d’altronde, basti osservare le riforme ridicole che compiono sulla giustizia, per comprendere come nessuno abbia realmente interesse a contrastare questa condizione…), serve un patto diverso, un cambio radicale di mentalità, sia da parte dei cittadini, ma soprattutto nelle istituzioni (solitamente i primi ad aver beneficiato, da generazioni, di questo stato di fatto)!

Serve smetterla di pensare che così vadano le cose e che non vi sia altra possibilità che adeguarsi o lamentarsi a bassa voce, sì… sapendo di poter anche voi, un giorno, essere nella posizione di chiedere quel favore, quella raccomandazione che vi sembra l’unica via per sopravvivere o per farcela!

Le caste, le consorterie, le associazioni a delinquere, i gruppi di potere non sono un destino ineluttabile. Sì… sono il frutto di scelte, di omissioni, di connivenze, scelte che qui, nella mia Sicilia, ma non solo, sembrano essere state fatte così tante volte da aver creato una strada maestra, percorsa ormai senza più vergogna.

E allora, mentre leggo di summit per le nomine, di giro di telefonate, di affari che vanno dalla sanità alla cultura, il mio dubbio (ma ormai da troppo tempo dubbi non ne ho…) si trasforma in una domanda scomoda, anche ahimè per molti miei amici, conoscenti, molti di questi miei conterranei: quando smetterete di essere ancora complici, anche solo per inerzia, di tutto questo?

Già… quando decideremo che il bene di tutti, il servizio che funziona, la promozione meritata, valgono più della bustarella, della raccomandazione, del favore ottenuto per sé o per i propri cari?

Sì… so bene che la risposta, purtroppo, non la trovo in nessuna classifica.

Ed allora, se qualcosa non vi quadra, in un cantiere, in un bando, in un condominio: segnalatelo! Come ripeto da sempre: non serve essere eroi, basta non voltarsi dall’altra parte.

A proposito di “COSEDIL S.p.A.”: quando un mio commento, elogio alla legalità, trova una sua tragica attualizzazione.


Proprio ieri, sulla homepage di LinkedIn, mi sono imbattuto in un post di una società che opera nella mia regione, la “COSEDIL S.p.A.”. Il post annunciava con orgoglio un incontro di alto livello in Mozambico, tra il loro amministratore e il Presidente del paese africano, nell’ambito del Piano Mattei. Si parlava di partnership strategiche, di contributi a progetti infrastrutturali di lungo periodo e di volontà di essere protagonisti attivi nei processi di crescita.

Quella lettura mi ha spinto a lasciare un commento personale, dettato dalla stima che nutro per questa azienda: Secondo il sottoscritto, la Società COSEDIL S.p.A. rappresenta una delle poche realtà imprenditoriali serie e solide di questo nostro Paese e, in particolare, della mia Sicilia. Questo giudizio non deriva soltanto dall’evidente professionalità dei suoi titolari e dei numerosi collaboratori, ma soprattutto dai principi fondamentali che guidano l’azienda. Ho sempre osservato che COSEDIL ha fatto della sicurezza e del benessere dei suoi lavoratori una priorità assoluta, affiancando con coerenza una rigorosa osservanza dei principi di legalità, aspetto che merita un particolare riconoscimento. Per tali ragioni, ritenevo che COSEDIL S.p.A. costituisse un esempio virtuoso e un modello di riferimento.

Oggi, ahimè, la cronaca mi ha riportato bruscamente alla complessità della nostra terra, dando purtroppo una tragica conferma a quell’elogio della legalità. La notizia è che proprio alla COSEDIL, impegnata in un cantiere a Messina, è stata avanzata una richiesta di pizzo da 250 mila euro. La modalità è stata quella moderna della videochiamata, fatta addirittura da detenuti in carcere, seguita poi dalla visita di un minorenne in motorino. La reazione dell’azienda, in questo caso, è stata esemplare e lineare con i principi che le ho sempre riconosciuto: dopo la richiesta, hanno immediatamente avvertito i carabinieri.

Questo episodio, nella sua drammaticità, pur rafforzando ancor più il mio giudizio sull’impresa, getta però un’ombra profonda sul contesto in cui essa è costretta a operare. Dimostra che i valori della serietà e della legalità, per essere mantenuti, richiedono una coraggiosa esposizione personale e aziendale, perché la minaccia è sempre in agguato, persino in forma digitale e da dentro le carceri. E cposì… mentre un’impresa siciliana dialoga con i presidenti stranieri per costruire infrastrutture, nello stesso momento deve difendersi dall’estorsione nel suo cantiere in patria.

Tutto ciò evidenzia, in modo ancor più chiaro e desolante, come in questa terra la lotta alla criminalità organizzata – nonostante l’indiscusso e quotidiano impegno delle forze dell’ordine – sia ancora qualcosa di veramente lontano. È una battaglia che si combatte su un crinale sottile, dove il progresso internazionale e gli affari seri devono coesistere con la necessità eterna di vigilare, denunciare e resistere.

Quell’incontro in Mozambico e quella videochiamata estorsiva sono due facce della stessa medaglia: il racconto di una Sicilia che prova a costruire il futuro senza riuscire mai a liberarsi completamente delle catene del passato. E la reazione di chi, come COSEDIL, sceglie la via della denuncia immediata, resta l’unico, indispensabile, punto da cui ripartire ogni volta!

Per questo, alla fine di questa riflessione, sento il dovere di esprimere un sincero ringraziamento a chi, sul campo, sceglie ogni giorno la parte giusta, assumendosene i rischi.

Quando la corruzione non è anomalia. È metodo! (Prima parte)


La notizia arriva, un’altra volta, e non si fa nemmeno fatica a leggerla, ormai. È diventata una sorta di bollettino meteorologico che annuncia pioggia in continuazione, già… come un inverno che non vuol finir mai. 

Si parla ovunque di mazzette, bustarelle, un sistema che si fa sempre più intricato e sfacciato, e la mia terra, ancora una volta, si piazza bene in questa squallida classifica, quarta per numero di indagati. Mi chiedo, ogni volta che scorgo questi dati, cosa si nasconda veramente dietro le cifre, dietro le analisi minuziose che pure vengono compilate con cura quasi scientifica.

Mi domando se, in tutto il Paese e in particolare qui da noi (in modo così plateale), si pensi ormai esclusivamente a quel gioco perverso: prendere, farsi corrompere, aggrapparsi a qualsiasi collegamento pur di beneficiare, personalmente (o per i propri cari), di promozioni, raccomandazioni, vantaggi. Vantaggi che non sono guadagni legittimi, ma moneta falsa coniata nel retrobottega del potere, dove il valore di scambio è la dignità, spesa a credito e mai restituita.

Si snodano le storie, una dopo l’altra, e sembrano copiare sempre lo stesso copione, cambiando solo i nomi e le location. Attestazioni di residenza false, certificati di morte fasulli, appalti nella sanità o per i rifiuti che vanno al migliore offerente, non in termini di qualità, ma in termini di tangente. Licenze edilizie che spuntano come funghi dopo una pioggia di denaro, concorsi universitari truccati, voti di scambio, opere pubbliche che profumano di clan.

Parliamo di un un catalogo così esteso e variegato da far perdere il senso, da far sembrare quasi normale che ogni servizio, ogni possibilità, ogni atto pubblico abbia un prezzo segreto, una tariffa non ufficiale da saldare in un sotterraneo mercato delle influenze.

E Palermo, insieme alla mia Catania, non fanno eccezione. Anzi, sembra quasi di essere in un teatro per soli privilegiati, con i loro metodi di regime, con quelle liste di raccomandati, con quel cinico prendiamo questa, “è bona” che suona come una condanna a vita, non solo per chi la pronuncia, ma per chi la ascolta e non obietta, perché ormai ci si è abituati a considerare la corruzione una tassa di ingresso, il biglietto obbligatorio per accedere a qualsiasi diritto.

I numeri sono impietosi: quasi cento inchieste, un migliaio di persone coinvolte tra amministratori, politici, imprenditori, professionisti e mafiosi, in una commistione che ormai definisce un unico, fosco panorama. 

Emerge il ritratto di una corruzione che non è più incidente di percorso, ma sistema solidamente regolato, con le sue gerarchie e i suoi garanti che possono essere l’alto dirigente, il faccendiere, il boss mafioso o il politico d’affari. Tra questi, più della metà dei politici indagati sono sindaci, figure che dovrebbero curare il bene della comunità e che invece, stando alle accuse, ne gestiscono le risorse come un bottino privato.

E allora il mio dubbio si fa ancora più amaro: è possibile che questa sia diventata l’unica concezione del potere? Un potere che non serve, ma che si serve, in modo spudorato e totale

Catania: Un primato che brilla, sì… di oscurità!


Ed ecco che la conferma arriva puntuale e inesorabile come un tramonto sull’Etna: non resta che sedersi, come quel signore disteso sul tavolo del mio quadro, a contemplare un paesaggio dietro di sé, bellissimo, incandescente e inesorabilmente immobile, mentre intorno tutto precipita…

Il dato sulla “qualità delle amministrazioni locali” ci ha regalato un balzo degno di un’atleta specialista in fuga all’indietro: ultimo posto nazionale.

Non un passo falso, non un infortunio momentaneo, no… un vero traguardo. Il risultato di un anno in cui sguardi alti e maniche basse hanno lavorato in perfetta sincronia, come due ingranaggi oliati dalla rassegnazione, per produrre quel piccolo miracolo che solo l’incuria, coltivata con metodo, può portare a compimento.

Nella classifica generale sulla qualità della vita, siamo scivolati al 96° posto, tredici gradini verso il basso, con la grazia di chi scende una scala mobile rotta senza neanche accorgersene. E mentre sprofondiamo, a brillare beffardamente c’è solo la nostra illuminazione pubblica sostenibile, premiata come faro nel buio.

Peccato che quel faro, per chi percorre la tangenziale davanti all’aeroporto Fontanarossa – vedasi quanto ho scritto a suo tempo al link: http://nicola-costanzo.blogspot.com/2024/07/sindaco-e-assessorato-alla-viabilita.html – sia ancora un’ipotesi astratta. Forse chi ha redatto il report non ha mai guidato di notte da quelle nostre parti, o forse semplicemente ha scelto l’illuminazione metaforica, quella che si accende un attimo prima di chiudere il documento.

Alla voce ambiente e servizi il crollo è stato “solo” di sette posizioni – una sorta di applauso di consolazione da parte del destino, ma la vera opera d’arte – quella che meriterebbe un allestimento in una galleria di performance tragicomiche – è il tracollo in demografia e società: trentacinque posizioni in meno, un record da Guinness dell’apatia collettiva.

Sì… moriamo di più di tumori, usciamo prima da scuola, come se il sapere fosse un bagaglio troppo pesante da portare oltre la terza media. Eppure, per un paradosso degno di Pirandello, continuiamo a fare figli e abbiamo pochi anziani a carico. La nostra gioventù, così, ha tutto il tempo del mondo per assistere in diretta al declino… con comodo, seduta in prima fila, magari sgranocchiando popcorn forniti dalla rassegnazione generazionale.

E il lavoro? Siamo al 98° posto! Le imprese qui falliscono più che altrove, ma almeno le pensioni di vecchiaia scarseggiano, forse perché qui si invecchia più in fretta, forse perché la pensione arriva solo dopo aver superato l’esame di realtà…

E la giustizia? La sicurezza? Be’, quelle sono le colonne portanti della stabilità: stabili nella mediocrità, solide nella precarietà, un esempio raro di coerenza amministrativa.

Insomma, una cosa sola possiamo dire con certezza, in mezzo a questo mare di oscillazioni: la nostra capacità di confermare il peggio è straordinariamente affidabile. Una costante, in un universo di variabili.

Naturalmente, a commentare il disastro ci pensa la politica – in particolare l’opposizione, che declama con la solita litania: “destra”, “scelte miopi”, “mancanza di visione”. Hanno ragione, certo… ma viene da chiedersi, mentre snocciolano dati con la solennità di chi fa finta di meravigliarsi, di non sapere, quando a quei loro stessi discorsi non è mai seguita un’azione chiara (con il rischio di dover perdere la propria poltrona…) se non ribadire ciò che oggi suona, come un déjà vu, le solite chiacchiere in salsa catanese.

Perché il problema, vedete, non è solo di chi oggi amministra – no… non sto parlando della criminalità organizzata, quella è un’altra storia, troppo nota per essere rievocata qui come se fosse un colpo di scena in una serie già vista – il vero dramma è quel coro muto di assenze: di responsabilità scaricate, di competenze dimenticate, di promesse che evaporano come la pioggia sulla lava rovente.

Da quando sono arrivato in questa città, i problemi sono rimasti sempre gli stessi, come vecchi mobili impolverati che nessuno butta via perché “tanto, prima o poi serviranno”. Sì… son cambiati i volti – quasi mai i cognomi – a volte le sigle di partito, ma la musica no… quella è sempre la stessa, un valzer lento e stonato, dove chi non balla viene guardato come un intruso. Del resto, come recita una delle massime più sagge di questa terra: se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi.

E i cittadini? Niente… loro semplicemente ballano. Cambiano casacca con la disinvoltura di chi sa che il vero potere non è nelle idee, ma nelle file. Si rivolgono a chi è appena salito sul carro dei vincitori, non per convinzione, ma per sopravvivenza, per ottenere un posto, per sbloccare una pratica, per comprare un silenzio. E intanto, passo dopo passo, accompagnano quotidianamente con le proprie azioni quel carro, con la tranquilla consapevolezza che, “sì… così è più comodo”… per tutti!

Tranne, forse, per quel signore disteso sul tavolo. Lui sembra aver capito che comodo non vuol dire giusto, ma solo più lento. E che, prima o poi, anche il tramonto sull’Etna finisce. Poi – ahimè – viene il buio. Già… quello vero.

Il silenzio che fa affari…


È sera e il sole sta scendendo lentamente – sono costretto a una deviazione fastidiosa, sì: lavori in corso sull’autostrada, anticipati poco prima da un ragazzo al distributore, e ora, da lontano, osservo le macchine che stendono l’asfalto, i fari accesi nonostante il crepuscolo non sia ancora buio – e già la mente corre in avanti, a ciò che accadrà tra qualche ora o al massimo domani: le strisce di vernice fresca, i cartelli piantati in tutta fretta, le indicazioni stradali ancora coperte da un telo trasparente – quante volte abbiamo visto quella scena, identica, ripetuta con una precisione quasi teatrale, come se fosse parte di un copione ben collaudato.

E così mentre la macchina procede purtroppo a passo d’uomo a causa della confusione venutasi a creare, ripenso a tutti quei cantieri aperti, chiusi, riaperti, mai davvero conclusi – come se il cantiere non fosse il luogo dove si costruisce qualcosa, ma piuttosto uno spazio sospeso, un palcoscenico mobile in cui il lavoro vero è secondario rispetto alla circolazione di altro: denaro, favori, silenzi. 

Eppure nessuno protesta, nessuno chiede, a partire da chi, per incarico istituzionale, dovrebbe farlo per primo – e non lo fa per ignoranza, ma perché sa che porre certe domande, ad alta voce, significherebbe accendere una luce troppo forte in un luogo dove tutti hanno imparato a muoversi al buio e quella luce, invece di illuminare, rischia di bruciare chi la tiene accesa.

Del resto, se così non fosse, non avremmo di continuo quelle inchieste giudiziarie ormai familiari, quelle che parlano chiaro pur usando un linguaggio cauto, quasi smorzato, come se ogni parola dovesse essere pesata non per la sua verità, ma per le conseguenze che potrebbe scatenare – e così, nei documenti, i nomi dei protagonisti veri restano assenti, sostituiti da sigle, ruoli generici, frasi passive – l’appalto è stato aggiudicato, la variante è stata approvata, come se nessuno avesse deciso, nessuno avesse firmato, nessuno avesse guidato la mano di chi ha scritto. 

Eppure c’è sempre stato qualcuno, in piedi dietro la scrivania, che ha organizzato, indirizzato, protetto e ora, messo sotto torchio, si ritrae, si fa piccolo, parla poco, non detta più regole con la stessa sicurezza di un tempo, anzi si comporta come se fosse lui la vittima di un equivoco.

Resta in penombra, certo, in attesa che la tempesta passi, convinto, forse non a torto, che passerà davvero, e che alla fine tornerà tutto come prima, perché intorno a lui c’è un sistema che non si limita a proteggerlo: lo alimenta, lo rigenera, lo rende necessario. 

I suoi amici – o meglio, i suoi alleati – faranno di tutto pur di non restare impigliati a loro volta: firmeranno pareri, produrranno certificazioni, condivideranno versioni alternative dei fatti, perché la priorità non è la trasparenza, ma la sopravvivenza del meccanismo, e quella struttura ha bisogno di opacità, di silenzi compiacenti, di opportunità che si ripetono con la regolarità di un orologio difettoso ma affidabile.

Mi torna spesso in mente una frase, pronunciata da chi conosce quei meccanismi dall’interno: non è più la corruzione che urla, è quella che sussurra – quella educata, discreta, quasi istituzionalizzata, che avanza con le scarpe pulite e il lessico impeccabile di chi sa usare le procedure come schermo – tecnicismi al posto di scelte, pareri al posto di responsabilità, carte in regola al posto di sostanza.

È una corruzione silenziosa, che non ha più bisogno di bustarelle: le ha rese superflue, sostituendole con tempi che si dilatano oltre ogni plausibilità, con varianti in corso d’opera che nascono non per necessità tecnica, ma per convenienza amministrativa, con gare formalmente regolari in cui, però, nessuno sembra voler gareggiare davvero – come se il risultato fosse già scritto altrove. È una corruzione che si mimetizza tra le pieghe della legalità: ditte che vanno a vincere appalti in regioni dove non hanno sede, non hanno nemmeno una baracca, figuriamoci un addetto, eppure si aggiudicano opere milionarie, per poi affidarle a terzi, spesso piccole imprese locali, pagandole un terzo di quanto incassano loro stesse dal committente pubblico. Il risultato? Un meccanismo virtuoso solo per chi lo pilota: più costi, meno trasparenza, zero controllo e un po’ di mazzette che girano di mano in mano. 

Eppure qualcuno osserva, sì… qualcuno incrocia quei dati, anche se non presenta denunce, non per rassegnazione, ma per lucida consapevolezza: sa da tempo come un esposto formale, in certi contesti, non è un atto di giustizia, ma un invito a essere neutralizzato. Allora sceglie un’altra strada: verifica chi ha vinto, chi ha perso, chi compare sempre nelle stesse gare, chi firma le relazioni tecniche, chi approva le varianti, chi sta in silenzio quando qualcosa non torna ed usa quegli strumenti per farli emergere attraverso i media, i social e soprattutto quei programmi televisivi che hanno fatto la storia di questo Paese, sì… nell’ambito del giornalismo investigativo.  

Non serve gridare nomi, non solo perché sarebbe inutile, ma perché il problema non sono gli individui, sono i meccanismi che li proteggono, li riproducono, li rendono intercambiabili. Basta guardare la “White list” delle imprese ammesse, redatta da chi avrebbe dovuto vigilare e invece ha delegato ogni verifica a una firma in calce: senza chiedersi chi c’è realmente dietro quelle società, quali legami, quali precedenti, quali silenzi comprati in anticipo. Sì… certo, i documenti sono in regola, ma la regolarità formale è spesso la maschera più efficace dell’illegalità sostanziale!

Allora questa terra continua a scivolare, non con un crollo improvviso, ma con una serie infinita di piccole cessioni: un silenzio qui, un compromesso là, un occhio chiuso oggi nella speranza di un favore domani. E qualcuno, incredibilmente, chiama tutto questo buonsenso, realismo, quieto vivere, come se il quieto vivere fosse il diritto di non vedere, di non sapere, di non dover scegliere.

Non vedo, non sento, non parlo e così, dopo anni di osservazione, di domande senza risposta, di segnalazioni cadute nel vuoto, mi chiedo, senza retorica e ancor meno enfasi: verrà mai qualcuno che deciderà, semplicemente, di non voltarsi dall’altra parte?

Non credo proprio…

Inchieste giudiziarie? Le facce di bronzo degli indagati.


Li vediamo, seduti ai loro posti, mentre i notiziari scandiscono i capi d’imputazione, eppure non un gesto di ritrosia, non un’incertezza nello sguardo. Restano immobili, come se la gravità delle accuse non riuscisse a sfiorarli, come se il tempo si fosse fermato intorno a loro e la realtà non avesse il diritto di bussare troppo forte. È una scena che non sorprende più, eppure ogni volta provoca lo stesso disagio: non per la novità, ma per la sua terribile familiarità.

C’è una logica, in tutto ciò, ma non è la logica del diritto o della responsabilità. È quella del possesso: il potere non è più inteso come mandato revocabile, ma come proprietà acquisita, quasi ereditaria. Non è un compito che ti affidano: è una cosa che si sono presi e non mollano più. E allora l’indagine non è un invito a chiarire, ma un’aggressione personale, un colpo basso da respingere con ogni risorsa, legale o meno. Si attivano difese non per dimostrare la propria innocenza, ma per difendere il posto. Come se la dignità potesse sopravvivere in assenza di ogni pudore.

Ci si potrebbe indignare, eppure l’indignazione si è fatta stanca, logorata da una ripetizione che sembra non avere fine. Non è più lo scandalo a colpire, ma l’assenza di scandalo. Si è normalizzato l’insostenibile, e in questa normalizzazione si annida il vero danno: non tanto l’atto illecito in sé, quanto la sua accettazione silenziosa, come se fosse inevitabile, come se l’Italia non avesse mai conosciuto altro. Eppure basterebbe ricordare, anche solo per un istante, che c’è stato un tempo in cui un solo sospetto bastava a far vacillare una carriera. Non per moralismo, ma per un semplice senso di decoro, ormai smarrito.

Allora viene da chiedersi: perché stupirsi? Non basta guardare con attenzione per capire di quale materia siano fatti certi individui. Non è mancanza di vergogna, è assenza totale di ogni senso di appartenenza a una comunità. Non è resistenza, è pura e semplice adesione a una logica che pone l’interesse personale ben al di sopra del bene comune. Non c’è neppure un briciolo di dignità, perché la dignità presuppone un limite interiore, un confine oltre il quale non si è disposti a scendere, e qui quel confine è stato rimosso da tempo.

Forse servirebbe un patto nuovo, non scritto ma condiviso: la sola ombra di un sospetto grave dovrebbe spingere a un passo indietro, non per punizione, ma per rispetto. Per rispetto verso chi ogni giorno paga le tasse, verso chi crede ancora che le istituzioni possano funzionare, verso il semplice atto di fiducia che ogni cittadino concede ogni volta che si rivolge a un ufficio pubblico.

Invece assistiamo a una commedia stanca, recitata da attori che rifiutano di abbandonare il palco anche quando le luci si sono spente da un pezzo. Restano lì, aggrappati non al ruolo, ma al simbolo del ruolo, come se la legittimità potesse reggersi su un titolo e non sulla credibilità che, giorno dopo giorno, si logora in silenzio, fino a dissolversi del tutto.

E intanto, fuori, il paese continua a camminare in punta di piedi, come se temesse di svegliare qualcosa che, in realtà, non dorme affatto, anzi, aspetta solo il momento giusto per tornare a sedersi, ancora una volta, al suo posto, tanto d’aver già prenotato il catering per la prossima inaugurazione.

Il condominio tradito: malagestione, collusioni, giustizia che tarda!


Riprendo stamani a parlare di un tema che, pur essendo quotidiano per molti, viene spesso taciuto finché non diventa insostenibile.

Mi riferisco alla gestione dei condomini, un ambito che dovrebbe garantire tranquillità e sicurezza e che invece troppo spesso si trasforma in una trappola silenziosa, dove chi paga regolarmente finisce per accollarsi debiti a tre zeri, cifre che mai avrebbe immaginato di dover sostenere.

Già… perché quanto accade il più delle volte non sono errori contabili banali, ma veri e propri buchi neri creati con metodo sofisticato: bilanci infedeli, oneri fiscali mai versati, decreti ingiuntivi occultati, spese senza giustificazione alcuna, registri compilati in modo da rendere impossibile qualsiasi verifica. Tutto avviene nell’ombra, fino a quando non è troppo tardi.

Ecco che così la casa, questo rifugio intimo, si svela all’improvviso un campo minato. Chi si è sempre comportato con correttezza si trova a dover pagare per gli altri, non solo i morosi – che pure esistono – ma soprattutto per chi, pur ricevendo regolarmente i contributi di tutti, li ha dirottati altrove. Non è una svista, non è una distrazione: è una strategia!

Si gonfiano le fatture, si pilotano gli appalti per le manutenzioni, si incassano somme in contanti, si usano i beni comuni per servizi privati, si baratta quella gestione – in particolare quando le proprietà si trovano in località turistiche note, di montagna o di mare – con favori ad amici, funzionari, dirigenti, talvolta persino forze dell’ordine, affinché possano godersi, insieme ai propri cari, periodi gratuiti di villeggiatura, in cambio di silenzi compiacenti.

E quando i conti non tornano, la colpa come sempre ricade sempre sui condomini: “non avete controllato”, “non avete partecipato all’assemblea”, “non avete chiesto copie”, come se aver fiducia fosse un reato.

Ed è qui che inizia la seconda fase, quella ancora più amara. Quando qualcuno prende coraggio, presenta un esposto, denuncia, chiede l’intervento delle autorità, si scontra con un sistema che sembra progettato per logorare la pazienza, la salute, le risorse. Gli anni passano, le udienze vengono rinviate per motivi futili, gli incartamenti giacciono in attesa di essere letti – e nel frattempo, chi ha commesso gli atti non è sospeso, non è allontanato, i suoi beni (e quelli dei familiari) non vengono sequestrati. Tutto continua a operare, magari con un nuovo nome, un parente, un prestanome, un socio di comodo.

Sono veri e propri esperti: sfruttano i vuoti normativi, come l’assenza di limiti chiari sui movimenti tra conti condominiali, e creano un caos tale che persino il successore, per tentare di ricostruire i conti, deve affidarsi a un revisore esterno. Eppure, di fronte a spostamenti di centinaia di migliaia di euro, a conti ridotti a otto euro nonostante i pagamenti regolari di tutti, la reazione istituzionale è spesso un silenzio assordante.

Perché dietro quelle cifre non c’è solo un’amministrazione negligente, ma vere truffe – specie quando si inseriscono voci fittizie per indurre in errore e ottenere un profitto illecito. C’è appropriazione indebita, ogni volta che si utilizza il denaro comune come se fosse proprio. C’è danno all’erario, quando si omettono versamenti obbligatori sperando nella prescrizione o in una futura sanatoria. C’è bancarotta fraudolenta, quando si crea un buco deliberato per trarne vantaggio personale.

E in casi estremi, quando l’organizzazione è ramificata e coinvolge più soggetti, emergono elementi che configurano vere e proprie associazioni a delinquere – specie se a fare da sfondo sono meccanismi di riciclaggio, estorsione, o tentativi di accedere a fondi pubblici con documenti falsi. In questo contesto si innesta una gravissima circostanza di cui nessuno vuole parlare: molti di quegli immobili, in particolare quando si trovano in località isolate e soprattutto nei periodi “fuori stagione”, cioè quando non sono utilizzati dai proprietari e molte volte restano in mano all’amministratore per la gestione insieme ai cosiddetti “beni comuni”, probabilmente questi sono stati utilizzati dalla criminalità organizzata per celare chissà… anche “latitanti”.

Eppure, il cittadino che denuncia viene spesso isolato, ridicolizzato, talvolta minacciato. Vi sono assemblee che degenerano in aggressioni fisiche. Vi sono amministratori che, anziché consegnare i registri all’amministratore giudiziario nominato dal Tribunale, li affidano a terzi o li fanno sparire, denunciandone il furto – rendendo così impossibile qualsiasi transizione legale.

E non solo: vi sono uffici delle autorità competenti – per fortuna non tutti; tra essi vi è anche chi opera in maniera puntuale e corretta – che, pur ricevendo esposti dettagliati e documentati, li archiviano come “beghe condominiali”, come se non sapessero che un condominio con un migliaio di unità ha un bilancio superiore a quello di molti comuni. Come se non dovessero sapere che, in assenza di trasparenza, ogni assemblea può diventare un teatro di coercizione, ogni convocazione un atto di potere.

Quindi, non basta dire che servono figure professionali riconosciute; serve a poco ipotizzare un elenco nazionale, se non si parte da un filtro reale: carichi pendenti puliti, casellari giudiziari verificabili, obblighi societari applicati con la stessa severità di qualsiasi altra impresa. Un condominio non è un’entità astratta: è una comunità, è un patrimonio collettivo, è spesso una piccola società con entrate, spese, dipendenti, fornitori, obblighi fiscali. E come tale va trattato, con regole chiare, controlli efficaci, sanzioni certe.

La legge offre strumenti – il diritto d’accesso ai documenti, la revoca giudiziaria, la querela per truffa, la nomina di un revisore – ma sono inutili se non si accompagna a un cambio di mentalità. Se non si smette di considerare legittimo ogni silenzio, ogni delega in bianco o falsificata, ogni voto espresso per compiacere chi ha fatto un favore. Se non si accetta che il diritto di critica, anche aspro, è un dovere, non un’aggressione. Se non si capisce che una convocazione infilata sotto la porta non ha valore, che un amministratore che non consegna i registri commette un reato, che ogni condomino ha il diritto di sapere, di chiedere, di opporsi.

Alla fine, il problema non è la complessità della norma, ma la facilità con cui si accetta che la legge valga solo per chi non ha potere. E finché sarà così, la casa non sarà mai davvero un rifugio. Sarà solo il luogo in cui ci si sente in trappola – e dove chi ha le mani in pasta, come dice un vecchio detto, “non pinia”.

Confiscare sì, ma senza dimenticare chi ha pagato per farlo!


Da anni si parla di confisca come di qualcosa di simbolico, un gesto pubblico che rappresenta una sorta di rito laico della giustizia, in cui beni vengono sottratti a chi li ha accumulati con l’inganno, i raggiri, le truffe, ma anche le complicità silenziose di referenti istituzionali corrotti e di esponenti della classe politica, cui si aggiungono, in taluni casi, referenti criminali che, con metodi coercitivi, hanno alterato la libera concorrenza, il tutto per consegnare idealmente alla collettività – come se la restituzione fosse già avvenuta solo perché un cancello è stato riaperto e una targa cambiata – una società insediata al posto di un sistema criminale.

Ma, consentitemi di dire che tra quel simbolo e la vita reale c’è una distanza abissale, fatta di scartoffie, di silenzi burocratici, di procedure che avanzano con la lentezza di chi non ha fretta, di chi purtroppo ha paura o teme ritorsioni personali e familiari nel dover gestire quei beni, pur sapendo che non è lui a dover rischiare di non pagare l’affitto, di non poter curare i propri dipendenti, di dover spiegare ai propri cari perché il lavoro che credeva stabile è svanito insieme a tutti i benefici finora ricevuti.

Perché lui è lo “Stato”, ed è stato messo lì per gestire gli altrui beni, e poco importa se la procedura sia legittima o meno: saranno i successivi gradi di giudizio a stabilirlo. Il suo unico compito è fare in modo che quei beni vengano gestiti, e poco importa se l’impresa riuscirà ad andare avanti, perché fintanto che esiste qualcosa da prendere, da spartire, da affidare, ben vengano sequestri e confische: sono garanzia di attività per molti professionisti, ciascuno legato a filo diretto con quel Tribunale che si occupa della gestione di quei beni – mi riferisco a figure come magistrati, custodi giudiziari, amministratori nominati e via dicendo.

Abbiamo letto, in questi anni, quanto accaduto a Palermo con l’inchiesta sull’ex Presidente dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati, anche se va detto che l’ultima sentenza, del 19 ottobre scorso, della sesta sezione penale della Cassazione ha cancellato quasi una ventina di capi d’imputazione relativi a quel presunto Sistema, ovvero a quel giro di mazzette e favori legato all’affidamento delle amministrazioni giudiziarie dei beni confiscati alla mafia. Al momento è impossibile dare una risposta definitiva, perché mancano ancora le motivazioni della decisione della Suprema Corte, ma un dato è evidente: dei 74 capi d’imputazione inizialmente contestati all’ormai ex magistrato, ne sono sostanzialmente rimasti in piedi tre, per corruzione e concussione.

Permettetemi, tra l’altro, di aggiungere quanto ho letto stamani su un amministratore giudiziario coinvolto in un’inchiesta nella provincia di Messina, attualmente ai domiciliari con braccialetto elettronico, dopo che la Corte di Cassazione ha rigettato il suo ricorso, confermando il quadro indiziario e mantenendo invariata la misura cautelare.

Da quanto sopra emerge con chiarezza che la gestione da parte dei Tribunali dei beni sequestrati e successivamente confiscati è stata, di fatto, fallimentare sotto tutti i punti di vista: non sto qui a elencarli, sebbene li conosca perfettamente.

Difatti, proprio il sottoscritto – che ha denunciato, che ha insistito, che ha anticipato le spese per una procedura fallimentare che nessuno voleva avviare, perché, a dir di molti, tanto sarebbe finita male comunque – ancora oggi, incredibilmente (ma non sorprendentemente… in un sistema clientelare e mafioso), si ritrova in una posizione grottesca: sono un creditore privilegiato, sì, ma privilegiato solo sulla carta, perché quel riconoscimento non è riuscito finora a farmi ricevere quanto mi è dovuto – seppure è proprio grazie al sottoscritto che si è riusciti a recuperare quasi 500.000 euro tra fatture a suo tempo non pagate e beni venduti nel corso della procedura. 

A tal proposito però desidero rendere un doveroso plauso al curatore fallimentare, per il lavoro svolto fin qui: auspicando che porti a termine la sua attività con la stessa professionalità e correttezza dimostrate sino ad ora – tanto che, una volta conclusa la vicenda, farò in modo che il suo operato sia conosciuto, anche attraverso il mio blog, citando espressamente il nome dell’avvocato che sta seguendo la procedura. Mi sento di farlo perché, rispetto a quello che abbiamo purtroppo constatato negli anni – troppi suoi colleghi, infatti, hanno finito per lasciare alle spalle solo vuoti e silenzi, quando non qualcosa di peggio – questa volta la gestione appare diversa, concreta e soprattutto trasparente.

Desidero però riconoscere anche il ruolo che ho avuto personalmente in questa vicenda: senza la mia iniziativa, senza le denunce presentate a mie spese, senza la tenacia – solitaria, ma mai rassegnata – di chi ha scelto, da sempre, di non voltarsi dall’altra parte, è lecito affermare con certezza che molte di quelle confische non sarebbero neppure state avviate, molti di quei patrimoni sarebbero rimasti intoccati, e la maggior parte di quelle condanne non avrebbero avuto neppure un fascicolo d’archivio.

Va detto che la Cassazione, con la sentenza 37200 del 14 novembre scorso, ha provato a correggere un difetto strutturale: non basta che il credito nasca prima del sequestro, serve che sia accertato in tempi utili, e questo accertamento non può dipendere solo dalla rapidità di un avvocato o dalla disponibilità economica di un cittadino.

Ma la sentenza, per quanto importante, non risolve il problema di fondo, che non è giuridico, ma culturale: finché resterà implicito, in molti uffici, in molte stanze dove si decidono le destinazioni dei beni, che chi si espone è un ingenuo, che chi denuncia è un rompiscatole, che chi pretende giustizia è un problema da gestire più che un diritto da tutelare, allora non cambierà nulla, neanche con cento sentenze.

Perché la confisca, quando funziona davvero, non è solo la sottrazione di un bene, ma il riconoscimento di un torto, la restituzione di un’opportunità, la riammissione di una persona alla dignità di chi ha fatto la sua parte e merita di vederne il frutto.

Invece, ancora oggi, chi ha pagato di persona, chi ha rischiato sul serio, chi ha messo in gioco non solo la propria professione ma anche la propria credibilità, si sente dire che deve aspettare, che deve capire, che ci sono procedure, che bisogna rispettare le priorità, come se la priorità non fosse mai stata, fin dall’inizio, la sua voce, il suo coraggio, la sua scelta di non tacere.

E intanto i beni confiscati entrano in circuiti dove, talvolta, si annidano nuove forme di opacità: consulenze vengono affidate non per competenza ma per vicinanza, le liste dei beneficiari assomigliano più a un elenco di fedeltà che a un piano di riuso sociale, e chi ha denunciato si trova ad attendere invano – non perché non abbia diritto, ma perché, pur avendolo per primo, essendo stato l’unico e il solo ad esporsi in prima persona, viene scavalcato da chi ha atteso, da chi faceva parte — e poi si è celato — direttamente o indirettamente, di quell’orticello, e che dunque dovrebbe attendere, o quantomeno trovarsi in fondo alla fila, nell’equa suddivisione che tanto si invoca.

Non si tratta di dover veder riconosciuti meriti, ancor meno riconoscimenti pubblici – finora, per quanto compiuto, non ne ho mai ricevuti, a eccezione di qualche nota di merito che ricorre, quasi a ogni piè sospinto, nelle sentenze – ma si tratta, semplicemente, di essere coerenti: se lo Stato usa lo strumento della confisca per affermare che la legalità ha un valore reale, allora quel valore deve valere anche per chi ne è stato il primo custode, non solo per chi ne gestisce le conseguenze una volta che il rischio è passato.

Altrimenti, e lo sappiamo bene, la confisca resta propaganda, una cerimonia, un’immagine da cartolina, mentre la giustizia resta fuori, in attesa, con le tasche vuote e la pazienza logorata da cinque anni di silenzi che non sono casuali, ma strutturali.

Perché il vero fallimento, oggi – e lo confermano le sentenze del Tribunale – è quello del sistema che continua a premiare chi si muove dentro le sue maglie e a punire chi prova a rammendarle.

E ogni volta che un creditore come me rimane in attesa, non è solo una pratica in sospeso: è un segnale che arriva chiaro a chi vorrebbe fare lo stesso e si ferma un attimo prima, perché sa già come va a finire.

Forse, allora, la prossima riforma non riguarderà solo le tempistiche delle ammissioni al passivo, ma qualcosa di più delicato: la fiducia.

Perché quella che si è persa in cinque anni di attesa – e che nessuna sentenza, per quanto giusta, potrà mai restituire – è la fiducia in questo Stato e nelle sue Istituzioni. Ed è il motivo per cui non mi sento più di dover collaborare con chi richiede al sottoscritto informazioni, documenti protocollati, ma ahimè andati persi all’interno di quei palazzi: gli stessi documenti che, se invece di essere insabbiati nell’ultimo cassetto fossero stati portati alla luce, avrebbero reso inutili molte di quelle inchieste oggi condotte da talune procure nazionali.

Ma chissà… forse lo Stato – soprattutto chi lo rappresenta – non teme le voci, ma il loro contrario: vuole che quei pochi cittadini ancora onesti, col tempo, imparino a tacere. Già… proprio come tutti gli altri!

Quel filo che tiene insieme tutta la tela…


La sera scende mentre percorro la tangenziale di Catania, e l’asfalto sotto le ruote sembra cedere non per l’acqua, ma per qualcosa di più sottile, più tenace: la fatica delle promesse mai mantenute.

Ogni chilometro racconta la stessa storia, solo con nomi diversi e date aggiornate. Quella scuola con il tetto che minaccia di crollare, quell’ambulanza ferma da mesi in officina, quella strada che ogni inverno torna a essere sterrata, sono frammenti di un racconto che non smette di ripetersi, come se il tempo fosse un nastro che gira su se stesso, senza mai registrare niente di nuovo.

Eppure, non si tratta di un episodio isolato, né di un’anomalia. È il respiro regolare di un sistema che funziona grazie ai silenzi compiacenti, agli sguardi che si abbassano appena in tempo, alle strette di mano che durano un secondo di troppo.

In cima, c’è sempre qualcuno che firma, non perché ha scelto, ma perché è stato scelto. Più in basso, ci sono quelli che preparano la penna, regolano la sedia, tengono la porta aperta. Ognuno con un ruolo preciso, ognuno con un prezzo concordato in anticipo, anche se nessuno lo ha mai messo per iscritto. Non serve: basta saperlo.

Negli ultimi giorni, nuove inchieste hanno fatto tremare le stanze della politica regionale. Una mozione di sfiducia, presentata con urgenza, ha raccolto ventitré firme tra deputati di diversi gruppi. Non è tanto il numero a impressionare, quanto il motivo: un’onda lunga di indagini che hanno coinvolto esponenti della maggioranza, membri del governo regionale, dirigenti nominati in sanità, enti, uffici tecnici. 

Alcuni hanno ammesso, davanti ai magistrati, condotte che definire corruttive è un eufemismo, altri viceversa sono stati travolti da inchieste che risalgono a anni fa, ma che risuonano ora con straordinaria attualità. Eppure, nessuna verifica seria è stata avviata su chi, pur non indagato, occupa posizioni decisive, né su chi è stato messo lì da partiti ormai fuori dal governo, come se la rimozione di un assessore bastasse a ripulire un intero sistema.

Mi capita spesso, negli ultimi giorni, di parlare con amici, conoscenti, sconosciuti incontrati per strada o al bar. Nessuno si stupisce. Anzi: “Nicola, è sempre stato così. E sarà sempre così. Perché ti meravigli?”. Lo dicono con un tono quasi rassegnato, come se la sorpresa fosse un lusso che non possiamo più permetterci. Ma la rassegnazione, col tempo, smette di essere una reazione e diventa una scelta. Una complicità silenziosa. E la complicità – non la corruzione, non l’errore – è ciò che tiene in piedi l’intera architettura del malaffare.

Perché oggi non si tratta più di bustarelle al bar o di nomi scritti su foglietti. Quel tempo è passato. Oggi l’illegalità ha cambiato pelle: è fluida, si adatta, si mimetizza. Si veste di efficienza, si presenta come pragmatismo, si giustifica con “come si fa qui da noi”. 

Intanto, i reparti ospedalieri si svuotano, i cantieri si fermano senza che nessuno ne chieda conto, i pagamenti slittano all’infinito, i controlli si riducono a timbri su scartoffie mai lette, ed ancora, i fondi europei evaporano in consulenze che non producono un solo documento utile, un solo dato verificabile, un solo intervento tangibile. Tutto scorre, tutto è plausibile, e proprio per questo, niente viene mai davvero messo in discussione.

Tra chi decide e chi esegue, c’è un’intera schiera di figure invisibili. L’autista che sa dove andare senza chiedere. Il consulente che non scrive relazioni, ma costruisce ponti dove non ci sono fiumi. Il “facilitatore” che sa quando chiamare, come dire, e soprattutto quando tacere. Sono loro, più di altri, a rendere il meccanismo così resistente: non perché comandano, ma perché rendono il comando possibile, senza mai comparire. Operano nel grigio, dove la legge non viene rotta, ma piegata con cura, come una lettera che contiene una minaccia scritta in un italiano impeccabile, così forbito che nessuno osa chiamarla tale.

E così, mentre si annunciano nuove task force, nuovi protocolli, nuovi osservatori – tutti destinati a durare fino alla prossima emergenza – le stesse mani continuano a passarsi la stessa palla. Solo che ora lo fanno con guanti bianchi, davanti a telecamere accese e microfoni spalancati. E questa terra – la stessa che trema quando piove troppo, che scivola quando nessuno la sorregge – resta lì, in attesa.

In attesa non di un eroe, né di una denuncia clamorosa, ma di qualcuno che abbia il coraggio di chiamare le cose con il loro nome. Non corruzione. Non inefficienza. Non malgoverno. Ma collusione strutturale: una condizione in cui l’illegalità non è un incidente, ma la regola non scritta che tiene insieme ciò che, altrimenti, andrebbe in frantumi.

Forse, solo quando smetteremo di parlare di “questione meridionale”, già… come se fosse un male locale, curabile con un po’ di attenzione in più, e cominceremo a riconoscerla per ciò che è, una “questione italiana“, allora potremo finalmente guardare il filo, sì… quello che tiene insieme tutta la tela: Senza distogliere lo sguardo. Senza fingere di non vederlo.

Non è la mafia che ci definisce, ma quello che tolleriamo in silenzio!


In questi giorni percorro di mattina una strada di campagna e mentre il sole inizia a salire lentamente dall’orizzonte, mi sono chiesto se sia proprio la bellezza a renderci più fragili o se, al contrario, sia la consapevolezza di possedere qualcosa di raro da farci dimenticare che la cura, più del possesso, è ciò che conta davvero.
La Sicilia difatti non ha bisogno di essere raccontata: basta guardarla per capire che ogni parola su di lei è già stata scritta, forse da Goethe, forse da un pescatore che, senza alcun bisogno di citare i classici, ci ricorda come il vento di scirocco ha portato con sé non solo la sabbia dell’Africa, ma anche il peso di quelle invasioni, già… di incontri mancati e di promesse mai mantenute.

Qui ogni pietra racconta di un impero caduto, ogni porto… una partenza che non è mai stata un vero addio, ogni tempio un’alleanza tra fede e potere, autorità e consenso.

Migliaia e migliaia di anni in cui qualcuno arriva, costruisce, comanda, poi se ne va… e lascia dietro di sé non solo monumenti, ma anche una consuetudine: quella di tramandare un’attesa, sì… aspettare sempre che giunga qualcuno da fuori per decidere del nostro destino!

E difatti lo stesso accade ai nostri giorni, eppure non è colpa degli invasori, di quelli che vengono e se ne vanno, no… se ci guardiamo intorno vediamo sempre lo stesso vuoto – non di risorse, non di talenti, non di volontà – ma di fiducia, già… fiducia nel fatto che fare la cosa giusta, senza chiedere niente in cambio, possa bastare.

Perché la verità, quella che si tende a non dire a voce alta, è che molti di noi – per come veniamo descritti nel mondo – non sono mafiosi, e neppure complici, ma purtroppo sono molti i miei conterranei a non sentirsi obbligati a contrastare chi lo è!

Non sempre per paura: spesso semplicemente perché non ne vale la pena. Si sa… bloccare un torto non dà vantaggi immediati, segnalare un appalto truccato non garantisce un posto di lavoro, anzi, tutto ciò mette in cattiva luce ed allontana da quel “sistema” in cui tutti sanno come funziona, ma nessuno lo ammette ad alta voce…

Ed è il motivo per cui sanno che, denunciare un abuso edilizio, non riporta indietro il paesaggio perduto, ma li rende scomodi, e così scelgono di abbassare lo sguardo. Si chiama “realismo”, si chiama “prudenza”; a volte si usa una parola che suona quasi nobile: omertà. Ma non è silenzio per proteggere qualcun altro: è silenzio per proteggere se stessi!

Ed è proprio lì, in quel gesto quotidiano — ripetuto decine di volte al giorno — che si annida quel che davvero mina questa terra: non la forza della mafia, ma la debolezza della sua opposizione! Un permesso firmato senza leggerlo. Un visto rilasciato senza controllare. Un appalto assegnato con la giustificazione più insidiosa: “tanto se non lo faccio io lo farà qualcun altro”.

Non serve essere un boss per alimentare questo sistema. Basta essere un professionista che chiude un occhio, un impiegato che fa una copia in più, un sindaco che sceglie di non accorgersi, oppure un cittadino che vota non per un programma, ma per un pacco alimentare distribuito la settimana prima.

Non stiamo parlando di personaggi da film: questi nuovi soggetti, non indossano doppiopetto, non parlano in codice e non hanno soprannomi. Sono i nostri vicini di casa, i nostri colleghi, ahimè… i nostri parenti: hanno figli che studiano in atenei privati, possiedono case dotate di ogni comfort, macchine lussuose e conti in banca (che appaiano) regolari…

Eppure, ogni volta che scelgono il tornaconto anziché ciò che è giusto, non commettono solo un illecito: insegnano qualcosa, sì… ai loro figli, ai loro collaboratori, a chi li osserva e cioè che il rispetto delle regole è un optional, che l’onestà è un difetto di forma, non di sostanza e soprattutto che il sistema non si cambia, si aggira e chi non lo aggira, è semplicemente fesso o quantomeno, meno furbo.

Allora ti domandi: dov’è finita quella Sicilia che si ribellava? Quella dei contadini che nel 1893 fondarono i Fasci, quella dei sindacalisti uccisi in piazza, quella dei magistrati che non esitarono un istante?

La verità è che non è scomparsa: è stata ridotta a monumento. Già… onorata in pubblico, archiviata in privato. Ed ecco che si intitola una strada a Falcone, una piazza a Borsellino, poi si affida la gestione di un bene confiscato di quella impresa che nessuno ha mai controllato, con procedure che, in alcuni casi, abbiamo visto, si sono rivelate persino più opache di quelle messe in pratica dagli stessi indagati.

Già… si celebra la memoria, ma non si pratica il coraggio!

Perché il punto non è se la mafia sia ancora potente, perché lo è… finché qualcuno la alimenta. Il punto è che noi, oggi, non siamo più costretti a subirla. Siamo liberi di scegliere. Eppure, dall’osservazione quotidiana dei comportamenti di molti miei conterranei, vedo una scelta precisa: non scegliere affatto.

Aspettare sempre che sia un altro ad agire, pensare che la corruzione sia un problema del “sistema”, come se il sistema non fossimo noi, come se non fosse fatto di scelte individuali, ripetute, quotidiane.

La Sicilia è bellissima, sì… lo è ancora, nonostante tutto. Ma nessuna bellezza regge a lungo se chi la abita smette di chiedersi cosa significhi curarla: non solo con le parole, non solo con la nostalgia, ma con atti concreti, ripetuti, noiosi, scomodi. Con la fatica di chi rifiuta un favore, con la pazienza di chi legge fino in fondo un progetto, con la dignità di chi, guardando dritto negli occhi, dice: No… non questa volta, e neppure la prossima.

Ecco, forse solo allora smetteremo di essere famosi per ciò che tolleriamo e torneremo a essere riconosciuti per ciò che costruiamo.

Disparità giudiziarie e opacità amministrative condominiali: il potere di chi sceglie di non tacere!


Mi è capitato (ahimè) in questi ultimi anni, di osservare con crescente amarezza come, in certi contesti giudiziari, il sistema si muova con la prontezza di una “Formula 1”, mentre altrove, di fronte a vicende ben più gravi, ho assistito a un’inerzia sconcertante, se non a una vera e propria indulgenza strutturale.
Prendete il caso di Palermo: un ex amministratore di condominio, responsabile di oltre trenta stabili, finisce agli arresti domiciliari e il giudice per le indagini preliminari, su richiesta della Procura, dispone immediatamente il sequestro preventivo di quasi duecentomila euro, presunto profitto dei reati contestati: appropriazione indebita e autoriciclaggio.

Le indagini, coordinate dalla sezione di polizia giudiziaria della Guardia di Finanza e guidate dal colonnello Antonio Campo, nascono da cinque querele presentate da altrettanti rappresentanti di condomini, insospettiti da ammanchi emersi nel passaggio tra vecchio e nuovo amministratore.

Secondo le indagini non si tratta di sviste contabili, ma di un meccanismo organizzato: rendiconti falsificati, surplus creati ad arte, somme convogliate su conti personali, poi suddivise tra carte prepagate intestate all’indagato e alla moglie, infine spese su piattaforme di gioco online – una a Malta, l’altra in Italia. L’analisi dei flussi finanziari ha ricostruito con chiarezza il percorso del denaro, come un filo che non si spezza, ma si attorciglia intorno a scelte precise, calcolate.

Eppure, proprio mentre leggevo il comunicato stampa di questa operazione – tanto esemplare quanto rara nella sua efficienza – non ho potuto fare a meno di confrontarla con quanto accade altrove: inchieste pendenti che sono durate anni, beni mai sequestrati, professionisti coinvolti in condotte amministrative e finanziarie gravissime, eppure mai sottoposti a misure analoghe, nemmeno lontanamente paragonabili.

Alcuni di quei casi hanno visto addirittura il Tribunale competente nominare un amministratore giudiziario – segno inequivocabile del livello di gravità raggiunto – eppure, al di là della forma giuridica, la sostanza si dissolve in una gestione opaca, dove le responsabilità si smorzano, le sanzioni si annacquano, e ciò che dovrebbe apparire intollerabile finisce per essere tollerato, quasi normalizzato.

Ho espresso più volte, anche in esposti ufficiali, il mio profondo disagio di fronte a certe leggerezze operative – a decisioni prese come se stessimo parlando di bollette dimenticate, non di risorse sottratte a comunità, spesso fragili, di persone che pagano regolarmente per vedersi poi private dei servizi essenziali.

Non credo più – per esperienza diretta – che si tratti soltanto di differenze procedurali o di carichi di lavoro diseguali. C’è qualcosa di più profondo: una sorta di geografia morale dei tribunali, dove la pressione politica, le infiltrazioni mafiose, e talvolta anche la presenza discreta ma capillare di logge massoniche, finiscono per piegare l’applicazione della legge verso esiti divergenti.

Lo dico senza enfasi polemica, ma con la lucidità di chi osserva da anni, da una posizione non comoda – quella di delegato in associazioni di legalità – e che ha la responsabilità, giorno dopo giorno, di tenere accesa l’attenzione su quei passaggi silenziosi in cui la giustizia, invece di essere uguale per tutti, diventa un bene distribuito a dosi diseguali.

Questo caso a Palermo, per quanto limitato nella sua dimensione, è importante non perché sia eccezionale, ma perché è coerente: dimostra che quando ci sono volontà, competenza e autonomia, si può intervenire con tempestività, tutelando i cittadini e restituendo dignità a un sistema che spesso sembra averla smarrita.

Mi auguro – lo dico sinceramente, senza alcuna ironia – che non rimanga un’iniziativa isolata, ma diventi, per ciascun Tribunale siciliano (evito di fare nomi – per il momento…), un modello replicabile, anche perché, finché resteremo in questa condizione di duplice standard, sarà difficile chiedere ai cittadini di continuare a credere, non tanto nelle leggi – sì… quelle ci sono – quanto in chi le applica.

Per cui, se leggete queste righe e vi riconoscete in una situazione simile – un rendiconto poco chiaro, spese gonfiate, un cambio di amministratore con ammanchi inspiegabili – non chiudete il post e lasciate che tutto scorra via. Fermatevi, raccogliete i documenti che avete (verbali, estratti conto, fatture, comunicazioni) e confrontatevi con altri condomini e se i dubbi diventano certezze, non abbiate paura di agire.

Basta un esposto scritto, ben argomentato, inviata alla Procura della Repubblica competente per territorio, o alla locale Sezione della Guardia di Finanza. Già… non serve essere esperti: serve essere precisi. Indicate, nomi, date, somme e discrepanze.

Ed ancora, se il vostro condominio ha beneficiato di incentivi statali – bonus facciate, sismabonus, ristrutturazioni con cessione del credito – potete anche verificare se gli interventi risultano tracciati (vedasi il portale di Openpolis che monitora i cantieri finanziati con fondi pubblici) o se le procedure di affidamento sono registrate nel sistema ANAC. Spesso, una semplice incongruenza visibile in rete – un importo dichiarato di 50.000 euro che in banca diventano 80.000 – è già un campanello d’allarme.

Io, come delegato per la legalità, e insieme a chi ogni giorno lavora per rendere trasparente ciò che qualcuno vorrebbe tenere nell’ombra, sono a disposizione per aiutarvi a formulare una segnalazione efficace. Non vi chiedo di fare da soli ciò che il sistema dovrebbe garantirvi per diritto: vi chiedo solo di non tacere. Perché ogni silenzio, anche il più breve, è un segnale di assenso.

Scrivetemi, condividete, verificate: Agite!

Insieme, possiamo trasformare l’amarezza in responsabilità, e la responsabilità in cambiamento.

Resto – come faccio da anni – in ascolto.

L’altra faccia dei fondi agevolati: “aiuti alle imprese” o “occasione di corruzione”?


Non so voi, ma io sono stanco di leggere di frodi costruite intorno ai fondi della L.R. 38/1976, le cosiddette “Agevolazioni finanziarie alle commesse”. Nate per sostenere le imprese, sono diventate un labirinto di carte e silenzi.

Non sono casi isolati: è il sintomo di un sistema che, ad ogni nuova speranza di rilancio, lascia aperta una porta di servizio per chi sa muoversi nell’ombra.

Quanti altri fondi, concepiti con intenti nobili, sono diventati terreno di caccia? L’articolo 60 della L.R. 32/2000 (Fondo Regionale per il Commercio) e l’articolo 11 della L.R. 51/1957 (Mutuo industriale) sono solo due esempi di un meccanismo perverso. Il solito patto oscuro: funzionari che chiudono un occhio, imprese con progetti fittizi, favori in cambio di vantaggi.

Cosa spinge a rischiare tutto per queste risorse? Non è solo necessità. È una mentalità che ha smesso di vedere la legalità come un confine, trasformandola in un ostacolo da aggirare. Per alcuni, l’obiettivo non è far crescere un’impresa, ma svuotare il sistema. Quando il guadagno immediato diventa l’unica bussola, la corruzione non è più un reato, ma un metodo.

Basta guardarsi intorno: imprese serie faticano per un’autorizzazione, mentre altre, con progetti sospetti, ottengono finanziamenti in tempi record. È un sistema che premia l’opacità. E alla fine, chi paga? I cittadini, le piccole attività, chi crede ancora nella trasparenza.

Ma il problema vero non è solo chi ruba. È chi permette che si rubi. È quella cultura dell’impunità che si nutre di silenzi e complicità. Qui l’impunità nasce dalla lentezza, dalla complessità, dal fatto che denunciare costa più che tacere. Chi dovrebbe vigilare diventa parte del problema.

Questo è il tradimento. Non il singolo furto, ma la sua normalizzazione. Quei fondi non sono più strumenti di sviluppo: sono trofei per chi aggira le regole. Mentre le imprese oneste pagano il prezzo più alto.

Non so più come ripeterlo, a volte mi sembra di parlare da solo, anche se ad alta voce: bisogna spezzare questo circolo vizioso e sì… non bastano le leggi (fatte tra l’altro in maniera ridicola, come non bastano i controlli, serve una rivoluzione culturaleconvincere chi lavora nel pubblico che ogni firma è una responsabilità, non un favore; insegnare alle imprese che la legalità non è un costo, ma un investimento; ricordare ai cittadini che denunciare non è un rischio, ma un dovere.

Perché finché permetteremo che i fondi diventino bottino, finché lasceremo che la corruzione sia una pratica quotidiana, non ricostruiremo mai la fiducia e senza fiducia, non c’è economia, non c’è progresso, non c’è futuro!

Oggi, mentre scrivo queste righe, penso a quanti hanno smesso da tempo di credere che le cose in questo Paese possano cambiare. Ma come ripeto spesso, la speranza non è nella rassegnazione, ma nel gesto concreto, perché la legalità non è un ideale lontano, ma una semplice scelta quotidiana. Ed ogni volta che la facciamo, anche se nessuno lo vede, è un seme che piantiamo nell’arido terreno dell’indifferenza, è una piccola luce che accendiamo nel buio della rassegnazione.

Sistema Sicilia…


La storia sembra ripetersi, come se in questa terra il tempo non scorresse… ma girasse in tondo, lasciando impronte sempre uguali ma su strade diverse, quasi a volerci ricordare che nulla cambia veramente.

Già… proprio come in passato, oggi ritroviamo nuovamente Totò Cuffaro al centro di un nuovo scandalo – interrogato dal Gip con accuse pesanti quali: associazione a delinquere, corruzione e turbativa d’asta. Ho letto che mentre si presentava in Tribunale avrebbe detto ai giornalisti di avere “fiducia nella giustizia“.

Una frase che suona come un ritornello familiare, il refrain di un sistema che non ha mai davvero cambiato pelle. Come sapete non condivido nulla di quel sistema che da sempre condanno con tutte le mie forze, ma resto altresì convinto che le sue dimissioni da segretario della Dc e la rimozione degli assessori a lui vicini, siano solo la punta dell’iceberg, sì… le prime onde di uno scandalo che scuote il palazzo, ma non ne mina le fondamenta.

Perché il sistema, quello vero, è molto più grande di un solo uomo. Dietro l’ex Presidente della regione, si nasconde una rete di relazioni che si estende in ogni angolo dell’isola fino a giungere a Roma, coinvolgendo figure istituzionali come ex ministri e attuali deputati. 

Ho letto inoltre di consorzi di imprese che esistono più nei documenti che nei cantieri, già… quest’ultimi sono riusciti a ottenere decine di appalti pubblici grazie a quelle relazioni giuste. Come sapete, non entro nel merito dei nomi specifici – non m’interessano né quelli e ancor meno i cognomi dei loro referenti – ma è evidente come queste entità, muovendosi con sorprendente agilità tra commesse milionarie e relazioni politiche di alto livello, abbiano costruito imperi che ora rischiano di sgretolarsi, come molti di quelli che abbiamo visto in questi anni crollare su se stessi, sì… credo che sia solo questione di tempo!

E cosa dire della sanità, di quel settore che dovrebbe essere sacro e invece è diventata la cassaforte della corruzione, il luogo dove si decidono destini e fortune? Gare pilotate, concorsi truccati, punteggi modificati in silenzio, tutto avviene alla luce del sole, senza vergogna, come se fosse la norma. La novità, come riportavo alcuni giorni fa, è che oggi la corruzione non si manifesta più solo attraverso le classiche buste marroni con mazzette di banconote, ma attraverso scambi di utilità più sottili, già… più socialmente accettabili, che creano dipendenze destinate a riproporsi nel tempo.

Non è più solo il denaro, ma la capacità di distribuire opportunità, di creare reti di potere, di controllare la burocrazia. Mentre i cittadini comuni faticano a ottenere un visto, un permesso, un servizio pubblico, chi sa muoversi tra le pieghe dell’opacità ottiene tutto con una semplice telefonata e di queste telefonate, ogni giorno, se solo potessimo ascoltarle, ve ne sono a centinaia… 

Già, ciascuna di esse potrebbe realizzare quella storica pubblicità della “SIP” con protagonista l’attore Massimo Lopez e quel celebre slogan: “il telefono allunga la vita“, aggiungendo oggi: “non solo quella, ma anche il potere“.

Sì, il denaro non conta più nulla, ciò a cui tutti ambiscono è la promessa di un posto di lavoro, l’aggiustamento di un punteggio, la nomina a un incarico prestigioso, quello scambio silenzioso tra un politico e un imprenditore, tra un funzionario e un professionista, tra una personalità istituzionale che ha il potere e chi lo cerca.

E così, mentre la politica regionale cerca di assestarsi dopo questo terremoto, con vertici di maggioranza rinviati e nomine bloccate, ciò che resta è la sensazione amara che alla fine, nulla cambi veramente. La nostra Regione Siciliana è tornata a essere un luogo di mera intermediazione, dove tutto si fa “alla luce del sole, senza vergogna“.

Mentre il “sistema” Sicilia continua ad essere un intreccio inestricabile di potere, affari e silenzi, che prospera nell’ombra, resistente a ogni scandalo, a ogni inchiesta, a ogni promessa di cambiamento. La mafia, pur non essendo più il regista, rimane comunque la prima beneficiaria collaterale, sempre pronta a intercettare gli effetti economici di quei flussi illeciti. E sì, perché nonostante tutto, nonostante le inchieste, nonostante gli arresti, quell’infezione continua a diffondersi, silenziosa, implacabile, inevitabile. Perché la corruzione, quando diventa “Sistema”, non conosce fine!!!

E forse, proprio per questo, non conoscerà mai fine, perché in questa terra, dove la linea tra legale e illegale è così sottile da diventare invisibile; chi decide cosa è giusto e cosa è sbagliato? Chi decide chi deve restare e chi deve andare? Chi decide chi merita una seconda possibilità e chi no?

Nello scrivere queste parole ho ripensato alla fiction “Il Capo dei capi” interpretata dal bravissimo attore Claudio Gioè, nella parte del boss di “cosa nostra” Toto Riina, mentre discute con l’amico di sempre Binnu (Bernardo Provenzano): “I Corleonesi nunn’ hanno bisogno ru stato! Ave trent’anni che mettiamo le leggi senza bisogno di scriverle e siamo noi che le facciamo rispettare, siamo noi che decidiamo qua va a crepare e qua va a vivere, qua va a pigliare gli appalti e chu resta morto de fame, chi se ne deve andare a Roma e chu resta cu u’ culo pe’ terra… hann’a trattare cu’ mia, Binno! Qui lo stato sono io!”

Consentitemi di uscire per un istante dalla serietà di questo post, aggiungendo come a tal proposito – senza togliere meriti all’interpretazione di Gioè – molti miei amici che hanno potuto osservare alcuni anni fa, quella stessa parte realizzata (ovviamente per scherzo) dal sottoscritto, con la collaborazione di una delle mie figlie – un video modificato attraverso un filtro se non ricordo male del social “Tik Tok” – dichiaravano che ero da Oscar…

Riprendendo per concludere: la risposta è semplice… sono sempre loro, quelli che siedono ai tavoli del potere, quelli che controllano le chiavi del sistema. E finché non cambierà questo “sistema“, ogni inchiesta, ogni arresto, ogni dimissione, non sarà che l’ennesima goccia nel mare di un male che, come ripeto e scrivo da 15 anni in questo Blog: è diventato “cosa nostra“, di conseguenza parte del Dna di questa terra!

Quel filo del potere illegittimo non si spezza da solo…


Non è facile raccontare ciò che si ascolta senza mai sentirsi veramente sicuri di averlo compreso fino in fondo, perché qui, in questa terra che continua a nutrire sogni e disillusioni con uguale generosità, il male non arriva avvisandoti con i passi pesanti di chi vuole farsi notare, ma con quelli attutiti di chi sa già di essere atteso. 

È un andare e venire silenzioso, quasi familiare, tra uffici, incontri al bar, corridoi di palazzi dove nessun cartello indica la giusta direzione, ma tutti – incredibilmente – sanno dove devono voltarsi, e così, mentre fuori la giornata inizia a prendere forma ed il sole batte su quelle nostre strade dissestate, qualcuno da dentro quell’ufficio sta firmando qualche documento, qualcun altro viceversa sta tacendo, e un terzo sta preparando il conto da presentare a chi di dovere… 

Si potrebbe pensare che i numeri siano freddi, distanti, quasi rassicuranti nella loro impersonalità, eppure quei duecentocinquanta nomi all’interno di quei fascicoli d’inchiesta aperti tra il 2020 e oggi, sono di fatto persone reali, non solo volti sfocati di foto segnaletiche, ma dirigenti e funzionari che incontravi ogni giorno, anche di domenica al supermercato, parliamo di professionisti, di politici, di assessori che sorridevano alla festa del quartiere, mentre quelle ruspe scavavano il terreno per un appalto che nessuno aveva richiesto.

Eppure i dati parlano chiaro: cinque inchieste su quarantotto in un solo anno, ottantadue persone indagate su poco meno di seicento in tutta Italia, un tasso che non si spiega con la sfortuna, né con la geografia, ma con una logica profonda, sedimentata, quasi istituzionalizzata. 

La Sicilia tra l’altro non rappresenta un’eccezione, anzi… è un vero e proprio laboratorio, un luogo dove si osserva (ahimè… con una certa tragicità) come la corruzione non sia mai stata solo un reato, ma una forma di governo parallelo, una grammatica condivisa tra chi sa e chi non chiede.

E non è neppure una questione di mancanza di controlli, di leggi troppo deboli o di una magistratura troppo lenta a causa di una burocrazia che riempie costantemente di faldoni quelle loro scrivanie, no…  è che il sistema, nel tempo, ha imparato a vestirsi meglio, a togliersi la cravatta sporca e a indossare un completo sobrio, a sostituire la busta con la stretta di mano, il favore con la raccomandazione “tecnica”, la tangente con la consulenza “strategica”. 

Non è più questione di chi prende, ma di chi permette, di chi interpreta, di chi tace sapendo che quel silenzio ha un prezzo e di conseguenza… un ritorno. Le relazioni opache, di cui ho sentito pronunciare in queste ore dal generale Napolitano – nuovo comandante della Guardia di finanza di Palermo – non sono un difetto del sistema, sono il sistema stesso: non un cancro da estirpare, ma un tessuto che si rigenera perché continua a essere nutrito, ogni giorno, da chi preferisce non guardare troppo da vicino per non dover poi scegliere da che parte stare.

Mi chiedo… non tanto come sia possibile che accada ancora, ma come sia possibile che, nonostante tutto, qualcuno si continui a stupirsene. Perché non è la corruzione a essere eccezionale, qui: è l’onestà a esserlo.

È quell’impiegato che rifiuta, l’imprenditore che non abbassa lo sguardo, il funzionario che scrive una relazione senza omettere quel dettaglio scomodo, a sembrare fuori posto, già… a rischiare di essere considerato un ingenuo, o peggio, un traditore. Eppure, sono loro, forse, a tenere ancora accesa una possibilità: non quella di una rivoluzione improvvisa, ma quella di una resistenza quotidiana, minuta, fatta di scelte che non finiranno mai sui giornali, di documenti consegnati in tempo, di firme messe senza guardare da che parte spirava il vento.

Perché alla fine, non si tratta di sconfiggere un nemico lontano, ma di riconoscere che quel filo del potere illegittimo non si spezza da solo: si spezza ogni volta che qualcuno decide di non passarlo oltre.

E forse, è proprio lì – in quel preciso momento tra esitazione, silenzio e soprattutto scelta – che sta ancora, incredibilmente, la speranza. Non quella retorica, da discorso ufficiale, ma quella più vera, più fragile: quella che si esercita quando nessuno ti vede, quella che finalmente hai deciso lo stesso di compiere!

Caro Salvo (Ficarra), la piazza è vuota, ma io sono qui che ti aspetto!


Ho letto ieri sera un’intervista di Irene Carmina a Salvo Ficarra, e sono state le sue prime parole a colpirmi…

Parlava di un limite, usava la metafora della casa comune, depredata non solo dei suoi valori più preziosi ma persino delle cose più umili, quelle di ogni giorno. A quel punto, diceva Ficarra, scatta qualcosa: ci si chiede, ma un limite non dovrebbe esserci? E la risposta, amara, era che forse quel limite in Sicilia lo abbiamo superato da tempo.

Dopo aver letto quell’intervista con passione, ha serpeggiato in me un interrogativo ancora più amaro, già… le stesse sue parole che vado ripetendo da anni: come mai non siamo ancora scesi in piazza a dire basta, a pretendere che qualcosa, finalmente, cambi? Come mai i miei conterranei non fanno nulla per cambiare questo stato di cose che, da quasi un secolo, infetta questa nostra terra?

Nel 2015 provai a dare una risposta attraverso un post intitolato “È la mafia che ha preso dai siciliani o sono i siciliani che hanno preso dalla mafia?“. Ma risposta non c’era. Forse perché, come scrivevo allora, mi stavo convincendo ogni giorno di più che diventa difficile credere – per la maggior parte dei siciliani – di poter estirpare ciò che da sempre appartiene organicamente al Dna della nostra vita, accettato da oltre un secolo, dal corpo e dalla mente. Potrei dire metaforicamente che è ormai “cosa nostra“!

Scendere in piazza sarebbe bello per cambiare definitivamente questo stato di cose. Ma la verità è che i siciliani l’hanno fatto una sola volta, e parliamo di un tempo lontanissimo: quello dei Vespri. Mi sono ormai convinto che la maggior parte dei miei conterranei è corrotta nell’animo. Non definirei mafiosi tutti i siciliani, sarebbe scorretto e ingiusto; ma la Sicilia non ha nulla a che fare con la mafia? Ahimè non è così, se essa vive, prospera e si sviluppa a macchia d’olio in questo territorio, la colpa principale è proprio dei siciliani.

Osservate i comuni sciolti per mafia, i sindaci coinvolti in inchieste giudiziarie, i deputati, gli assessori, i consiglieri, tutti quegli appartenenti a giunte di partito che, da tempo posti sotto processo, continuano purtroppo a sedere su quelle poltrone. Non voglio ergermi a paladino della giustizia – chi mi conosce sa che è proprio ciò che faccio quotidianamente – ma la verità, senza alcun tono polemico, è che dietro a questa nostra società vi è una parte consistente di miei conterranei che non fa il proprio lavoro in maniera onesta. Opera costantemente nell’illegalità, proprio attraverso i propri incarichi, per ricevere mensilmente un ulteriore tornaconto economico.

Ecco qual è la più pericolosa associazione illegale di questa terra: non la mafia, i mafiosi o i loro familiari. Sono le persone insospettabili, quelle che conosciamo tutti, che detengono il potere sociale, economico e finanziario e rappresentano un vero e proprio cancro per questa terra. Parliamo di una classe dirigente che si fa incantare dalle lusinghe, dalle carriere, dalle promesse di favori e dal denaro messo loro a disposizione, lo stesso con cui alimentano quel mondo corruttivo.

Ai siciliani interessa poco confrontarsi con la mafia, anzi non gli importa minimamente di farne parte. A loro interessa soltanto cosa si può ricevere da essa: approfittare del bisogno di quell’organizzazione per entrare negli appalti pubblici, nei finanziamenti, nella gestione degli interessi imprenditoriali, per ottenere autorizzazioni, concessioni, sfruttare i posti di lavoro offerti, ricevere mazzette, raccogliere quel voto di scambio ottenuto grazie ai consensi sociali di cui essa gode nel territorio.

La Sicilia è bellissima, ma ahimè corrotta nell’animo. Certo, non tutti i siciliani risultano contagiati, ma la maggior parte di essi evidenzia una particolare bramosia che li tiene saldamente soggiogati. La Magistratura ormai ci propina inchieste che conosciamo a memoria, nomi di indagati che hanno la durata di un istante e noi tutti ci siamo stancati di leggere quei nomi. Dice bene Ficarra: in questa storia non c’è proprio nulla di comico, neppure un barlume.

Ma caro Salvo, questa è la società che essi preferiscono: immobile, rassegnata, soprattutto individualista, che tende ad escludere i bisogni della maggioranza, premiando esclusivamente le necessità personali e familiari, il proprio orticello. Perché a questi siciliani non importa la condizione in cui vivono, né ricercano un futuro migliore per i propri figli. Preferiscono subire il fascino dell’agonia, di quell’angoscia vissuta sulla propria pelle, quasi vivendo in attesa di un miracolo.

Basta osservare quanto avviene intorno a noi: una vera e propria negazione sociale che spinge ciascuno verso lo scetticismo, allontanando ogni ipotesi di miglioramento. Una contraddizione latente che cerca in ogni occasione quel consenso politico, quel sistema affaristico e clientelare legato a filo diretto con il mondo illegale, mafioso e consociativo. Ecco la doppia anima dei siciliani: quella a cui non interessa riflettere, quella che pur amando la propria terra non vuole cambiare rotta, che resta elettrice “fedele” di quanti, grazie a quel voto, hanno abusato del potere conferito loro.

Ai siciliani – lo dimostrano nelle votazioni regionali e nazionali – non interessa un cambiamento, una nuova possibilità. In loro non vi è alcuna insofferenza, né fermento di rivoluzione. Non riescono neppure ad aggregare e mobilitare quelle poche forze oneste in grado di spezzare il circuito dell’illegalità e della corruzione. Alla maggior parte di loro non serve: va bene così. Peraltro, non è grazie a quel mondo – e soprattutto a quell’economia sommersa – che riescono a sopravvivere?

Non posso che apprezzare le parole espresse da Ficarra. Sì… sarebbe bello se a quelle parole si potesse dare seguito con i fatti, iniziando a scendere in piazza per farci sentire da chi non vuole ascoltare. 

Io comunque sono già qui, in attesa che anche lui mi raggiunga. Auspico solo che, alla fine, in mezzo a quest’enorme piazza, non saremmo solo in due

Catania: la prossima pagina dell’inchiesta!


C’è un momento, prima che la notizia si adagi come fosse polvere su una scrivania dimenticata, in cui essa vibra, non come fatto, ma come segnale. Già… proprio come un avviso scritto in una lingua che conosciamo bene, anche se facciamo finta di non capirla.

Ora quel segnale non è solo l’eco di una sentenza né il rilancio di un comunicato stampa: è il peso specifico di ottantamila euro in contanti, gli ennesimi soldi a nero che circolano in questo Paese, e lasciatemi ricordare come, in tutti questi anni, nessun governo nazionale ha mai voluto adottare provvedimenti veri contro il riciclaggio e i pagamenti in nero, trovati chiusi nell’ennesima cassaforte, nascosta tra le mura di una casa in città o in una tenuta fuori mano.

Non è tanto la cifra a colpire – ormai sappiamo che i numeri si gonfiano, si riducono, si mimetizzano – quanto il gesto di nasconderla, di tenerla lì, ferma, come un’assicurazione silenziosa, un pegno in attesa di essere riscattato o di corrompere chiunque si mostri disposto a farsi infettare.

È la conferma che, contrariamente a quanto dichiarato ieri dal Presidente Mattarella – «la mafia tracotante che fu sconfitta» – la sua totale distruzione non è mai avvenuta. Anzi, quel sistema non è in crisi: funziona benissimo, più florido che mai.

Certo, funziona per pochi (infetti) e contro tutti: appalti, sanità, assunzioni, gare che si aprono e chiudono con la stessa facilità di una saracinesca. Un sistema criminale «pubblico», non per servire, ma per selezionare, per garantire che quella casta sopravviva, che il cerchio resti chiuso, che le mani che stringono siano sempre le stesse, anche se i volti cambiano, le generazioni si susseguono e le etichette politiche si rinnovano.

Non è corruzione occasionale, non è una deviazione momentanea: è un metodo consolidato, oliato, che si ripete, si perfeziona, si trasmette. Un linguaggio condiviso, fatto di pressioni discrete, rinvii strategici, punteggi modificati in silenzio, commissioni che decidono non per quello che vedono, ma per ciò che gli viene suggerito.

E chi credeva che tutto questo fosse circoscritto a un ufficio, a una provincia, si sbagliava. Il contagio non rispetta i confini amministrativi: segue le relazioni, i favori, i debiti non scritti, dalla costa occidentale fino alle pendici dell’Etna, lungo strade secondarie che non compaiono sulle mappe, ma solo sulle agende private.

Non sono più solo le parole intercettate a raccontare questa storia: sono i corpi che si irrigidiscono al suono di un telefono, le dimissioni annunciate con ritardo, i sit-in silenziosi davanti ai palazzi, con striscioni che non gridano rivoluzione, ma chiedono una cosa sola: rispetto. Ma rispetto di cosa? Per chi lavora onestamente, per chi aspetta un’assunzione meritata, una strada riparata non per grazia ricevuta, ma per diritto?

Mentre alcuni sperano che l’inchiesta si esaurisca tra verbali e interrogatori programmati per venerdì, qualcosa già si muove più a est. Sì… Catania non è un’ipotesi: è una direzione. Lo sento nell’aria, nel modo in cui certe telefonate si interrompono prima del previsto, nelle carte ricontrollate all’improvviso, nei nomi cancellati da liste e protocolli.

Non è fantasia: quando un sistema viene scosso davvero, non crolla pezzo a pezzo, ma tutto insieme. E saranno in molti a dover piangere. Chi ha costruito la propria fortuna su fondamenta marce non può non tremare, soprattutto chi, insieme alla sua famiglia, ha goduto di un «improvviso» benessere senza mai chiedersi da dove venisse..

Perché questa volta non si tratta di coprire, archiviare o attendere che il tempo cancelli tutto. Questa volta, la luce entra da più finestre. E anche se qualcuno spera che il clamore si spenga, ciò che è stato commesso – l’infamia con cui si sono macchiati – non svanirà!

Perché lì, nell’asettico mondo virtuale, nulla viene cancellato. I nomi, i cognomi, le date resteranno per sempre, scolpiti nella memoria digitale che non perdona. E quando qualcuno proverà a dimenticare, basterà un click per ricordare chi ha tradito, come ha tradito, e a chi è costato. Perché la verità, una volta esposta, non torna più nell’ombra.

“Enjoy” si è fermata a Eboli? No… a Castel di Iudica!


Già… in questo nostro Paese, il più delle volte ci si gira dall’altra parte, come se voltare lo sguardo bastasse a cancellare i problemi. 

Viceversa il sottoscritto – proprio due settimane fa – mentre tornavo a casa lungo una strada desolata che da Castel di Iudica conduce verso l’autostrada A19 (Catania-Palermo), non ha potuto che notare un’auto: nuova, bella, rossa, con il logo “Enjoy” stampato sulla carrozzeria, come un ironico slogan pubblicitario, abbandonata lì… in mezzo al nulla.

All’inizio sembrava solo parcheggiata in modo strano, forse dovuto a un problema meccanico o chissà a un errore di qualcuno che in maniera celere l’avesse abbandonata, ma poi, giorno dopo giorno, ho visto i pneumatici sparire, i cerchioni strappati e via via, sembra apparire come ossa da uno scheletro, mentre i ladri – o forse qualcuno in cerca di ricambi per la stessa marca – inizia a smontare pezzo a pezzo, quel relitto sotto il naso di tutti.

Pensavo altresì ai possibili rischi, già… a ragazzini che per gioco potrebbero lanciare sassi contro quei finestrini e ai poveri ciclisti che rischierebbero di finire in mezzo ai vetri divelti, eppure vedendo quell’auto mi son chiesto come mai finora nessuno avesse mosso un dito? Le forze dell’ordine, secondo quanto riportato al bar la scorsa settimana – dove avevo preso un caffè – erano passate a controllare.

Ed allora pensavo: ma c’è qualcuno a cui interessa? Perché nessuno ha chiamato un carro attrezzi? Ed allora stamani ho rallentato e l’ho fotografata nuovamente e mi sono chiesto se non fosse il caso di segnalarla anche attraverso questo blog, ripensando ai rischi che quell’auto possa – in quelle condizioni – provocare, soprattutto di notte, quando l’area è così fitta che sembra di camminare a occhi chiusi.

Eppure si tratta di una vettura a noleggio, non un relitto di proprietà privata. La società dovrebbe sapere dov’è, no? O forse no. Forse il sistema di tracciamento è stato disattivato, forse è stata rubata, forse il cliente l’ha lasciata lì dopo un guasto e tornato a riprenderla ma viste le sue condizioni, ha deciso di fare diversamente… 

Ma la vera beffa è che “Enjoy” (che significa godimento, in inglese) è diventata il nome di un monumento all’indifferenza.

Chi l’ha abbandonata? Un utente distratto che ha premuto “fine noleggio” senza accorgersi di aver lasciato l’auto in mezzo al deserto? Un dipendente troppo impegnato a compilare scartoffie per verificarne la posizione? O forse siamo tutti colpevoli, già… noi che passiamo e non facciamo niente, convinti che “tanto non è affar nostro”?

E così… mi torna in mente quel film, “Cristo si è fermato a Eboli”, dove la storia cerca di spiegare il mondo, guardando tra le sue pieghe più nascoste. Solo che qui, a Castel di Iudica, non è Cristo che si è fermato: è il senso civico!

È l’idea semplice che, se vedi un’auto abbandonata in una zona pericolosa, fai una telefonata. Che se sei delle istituzioni, non ti limiti a controllare e basta: agisci!

Invece, no… siamo qui a quasi due settimane di distanza, e nessuno ha chiamato un carro attrezzi. Già… si preferisce parlare al bar, lamentarsi tra un caffè e l’altro, e poi tornare a casa senza alzare lo sguardo e aspettare che quell’auto diventi prima o poi un problema.

Mi chiedo: quanto deve durare questa farsa? Quanti vetri devono andare in frantumi, quante altre altre parti meccaniche o di carrozzeria debbono esser trafugate, prima che qualcuno decida di muovere un dito?

Forse basterebbe una segnalazione, un messaggio alla società, auspico solo che non si preferisca – come sempre – che siano gli altri a risolvere i problemi. La vera tragedia infatti, non è l’auto abbandonata, è che nessuno si sente responsabile di rimetterla in carreggiata.

Spero quantomeno che questo post, con la targa ben visibile, arrivi a chi di dovere. Ma la domanda che mi porto dietro è un’altra: quando capiremo – noi cittadini – che la civiltà non è solo questione di leggi o di controlli, ma di guardare ciò che abbiamo davanti e non far finta di non vedere, ma fare sempre la nostra parte? 

INCREDIBILE: sono le 13.45 ed è successo. L’auto è stata ritirata con un carro attrezzi. Proprio adesso, dopo due settimane di abbandono, di cerchioni rubati, di vetri a rischio per i ciclisti, dopo tutti i caffè al bar in cui si parlava di “non è affar mio”, dopo le forze dell’ordine che hanno controllato e basta… è bastato scrivere un post, mostrare la targa, ricordare che la civiltà non è un optional.

Mi chiedo: se è successo così in fretta, perché non è accaduto prima? Perché ci voleva un cittadino che alza la voce, che non si gira dall’altra parte, per far muovere le cose? Forse perché a volte basta un granello di sana vergogna, un po’ di luce puntata su un angolo dimenticato, per smuovere ingranaggi che sembravano arrugginiti. O forse, semplicemente, qualcuno ha letto queste righe e ha deciso di fare la sua parte.

Non voglio esultare, non ancora. Perché la vera vittoria non è il carro attrezzi che se ne va con quel relitto, ma il fatto che, per una volta, qualcuno ha scelto di non voltare lo sguardo. La domanda resta: perché aspettare sempre che sia un post a risolvere ciò che dovrebbe essere normale? Perché lasciare che siano i cittadini a fare il lavoro che spetta ad altri?

Intanto, però, oggi auspico di avervi trasmesso una cosa: a volte, basta poco. Un click, una segnalazione, un “non mi va di tacere”. Non è molto, ma è già qualcosa. E se questa auto è finalmente sparita, spero che domani non ce ne sia un’altra al suo posto. Perché la civiltà non è questione di miracoli: è questione di non smettere mai di guardare!

Quel che resta da fare: Quando il cittadino entra in scena.


Dopo aver parlato del ritmo e del silenzio, resta ora da chiedersi: e noi?

Già… noi, non come denuncianti improvvisati, non come investigatori della domenica, ma come cittadini che camminano ogni giorno per strade costruite – o non costruite – da scelte che qualcuno ha fatto al posto nostro, spesso senza chiederci nulla.

Non si tratta di sostituirsi alle autorità, né di sostituire il sospetto alla fiducia: si tratta, più semplicemente, di non lasciare che la complessità diventi scusa per l’indifferenza.

Esistono oggi strumenti che, fino a pochi anni fa, sarebbero sembrati fantascienza. Ad esempio il portale “OpenCantieri”, mette a disposizione – in tempo reale e in formato aperto – dati su oltre 150.000 cantieri pubblici in tutta Italia: chi li ha vinti, a quanto, con quale procedura, se sono in ritardo e di quanto. Non è un archivio per esperti: basta inserire il nome del proprio comune e compariranno le voci di spesa, i soggetti aggiudicatari, le date di inizio e fine lavori. Certo, è uno specchio a volte impietoso, ma quantomeno veritiero.

Poi c’è l’Indice della Pubblica Amministrazione, gestito dall’ANAC, che permette di verificare, con pochi clic, se una stazione appaltante ha pubblicato i suoi bandi sul sito previsto dalla legge, se ha rispettato i tempi minimi di consultazione, se ha motivato le scelte tecniche con trasparenza.

Ed ancora, il Portale Unico dei Contratti Pubblici, dove ogni bando, ogni aggiudicazione, ogni variazione deve essere registrata – pena sanzioni amministrative. Non sempre lo si fa. Ma se qualcuno lo nota, e lo segnala – con calma, con precisione, senza clamore – qualcosa può cambiare.

Segnalare non significa per forza “accusare”, significa viceversa chiedere chiarimenti, inviare una PEC alla stazione appaltante per sapere perché un bando è stato pubblicato un lunedì con scadenza giovedì; significa, in alcuni casi, rivolgersi all’ufficio preposto all’accesso civico, previsto dalla legge 241/1990, per ottenere copia dei verbali di gara. Significa ahimè – quando i dubbi diventano troppo consistenti – scrivere all’ANAC, che ha un canale dedicato (segnalazioni@anticorruzione.it) che garantisce riservatezza a chi denuncia irregolarità. Non serve quindi essere avvocati, basta semplicemente essere precisi: citare il CIG del bando, la data di pubblicazione, il punto del capitolato che appare anomalo.

Ho visto piccole cose nascere da gesti altrettanto piccoli. Un lettore del mio blog, qualche anno fa, notò che lo stesso raggruppamento temporaneo si era aggiudicato quattro scuole in altrettanti comuni limitrofi, sempre con ribassi identici al 29,7%. Non scrisse un articolo. Non lanciò accuse. Mandò una mail all’ufficio trasparenza di uno dei comuni coinvolti, allegando i quattro bandi. La risposta arrivò dopo due settimane: la gara fu sospesa, avviata una verifica interna, e infine annullata. Nessuno finì sui giornali. Ma la scuola fu rifatta, da un’altra ditta.

Non sto dicendo che basti questo. Sto dicendo che, senza questo, non basta nient’altro…

Perché la corruzione non teme le leggi più severe – quelle… le ha già imparate e soprattutto le sa aggirare. Quello che teme di più, siamo noi, lo sguardo attento di chi è ostinatamente ordinario, di chi non ha potere, ma ha una forte memoria.

Già… di chi non alza la voce, ma non distoglie gli occhi, di chi sa che, talvolta, la prima crepa in un sistema opaco non è un’inchiesta, ma una domanda scritta in una mail, inviata un pomeriggio qualunque, mentre prendiamo all’interno di un bar una tazza di te, da una semplice scrivania improvvisata.

Il silenzio tra un appalto e l’altro: Quando la gara finisce prima di cominciare.


Il metodo forse più subdolo è quello che si nasconde dietro la formula dell’“offerta economicamente più vantaggiosa”. In teoria, un modo per premiare il valore tecnico. In pratica, a volte, un meccanismo perfetto per favorire gli amici.
Come si può pensare di pubblicare un bando da milioni di euro e concedere solo quindici giorni per presentare uno studio migliorativo? Un tempo così esiguo che non basta neppure per leggere e comprendere a fondo il progetto. Viene il sospetto che il capitolato sia stato disegnato su misura per qualcuno, che conosceva in anticipo i dettagli e ha potuto preparare l’offerta con calma.

Non è fantasia: la Corte dei Conti, nella sentenza n. 746 del 28 marzo 2024, ha annullato l’aggiudicazione di un intervento di messa in sicurezza idrogeologica in Calabria proprio per questo motivo – un bando pubblicato un venerdì sera, con scadenza di giovedì successivo, e un capitolato tecnico contenente requisiti così specifici da coincidere, quasi alla lettera, con le caratteristiche di una sola delle tre imprese partecipanti. La sentenza, consultabile nel registro ufficiale della Corte, parla chiaro: non si tratta di errore procedurale, ma di “alterazione della par condicio sostanziale”, una formula che, tradotta in parole semplici, significa che la gara non era una gara.

La caccia al bando stesso diventa una prima, ardua selezione. Documenti nascosti su siti inaccessibili, pubblicazioni fatte circolare in ritardo, gare indette a ridosso di festività. Sono tutti espedienti che, sommati, scoraggiano i concorrenti sgraditi e restringono il campo a pochi eletti. E se, nonostante tutto, vince un’impresa “sbagliata”, ecco che i tempi di avvio dei lavori si dilatano magicamente, fino a quando un intoppo burocratico non permette di ripiegare sulla seconda in graduatoria, che guarda caso è proprio l’impresa amica.

In questo panorama, persino l’ipotesi più fantasiosa, come quella di un accesso informatico illecito per conoscere le offerte degli altri pochi minuti prima della scadenza, lascia un dubbio amaro in gola.

Non è solo un dubbio, del resto. Il Rapporto 2024 della Direzione Nazionale Antimafia dedica un’intera sezione al “rischio informatico nei sistemi telematici degli appalti”, segnalando come, in almeno tre inchieste concluse negli ultimi diciotto mesi, sia emersa la pratica di accessi non autorizzati a piattaforme di gara da parte di consulenti esterni – figure apparentemente neutrali, spesso nominate con procedure semplificate, che avevano accesso simultaneo ai documenti delle stazioni appaltanti e alle bozze delle offerte.

Il rapporto, disponibile nel sito ufficiale della DNA , non parla di casi isolati, ma di un’evoluzione della collusione: non più bustarelle in contanti, ma intrusioni digitali, scambi di file criptati, tempi di risposta sospettosamente sovrapposti. È una corruzione che ha imparato a digitare.

Proprio in queste ore, la cronaca giudiziaria torna a occuparsi della materia, con inchieste che coinvolgono figure di alto livello nella pubblica amministrazione. La politica assicura massima attenzione e rigore, in attesa degli esiti dell’autorità giudiziaria. È un segnale che qualcosa, forse, potrebbe muoversi.

Ma la sensazione è che, senza una vigilanza costante e una volontà ferrea di cambiare le regole del gioco, questo meccanismo ben oliato sia destinato a riavviarsi, ciclo dopo ciclo, appalto dopo appalto.

Eppure, ogni volta che un funzionario sceglie di non voltarsi dall’altra parte, ogni volta che un cittadino chiede copia di un bando e ne verifica i termini, ogni volta che un giornalista ricostruisce una catena di aggiudicazioni che nessuno aveva collegato – in quei momenti, il silenzio tra un appalto e l’altro non è vuoto: Sì… è per fortuna lo spazio in cui, forse, può ancora nascere qualcosa di diverso.

Il ritmo che conosciamo: Quando il bando non è una gara.


Si torna a parlare di gare d’appalto, ed è come riaprire un libro di cui si conosce già il finale, ma la cui lettura continua a turbare. Mi riferisco a una sensazione che conosco bene, fatta di sospetti che si accumulano giorno dopo giorno, osservando la stessa scena ripetersi con una regolarità che ha del perturbante.
Basti guardare l’alta frequenza con cui certe imprese si aggiudicano i lavori, una ciclicità che sembra sfidare ogni legge statistica. Si presentano da sole, in temporanea associazione, o celate dietro il comodo paravento di un consorzio, e costantemente, come baciate da una fortuna insolitamente propizia, ottengono la vittoria. È un ritmo che fa riflettere, un ritmo che parla di meccanismi non proprio limpidi.

Certo, qualcuno obietterà che sia solo una coincidenza, che non si debba dar credito a ombre dove non ce ne sono. Eppure i numeri raccontano una storia diversa, fatta di episodi di corruzione che affiorano in continuazione, con la Sicilia purtroppo in testa a queste classifiche.

Il settore più a rischio rimane sempre quello dei lavori pubblici in genere, un mondo vasto che va dalle costruzioni al ciclo dei rifiuti, settori notoriamente sensibili eppure ancora così opachi. So bene che parliamo di un ambiente in cui, per operare, si dovrebbe essere inseriti in appositi elenchi di soggetti affidabili, ma a volte sembra che quei controlli ed i criteri applicati siano ben altri, o quantomeno evidenzino una scarsa attenzione al merito e alla dignità del servizio pubblico.

Si osserva poi una strategia quasi scientifica nella distribuzione degli appalti. Per le commesse più ricche, sembra prevalere un sistema di turnazione tra aziende, con ribassi d’asta così minimi da apparire coordinati. Per gli affidamenti di minore entità, invece, si scende più in basso nella scala amministrativa, coinvolgendo figure tecniche con promesse di contropartite in denaro, in prestazioni o in favori.

In cambio, le imprese ottengono una certa discrezionalità nell’esecuzione, alterando qualità e quantità, chiedendo varianti e risparmiando persino sulla sicurezza. Basterebbe blindare le procedure, verificare seriamente la reale consistenza di queste aziende, per scoprire che molte di loro, a guardarle bene, non sarebbero in grado di riparare neppure la tapparella di casa di mia nonna.

A volte i sospetti trovano conferma in modo così immediato da lasciare senza parole. Già: alcuni anni fa, dopo aver messo nero su bianco in un mio post queste considerazioni, un presidente dell’associazione dei costruttori lanciava pubblicamente l’allarme, parlando di sorteggi sospetti e rischi di una nuova Tangentopoli.

Non era un’allusione generica: pochi mesi prima, l’Autorità Nazionale Anticorruzione aveva dedicato un intero capitolo del suo Rapporto annuale 2024 proprio al fenomeno della “frequenza anomala di aggiudicazione”, un’espressione asettica che nascondeva un dato concreto — il 42% delle stazioni appaltanti con almeno un procedimento sanzionato per irregolarità gravi aveva visto prevalere sempre le stesse imprese in più del 70% dei bandi negli ultimi tre anni.

I casi analizzati includevano appalti per opere stradali, edilizia scolastica e gestione del ciclo idrico, tutti ambiti in cui la qualità dell’esecuzione non è una questione tecnica, ma di sicurezza collettiva. Il rapporto, disponibile integralmente sul sito ufficiale dell’ANAC, non parla di eccezioni: parla di pattern ricorrenti, di procedure formalmente corrette, ma sostanzialmente orientate.

È un richiamo sinistro a una storia ben documentata, non a un ricordo vago o lontano – come quella del cosiddetto “ministro dei Lavori Pubblici” di Cosa Nostra, un ruolo non ufficiale, ma reale: un uomo incaricato dall’organizzazione di decidere chi poteva vincere appalti milionari per le opere pubbliche, chi doveva restare fuori, e a quale prezzo. Un controllo esercitato non con le armi – almeno non sempre – ma con una rete di imprenditori, tecnici e funzionari collusi, capace di far vincere bandi già scritti a misura.

Quella vicenda ci ricorda che il meccanismo corruttivo rappresenta un’infezione che si è ormai normalizzata, diventando quasi ordinaria, e che ormai non affligge più solo alcuni territori ma, in forme diverse, l’intero Paese. Sono parole che confermavano ciò che si osserva ormai da troppo tempo: circostanze curiose nelle aggiudicazioni e un pericolo concreto per la trasparenza.

Cosa aggiungere? Domani proseguirò, seguendo il silenzio che cala tra un bando e l’altro, tra un’aggiudicazione sospetta e la successiva, tra ciò che si scrive nei capitolati e ciò che si decide fuori, già… in stanze dove il tempo sembra non passare mai.

Oltre il porno, la vera sfida: identità verificata anche per i social!


Stamani ho deciso di condividere con molti di voi una riflessione nata da una notizia che ho letto in questi giorni navigando in rete.
A partire dal 12 novembre 2025, infatti, entrerà in vigore in Italia una norma importante: non sarà più possibile accedere ai siti pornografici con una semplice autodichiarazione, ma sarà obbligatorio verificare la propria età attraverso sistemi certificati come SPID o la Carta d’Identità Elettronica.

La motivazione, profondamente condivisibile, è la tutela dei minori e l’aumento della sicurezza online, un argine finalmente costruito contro l’accesso inconsapevole a contenuti inadatti. Chi tenterà di entrare senza questa verifica si troverà davanti un avviso di inibizione, un muro digitale eretto a protezione dell’innocenza.

Davanti a questa notizia, il mio pensiero non ha potuto fare a meno di espandersi verso quelle piazze digitali dove l’identità è spesso un optional comodo e senza conseguenze. Ed allora mi sono chiesto perché un principio così chiaro di responsabilità e verifica non possa trovare una sua applicazione naturale anche nell’universo dei social network, in tutte quelle piattaforme come Instagram, X o Facebook dove ogni giorno fioriscono discussioni offensive e purtroppo anche troppi insulti.

Sarebbe bello, forse utopico, immaginare che per pubblicare un contenuto, per lasciare un commento, fosse necessario legare il proprio nome e cognome reali (e quindi non più nickname o false identità) attraverso quei medesimi sistemi di identità digitale.

Sono profondamente convinto che se ogni parola scritta in quei luoghi portasse con sé il peso di una identità verificata, il panorama della discussione online subirebbe una trasformazione radicale e benefica.

Già… quella fitta coltre di commenti offensivi, di aggressioni gratuite lanciate dal sicuro anonimato, si dissolverebbe per una larga parte, forse proprio quel novanta percento di veleno che avvelena il dialogo.

La libertà di esprimere il proprio pensiero non verrebbe certo meno, ma finalmente sarebbe accompagnata dalla consapevolezza e dalla responsabilità di chi sta parlando, costringendo tutti a ricordare che dall’altra parte dello schermo c’è una persona in carne e ossa.

Sì… sarebbe un ritorno a una forma di conversazione più autentica, dove la maschera dell’impunità cade e rimane solo la genuinità, a volte scomoda, di un volto e di un nome. Forse è un sogno, ma è un sogno per cui vale la pena spendere le proprie energie, perché la rete torni ad essere un luogo di incontro e di crescita civile.

RESISTERE!


Talvolta le parole appaiono consumate, quasi svuotate del loro significato più profondo, eppure alcune conservano un potere antico, una risonanza che scuote l’anima. RESISTERE!
È questa la parola che scelgo, che abbiamo scelto, come un faro nell’oscurità di un presente spesso sconcertante.

Non è un titolo, ma è il battito del cuore di tutti coloro che avvertono un profondo malessere, un disagio viscerale verso uno stato di cose che non ci rappresenta più, e che anelano a un cambiamento non più rimandabile, un cambiamento definitivo.

Mi torna in mente l’immagine della mia pagina di Facebook – https://www.facebook.com/resistworld – e quella citazione attribuita a Malcolm X che sembra scavata nella pietra della nostra contemporaneità: «Se non state attenti, i media vi faranno odiare le persone che vengono oppresse e amare quelle che opprimono».

Queste parole non sono un semplice monito, sono una lente di ingrandimento gettata sul meccanismo più subdolo dei nostri tempi, quello che ci porterebbe, quasi senza accorgercene, a sostenere per il carnefice mentre guardiamo con sospetto la vittima, un ribaltamento della realtà che intorpidisce le coscienze e spegne la volontà.

E proprio oggi, l’associazione LIBERA, a cui ho l’onore di appartenere, ci ricorda con parole chiare e dolorose perché quella vigilanza sia più cruciale che mai. Negli ultimi giorni si sono riaffacciate modalità criminali e barbare, atti vigliacchi concepiti per mettere a tacere chi della verità e dell’informazione libera ha fatto la propria bandiera. È un colpo che ci ferisce tutti, che ci riporta a pagine buie che credevamo di aver voltato, e invece no, ci siamo ancora in mezzo, e questo ci grida che non possiamo più permetterci di essere spettatori.

C’è un mondo che resiste, sì… un mondo fatto di persone comuni, di cittadini che, in silenzio o a gran voce, hanno compiuto la scelta più importante: hanno deciso da che parte stare. È il mondo di chi non si volta dall’altra parte quando passa l’ingiustizia, di chi crede nella verità anche quando è scomoda, di chi ha il coraggio di mettere in discussione il potere e di fare domande che bruciano. È fatto di chi difende i diritti di tutti, anche dei più invisibili, di chi non si rassegna ma costruisce alternative concrete, di chi si ostina a credere nel bene nonostante tutto, di chi agisce con la ferma determinazione di non lasciare indietro nessuno.

Ecco perché mi permetto in questo post di riportarvi la nota pubblicata in questi giorni dall’associazione LIBERA: Negli ultimi giorni si sono riaffacciate modalità criminali per mettere a tacere chi della verità e dell’informazione libera ha fatto il proprio lavoro. Un atto barbaro e vigliacco che ci riporta indietro nel tempo, ma che ci ricorda quanto sia ancora necessario prendere parte. E Resistere! C’è un mondo che resiste. Un mondo fatto di persone comuni, cittadine e cittadini che hanno scelto da che parte stare. È il mondo di chi non si volta dall’altra parte, di chi crede nella verità, di chi mette in discussione il potere, di chi fa domande scomode, di chi difende i diritti, di chi costruisce alternative, di chi si ostina, di chi non lascia indietro nessuno, di chi agisce, di chi non si rassegna alle ingiustizie. Noi la nostra scelta l’abbiamo fatta. Adesso tocca a te!

Sì… noi tutti, in LIBERA, quella scelta l’abbiamo fatta da tempo, piantando i nostri piedi sul terreno della legalità e della giustizia sociale. Ma una scelta, da sola, non basta. Deve diventare un coro, un movimento, un’onda che non si può più fermare. E allora consentitemi di rivolgervi una domanda, semplice e diretta, che bussa alla porta della vostra coscienza: e tu? La tua scelta qual è? Perché il tempo di sperare che qualcun altro sistemi le cose è finito, è scaduto. È giunto il momento, il tuo momento, di fare la tua parte. Il futuro non aspetta, e la storia ci guarda.

Di Matteo contro il sistema che piega la giustizia.


Con un gesto carico di quella amarezza che solo le delusioni profonde sanno lasciare, Nino Di Matteo ha consegnato le sue dimissioni dall’Associazione Nazionale Magistrati.
Questa decisione, maturata nel silenzio e nella riflessione, non è che l’epilogo di un disagio crescente, la presa d’atto che all’interno di quel consesso continuano a prevalere logiche correntizie e calcoli di opportunità politica, dinamiche che ha sempre rifiutato e contrastato persino da membro del Consiglio Superiore della Magistratura.
È un addio amaro, che parla di ideali traditi e di un’istituzione che, invece di essere baluardo di indipendenza, sembra aver smarrito la sua strada, piegandosi a quelle stesse influenze che dovrebbe combattere.

E così, mentre si accinge a proseguire la sua battaglia a titolo personale, come del resto ha sempre fatto anche quando l’Anm preferiva il silenzio, la sua voce si leva a denunciare il pericolo incarnato dalle riforme degli ultimi anni.

A partire dalla riforma Cartabia fino al più recente progetto sulla separazione delle carriere, questi interventi minano alle fondamenta l’indipendenza della magistratura, il principio di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge e l’efficacia della lotta alla criminalità.

La sua scelta non è una ritirata, ma un cambio di trincea, l’affermazione che certe battaglie per l’integrità dello Stato sono troppo importanti per essere confinate dentro un’associazione che sembra aver dimenticato la sua missione.

C’è un’amara ironia nel fatto che sia un magistrato simbolo della lotta alla mafia a dover constatare, quasi come una rivelazione tardiva, che la giustizia in questo Paese è da tempo fragile e profondamente compromessa.

È un sistema dove le logiche di potere e gli interessi forti, siano essi politici o imprenditoriali, hanno finito per infiltrarsi persino laddove dovrebbe vigere solo il rigore della legge.

La sua uscita non è un episodio isolato, ma un sintomo di un male antico, la testimonianza vivente di come la giustizia sia spesso costretta a subire il peso di giochi che nulla hanno a che fare con il suo compito di garantire verità e giustizia.

Questa presa di posizione arriva in un momento cruciale, mentre si avvicina la battaglia referendaria sulla giustizia, e rappresenta un colpo durissimo per la credibilità dell’associazione.

Dimostra, senza bisogno di ulteriori prove, come la giustizia in Italia mostri da troppo tempo i segni di una fragilità strutturale, dove l’indipendenza è continuamente erosa e le decisioni rischiano di essere condizionate da calcoli estranei al diritto.

La sua scelta è un monito severo, un atto d’accusa contro un sistema che sembra aver normalizzato la sua sottomissione alle logiche del potere, e che forse, proprio per questo, non merita più il nome di “giustizia”.