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Altro che terra santa, sembra viceversa – da 2000 anni – una terra maledetta!


Le cronache e le immagini che ci arrivano da Gaza e da ogni altra parte di quel territorio, mostrano la sofferenza fisica (e morale) di innocenti indifesi.

La violenza si sa… genera morte e distruzione, la vendetta genera odio e dolore, e così assistiamo a un percorso circolare in cui si rincorrono solo gli aspetti più bui dell’umanità. 

Una pace che non si apre, che non ammette solidarietà né comprensione, e che non fa altro che alimentare il male con altro male. Da millenni anni, secoli e in modo più acuto da quel maledetto ottobre, parliamo e scriviamo di questo. 

Eppure le parole, tutte le parole, sembrano scivolare via come acqua su una pietra levigata dall’indifferenza.

È stato superato da tempo ogni limite di sopportazione. Abbiamo visto le cause, immediate e lontane e il numero altissimo di vittime a causa di bombardamenti, scontri, esplosioni e soprattutto carenza assoluta di viveri. Innumerevoli appelli, mediazioni di papi, imam, patriarchi, rabbini, ayatollah, dalai lama, ma anche capi di stato, si sono infranti contro un muro di rifiuto e gli aiuti che sono riusciti a filtrare sono una goccia in un oceano di disperazione.

Vorrei chiedervi: Cosa spinge un essere umano a non fermarsi, a continuare a provocare dolore? Come si trasforma questa sensazione di impotenza che ci assale in qualcosa di concreto? Al sottoscritto sembra che dopo tante parole, l’indifferenza sia nuovamente calata come un velo pesante sul male della guerra, e che la paura ci abbia resi ormai muti. E come ripeto sempre in ogni occasione: il silenzio, si sa, ci rende complici.

Intorno a Gaza, intorno alla Palestina, sono stati eretti muri fisici, visibili, che bloccano l’accesso a chi non è “autorizzato”: aiuti, volontari, occhi del mondo. Ma intorno a tutta questa guerra è stata costruita un’altra barriera, invisibile e più spessa, che blocca l’ingresso alla verità. Una verità che sola potrebbe nutrire la giustizia e restituire dignità a una popolazione stremata. 

Cosa, o chi, impedisce davvero di aiutare esseri umani che vivono in condizioni disumane? Forse la loro debolezza fa paura. Forse la loro rassegnazione non scuote più le coscienze addormentate. Chi sono coloro che scelgono di seguire interessi economici o di potere, aumentando le spese per procurare morte mentre poco più in là c’è abbondanza di quanto servirebbe per vivere? Perché negare un farmaco, un pasto, un po’ di calore, a pochi passi da dove tutto ciò esiste? Il gelo di un terzo inverno, senza il calore della solidarietà, sembra non smuovere più cuori ormai induriti e disconnessi.

Sono domande che restano sospese, rivolte a tutti, perché di fronte a una situazione così disumana la responsabilità è collettiva e diffusa. E mentre ora il Natale si avvicina, con quel suo messaggio di luce, quella terra sembra affondare sempre più nelle tenebre di una maledizione antica. 

Già… da oltre duemila anni, forse anche a causa delle religioni che l’hanno contesa, è un luogo dove la guerra ha segnato l’esistenza dei suoi popoli, dove la pace non è mai stata una realtà, ma solo un’illusione lontana. Le dichiarazioni dell’ultimo anno, l’affannarsi sterile di politicanti e presidenti, non hanno fatto che evidenziare il totale fallimento di ogni politica messa in campo. Le loro parole risuonano vuote in un deserto di azioni efficaci.

Eppure, la risposta che ci viene proposta in questi giorni è la bella storiella (certamente fantasiosa) di un Bambino in povere fasce, nato in una grotta fredda e buia. Un Bambino che porta pace ai cuori senza pace, che è venuto per riconciliare i fratelli. Ed allora proviamo a prendere quanto di buono da quella storia raccontata, sì… celebriamo quel messaggio che dalla grotta di Betlemme è giunto fino a noi dopo più di duemila anni. Ma non possiamo farlo solo nel ricordo rituale o essendo di parte, già… da chi professa una qualsiasi religioni ed odia le altre.

La pace non è un’illusione, è una scelta di vita quotidiana e coraggiosa. È l’unica verità che può spezzare questo cerchio maledetto. È il coraggio di riuscire ad amare il prossimo, anche quando quel prossimo è oltre un muro, oltre un checkpoint, oltre l’abisso dell’odio che quella terra, da millenni, continua a generare!

Mentre i leader sorridono, Gaza trema…


Il fragore delle armi a Gaza si è spento, ma il silenzio che avvolge la Striscia non sa di pace: sa piuttosto di respiro trattenuto, di pausa forzata, di attesa carica di tensione.
La cerimonia di firma in Egitto, prevista per lunedì, e lo scambio di prigionieri che ne seguirà, accendono certo una fiammella di speranza.

Eppure, basti guardare con attenzione alle condizioni di questo accordo per capire che non si tratta affatto di una soluzione, ma dell’ennesimo baratto tra vite umane: da un lato, gli ostaggi israeliani ancora in mano a Hamas; dall’altro, quasi duemila detenuti palestinesi rinchiusi nelle carceri israeliane, tra cui centinaia condannati all’ergastolo.

Questo non è un compromesso per la pace, è un patto di sopravvivenza momentanea, destinato a esaurirsi non appena le parti torneranno a guardarsi negli occhi con le armi in pugno.

La struttura stessa dell’accordo rivela tutta la sua fragilità. Israele ottiene l’appoggio internazionale anche di alcuni paesi arabi e il rilascio degli ostaggi, ma mantiene di fatto il controllo militare su oltre la metà del territorio di Gaza. Hamas, dal canto suo, ottiene sì… il cessate il fuoco e recupera centinaia dei suoi uomini, ma rifiuta con fermezza ogni ipotesi di disarmo; un punto, questo, che come sappiamo, per Israele non è negoziabile.

Difatti, un funzionario del movimento ha dichiarato in forma anonima, ma con chiarezza assoluta, che la richiesta di smantellare il suo apparato militare è “fuori discussione”, mentre Netanyahu, non ha esitato a ribadire che, senza disarmo, la guerra tornerà. Dunque, non si tratta di pace, ma di un braccio di ferro sospeso: le armi tacciono, ma le intenzioni non sono cambiate.

Le parole dei leader di Hamas confermano questa lettura. Hossam Badran, esponente di spicco dell’ufficio politico del movimento, ha definito “assurda e senza senso” qualsiasi proposta che preveda l’allontanamento dei suoi dirigenti da Gaza. Ha poi avvertito che, in caso di ripresa delle ostilità, Hamas risponderà a “qualsiasi aggressione israeliana”, e ha descritto la prossima fase dei negoziati come “più difficile e complessa”.

Comprenderete che non sono certo le parole di chi vuole deporre le armi per costruire un futuro comune, ma viceversa, quelle di chi si prepara alla prossima battaglia. E dall’altra parte, Israele non ha alcuna intenzione di permettere ad Hamas di rialzarsi: la determinazione a colpire di nuovo, se necessario, è esplicita, ed ecco perché in questo contesto, la ripresa del conflitto non è una possibilità remota: è quasi una certezza!

A rendere il quadro ancora più cupo è il ruolo di alcuni attori esterni, in particolare l’Iran. Il ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi, ha espresso “totale sfiducia” nella volontà di Israele di rispettare gli accordi, parlando apertamente di “trucchi e tradimenti del regime sionista”.

Ed infatti, pur appoggiando formalmente il cessate il fuoco, Teheran ha escluso con forza ogni ipotesi di normalizzazione con Israele, definendola “semplice illusione”. E poiché l’Iran continua a sostenere militarmente e politicamente Hamas, il suo atteggiamento non fa che incoraggiare le frange più radicali del movimento a resistere a qualsiasi concessione sostanziale.

Ecco perché in questo gioco, la tregua diventa solo un intervallo utile per riarmarsi, riorganizzarsi e attendere il momento giusto per colpire di nuovo, la storia, d’altronde, ci ha abituati a questi corsi e ricorsi e sappiamo come le radici di questo conflitto affondano in decenni di dispute territoriali, religiose e nazionali che nessun accordo superficiale ha saputo mai sanare.

Gli Accordi di Oslo, un tempo simbolo di speranza, sono finiti nel dimenticatoio. La soluzione dei due Stati, pur invocata da anni dalla comunità internazionale è rimasta un miraggio e quindi, l’attuale tregua, per quanto necessaria a fermare l’indicibile sofferenza dei civili, non tocca minimamente le questioni fondamentali: lo status di Gerusalemme, il diritto al ritorno dei rifugiati, la fine degli insediamenti israeliani, la sovranità di uno Stato palestinese.

Quindi, finché queste ferite resteranno aperte, ogni cessate il fuoco sarà solo un cerotto su una piaga profonda, destinato a staccarsi non appena il vento del conflitto tornerà a soffiare. Quello che stiamo vivendo non è la fine della guerra, ma un breve intervallo in una tempesta che non ha ancora esaurito la sua furia.

Già… a differenza di molti leader, in particolare i nostri politici attualmente al Governo, così entusiasti di giungere in Egitto per farsi un selfie con il “loro” Presidente Trump, beh… il sottoscritto teme che ahimè, molto presto, il fragore tornerà a farsi sentire, e purtroppo, sarà più forte di prima

Il silenzio degli Stati arabi e il dilemma palestinese


In questi giorni mi sono domandato, come certamente molti di voi: perché nessun paese arabo, a parte l’Iran, lo Yemen e in parte il Libano, sia andato in difesa concreta dei palestinesi in quest’ultimo terribile conflitto con Israele?

Già, dov’è finita quella ostentata unione islamica?

Ora, per favore, non ditemi che le ragioni vanno ricercate nell’eventuale rischio di una possibile terza guerra mondiale o nel timore che una risposta israeliana – se venisse nuovamente attaccata come nel 1967 da quegli stessi Paesi arabi o da altri – potrebbe spingerla, questa volta, all’uso delle armi nucleari.

Tutta questa situazione è – a mio avviso – molto più semplice da leggersi di quanto i complessi ragionamenti geopolitici vogliano farci credere; ritengo che, se si abbassassero per un attimo i toni della retorica e si osservasse in maniera distaccata gli avvenimenti storici, su quanto finora è accaduto, ecco che la lettura di questa grave crisi mediorientale, diventa, a mio parere, molto più semplice e spietatamente chiara

Abbiamo letto di come l’Egitto e la Giordania, di comune accordo, abbiano stabilito già da anni di non accogliere ulteriori profughi palestinesi, come d’altronde sono parecchi gli altri Stati arabi a non vedere di buon grado “Hamas”.

La conferma peraltro è avvenuta con la “Dichiarazione di New York”, firmata da Paesi come Qatar, Arabia Saudita, Egitto, Giordania, Turchia ed altri, oltre che dall’Unione Europea…

In quel documento si condannano gli attacchi militari di Hamas (del 7 ottobre dello scorso anno), esortando il gruppo a liberare immediatamente tutti gli ostaggi ancora nelle loro mani e a cedere le armi all’Autorità Nazionale Palestinese, rinunciando così definitivamente al controllo di Gaza.

Con questa firma si comprende come, secondo questi Paesi, il problema sia costituito propriamente da “Hamas”, e che essi, non intendono avere ulteriori problemi, sia interni, accogliendo nuove masse di palestinesi, sia esterni, pensando di dover affrontare Israele in una guerra.

E difatti: l’Egitto non vuole i palestinesi neanche a pagarli, mentre la Giordania – che già ospita circa due milioni di rifugiati – vorrebbe addirittura mandarli via. Il Libano, che ne ha accolti già molti, si è ritrovato in passato, e di nuovo recentemente, con la guerra civile in casa, propria a causa delle tensioni che questi arrivi di profughi, hanno generato. La verità – che nessuno ha il coraggio di dire apertamente – è che i palestinesi, purtroppo, non li vuole nessuno, e questo – ahimè – è un dato di fatto innegabile.

Ecco perché se i palestinesi vogliono un aiuto internazionale concreto, devono decidere una volta per tutte quale strada intraprendere, del resto, pensare di poter continuare una guerra senza una soluzione definitiva è una follia.

Basti osservare la storia di quel territorio: si cerca di trovare una pace da oltre un secolo, da quando nella prima metà del Novecento il movimento sionista e il nazionalismo palestinese iniziarono a scontrarsi per il controllo di quella stessa terra. Non ci sono riusciti loro, e ancor meno ci è riuscita l’ONU, che aveva proposto uno Stato Palestinese già nel 1947.

I palestinesi allora rifiutarono quel piano di spartizione perché volevano di più, e così non ottennero nulla, anzi potremmo dire il contrario, visto che sono passati quasi ottant’anni e quello Stato non è ancora ufficialmente riconosciuto da tutti i paesi del mondo, Italia compresa.

Permettetemi (con l’immagine allegata) di ricordare quel piano ONU del 1947, che assegnava le zone a maggioranza ebraica a Israele e quelle a maggioranza araba alla Palestina. Israele accettò, mentre i palestinesi rifiutarono.

Negli anni seguenti sappiamo bene come le tensioni sociali e i ripetuti conflitti armati, con i paesi arabi confinanti, abbiano portato Israele a vincere e quindi ad espandersi fino alla situazione odierna. Tutto è ancor più precipitato con il raid di Hamas del 7 ottobre, che ha provocato circa 1.200 morti (in gran parte civili) e la cattura di circa 250 ostaggi, alcuni dei quali ancora prigionieri. Un attacco mostruoso nella sua esecuzione, che ha fornito a Israele la motivazione – di fronte alla comunità internazionale – per scatenare il conflitto attuale, con l’obiettivo dichiarato di espellere i palestinesi da Gaza e portare la striscia, alla sua totale annessione.

Per cui da quanto è accaduto possiamo affermare che ciò che restava di quella Palestina disegnata nel 1947, oggi, non esiste più. I palestinesi si sono ridotti a meno di due milioni nella Striscia, mentre gli israeliani sono cresciuti fino a oltre dieci milioni. Va detto comunque che oltre un milione e mezzo di palestinesi sono residenti in Israele e convivono con gli israeliani da decenni, per lo più senza grossi problemi, dimostrando che una coesistenza in certe condizioni è possibile.

Ora tentare di ricercare motivazioni storiche profonde, chiedersi di chi sia la colpa, rivoltarsi contro l’uno o l’altro, o cercare di comprenderne le ragioni, è un’operazione veramente difficile se non impossibile.

I conflitti armati, come abbiamo visto, non hanno portato a nulla di buono, e i palestinesi dovrebbero saperlo meglio di chiunque altro, avendone persi almeno tre, con le inevitabili conseguenze che tutti abbiamo visto. Io non so cosa si dovrebbe fare esattamente, anche se una possibile soluzione l’ho proposta personalmente nel mio blog (link: https://nicola-costanzo.blogspot.com/2023/11/ecco-una-soluzione-per-creare-due-stati.html), ma credo che pochi lo sappiano davvero. So per certo però che Hamas non vorrà mai una pace definitiva con Israele, perché nella sua ideologia è previsto il totale annientamento dello Stato ebraico.

D’altronde pensare oggi di far scomparire gli ebrei dalla Palestina è qualcosa di folle e tantomeno realizzabile, basti guardare la potenza degli armamenti in possesso di Israele per comprenderne l’assoluta fallacia.

Certo, oggi a pagare le conseguenze di queste azioni militari e politiche, è soprattutto il popolo palestinese (ma consentitemi di ricordare anche i familiari delle vittime di quel 7 Ottobre), gente comune, inerme, fatta soprattutto di donne e bambini, che si sono trovati stretti – all’interno di quella Striscia – tra l’incudine di dover in qualche modo proteggere i terroristi di Hamas e il martello dell’esercito israeliano con i suoi bombardamenti.

Insistere su una retorica fine a se stessa, come spesso accade nel nostro Paese e in televisione, si è rivelato del tutto inutile e, come la storia recente dimostra, incapace di produrre un cambiamento reale. La soluzione a questo conflitto non può essere calata dall’alto, ma deve essere costruita dalle due popolazioni che da oltre mezzo secolo non conoscono pace.

L’intervento della comunità internazionale è certamente necessario, ma non deve ripetere gli errori del passato, fatti più di propaganda politica e mediatica che di sostanza. Deve piuttosto tradursi in un’azione concreta e coraggiosa per far rispettare le regole di una civile convivenza e il diritto internazionale.

Ciò significa, in questo frangente, garantire con ogni mezzo la protezione della popolazione civile e assicurare che gli aiuti umanitari raggiungano chi ne ha disperato bisogno, come il popolo palestinese a Gaza, anche attraverso missioni internazionali legittime il cui operato sia sottoposto a controlli democratici.

Solo attraverso un impegno di questo tipo – che ponga al primo posto i diritti umani universali e il ripudio della guerra – può onorare i principi di umanità.

Papa Leone XIV, non ripetere gli errori dei tuoi predecessori!

Secondo il sottoscritto, quanto affermato dal rabbino Eliezer Simcha Weisz è corretto, perché non si dovrebbe mai fare differenza tra popolazioni che, purtroppo, oggi soffrono per motivi diversi, ma ugualmente devastanti.
Chi subisce le conseguenze della violenza non può essere diviso in categorie, né tanto meno dimenticato, come sembra aver fatto Papa Leone XIV equiparando le vittime di Gaza a quelle ucraine senza riconoscere le specificità morali e storiche di ciascun conflitto.

Già… questo non può essere il messaggio che ci si aspetterebbe dal “vicario di Cristo”, il quale dovrebbe invece operare con maggiore discernimento, evitando di appiattire realtà complesse in una generica condanna della sofferenza.

Ha perfettamente ragione il rabbino Weisz (membro del Gran Rabbinato d’Israele), quando ha espresso il suo disappunto in una lettera al Papa, sottolineando come l’equiparazione tra le vittime palestinesi e quelle ucraine, senza alcun riferimento agli ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas, abbia ferito profondamente la comunità ebraica: “Tutte le persone che soffrono meritano preghiere, ma non tutte le sofferenze sono causate dalle stesse mani”, ha ribadito Weisz, criticando una narrazione che ignora le responsabilità di Hamas nel conflitto e la legittima difesa di Israele.

Questa non è la prima volta che Weisz contesta le posizioni del Vaticano. Già a gennaio aveva accusato Papa Francesco di alimentare l’antisemitismo moderno attraverso un approccio sbilanciato, equiparando una democrazia come Israele a un’organizzazione terroristica come Hamas. “Avete tracciato una falsa equivalenza morale”, scriveva allora, denunciando una distorsione della realtà che rischia di riaccendere antichi pregiudizi.

Dietro queste dichiarazioni e gli incontri che seguiranno, però, si nasconde una questione più ampia: la spartizione del mondo e dei territori che interessano alle grandi potenze. Il dialogo tra Vaticano e leader religiosi ebraici non è solo una questione teologica, ma un riflesso di dinamiche geopolitiche in cui le sofferenze delle popolazioni diventano meri strumenti di negoziazione.

Quando il Papa incontra rappresentanti del regime iraniano, che apertamente invoca la distruzione di Israele, o quando accoglie presepe con simboli palestinesi, invia messaggi che vanno ben oltre la spiritualità, toccando nervi scoperti della politica internazionale.

Il rischio è che, in questo gioco di equilibri, le vittime reali vengano dimenticate, ridotte a numeri in una contabilità di guerra…

E così, mentre i leader discutono di alleanze e confini, migliaia di civili continuano a morire, e la loro sofferenza viene strumentalizzata per giustificare ulteriore violenza.

Ecco, forse, invece di cercare colpevoli o stabilire gerarchie del dolore, sarebbe più utile chiedersi come fermare tutto questo prima che sia troppo tardi. Ma ho l’impressione che chi oggi potrebbe rappresentare la differenza, costituendo di per sé la parte sana e moralmente giusta, preferisca – come scrivevo alcuni mesi fa nel mio articolo “Il potere di un gesto: da Ponzio Pilato…” link: https://nicola-costanzo.blogspot.com/2025/06/il-potere-di-un-gesto-da-ponzio-pilato.html – proseguire con quelle stesse azioni, sì… con quel lavarsi le mani.

Perché quando il male avanza e i potenti tacciono, non è mai per ignoranza. È per calcolo. E la storia, purtroppo, ci insegna che questo calcolo lo pagano sempre gli innocenti!

Netanyahu e il piano silenzioso: da Gaza alla Cisgiordania, l’ombra dell’annessione!

Da tempo il sottoscritto anticipava che il governo Netanyahu avrebbe trasformato la risposta all’Operazione Diluvio (al-Aqṣā) in un’occasione per riprendersi Gaza, e oggi quelle ipotesi stanno diventano realtà.

La decisione del gabinetto di sicurezza israeliano di approvare l’occupazione di Gaza City non è che l’inizio di un disegno più ampio, quello che – sempre secondo il sottoscritto – porterà, tra qualche anno, a estendere il controllo anche sulla Cisgiordania.
Il piano, approvato dopo dieci ore di discussioni accese, prevede lo smantellamento definitivo di Hamas, ma anche qualcosa di più profondo: la rimozione di ogni autonomia palestinese nella Striscia. L’IDF si prepara a entrare in Gaza City, un’area finora evitata, evacuando circa un milione di persone verso i campi profughi centrali, mentre i terroristi rimasti verranno assediati e neutralizzati.

Abbiamo visto come il capo di stato maggiore, abbia tentato di opporsi, sostenendo l’impossibilità di garantire una risposta umanitaria a uno spostamento così massiccio, ma la sua voce alla fine è rimasta inascoltata. Netanyahu e il ministro della Difesa Israel Katz hanno viceversa spinto per un’azione decisa, fissando simbolicamente la scadenza delle operazioni al 7 ottobre 2025, secondo anniversario del massacro.

I cinque principi approvati dal gabinetto non lasciano spazio a interpretazioni: fine dell’arsenale di Hamas, ritorno degli ostaggi (vivi o morti), smilitarizzazione di Gaza, controllo israeliano sulla sicurezza e un’amministrazione civile alternativa, che escluda tanto Hamas quanto l’Autorità Palestinese.

Tutto ciò conferma ciò che già avevo a suo tempo riportato: la risposta israeliana al 7 ottobre non si limiterà alla vendetta, ma sarà l’occasione per ridisegnare i confini del potere nella regione e Gaza è soltanto il primo passo!

Verso una seconda “Nakba”? Il destino ineluttabile di Gaza…

Faccio seguito a quanto scritto ieri, puntualizzando i motivi che potrebbero portare in questi anni al totale esodo del popolo palestinese dalla Striscia di Gaza e, in seguito, dalla Cisgiordania, oltre alla fine del gruppo militare Hamas. 

La mia opinione è che si stia preparando un’operazione militare congiunta tra Stati Uniti e Israele, ufficialmente presentata come un’azione per liberare gli ostaggi israeliani ancora detenuti, ma con l’obiettivo più ampio di annientare definitivamente Hamas e svuotare quel territorio, forse per trasformarlo, come dichiarato da Trump tempo fa, in un luogo di villeggiatura.

Questa riflessione trova conferma in fonti ben informate che riferiscono come Hamas abbia già iniziato ad adottare misure drastiche per impedire qualsiasi infiltrazione israeliana nei luoghi dove sono nascosti gli ostaggi, vivi o morti che siano. Ogni movimento sospetto viene monitorato, e chiunque cerchi di individuare quei nascondigli viene considerato una spia al servizio di Israele. 

L’ordine è chiaro: giustiziare immediatamente chiunque si avvicini senza autorizzazione e, nel caso in cui le forze israeliane riescano a localizzare i prigionieri, ucciderli prima che possano essere liberati.

Dopo una temporanea sospensione di queste direttive durante la tregua dello scorso gennaio, ora sono state ripristinate con ancora maggiore severità. Hamas ha ribadito ai suoi membri che, in caso di estrema necessità, gli ostaggi dovranno essere eliminati. Israele, dal canto suo, ha avvertito che se non ci sarà una liberazione immediata, la situazione potrebbe degenerare rapidamente, lasciando spazio solo alla forza bruta e non più alla diplomazia.

Trump, intanto, spinge per una linea dura: niente tregua con Hamas. Gli Stati Uniti hanno dichiarato che il gruppo non ha mostrato alcuna reale volontà di raggiungere un accordo, nonostante i ripetuti tentativi di mediazione, e che agisce in modo incoerente e senza buona fede. Di conseguenza, stanno valutando opzioni alternative per riportare a casa gli ostaggi, probabilmente attraverso un’escalation militare.

Il governo israeliano, invece, sembra ancora credere che Hamas sia interessato a un negoziato, ma sta giocando una partita al rialzo, chiedendo condizioni che Netanyahu ha definito “irrealistiche“. Questo atteggiamento ha creato tensioni persino all’interno della Striscia di Gaza, dove alcune fazioni più pragmatiche vorrebbero accelerare un accordo, mentre altre rifiutano qualsiasi compromesso.

Purtroppo, tutto questo non fa che avvicinare lo scenario che temo da tempo: una distruzione totale di Hamas, sì, ma al prezzo di un nuovo esodo forzato della popolazione palestinese, già stremata da anni di conflitto e ora sull’orlo della carestia. 

La comunità internazionale continua a discutere, ma le parole non bastano più. Senza un intervento concreto, ciò che resta di Gaza rischia di diventare solo un altro capitolo nella lunga storia di sofferenza di questo territorio.

Macron? Non conta nulla!!! Il sogno di uno Stato Palestinese resta un’utopia!

“Macron? È un bravo ragazzo, ma non conta nulla”!

Così Trump liquida con una battuta il tentativo del presidente francese di riaccendere il dibattito sul riconoscimento della Palestina. E mentre l’ironia dell’ex inquilino della Casa Bianca risuona come un colpo di frusta, il silenzio imbarazzato degli alleati europei tradisce una verità scomoda: nessuno, in fondo, ha davvero intenzione di sostenere questa causa.
Le parole di Macron si sono infrante contro un muro di indifferenza, lasciando intravedere quello che ormai è un destino segnato per il popolo palestinese.

La presa di posizione francese avrebbe potuto rappresentare una svolta, un segnale di speranza in un contesto internazionale sempre più arido. Invece, è diventata l’ennesima dimostrazione di quanto il tema palestinese sia ormai ridotto a mera retorica.

Trump ha bollato l’iniziativa come “irrilevante”, gli Stati Uniti hanno risposto con sarcasmo, e l’Europa – Germania e Italia in testa – si è affrettata a prendere le distanze. Tutti concordi nel sostenere che la pace richiede “negoziati realistici”, ma nessuno disposto a mettere in discussione lo status quo. Perché, in realtà, quel negoziato non interessa a nessuno.

E allora viene da chiedersi: di quale Stato palestinese stiamo parlando? Di quello proclamato da Arafat nel 1988, rimasto confinato nelle carte ingiallite delle risoluzioni ONU? O forse di quello che, giorno dopo giorno, viene eroso da insediamenti israeliani, operazioni militari e una lenta ma inesorabile pulizia demografica?

La verità è che, da quasi sessant’anni, i territori palestinesi sono occupati de facto, e la comunità internazionale ha scelto di voltarsi dall’altra parte. Quella che oggi viene spacciata per una “questione di sicurezza” – la lotta a Hamas, la liberazione degli ostaggi – non è altro che l’ultimo capitolo di una strategia ben più ampia: svuotare la Palestina della sua gente, cancellarla dalla mappa.

Macron ha provato a alzare la voce, e il risultato è stato un coro di sberleffi. Isolato, ridicolizzato, trattato come un illuso che non capisce le regole del gioco. Eppure, il gioco è chiaro: si sta scrivendo la fine della causa palestinese, e nessuno ha intenzione di intervenire.

Gli Stati Uniti e Israele lavorano già da tempo a un piano per smantellare Hamas, ma sappiamo bene che, una volta finita la guerra, non ci sarà spazio per una riconciliazione. Ci sarà solo l’esodo. Un popolo costretto ad abbandonare la propria terra, mentre il mondo applaude alla “stabilità” ritrovata.

Tra pochi anni, guarderemo indietro e tutto apparirà ovvio. Le operazioni militari, le dichiarazioni di facciata, i negoziati eternamente rimandati: ogni tappa è stata progettata per condurre a un unico esito. La Palestina non tornerà più com’era, perché qualcuno ha deciso che non deve esistere.

E chi prova a opporsi, come Macron, viene zittito con una risata. Domani scriverò più nel dettaglio su cosa ci aspetta: non solo bombe e retorica, ma una fredda pianificazione politica che sta trasformando l’espulsione di un popolo in un fatto compiuto!

GAZA: Fermatevi ora, prima che sia troppo tardi!

Stasera mi ritrovo a scrivere, ancora una volta, con il cuore stretto e la mente affollata di domande senza risposta.
Quante volte abbiamo ripetuto le stesse parole, denunciato le stesse atrocità, invocato la stessa pace?

Eppure, nella Striscia di Gaza, il tempo sembra essersi fermato in un limbo di sofferenza, dove il fragore delle bombe sovrasta il grido dei civili, dove l’umanità vacilla sotto il peso di un conflitto che nessuno riesce – o vuole – fermare.

Scrivo non per abitudine, ma per dovere. Perché il silenzio è complice, e l’indifferenza è una ferita ancora più profonda. Gaza non è solo una notizia di sfondo, un titolo da scorrere distrattamente: è una tragedia che si consuma da anni, davanti agli occhi del mondo, mentre la comunità internazionale brancola tra inezie diplomatiche e ipocrisie.

Le immagini si ripetono, sempre uguali, sempre più insopportabili. Corpi senza vita riversi per terra, donne che urlano il dolore di una perdita che non riescono nemmeno a comprendere appieno, uomini che scavano tra le macerie con le mani a pezzi, sperando di trovare un respiro, un segno, una vita da salvare. Gaza piange, muore, si spezza ogni giorno di più, eppure il mondo sembra incapace di reagire. Si discute, si accusa, si cerca una colpa da attribuire, come se in mezzo a tutto questo dolore ci fosse ancora spazio per la giustizia delle parole. Ma non c’è nessun conflitto, non nel senso che conosciamo. C’è una carneficina annunciata, una strage quotidiana che non lascia scampo.

Ogni giorno si contano nuove vittime, sempre più giovani, sempre più innocenti. Trenta persone uccise mentre aspettavano di ricevere un po’ di cibo. Due ragazzi colpiti da un drone mentre cercavano di recuperare medicine per un fratello malato. Altri cinquanta domani, forse schiacciati sotto il peso delle bombe, forse spenti dalla fame che avanza silenziosa e crudele. I numeri non raccontano più la guerra, raccontano solo la fine di vite che non hanno avuto il tempo di iniziare. Gaza non è un campo di battaglia, è un cimitero a cielo aperto, dove i bambini imparano a conoscere il suono delle esplosioni prima di quello delle risate.

Eppure c’è ancora chi parla di guerra necessaria, di obiettivi strategici, di difesa. Ma di quale difesa si parla, quando intere famiglie vengono cancellate in un attimo? Chi difende quei corpi senza sepoltura, chi protegge le madri che non hanno più figli da abbracciare?

Il popolo palestinese non è né Hamas né un esercito in guerra, è gente comune, uomini, donne, bambini che vivono intrappolati tra due fuochi, costretti a subire senza poter scegliere. Sono vittime, non complici. Sono prigionieri, non ostaggi volontari. Sono esseri umani che ogni mattina si svegliano chiedendosi se quel giorno rivedranno il sole o saranno solo un altro numero in una lista infinita.

E noi, da lontano, ci permettiamo il lusso dell’indignazione a scaglie, a intermittenza. Un post, un commento, un momento di silenzio sui social, e poi si volta pagina. Intanto, nelle stanze dei potenti, si continua a negoziare, a stringere accordi, a fare finta che questa tragedia non riguardi nessuno. Ma riguarda tutti. Perché ogni volta che si decide che certe vite valgono meno delle altre, si apre una crepa nell’umanità intera. E quando oggi è Gaza, domani potrebbe essere un’altra città, un altro popolo, un’altra strage mascherata da necessità.

Basta con le parole vuote, con le condanne che restano sulla carta. Basta con le finte mediazioni che non portano a nulla. Gaza ha bisogno di qualcuno che alzi la voce e non la abbassi più, che smetta di parlare per iniziare ad agire. Ha bisogno che qualcuno abbia il coraggio di dire basta, subito.

Perché ogni minuto che passa è un altro bambino che muore, ogni vita spezzata, ogni bambino che non rivedrà il cielo, ogni famiglia cancellata dall’orrore, chiedono giustizia. E allora continueremo a parlare, a condividere, a urlare questa verità scomoda, finché qualcosa non cambierà. Perché dietro ai numeri e alle statistiche ci sono volti, storie, un popolo che resiste nonostante tutto.

E il loro sangue non è solo sulle mani di chi preme il grilletto, ma anche su quelle di chi continua a guardare e a tacere. Non possiamo permettere che Gaza diventi un simbolo dell’oblio. La sua voce deve riecheggiare più forte dell’odio. E la nostra coscienza, collettiva e individuale, non può dormire!

Basta prenderci per il culo! Gaza non è un ‘danno collaterale’, è un massacro!

Le strade di Gaza sono ancora macchiate di sangue, mentre il mondo sembra voltarsi dall’altra parte.

Oggi il bilancio delle vittime si è aggravato ancora, con decine di persone uccise mentre attendevano un sacco di farina, un po’ d’acqua, un gesto di sopravvivenza. Trenta morti, sessanta feriti, numeri che si aggiungono a una lista già troppo lunga, mentre i corpi giacciono abbandonati sull’asfalto, testimoni muti di una tragedia che non conosce tregua. Poco lontano, altri due civili sono stati uccisi da un bombardamento, vicino a un centro di assistenza che dovrebbe essere un rifugio, non un bersaglio.
Dal 7 ottobre a oggi, i numeri sono diventati una litania straziante: 58.000 morti, 150.000 feriti, 900 persone uccise mentre cercavano cibo, 6.000 feriti nella disperata lotta per un pasto. Ma il vero orrore non è solo nei proiettili o nelle bombe, è nella fame che si allarga come un’ombra silenziosa. Un milione di bambini rischia di morire di stenti, mentre il cibo viene bloccato, mentre gli aiuti vengono distrutti, mentre il mondo discute, tergiversa, guarda altrove.

Eppure, qualcuno continua a parlare di “danni collaterali”, di obiettivi militari, di necessità strategiche. Ma come si può definire “collaterale” la morte di un bambino che non ha mai impugnato un fucile? Come si può giustificare l’assedio di un intero popolo, colpevole solo di essere nato dalla parte sbagliata del confine? Gaza non è un campo di battaglia, è una prigione a cielo aperto, dove i civili sono intrappolati tra due fuochi: da un lato, i raid che non distinguono tra militari e famiglie in fuga, dall’altro, le milizie che li usano come scudi, condannandoli a una morte certa.

Ma questa non è una guerra tra due fazioni, è una strage di innocenti. I palestinesi non hanno scelto questo conflitto, lo subiscono, giorno dopo giorno, senza via di fuga. Se cercano di scappare, vengono colpiti. Se restano, muoiono di fame. Se alzano la voce, vengono zittiti. E mentre i potenti del mondo discutono di alleanze, di equilibri geopolitici, di interessi economici, Gaza affonda in un bagno di sangue che potrebbe essere fermato, se solo ci fosse la volontà di farlo.

È ora di smetterla con le scuse, con i giochi di potere, con la complicità del silenzio. Gli Stati devono agire, non con dichiarazioni di facciata, ma con azioni concrete, con sanzioni, con pressioni reali, con la ferma decisione che nessuna strategia militare può giustificare la morte di migliaia di civili. Perché se oggi è Gaza a bruciare, domani potrebbe essere un’altra città, un altro popolo, un’altra generazione sacrificata sull’altare della guerra. Il tempo delle mezze misure è finito. Gaza non può più aspettare.

Gaza City Resort: all-inclusive con vista sulle rovine!

Buongiorno,
a volte ho l’impressione che i nostri politici siano degli inetti o, quantomeno, impreparati, soprattutto quando si tratta di affrontare problemi di carattere globale. 
Poi leggo alcuni post o dichiarazioni di illustri leader mondiali, e comincio a pensare che, alla fine, l’ignoranza sia la madre di tutti i mali che affliggono la nostra società.
Prendiamo, ad esempio, le recenti dichiarazioni di Donald Trump sulla Striscia di Gaza. 
L’idea di trasformare Gaza in una sorta di località di villeggiatura, mentre il popolo palestinese vive una delle tragedie più profonde della sua storia, è non solo irrealistica, ma anche profondamente insensibile… 
Migliaia di persone sono senza casa, senza accesso a servizi di base, vivono in condizioni disumane. Pensare di risolvere tutto con un progetto edilizio o turistico è una visione miope che ignora le radici del conflitto e le sofferenze di un intero popolo.
È vero, il popolo palestinese ha bisogno di trovare una propria identità e di costruire un futuro di pace e stabilità. Ma questo non può avvenire sotto la minaccia di gruppi armati come Hamas, che, pur presentandosi come difensori della causa palestinese, hanno spesso contribuito a perpetuare il ciclo di violenza e sofferenza. La libertà e la democrazia non si costruiscono con le armi, ma attraverso il dialogo, la cooperazione e il rispetto dei diritti umani.
C’è bisogno di una vera e propria indipendenza da tutte quelle forze rivoluzionarie che, invece di favorire lo sviluppo di una società libera e giusta, alimentano odio e divisioni. Un Paese che vuole raggiungere un proprio status nella comunità internazionale non può farlo attraverso la violenza, ma deve puntare sulla diplomazia, sull’istruzione e sulla costruzione di istituzioni solide e trasparenti.
Non si può pensare di combattere per sempre. Arriva un momento in cui le parole devono avere il sopravvento sulle armi, altrimenti si resta prigionieri di un ciclo infinito di oppressione e vendetta. Chi detiene il potere, sia esso politico, militare o economico, ha la responsabilità di agire con saggezza e lungimiranza, non con coercizione e forza bruta.
È tempo che i palestinesi riprendano in mano le proprie vite, lottando non solo contro l’occupazione esterna, ma anche contro chi, all’interno, li strumentalizza per interessi personali o ideologici. Donne, bambini e intere famiglie sono spesso lasciati in balia di un destino crudele, utilizzati come pedine in un gioco politico che non tiene conto della loro dignità e dei loro diritti.
Certo, immaginare Gaza come un luogo prospero e pacifico, dove i palestinesi possano vivere in condizioni dignitose, sarebbe meraviglioso. Ma questa visione non può restare un’utopia. Negli anni, miliardi di dollari sono stati inviati nella regione, sia dalla comunità internazionale che dai Paesi arabi. Eppure, questi fondi non sono stati utilizzati per costruire scuole, ospedali o infrastrutture, ma per finanziare tunnel, armi e missili. Una scelta scellerata che ha alimentato ulteriore odio e distruzione, lasciando Gaza in macerie.
Oggi ci troviamo di fronte a una terra devastata, dove persino ripulire le macerie richiederà anni. E mentre il mondo guarda, ci si chiede: quando finirà questa spirale di violenza? Quando si capirà che la vera forza non sta nella distruzione, ma nella costruzione di ponti, nel dialogo e nella riconciliazione?
Il popolo palestinese merita di più. Merita un futuro in cui i bambini possano crescere senza paura, in cui le donne possano vivere con dignità e in cui gli uomini possano costruire un Paese libero e prospero. Ma questo futuro non arriverà finché prevarrà la logica della guerra e dell’odio.
Forse è arrivato il momento di smettere di guardare alla Palestina (e a Israele) solo attraverso le lenti del conflitto e di iniziare a pensare a soluzioni concrete, che mettano al centro le persone e i loro diritti. Perché, in fondo, la pace non è un sogno irrealizzabile, ma una scelta che richiede coraggio, umanità e volontà di cambiare.

La memoria tradita: dalla Shoah alla Nakba.

Riprendo nuovamente il tema principale, che ieri avevo momentaneamente sospeso per chiarire alcuni concetti a cui tenevo… 

Torno dunque alla comparazione che, nell’ultimo anno e fino a oggi, si è voluto tracciare tra le esperienze terribili vissute da ebrei e palestinesi in momenti diversi della storia.

In questi mesi, molti si sono posti una domanda: com’è possibile che Israele, in quanto Stato ebraico, possa oggi commettere i crimini che vediamo in televisione ai danni di una parte dei palestinesi, quelli di Gaza? Certamente, si tratta di coercizioni non paragonabili a quelle perpetrate dai carnefici nazisti, ma comunque gravissime dal punto di vista morale e umano.

La verità è che si è cercato di dimenticare in fretta una guerra mostruosa e, soprattutto, un “olocausto” che non sarebbe mai dovuto esistere. La memoria avrebbe dovuto impedirne la ripetizione, eppure il desiderio di ricostruire l’Europa e di pacificare gli Stati coinvolti nel conflitto ha portato a relegare il passato in un angolo. Si doveva dare speranza e un futuro ai profughi ebrei sopravvissuti alla Shoah, ma questo ha generato una conflittualità irrisolta.

La pace doveva fondarsi sulla comprensione della guerra e sull’accettazione dei suoi orrori, ma in questo processo la memoria ha lasciato spazio all’oblio. La massima sottintesa è diventata: «Ricordati di dimenticare la guerra e i suoi olocausti. La guerra è un mostro che non deve svegliarsi, non guardarla».

L’aver osservato in Tv la “Cerimonia di commemorazione dell’80° anniversario della liberazione del campo di concentramento e di sterminio di Auschwitz-Birkenau“, alla presenza di sopravvissuti e di numerosi Capi di Stato e di Governo, mi ha dato più l’impressione di voler allontanare e nascondere il delitto, piuttosto che far penetrare lo sguardo nella matrice profonda del crimine.

La verità è che l’Occidente ha goduto di una lunga pace non perché abbia realmente compreso le due guerre mondiali e la Shoah, ma per semplice paura, per una distensione meccanica seguita al trauma.

Ciò che accade oggi a Gaza non è altro che il proseguimento di una storia già vista. Gli anni della Nakba sono un passaggio di testimone che, pur senza la sistematica pianificazione dello sterminio, prosegue sotto una forma celata di pulizia etnica, mascherata da una presunta civiltà.

Basta osservare come, anche nel nostro Paese, l’attuale governo di destra abbia cercato di liquidare il Fascismo e il Nazismo come “malattie inspiegabili“, catastrofi naturali spuntate dal nulla, macchiando così il candido volto della nostra civiltà.

Questo sistema internazionale di pacificazione, costruito sulle rovine della Seconda guerra mondiale, ha paradossalmente generato una nuova era di democrazia e diritti, mentre riproduce ancora una volta lo sfruttamento e legittima l’oppressione coloniale. In questo contesto, la Nakba viene avallata, e al Sionismo viene garantito riconoscimento politico e impunità, in un territorio che non gli apparteneva.

Invece di trovare una soluzione pacifica e giusta per entrambi i popoli, che permettesse di far valere le proprie ragioni e di convivere, si è preferito imporre condizioni che, in questi 80 anni, hanno dimostrato di non portare alcun cambiamento. Il conflitto continua, e la storia si ripete.

Dal silenzio del passato all’azione nel presente

Sento in questi mesi paragonare il genocidio della Shoah all’attuale questione palestinese.

Perdonatemi, ma chiunque possieda una mente libera e quindi incondizionata non potrà – leggendo le prossime righe – giungere alle mie stesse riflessioni.

Pensare anche soltanto di paragonare la “soluzione finale” – lo sterminio sistematico e premeditato degli Ebrei in tutta Europa, perpetrato da menti malate naziste – è profondamente sbagliato. Un crimine, per come è stato progettato e perpetrato, disumano, che non colpì solo gli Ebrei, ma anche Rom, persone con disabilità, oppositori politici, scrittori, omosessuali e tanti altri considerati “indesiderabili”. Una ferita indelebile nella storia dell’umanità, un abisso morale da cui non ci siamo mai completamente risollevati e che ha segnato per sempre la nostra coscienza collettiva.

Ciò che accadde allora non può né deve mai essere giustificato. E il solo pensiero di paragonare quella tragedia alla questione palestinese è, a mio avviso, inappropriato.

Sebbene ciò che sta accadendo in questi mesi in Palestina possa essere definito una strage di innocenti, e in alcuni casi un crimine contro l’umanità, trovo pericolosi i parallelismi tra Nakba e Shoah che proprio alcuni illustri storici vorrebbero in queste ore riproporre.

Premesso che ogni violenza, specialmente contro donne e bambini, è sempre abominevole, tuttavia, non si possono mettere sullo stesso piano due tragedie di natura e contesto così diversi. Questo non significa negare la gravità di quanto sta accadendo oggi, ma è essenziale mantenere un linguaggio preciso e rispettoso della storia.

Voglio sottolineare che il mio intento non è sminuire l’una tragedia rispetto all’altra. Entrambe meritano attenzione: la Shoah per l’eredità storica e morale che ci ha lasciato, e la questione palestinese per l’urgenza di una soluzione che tuteli i diritti umani di tutte le persone coinvolte.

Ciò che invece lascia perplessi è l’uso politico della Shoah contro i palestinesi, quando è storicamente noto che quest’ultimi non hanno avuto alcun ruolo in quella tragedia. Non furono responsabili dell’antisemitismo né del Nazismo, eppure oggi si trovano a subire un’oppressione sistematica da parte di chi, più di ogni altro, dovrebbe conoscere il valore del rispetto per la vita umana.

Perché, allora, non imparare dal passato? Sì… diversamente da 80 anni fa, quando si preferì tacere, è nostro dovere intervenire con urgenza per trovare una soluzione, giusta e definitiva, per il popolo palestinese.

FINE PRIMA PARTE 

Mandati di arresto dalla Corte Penale Internazionale: si incrina il sostegno occidentale a Israele?

Dopo oltre un anno di conflitto devastante e un bilancio drammatico di circa 44.000 morti tra i palestinesi, la Corte penale internazionale (CPI) ha emesso i suoi primi mandati di arresto per crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi nella Striscia di Gaza e in Israele successivamente al 7 ottobre 2023.

Sotto accusa, su richiesta del procuratore capo Karim Khan, sono finiti il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu, l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant, e il capo militare di Hamas, Mohammed Deif. Quest’ultimo, tuttavia, è stato dichiarato morto da Israele in un raid aereo su Gaza, sebbene tale notizia non sia stata confermata ufficialmente da fonti indipendenti.

La decisione della Camera preliminare della CPI ha scatenato reazioni immediate e accese. Da parte israeliana, Netanyahu ha definito il verdetto “antisemita” e lo ha paragonato a un “nuovo processo Dreyfus”, mentre Gallant ha criticato aspramente la Corte, accusandola di “equiparare Israele e Hamas” e di “incentivare il terrorismo”. Dalla parte palestinese, Hamas ha accolto il provvedimento come un “passo importante verso la giustizia”, senza però fare riferimento diretto a Deif.

Sul piano internazionale, la decisione ha diviso la comunità globale. Gli Stati Uniti e l’Argentina si sono schierati al fianco di Israele. L’amministrazione Biden ha rigettato categoricamente il verdetto, esprimendo “profonda preoccupazione” e ribadendo di non riconoscere la giurisdizione della CPI su questa vicenda. Secondo il presidente argentino Javier Milei, il provvedimento “ignora il legittimo diritto di Israele a difendersi dagli attacchi costanti di Hamas e Hezbollah”.

L’Unione Europea, invece, per voce dell’Alto Rappresentante uscente Josep Borrell, ha difeso la legittimità dell’operato della CPI, sottolineando che “non si tratta di una decisione politica, ma di un pronunciamento giuridico che deve essere rispettato e applicato”. Borrell ha ribadito che la tragedia in corso a Gaza deve trovare una fine e che i Paesi membri dell’UE hanno l’obbligo di collaborare con la Corte.

Gli Stati aderenti allo Statuto di Roma – 124 in totale – sono infatti tenuti a eseguire i mandati di arresto nei confronti delle persone ricercate, inclusi i capi di governo. Questo rende estremamente complesso, se non impossibile, per Netanyahu e Gallant recarsi all’estero senza il rischio di arresto.

Il procuratore capo Khan ha difeso l’integrità del lavoro del suo ufficio, sottolineando che le accuse sono basate su prove verificabili e che le indagini proseguono, anche alla luce delle segnalazioni di nuove violazioni del diritto internazionale umanitario in corso a Gaza e in Cisgiordania. Israele, tuttavia, ha replicato con durezza, definendo Khan un “procuratore corrotto” e rilanciando accuse di condotta impropria nei suoi confronti.

Tra i primi Paesi a dichiarare piena collaborazione con la CPI c’è stata l’Olanda, che ospita la sede della Corte all’Aja. L’Italia, invece, attraverso il ministro degli Esteri Antonio Tajani, ha espresso sostegno generale alla CPI ma ha sottolineato la necessità di coordinarsi con gli alleati per decidere come affrontare la questione. Il ministro della Difesa Guido Crosetto, pur definendo la decisione della Corte “sbagliata”, ha ammesso che, qualora Netanyahu o Gallant visitassero l’Italia, il Paese sarebbe obbligato a rispettare il diritto internazionale e procedere all’arresto.

Sebbene l’effettiva consegna dei due leader alla Corte appaia improbabile, il valore dei mandati di arresto è anche simbolico. Questo procedimento rappresenta un monito sul fatto che, persino nei conflitti più aspri, il rispetto delle norme del diritto internazionale è imprescindibile. Parallelamente, resta aperto un altro caso all’Aja, stavolta dinanzi alla Corte Internazionale di Giustizia, che riguarda le accuse di genocidio mosse allo Stato di Israele, principalmente dal Sudafrica. La CPI, invece, si concentra esclusivamente sulle responsabilità individuali, sottolineando la necessità di distinguere tra azioni di Stato e responsabilità personali dei leader.

Medioriente: solo chi non possiede un'adeguata competenza, può pensare di risolvere il problema con un banale colloquio!!!

Bisogna conoscere la storia di quel territorio, per poter comprendere perché si è arrivati oggi a questo punto!!!

Innanzitutto bisogna ripartire da una questione e cioè la creazione di una nazione che non esisteva, quantomeno non nel periodo storico che stiamo da poche generazioni vivendo…

Per la popolazione ebraica non esisteva alcuno Stato fino al 14 maggio 1948, quando il primo ministro David Ben Gurion proclamò ufficialmente la nascita dello Stato d’Israele!!!

Era più di duemila anni che quel popolo vagava per il mondo senza che mai alcuna comunità internazionale riconoscesse loro quel promesso territorio, già…  così esaltato in quel noto libro bibblico. 

La stessa circostanza però andrebbe fatta per il popolo palestinese, in quanto anch’essi – per che come abbiamo visto nel corso di questi secoli – sono stati ahimè esposti a continue dominazioni…

Da ciò possiamo comprendere quanto difficile sia per entrambi la costruzione di due Stati, ma non solo, bisogna fare in modo che queste due entità convivano tra loro in modo pacifico, ma nel far ciò ci si dimentica che l’esistenza di uno, mi riferisco allo Stato Israeliano, ha comportato (per l’altro popolo) di essere nel proprio territorio estranei, in quanto improvvisamente inglobati in quella emergente nazione ebraica, se pur, come riportato sopra, in quel preciso periodo non esisteva alcuna entità di nazione che identificasse come Stato il popolo palestinese.

Ovviamente un ignaro osservatore a prima vista potrebbe osservare come il diritto all’esistenza di una, precluda di fatto l’esistenza dell’altra, mentre qualcun’altro potrebbe presumere che solo con la cancellazione di una delle due parti, si potrebbe giungere finalmente a un assetto che riporti ordine e pace. 

Ed è ciò che sta accadendo in quel territorio da oltre mezzo secolo e cioè che non vi è un solo palestinese che vuol riconoscere la presenza d’Israele, in quanto ritiene quella sua presenza edl tutto intrusa!!!

Ecco perché ritengo che non vi sarà alcuna soluzione diplomatica che potrà nell’immediato risolvere questo problema, perché nessuno, né gli israeliani e ancor meno i palestinesi, vogliono convivere rinunciando alla propria identità di nazione autonoma e difatti avrete modo di vedere che, neppure l’eventuale creazione di due Stati limitrofi e indipendenti, porterà in quell’area una pace definitiva o come in molti confidano una possibile collaborazione… 

Non vi è alcuna risoluzione politica a questo dilemma ed una sua alternativa è talmente complessa da realizzarsi che difficilmente, seppur i propositi positivi internazionale posti in campo, si potrà risolvere in maniera celere la questione. 

Sì… mi dispiace dirlo, ma non credo che vi possano essere negoziati internazionali che porteranno ad una pace, anche perché gli interlocutori non sono dei semplici cittadini che provano a trovare una soluzione pacifica, bensì da entrambe le parti sono i militari a comandare, in particolare sono proprio alcune formazioni militari a non avere alcuna intenzione di trovare un accordo in quanto di essi (mi riferisco ad esempio alle milizie di Hamas ed Hezbollah) sono volontariamente lì per combattere e distruggere Israele e fintanto che resterà un solo ebreo in quel territorio, la loro missione di lotta armata andrà avanti, possa anche dover passare un altro secolo!!! 

Perché così è stato sin dal dopoguerra e così sarà per sempre!!!

Certo vorrei (come molti di voi) esprimere parole diverse, auspicare che improvvisamente questo conflitto possa terminare e comprendo quanto sia più agevole fantasticare una soluzione pacifica che continuare ad assistere ad una guerra ingiustificabile…

Ma auspicare che – dopo quanto accaduto a Gaza e nel sud del Libano – si possa ritornare come prima, è non voler ammettere la realtà o far finta – ipocritamente – che si possa arrivare a un disarmo celere in tutta quell’area mediorientale!!!

Difatti, pensare che Israele sospenda il proprio attacco è voler favoleggiare che quei contrari gruppi militari decidano improvvisamente di disarmarsi per giungere a una tregua; tutti sanno che un’eventuale pace “provvisoria” servirebbe esclusivamente a far riarmare le parti in causa, un breve sospensione che porterà nuovamente tra qualche anno ad un nuovo conflitto!!!

Ecco perché preannuncio che questa situazione non porterà a nulla di buono, anzi viceversa penso che entrambi le parti potrebbero restare coinvolti in un conflitto talmente grave che alla fine tutti potrebbero pentirsi di aver solo cominciato, sì… una lotta che si potrebbe concludere ahimè con una preoccupante profezia e cioè la distruzione di entrambi i popoli!!!

Scriveva Geremia: «Ridurrò Gerusalemme un cumulo di rovine, rifugio di sciacalli; le città di Giuda ridurrò alla desolazione, senza abitanti. Chi è tanto saggio da comprendere questo? A chi la bocca del Signore ha parlato perché lo annunzi? Perché il paese è devastato, desolato come un deserto senza passanti?… Come siamo rovinati, come profondamente confusi, poiché dobbiamo abbandonare il paese, lasciare le nostre abitazioni. Udite, dunque, o donne, la parola del Signore; i vostri orecchi accolgano la parola della sua bocca. Insegnate alle vostre figlie il lamento, l’una all’altra un canto di lutto: La morte è entrata per le nostre finestre, si è introdotta nei nostri palazzi, abbattendo i fanciulli nella via e i giovani nelle piazze. I cadaveri degli uomini giacciono – dice il Signore – come letame sui campi, come covoni dietro il mietitore e nessuno li raccoglierà».


Come previsto: Israele attacca l'Iran!!!

È finito il tempo in cui l’Iran ha fatto da regista senza scendere direttamente in quel “set” in cui sono ambientate le attuali azioni di guerra e restando così ad osservare gli altri, affinché svolgessero per essa le parte degli attori protagonisti…

E mentre loro sono rimasti in stallo ecco che Israele – come apertamente dichiarato – ha iniziato quella recrudescenza colpendo in Iran le strutture di produzione missilistica, circostanza quest’ultima che tutti attendevano, sia la comunità internazionale che la Repubblica islamica…

Quindi l’attacco non è da ritenersi una sorpresa, si tratta ora di vedere se l’Iran risponderà o meno a questo affronto e soprattutto quali suoi alleati scenderanno a difendere le sue ragioni, mi riferisco in particolare alla Cina (suo primo importatore di petrolio…) e la Russia (che potrebbe avere un interesse a distogliere l’attenzione dal conflitto in corso con l’Ucraina, dirigendo le attenzioni mondiali sul conflitto in medio oriente).

E quindi ci si chiede: cosa farà l’Iran? Risponderà all’attacco di Israele? Proverà ad alimentare un escalation del conflitto mettendo così a rischio i suoi impianti di produzione nucleare e riportare indietro di trent’anni i suoi programmi bellici? 

L’Iran è stato informato da Israele che se risponderà all’attacco ricevuto verrà colpito da un’ondata d’attacchi sul suo territorio e se la circostanza riportata in queste ore da molti media e cioè che l’attacco compiuto dalle forze israeliane è stato condotto senza alcuna intercettazione da terra, portando alla distruzione di basi militari, sistemi di difesa aerea e missilistica (forse solo due militari israeliani sono rimasti uccisi nell’azione aerea), beh… ritengo sia opportuno rivedere talune ambizioni velleitarie che potrebbero di fatto dimostrarsi inferiori alle reali capacità fin quì evidenziate.  

Ovviamente dal mondo intero si chiede di fermare l’escalation, in particolare gli USA per nome del suo portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale, Sean Savett, ha esortato l’Iran a smettere d’attaccare Israele per interrompere il ciclo di violenza: “Esortiamo l’Iran a cessare i suoi attacchi contro Israele in modo che questo ciclo di combattimenti possa concludersi senza ulteriore escalation”.

Ritengo che vi sia un solo modo per terminare questo conflitto ed è quello di creare un nuovo Stato indipendente Palestinese ed un territorio smilitarizzato a nord d’Israele nel Libano meridionale, controllato e protetto dalle sole forze internazionali dell’UNIFIL che non permetta in quell’area ad alcun gruppo armato di accrescere e minacciiare Israele, ed in questo proprio l’Iran potrebbe rappresentare “l’ago della bilancia“, affinché tutti possano finalmente convivere in pace.

Certo… quanto sopra rappresenta una situazione più facile a dirsi che a mettersi in pratica, ma se non si comincia, non si andrà da nessuna parte.

Vedremo in questi mesi cosa accadrà e speriamo in bene…

Se dovessi scieglere il prossimo Presidente USA??? Tra Trump e la Harris, avrei certamente molti dubbi!!!

Che dire… uno l’abbiamo conosciuto come Presidente degli Usa, l’altra viceversa rappresenta una novità nella politica mondiale…
Ttra l’altro vorrei precisare come la Harris sia stata scelta – visti i tempi ristretti – senza doversi confrontare con i suoi antagononisti di partito.

Certo, la Sig.ra Harris è favorita da un punto di vista sociale, essendo la prima donna che può ambire alla poltrona di Presidente, ma non solo, rappresenta la prima afroamericana/asioamericana a prestare giuramento, ma non solo, è stata la prima donna a diventare procuratrice generale della California!!!

Quindi tutto si può dire di lei tranne che non sia professionalmente preparata, ma se oggi prova a sfidare ufficialmente Donald Trump lo si deve principalmente a causa del  ritiro di Joe Biden e grazie al fatto che il giorno successivo in cui si era assicurata la nomina in pectore, i delegati vinti da Joe Biden nelle primarie popolari avesero dediso di ritirarsi, esprimendo di fatto supporto alla Harris, a differenza dell’unico candidato che poteva (forse) dare un po’ di fastidio, mi riferisco a Tim Walz, problema che però è stato risolto, avendolo ufficialmente candidato alla vicepresidenza.

Quindi della Harris dal punto di vista politico non sappiamo nulla, se non quanto dichiarato durante il dibattito presidenziale contro Donald Trump, ma è in particolar la questione estera che mi lascia alquanto perplesso…

Mi riferisco non solo ai due conflitti Israelo/Palestinese e Russo/Ucraino, ma anche alla situazione che sta per sfociare in Iran a cui va sommata la guerra commerciale con la Cina. 

Sì… entrambi parlando durante la sfida televisiva sono stati un pò vaghi, entrambi difatti hanno ribadito il diritto di Israele a difendersi, ma nessuno dei due ha espresso una possibile soluzione al problema palestinese, come eguale considerazione è stata fatta per l’Ucraina senza fornire mai dettagli su come poter raggiungere la pace con la Russia!!!

Ecco quindi che a poco meno di due mesi dal voto, non sono sicuro su chi tra i due sia da preferire… 

Già… perchè viceversa di Trump sappiamo abbastanza e sicuramente prevedo con egli sarà più facile giungere ad una negoziazione con la Russia, d’altronde va ricordato come egli è rappresenti l’unico presidente in cinquant’anni a non aver iniziato nuove guerre e soprattutto – a differenza di quanti molti nostri giornalisti ripetono in maniera errata – non si è dimostrato debole, già… come il suo predecessore Barak Obama che dopo esser intervenuto in maniera indiretta in Siria, Libia, Iraq e Afghanistan e dopo aver bombardaton Yemen, Somalia e Pakistan, ha lasciato che i poveri cittadini inermi di quei Paesi si ritrovassero ahimè abbandonati, giàsoli a dover affrontare una situazione che si sta dimostrando antidemocratica e soprattutto tirannica!!!

L’uno o l’altra??? Ma avendo visto quanto inconcludenti siano stati in questi cinquant’anni i presidenti degli Usa, uno più o uno meno, non farà certamente la differenza!!!

Cosa accadrà ora con il decesso del Presidente iraniano???

Abbiamo ascoltato dai Tg quanto accaduto in queste ore al Presidente della Repubblica dell’Iran Ebrahim Raisi, già… della sua morte a causa dell’incidente in elicottero avvenuto nei pressi di Jolfa, una città al confine tra Iran e Azerbaijan…

Tralasciando in questa occasione complotti o pseudo attentati compiuti da quel loro acerrimo nemico chiamato Israele (va detto comunque quanto sia singolare che accadano situazioni come questa, consentitemi, ma al sottoscritto qualche dubbio resta…), prevedo ora per quel Paese un periodo instabile – durante proprio questi 50 giorni necessari per organizzare le nuove elezioni nel quale il vicepresidente Mohammad Mokhber Dezfuli proverà a governare – a causa delle tensioni sociali presenti che come abbiamo visto, sono state soffocate in questi mesi con l’uso della forza!!!

D’altronde in queste ore incerte, l’ayatollah Khamenei ha chiesto a tutti un momento di riflessione e di preghiera, ma non sono pochi – vedasi talune piazze di Teheran e soprattutto molti post social – ad aver festeggiato quell’improvvisa scomparsa con fuochi d’artificio, già nei confronti di quel loro Capo di Stato, a dimostrazione che sono in tanti, in particolare le donne arabe (le stesse che sono scese nei mesi scorsi in strada per manifestare la propria rabbia) a provare ad alimentare un’eventuale guerra civile che sicuramente il governo tenterà in tutti i modi a soffocare!!!

Certo, ora qualcuno proverà a candidarsi per quel ruolo così importante, anche se va detto che per quella carica presidenziale si dovrà passare attraverso la rigida valutazione del Consiglio dei Guardiani, che rappresenta finora l’unico strumento capace di privilegiare quella votazione pilotata e che si trova ahimé nelle mani del leader supremo (chissà se non vorrà porre sin d’ora in quella poltrona il proprio figliolo…)!!!

E quindi, nessun nome potrà mai candidarsi se non esplicitamente appoggiato dall’ayatollah che sono certo, è già a conoscenza del nome che dovrà sedere su quella poltrona!!!

Certo, la situazione è fortemente instabile e non è detto che in queste ore possano verificarsi dei colpi di scena, in particolare da parte dei giovani e soprattutto dalle forze studentesche ed universitarie, in particolare sorretti dalle numerose donne e da quanti desiderano una maggiore democrazia, soprattutto con meno ingerenza da parte delle autorità religiose…

Se poi alla alla luce di quanto sopra, sommiamo il rischio di un’eventuale ampliamento del conflitto in corso in medioriente che sta vedendo peraltro coinvolto anche lo Stato iraniano contro Israele (attraverso il  sostegno dato ad alcuni movimenti militanti armati come Hamas (Gaza), Hezbollah (Libano), milizie più piccole (Iraq e Siria) ed infine gli Houthi nella penisola arabica dello Yemen…), allora qualcosa di grave potrebbe realmente verificarsi…

Già… sono questi i motivi che mi spingono sin d’ora a prevedere un diffuso dissenso contro quel regime che vedrete porterà a breve a disordini sociali in tutto il Paese, seppur quest’ultimi – per come finora fatto – cercheranno di sopprimere la protesta con i militari, gli stessi che da sempre non vogliono insieme alle forze di governo, assistere ad alcun cambiamento!!! Ma ciò, non è detto che basti più, anzi tutt’altro…

Permettetemi quindi di salutare quel rinnovato cambiamento con una belissima poesia persiana, scritta dalla poetessa iraniana Forough Farrokhzad:

Saluterò di nuovo il sole,
e il torrente che mi scorreva in petto

e saluterò le nuvole dei miei lunghi pensieri

e la crescita dolorosa dei pioppi in giardino
che con me hanno percorso le secche stagioni.
Saluterò gli stormi di corvi
che a sera mi portavano in offerta
l’odore dei campi notturni.
Saluterò mia madre, che viveva in uno specchio
e aveva il volto della mia vecchiaia.


E saluterò la terra, il suo desiderio ardente

di ripetermi e riempire di semi verdi
il suo ventre infiammato,
sì, la saluterò

la saluterò di nuovo.

Arrivo, arrivo, arrivo,
con i miei capelli, l’odore che è sotto la terra,
e i miei occhi, l’esperienza densa del buio.
Con gli arbusti che ho strappato ai boschi dietro il muro.
Arrivo, arrivo, arrivo,
e la soglia trabocca d’amore
ed io ad attendere quelli che amano
e la ragazza che è ancora lì,
nella soglia traboccante d’amore, io
la saluterò di nuovo.

La nostra vita finisce quando diventiamo silenziosi sulle cose che contano!!!

C’è un’isola che si è formata improvvisamente nel Mediterraneo dinnanzi a quel territorio palestinese…

Se la si guarda da lontano, sembra che abbia la forma di un uomo che non trova pace con se stesso, già… è come se riflettesse su tutti i fallimenti commessi!!!

Debbo forse credere che quella sua inaspettata presenza serva a far comprendere agli uomini di aver perso la  speranza e di come questo mondo stia evidenziando d’esser totalmente estraneo ai problemi delle popolazioni attualmente in conflitto o sottoposte a dittatura, già… come se vi fosse negli uomini un vuoto interiore che fa sì da dedicarci a manifestazioni o programmi televisi (il più delle volte effimeri…), dimenticando viceversa quanto poco e buono sia rimasto di noi…

Difatti, osservo ovunque indifferenza, già… nessuno sforzo se non quel minimo contrasto ad uno stato di fatto, è come se si accettasse consapevolmente che qualsivoglia nostro sforzo rappresenti solo qualcosa di vano!!!

Nessun dubbio, nessuna lotta e ancor meno si vuol sentire l’altrui dolore, già… si preferisce far trascorrere le giornate come se quanto stia accadando laggiù, sia lontano da noi, già… che non ci riguardi affatto!!! 

Forse si è deciso di non pensare, l’indifferenza ha avuto il sopravvento e chissà se non sia il reale motivo per cui abbiamo chiuso gli occhi o quantomeno ci siamo girati dall’altra parte, sì…per non ascoltare le grida e il dolore di quelle donne, anziani e bambini…

Restiamo in attesa che quel grido di dolore passi e ci lasci, d’altronde crediamo che non dipenda da noi, sapendo bene che la nostra attuale condizione di benessere non verrà certamente influenzata da quegli avvenimenti, perchè tutto è stato dai piano alti deciso e noi tutti ci siamo posti nell’indenne condizione che ci fa dire: non possiamo far altro che rassegnarci a questo stato di cose!!!

La verità è che non vogliamo vedere al di là di noi stessi, siamo così indifferenti agli altri che abbiamo dimenticato i veri valori, manchiamo totalmente di empatia, sì… di quella considerazione che dovremmo avere nei confronti degli altri, in particolare di chi sta soffrendo e di quanto potremmo fare noi con le nostre azioni e non facciamo, perchè preferiamo soprassedere, dimenticando che le sofferenze altrui sono anche le nostre ed è ciò che deve spingere ciascuno di noi ad intervenire e proteggere chi è oggi in difficoltà, per alleviare quelle atroci sofferenze.

Perché… per rispettare i nostri simili è fondamentale essere fedeli alla vita, alla libertà, alla salute, alle idee, ai costumi e alle religioni altrui professate, eliminando qualsivoglia concetto di superiorità e di inferiorità, in particolare quando queste vengono messe in pratica in maniera violenta e coercitiva!!!

D’altronde, i più grandi crimini nel mondo non sono commessi da persone che infrangono le regole, ma da persone che seguono le regole ed è gente che esegue gli ordini, bombarda e distrugge villaggi!!!

La nostra vita finisce quando diventiamo silenziosi sulle cose che contano!!!

C’è un’isola che si è formata improvvisamente nel Mar Mediterraneo dinnanzi a quel territorio palestinese…
Se la si guarda da lontano ha la forma di un uomo che non trova pace, già… è come se riflettesse su tutti i fallimenti commessi!!!
Debbo forse credere che quella sua presenza debba far comprendere agli uomini di aver perso la  speranza, che questo mondo stia evidenziando d’esser estraneo ai…

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Medioriente: il successo ha molti padri. L'insuccesso è sempre orfano!!!

Basta!!!

Non si può continuare così!!! I civili palestinesi non c’entrano nulla, non sono Hamas e soprattutto non sono legati alle politiche di Teheran!!!

Bisogna trovare quindi in maniera celere una soluzione che soddisfi entrambe le parti in causa, iniziando (ad esempio) liberando gli ostaggi israeliani ancora in vita e dall’altra parte, ritirando i mezzi militari attualmente presenti, evitando così le operazioni militari in corso all’interno di Rafah…

Bisogna creare celermente uno Stato Palestinese e l’Assemblea dell’Onu invece di pensare ad approvare risoluzioni che riconoscano sì… in un prossimo futuro la “Palestina” come status di membro a pieno titolo, deve viceversa riunire tutti gli Stati arabi limitrofi e Israle, per trovare una soluzione territoriale definitiva che possa soddisfare tutti!!!

D’altronde ritengo che non bisogna ripetere gli errori fatti in passato e mi riferisco a ciò che non vuol essere storicamente riportato dopo la sconfitta della coalizione araba!!!

Difatti poco o nulla si riporta sulle aspre ricriminazioni che si scatenarono tra i palestinesi e i loro alleati arabi, in particolare nel momento in cui quei disperati profughi giunsero nei territori degli stati confinanti!!!

Quest’ultimi infatti, se da un lato aprirono loro i confini, di fatto, diedero vita a forti tensioni sociali, avendo considerato quei loro “fratelli” palestinesi dei veri e propri codardi, sì… non solo per aver abbandonato la loro patria, ma per aver altresì preteso che altri combattessero al loro posto.

Ecco perché credo che tutti i Palestinesi debbano nuovamente riunirsi (sì… per come hanno fatto a suo tempo gli ebrei di tutto il mondo, subito dopo la seconda guerra mondiale) all’interno di un nuovo Stato approvato dall’ONU!!!

D’altronde resto dell’idea che se lo Stato d’Israele avesse a suo tempo perso la guerra, quel suo territorio non sarebbe stato – per come molti storici vorrebbero farci credere – ceduto ai Palestinesi, ma viceversa (vedasi d’altronde quanto la storia insegna) sarebbe stato suddiviso tra le forze vincitrici arabe, per quella semplice ragione che mai nessuno di essi – ieri come oggi –  ha mai considerato il territorio della Palestina, una vera e propria nazione autonoma!!!

E’ proprio vero: il successo ha molti padri. L’insuccesso è sempre orfano!!!

Manifestazioni contro Israele…

In questi giorni stiamo assistendo come in molte città del mondo vi siano manifestazioni contro Israele, in particolare sono le sedi universitarie ad essere state prese d’assalto e occupate…

Anche a Tel Aviv molti israeliani sono scesi in piazza (in particolare, ma non solo, i familiari presi in ostaggio da Hamas)  per protestare contro le politiche di governo e difatti nel mirino delle proteste vi è Benyamin Netanyahu che evidenzia non avere alcuna intenzione di barattare quei 130 connazionali con un eventuale accordo di tregua di lunga durata. 

Ritengo comunque che nonostante molti credano che le trattative portate avanti dal Cairo possano a breve concretizzarsi, il sottoscritto ritiene che il governo israeliano voglia portare avanti l’operazione militare nella città di Rafah, dove sono attualmente concentrati gli sfollati palestinesi della Striscia di Gaza.

Difatti il Capo del governo Netanyahu ha ribadito che “l’idea di porre fine alla guerra prima di raggiungere tutti i nostri obiettivi è inaccettabile; noi – ha spiegato – entreremo a Rafah e annienteremo tutti i battaglioni di Hamas presenti lì, con o senza un accordo, per ottenere la vittoria totale”

A dimostrazione quindi di quanto il sottoscritto già da tempo abbia più volte anticipato, non saranno ne gli Stati Uniti a bloccare l’operazione via terra e ancor meno l’Onu opuure la giustizia internazionale della Corte penale dell’Aja che potrebbe condannare per crimini di guerra il premier israeliano e alcuni membri della leadership politico/militare d’Israele.

La verità che non solo Israele è stanca di queste forze fondamentaliste militari, ma anche altri Paesi arabi sono infastiditi dal doversi sottomettere a quei capi Hezbollah, Houthi e Hamas, che si sa essere sovvenzionati da Teheran!!!

Difatti, sono queste forze paramilitari a permettere all’Iran di aumentare la propria influenza internazionale, anche nei confronti di quei paesi amici come Turchia e Turkmenistan; difatti… l’Iran grazie a quei gruppi mostra i muscoli nei confronti degli altri paesi arabi limitrofi come ad esempio l’Arabia Saudita, l’Iraq, l’Afganistan, ma anche lo stesso Pakistan di cui Teheran non vede di buon occhio il legame tra Islamabad e Washington, anche se bisogna dire che grazie al progetto “pipeline” e cioè al gasdotto che trasporta il gas del giacimento di South Pars nel Golfo Persico a Karachi, tra i due Paesi si è di fatto creato un cordone ombelicale che lega per l’appunto a doppio filo Teheran e Islamabad, liberando tra l’altro ciascuno di essi, dalla dipendenza dalle rotte occidentali….

Ed infine, vorrei ricordare come quelle forze fonfamentaliste servono a garantire all’Iran una forma di “difesa” nei confronti del suoi diretto contendente, mi riferisco ad Israele (e di conseguenza al suo diretto alleato “Stati Uniti”), certamente quest’ultimo militarmente più forte, anche in virtù delle armi nucleari a sua disposizione e infatti un aggressione agli interessi iraniani, potrebbe far scaturire un conflitto su più fronti con attacchi terroristici mirati, in tutte le città del mondo…

Certamente tutte le persone di buona volontà auspicano che si giunga presto alla fine del conflitto ed è giusto manifestare e far sentire la propria voce affinchè si possa raggiungere una pace duratura; ma ho come la sensazione che non tutto ciò che ci viene rappresentato dai media sia esclusivamente compiuto per il popolo palestinese, ma viceversa, credo che dietro molte di quelle manifestazioni pro-Palestina si celino messaggi di carattere antisemita e questo non può essere accettato, perché si tende a dimenticare quanto accaduto ahimè a quel popolo il secolo scorso…

Perdonate, ma non posso quindi approvare cartelloni con scritte antisemita come ad esempio “Rivedrete Hitler all’inferno” oppure “Apriteci i confini, così possiamo uccidere i sionisti, gli ebrei” o alri ancora: “Israele terrorista“!!!

La violenza si sa… genera nuova violenza e finché gli esseri umani si prefiggeranno la distruzione dei propri simili, finché il loro unico desiderio sarà vedere distrutti i loro fratelli, beh… nessuna pace potrà mai coesistere e i conflitti saranno sempre destinati a continuare!!!

E quindi, per quanto possa condividere e apprezzare le degne motivazioni di molti di quei pacifisti, resto comunque un intransigente oppositore dei metodi violenti anche laddove vengono posti al servizio delle più nobili cause!!!