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Quando la giustizia ha un prezzo, chi difende la verità?


Se fosse vero ciò che sta emergendo, non c’è nulla di cui stare allegri, anzi, è proprio il contrario, perché l’ombra della corruzione si allunga su luoghi dove dovrebbe essere bandita per definizione, quelli in cui si amministra la giustizia.
Non parlo in questa sede – cosa che ho già fatto in un mio precedente post – di errori e/o di valutazioni discutibili, ma di qualcosa di molto più grave: la possibilità che decisioni fondamentali siano state comprate, che archiviazioni decisive siano scattate non per mancanza di prove, ma per denaro. E se questo fosse realmente confermato, allora non stiamo più parlando di un caso isolato, di una crepa, ma di un sistema che potrebbe avere infettato parte di quel sistema giudiziario, un cedimento strutturale profondo nel sistema che noi tutti diamo per scontato per le sue funzioni, secondo legge e imparzialità.

Immaginare quindi che un magistrato, invece di seguire il codice, segue un conto in banca, diventa difficile da credere (anche se sono certo, ciascuno di noi, l’avrà pure pensato almeno una volta nel corso della propria vita…). Immaginare quindi investigatori che, anziché di cercare la verità, nascondono gli indizi perché qualcuno ha pagato per farli tacere, già… sembra di leggere la trama di un libro scritta dall’autore John Grisham…

Ma questa volta – ahimè – potrebbe non trattarsi di fantasia, sono elementi che emergono da inchieste serie, condotte da procure che ora indagano proprio chi avrebbe dovuto vigilare. Il punto ora non è sapere chi ha fatto cosa, al sottoscritto ad esempio non interessa qui nominare persone, perché i nomi li puoi trovare ovunque, online, nei giornali, nelle carte processuali. Quello che mi tormenta è il perché.

Perché oggi si riaprono certe vicende? Perché ora saltano fuori appunti con cifre e nomi accostati a richieste di archiviazione? Chi ha deciso che era il momento di scavare? E soprattutto, chi ha permesso che tutto questo accadesse anni fa, senza che nessuno alzasse la voce?

Sembra che durante una perquisizione domiciliare è stato trovato uno scarabocchio a mano, con parole come “archivia” e una cifra che parla di denaro. Certo, potrebbe essere un promemoria, una nota spese, una coincidenza. Ma se quel foglio nasconde un patto, allora cambia tutto. Cambia il senso di ogni decisione presa, cambia il valore delle indagini, dei silenzi, delle omissioni.

Se poi ovviamente saltano fuori movimenti bancari anomali, prelievi in contanti, assegni tra familiari che non quadrano con le loro entrate, allora il mistero s’infittisce. Ma sembra inoltre che vi siano anche altre circostanze: intercettazioni mai trascritte, frasi sul pagamento di “quei signori lì”, contatti opachi tra indagati e forze dell’ordine, incontri lunghi quando invece sarebbero bastati pochi minuti. E poi, vi è un ex maresciallo che sta con l’indagato per oltre un’ora prima della notifica, un luogotenente che sembra sapere troppo, un procuratore che archivia in fretta, senza approfondire, senza chiedere verifiche bancarie su possibili pagamenti. Troppe anomalie per essere solo sfortunate coincidenze.

Tuttavia, mentre tutto questo emerge, qualcuno continua a dire che non c’è nulla di male, che si tratta di semplici spese legali, che l’appunto non prova niente. Ma se davvero non provava niente, perché perquisire case, smartphone, computer? Perché coinvolgere tante persone, tra magistrati, carabinieri, familiari? Perché indagare sui flussi di denaro se non ci fosse il sospetto concreto che qualcosa sia stato comprato? E soprattutto, perché archiviare così in fretta un’inchiesta su un possibile autore alternativo in un omicidio così controverso, senza lasciare spazio a dubbi, senza permettere contraddittorio, senza voler vedere ciò che altri volevano nascondere?

Forse la domanda più grande non è se ci sia stata corruzione, ma quanto in profondità arrivi. Perché se un procuratore può essere influenzato, chi garantisce che non succeda altrove? Se chi doveva indagare ha fatto finta di non vedere, chi ci protegge dalla manipolazione del sistema?

Perché se tutto questo è vero, allora non stiamo parlando solo di un caso giudiziario, ma di una fiducia collettiva spezzata. La gente crede nella giustizia finché pensa che sia cieca e imparziale. Quando scopre che potrebbe invece avere un prezzo, smette di credere nel processo, nelle sentenze, nelle istituzioni. E quando cade quella fiducia, il danno è irreversibile.

Mi chiedo allora cosa ci sia davvero dietro queste nuove analisi. Sono il frutto di una ricerca tenace della verità o rispondono ad altro? A pressioni mediatiche? A esigenze procedurali tardive? O forse, finalmente, qualcuno ha deciso di fare pulizia là dove nessuno osava guardare?

Non lo so. So solo che quando la corruzione mette radici nei palazzi della giustizia, non corrompe solo persone, corrompe il senso stesso del diritto. E a quel punto, non importa più chi ha ucciso o chi è innocente: importa chi ha deciso di far vincere una versione dei fatti piuttosto che un’altra. E se quella decisione è stata pagata, allora la verità non ha più voce

Perché ormai diserto le commemorazioni delle stragi? Ve lo dico: non sopporto più gli ipocriti sui palchi.


Stamani voglio confessarvi una verità…
Da qualche tempo evito di partecipare alle commemorazioni ufficiali degli anniversari delle stragi, tutte, non solo quelle più note del ’92 e ’93, sì… e questo per due precisi motivi.

Il primo è legato a una sensazione di crescente fastidio, quasi di nausea, già… nel ritrovarmi in luoghi solenni dove si parla di memoria, di dolore, di giustizia, mentre poi dinnanzi a me, su quel palco, siedono personaggi che indossano la maschera del rispetto per le vittime, ma che poi, appena scendono dal palco, stringono mani e salutano affettuosamente proprio coloro che – in qualità di eredi di quei passati criminali, rappresentanti diretti di chi ha provocato le migliaia di morti in questo Paese – garantiscono loro affari e soprattutto voti.

Il secondo motivo è più profondo, più interiore: ho smesso di riconoscermi in quelle cerimonie perché mi sembrano sempre più vuote, ripetitive, sì… rituali sterili che servono a dare l’impressione di ricordare senza mai veramente voler capire.

Mi chiedo spesso cosa resti davvero di quegli omicidi, di quelle stragi, sì… dopo i minuti di silenzio, dopo i discorsi letti con voce tremula, dopo quelle bandiere poste a mezz’asta. Sembrano da quel palco commossi, ma ditemi: cosa è rimasto di fatto dell’operato di Falcone, di Borsellino? Io sento ancora un silenzio assordante, in particolare su chi – da quelle poltrone istituzionali – li ha traditi, su chi ne ha ostacolato il lavoro, su chi ha lasciato che venissero barbaramente uccisi insieme agli uomini e alle donne della scorta.

In questi giorni ho avuto modo di acquistare in una bancarella e letto alcuni romanzi di una saga mafiosa di Vito Bruschini: il primo capitolo di questa saga, “Romanzo mafioso. L’ascesa dei corleonesi”, racconta, con un tessuto narrativo sorprendente e un’accurata aderenza alla Storia del nostro Paese, la nascita e l’espansione capillare del fenomeno mafioso in Italia e nel mondo e soprattutto coloro che – legati al mondo politico e imprenditoriale – li hanno protetti e permesso l’ascesa.

Ecco perché ho cominciato a disertare quegli eventi, non per mancanza di rispetto, ma proprio per rispetto estremo verso chi è caduto. Perché non posso stare accanto a chi oggi piange in pubblico e ieri ha stretto alleanze con chi festeggiava in privato quelle stesse bombe, che hanno poi permesso la nascita di taluni attuali partiti

Sono stanco di ascoltare retoriche sulla legalità, in particolare da chi ha protetto tutti quei colletti bianchi mai toccati dalla giustizia, da chi ha favorito i depistaggi con il silenzio o con le parole sbagliate al momento giusto.

Ma d’altronde la verità è stata soffocata, l’agenda rossa è ora nelle mani di chi ha in qualità di puparo il potere di ricattare quanti siedono su queste nuove poltrone, sì… qualcuno di quei suoi predecessori è stato incredibilmente riabilitato, qualcun altro è riuscito a passare a nuova vita senza così pagarne le conseguenze, altri ancora grazie ad accordi e ricatti hanno potuto beneficiare del dubbio, riuscendo così ad esser riabilitati, quantomeno per poter far continuare (in quel contesto di “casta”) i propri familiari.

Certo, avrei voluto vedere un Paese capace di non rimandare la storia, gli eventi, la verità… ed invece tutto continua ad essere rimandato, già… per non trovar mai risposta.

Ma la circostanza peggiore è che ogni volta che si prova ad andare oltre il racconto (artefatto) ufficiale, si finisce per essere additati come complottisti, disturbatori, sì… di quella pax sociale che garantisce a molti, collusione, raccomandazione, compromesso, clientelismo e soprattutto illegalità.

Ed allora io resto ancora in attesa di conoscere le risposte: chi tra le istituzioni ha avuto interessi opposti alla verità? Chi aveva bisogno che certi magistrati sparissero? E soprattutto, perché ancora oggi, ad oltre trent’anni di distanza, nessuno vuole raggiungere l’unica verità? Ed infine, quali nomi ancora mancano all’appello e nessuno vuole portare alla luce?

Sicuramente la verità processuale non arriverà mai, non certo con l’attuale governo e chissà, forse neppure con uno formato da quella sinistra che ha di fatto permesso – rendendosi complice – le stragi che ben conosciamo.

La verità storica comunque non potrà mai essere cancellata, verrà un giorno in cui tutto esploderà, i dossier usciranno fuori e i nomi di quei complici verranno portati alla giustizia della memoria, e quel giorno saremo lì a bisogna chiedere conto a chi ha detenuto il potere, a chi ha mantenuto il silenzio, a chi ha costruito carriere sulle macerie di quegli anni!

Perché noi tutti non possiamo permettere che una società dimentichi chi ha pagato con la vita per aver creduto nello Stato, una società che perde la memoria perde anche se stessa, diventando proprio come quella che osservo in questi giorni: docile, plasmabile, pronta ad ingoiare qualsiasi narrazione gli viene indottrinata, sì… pur di non dover guardare negli occhi il suo passato sporco.

D’altronde “Un discorso che abbia persuaso una mente, induce la mente che ha persuaso a credere nei detti e a consentire nei fatti.” (Gorgia da Lentini, ca. 485 a.c. – 375 a.C.)

Ed allora pur stando lontano da quei palchi, dentro di me porto ogni giorno quel loro insegnamento, e cerco di riproporlo con la formazione, col mio blog, con le denunce, perché a differenza di quanti in molti pensano, quel passato non è stato cancellato, non è stato sepolto, non è morto, anzi è più vivo che mai, già… perché fintanto che ci saranno persone perbene, questo Paese avrà la forza di rialzarsi.

Associazioni “Antiracket e Anti usura”: Stando soltanto tutti insieme, si può pensare di cambiare le cose.


“Stando soltanto tutti insieme, si può pensare di cambiare le cose”!

È una frase che sento ripetere spesso, soprattutto in questi giorni, ma come abitualmente accade, mentre ascolto discorsi sul potere dell’unità, non posso fare a meno che chiedermi: quante volte abbiamo sentito queste parole trasformarsi in fumo, lasciando sul campo solo buone intenzioni e progetti abbandonati?
Si parla giustamente di comunità che “non si arrendono all’omertà”, di scelte coraggiose a favore della legalità, eppure, per esperienza, mi tornano in mente alcuni alcuni casi di negozianti che dopo aver firmato con grande entusiasmo l’adesione a talune associazioni, hanno poi preferito ritirarsi, sì… dopo la prima minaccia ricevuta.

Perché la legalità non è una semplice firma da apporre su un foglio, ma rappresenta un vero e proprio impegno, un vincolo che ti segue ovunque, a lavoro, a casa, un obbligo che ti sveglia di notte, che ti costringe a guardare negli occhi chi ti dice: “non farlo”.

Apprezzo sempre con entusiasmo il coraggio di quanti, in qualità di associati, hanno deciso di portare avanti la loro scelta, mi riferisco a commercianti e giovani imprenditori che sono entrati a far parte di quelle associazioni ed ora parlano di “forza del gruppo”, di solidarietà come scudo contro le intimidazioni.

Ma noi siciliani sappiamo bene come la mafia non attacchi il gruppo, viceversa attacca il singolo, lo isola, lo spaventa con un messaggio anonimo, con una furto, con un incendio, con una finestra di casa rotta solitamente all’alba…

Ho visto in vita mia troppe volte questa rete di legalità sgretolarsi, non per mancanza di numeri, ma per la paura silenziosa di chi, pur rimanendo iscritto, smette di alzare la voce; e quindi, la domanda che mi pongo sempre non è “in quanti siamo”, ma “quanti resisteranno quando toccherà a loro”?

C’è poi un dubbio che mi assilla e non accenna a svanire: quante di quelle adesioni nascono da una presa di coscienza autentica o sono viceversa frutto di pressioni esterne, di possibili rischi che si prevedono potrebbero compiersi, sì… chissà, forse a causa di una crescita imprenditoriale, oppure si tratta di un rischio che si vorrebbe evitare o ancor peggio di qualche intimidazione (mai rivelata) ricevuta, alla quale purtroppo non si sa come rispondere?

Ho notato in questi miei lunghi anni – in qualità di delegato di una Associazione di legalità – come, certe iniziative antimafia, siano diventate più un marchio di prestigio per chi vuole apparire “dalla parte giusta”, senza però mai sporcarsi le mani.

Leggo difatti di politici che citano le lotte di altri nei propri discorsi elettorali, imprenditori che sponsorizzano eventi per lavare la propria immagine, giovani commercianti che condividono post sui social senza però mai mettere piede in una qualsivoglia riunione o assemblea in cui si affrontano temi sociali a difesa della legalità.

D’altronde, quanto si prova a realizzare – senza però mai esporsi personalmente, senza denunciare alle Procure nazionali ciò di cui si è venuti a conoscenza, ripeto, senza minimamente pensare di entrare in un ufficio di polizia giudiziaria – è diventato per molti quasi un accessorio da sfoggiare, sì… la lotta alla illegalità viene difatti rappresentata da questi soggetti, quasi fosse una banale pratica quotidiana, ad esempio, attraverso un selfie dietro uno striscione, solitamente osserviamo quella foto posta con dietro le loro spalle l’immagine dei due giudici eroi, vittime della mafia.

Li conosco bene i miei conterranei e non sono nuovi a queste dinamiche, eccoli infatti nelle fiaccolate per le strade “indignati” dopo l’ultima estorsione, gridano slogan a squarciagola contro la criminalità, ma poi, col passar del tempo, il silenzio, le voci si affievoliscono, le assemblee si svuotano, e i problemi rimangono lì, nascosti dietro la facciata di una “comunità unita”!

Chissà… forse un giorno tutto sarà diverso, forse quando tutti quei professionisti non si limiteranno a firmare un documento, ma diverranno “sentinelle” attive; infatti, solo se racconteranno ai loro figli che pagare il pizzo è una sconfitta per tutti, se interverranno quando sentiranno qualcuno dire “è meglio stare zitti”, perché la decisione più importante non è quella di essere dei soci iscritti, ma quella di essere portatori di legalità, affinché tutte le coscienze coinvolte, inizieranno a svegliarsi.

Serve quindi un messaggio che si trasformi in azioni concrete: controlli incrociati tra commercianti, denunce collettive, sostegno economico a chi perde clienti dopo aver detto no al racket. Ho visto troppi progetti fallire perché si è creduto che bastasse riempire una sala per cambiare le cose. La mafia non teme le parole, teme i fatti. E i fatti richiedono tempo, risorse, e soprattutto uno Stato sempre presente e che non molli quando il clamore inizia a spegnersi…

Ecco perché, pur riconoscendo il valore simbolico di chi prova a contrastare quell’odiosa metodologia criminale, non posso nascondere il mio scetticismo, non verso le persone e il loro impegno, ma verso il sistema che le circonda. D’altronde ditemi, quando mai un Comune ha stanziato un solo euro per la sicurezza dei negozianti, commercianti e imprenditori?

Quanti sanno che certi cosiddetti “amici della legalità” sono poi gli stessi che hanno chiuso un occhio davanti ad appalti e/o subappalti sospetti? La legalità non è un evento, è una maratona, e spesso chi corre all’inizio non arriva al traguardo.

Ma forse, questa volta, proprio perché siamo stanchi di illuderci, possiamo davvero fare la differenza, sì… stando soltanto tutti insieme, ma soprattutto, stando insieme sempre!!!

Quando il lavoro onesto diventa un rischio: curnutu e vastuniatu!

C’è un silenzio che pesa più di qualsiasi parola, soprattutto dopo aver fatto tutto ciò che ti era stato chiesto.
Sì… hai voluto seguir la strada dritta, hai così compilato ogni modulo, superato i controlli, persino quelli che sembrano inventati apposta per scoraggiare chi non ha alcuna protezione o appoggio…

Hai altresì presentato i documenti antimafia, come se la tua onestà dovesse essere dimostrata, come se fossi tu il sospettato, no… chi ti commissiona il lavoro.

Eppure, non hai mai alzato la voce, hai continuato a camminare dritto, convinto che prima o poi qualcuno avrebbe visto il tuo impegno e avrebbe così riconosciuto il tuo valore.

E quando finalmente arriva quel contratto, già… quel pezzo di carta sembra promettere un futuro in salita, sì… lo guardi con gli occhi lucidi di chi non ci credeva più.

Non era stato un colpo di fortuna, ma il risultato di anni di fatica, di scelte difficili, di rinunce difficili, le stesse che poi hanno fatto arricchire i tuoi avversari.

Eri comunque pronto a metterci il tuo impegno, la faccia, i mezzi, il tempo, ormai eri dentro, non hai ricevuto alcun acconto e così hai investito il tuo denaro, pensando comunque che alla fine, se avresti fatto bene il tuo dovere, qualcuno avrebbe fatto il suo…

Ed allora la tua imprese lavora senza sosta, sì… con la stessa cura che metteresti per realizzare casa tua; rispetti i tempi, superi gli imprevisti, risolvi problemi che – come solitamente accade – non dipendono da te, completi quindi un mese di lavori, verifichi la contabilità consegnata dalla tua D.l. e dopo qualche giorno emetti la fattura concordata, in attesa dei fatidici 60/90 gg…

Sì… aspetti quel pagamento, lo aspetti con la pazienza, già perché sai che nel mondo degli appalti il denaro viaggia lento, aggiungerei… troppo lento: Sessanta, novanta e a volte anche centoventi giorni, ti dicono che è normale…

Ma stranamente (o dovrei dire “spesso”) dopo tutto quel tempo, il bonifico non arriva!!!

Ed allora, chiami, mandi solleciti, mostri documenti, fatture, verbali di consegna, ma ricevi solo silenzi e le classiche risposte vaghe, già… le stesse che come neve al sole si sciolgono improvvisamente… ed allora ti rivolgi ai legali, iniziano le procedure dei decreti ingiuntivi, ed invece di vedere finalmente una soluzione, ecco che ti arriva una “bella” comunicazione: il contratto è disdetto.

“Curnutu e vastuniatu” così si dice a Catania, non perché hai sbagliato, non per la tua inadempienza, ma perché ti sei permesso – già… hai osato chiedere a quel Committente (che siede alla del padre…) – i tuoi soldi, i tuo diritti, già… ciò che ti spetta per legge!!!

Ma di quale legge parliamo? Una legge che tutela i ladri e colpisce gli onesti…? Sì… è quando ti rivolgi allo Stato che comprendi tutto il tuo fallimento, già… quando entri in un’aula di Tribunale che comprendi di non aver più una rapida soluzione ai tuoi problemi, anzi il più delle volte, vieni punito per aver preteso il rispetto delle regole.

Sei un estraneo in un gioco di cui non conosci le regole, o meglio, in cui le regole cambiano a seconda di chi le fa e soprattutto chi le deve seguire.

Non importa se hai rispettato ogni vincolo, ogni obbligo, loro possono disattendere “impunemente” ogni obbligo, possono cancellare quel rapporto istaurato come se fosse un errore di battitura e così, mentre tu lotti per non affondare, per pagare i tuoi operai, i fornitori, per mantenere aperta un’impresa che magari ha radici profonde in questo territorio, loro, sì… questi grandi appaltatori, se ne stanno al riparo, protetti da centinaia di clausole che sembrano fatte apposta per salvarli, anche quando sono loro a creare i problemi!!!

Nel frattempo mentre tu aspetti invano i tuoi pagamenti… fallisci, mentre loro – viceversa – ricevono quei fondi pubblici previsti e consegnati loro da una politica che utilizza quel sistema per raccomandare parenti e familiari, ma soprattutto per foraggiare un sistema parallelo, illegale, che poi ricambia attraverso preferenze elettorali, si con quel noto scambio di voti.

Ma infatti da “Siciliano” mi sono sempre chiesto: perché affidare questi lavori a chi non vive qui, a chi non conosce il territorio, a chi non ha alcun interesse a costruire qualcosa di duraturo? Perché non dare direttamente appalto a chi ha le competenze, a chi ha le maestranze, a chi da generazioni tiene in piedi l’economia di questa terra? Perché inserire un anello intermedio che non aggiunge valore, ma solo costi, ritardi e rischi?

Ma forse anch’io la risposta la so da sempre: Sì… forse perché quel collegamento non è mai stato tecnico, ma politico? Forse perché dietro quei nomi vi sono appoggi, raccomandazioni, scambi di favori che nulla hanno a che fare con la trasparenza o il merito, ma servono principalmente ad oliare questo sistema marcio!

Ma quando ne parlo a gran voce, quando pubblico i miei post, sì… sono in molti a darmi ragione, ma poi girato l’angolo, scrollano le spalle, già… come se questo meccanismo perverso sia inevitabile, mi sembra il classico discorso dello sconfitto! Ma la verità è che nella maggior parte dei casi, molti di essi, appartengono – direttamente e/o indirettamente – a quel sistema clientelare e collusivo, sì… sono proprio essi, i loro figli, parenti e amici, ad essersi genuflessi e ad aver approfittato e ancora approfittano di quel marciume

Credetemi… quanto riporto non è rabbia, non me ne fotte un caz…, tanto – come dico sempre – io mi accontento del mio piatto di pasta, di più tanto non posso mangiarne…- e quindi, non ho bisogno di “LORO”, sì… di quei politici, di quegli imprenditori mafiosi e collusi (ancor più di quei loro lacchè – incompetenti – chiamati “teste di legno”),ed ancora, di amici e conoscenti che operano nel servizio pubblico (finora mi sono sempre rivolto – a pagamento – ai servizi privati…), non ho bisogno di raccomandazioni, perché mi sento abbastanza preparato che solitamente le imprese a fare una “cinquina” assumendomi e mai il contrario, difatti, in questi miei 35 anni di servizio, nessuno mai ha pensato di licenziarmi, difatti, in quelle poche circostanze, sono stato io ad inviare le dimissioni – solitamente per giusta causa.

D’altronde come potrei convivere in un’impresa, avendo la consapevolezza che essa appartiene, di fatto – ad un’associazione criminale o permette quotidianamente che metta in campo meccanismi fraudolenti, gli stessi che poi le permettono di evadere e quindi incassare migliaia e migliaia di euro…

parliamo di semplici raggiri (ma sono truffe che lo Stato – ahimè – non riesce neppure a comprendere o quando ci riesce è ormai troppo tardi… eppure sono lì…sotto i loro occhi, ma a volte ho come l’impressione che quei soggetti si trovino nella “stanza con l’elefante”) ma d’altronde lo Stato punisce chi le regole le rispetta, mentre premia o forse dovrei dire “ricompensa”, chi riesce a far durare più a lungo questo sistema, d’altronde lo stesso che lo tiene in vita.

E così… in questi anni, centinaia di imprese oneste siciliane hanno chiuso, non per incapacità, ma viceversa, per mancanza di giustizia.

Perché alla fine quello che manca davvero in questa terra non è il denaro, ma il senso di quel diritto che ormai nessuno, sembra più voler far rispettare! E quindi: Curnutu e vastuniatu!

“Non è che non si può fare il ponte perché ci sono mafia e ndrangheta”! No… infatti… è proprio perché ci sono che si sta provando a farlo!

Qualche giorno fa, il 6 agosto per la precisione, il Ministro Salvini ha rilasciato una dichiarazione a Palazzo Chigi che merita di essere esaminata senza pregiudizi ma con la massima lucidità: https://www.youtube.com/watch?v=j-j3wXwUV0c&ab_channel=IlFattoQuotidiano.

Affermare che la presenza della criminalità organizzata non sia un impedimento per un’opera colossale come il Ponte sullo Stretto è, nella migliore delle ipotesi, una visione ingenua della realtà siciliana e calabrese.

La verità è che il nesso tra grandi opere e appetiti malavitosi è storicamente innegabile e questo progetto faraonico rischia di trasformarsi nell’appalto del secolo proprio per quelle stesse cosche che si giurano di combattere.

Si proclama a gran voce trasparenza e controlli stretti, eppure la storia recente e meno recente ci insegna che è proprio qui che il sistema spesso fallisce, permettendo alle infiltrazioni di prosperare nell’ombra dei subappalti e delle tangenti.

Sono fermamente convinto che se il Ministro Salvini avesse la reale volontà di affidare a me, o a chiunque altro sia completamente svincolato dal sistema di voti di scambio che alimenta il consenso di certi partiti, il compito di dettare le regole per controlli efficaci, si scontrerebbe con una resistenza feroce.

Il motivo è semplice: la mia conoscenza del settore non proviene “dall’esterno“, ovvero dalla prospettiva di chi appartiene alle istituzioni o alle forze dell’ordine, al contrario, proviene “dall’interno“, già… so perfettamente come si eseguono i lavori e conosco soprattutto tutte le procedure che dovrebbero essere applicate sotto il profilo della sicurezza dei luoghi di lavoro, qualità e ambiente, regole e procedure che peraltro, dovrebbero essere di fatto rispettate e quindi applicate da chi opera e sottoposte a verifica da chi controlla costantemente.

Proprio perché possiedo un’esperienza diretta trentennale di quel mondo – ho avuto modo di conoscerne ahimè tutta una serie di strategie e misure fraudolente solitamente applicate – le stesse che negli anni, esponendomi in prima persona, ho provveduto a denunciare – le quali, quando applicate, sono riuscite ad eludere quei cosiddetti “controlli“.

In questi lunghi anni – osservando quanto svolto da talune società – posso affermare (senza alcuna presunzione…) di comprendere cosa sta già accadendo o anticipare le mosse che di lì a poco verranno compiute da talune imprese, certamente, grazie anche alla complicità di chi dovrebbe controllare, ma che – per motivi che non sto qui a ripetere – preferisce girarsi dall’altro lato.

Ecco perché giustifico in parte quanti sono del tutto estranei a quel mondo che potremmo definire in parte “illegale“, a loro difatti manca quel cosiddetto “sesto senso”, per riuscire a percepire anticipatamente quali metodi truffaldini sono stati posti in atto, certamente difficili da individuare per quei referenti istituzionali, in quanto non possiedono alcuna esperienza sul campo, ma si affidano esclusivamente al promuovere documenti, come ad esempio il ben noto “Protocollo di legalità“, già… come se quest’ultimo possa contrastare quanto poi ahimè accade.

Tuttavia, proprio per questa mia conoscenza diretta e non teorica, sono – ahimè – consapevole che qualsivoglia tentativo di riforma seria e trasparente fallirebbe inevitabilmente nel suo scopo, poiché minaccerebbe gli equilibri di un sistema consolidato, i cui meccanismi sono noti e ben oliati, già… più a chi li usa, che da chi dovrebbe smantellarli.

Ecco perché ritengo che – appena quel sistema criminale venisse a conoscenza di un (eventuale) incarico dato alla mia persona – sono certo che troverebbero un modo più comodo per risolvere la questione, già… eliminando alla radice il problema.

Sì… colpendo – per come ha sempre fatto – chiunque rappresenti un ostacolo reale ai suoi interessi economici e finanziari, vedasi d’altronde quanto tristemente accaduto nei confronti di tutte coloro che si sono ribellati e che oggi appartengono alle cosiddette “vittime di mafia“, cui idealmente io andrei a rendere visita, subito dopo aver accettato un simile incarico.

Ma questa comunque è solo una faccia della medaglia, l’altra, forse ancor più potente, è costituita dagli ingombranti interessi di una parte di quelle istituzioni, di quei colletti bianchi legati a doppia maglia con una grossa fetta della nostra imprenditoria, la stessa che proprio in questi ultimi anni – dopo la pandemia del Covid – si è aggiudicata gran parte degli appalti milionari di questo Paese.

Parliamo dello stesso gruppo che sta spingendo con irrefrenabile fermezza, affinché i cantieri non si blocchino, ma anzi vadano avanti a tutta forza.

Il governo e i suoi referenti “cicale“, ci regalano quotidianamente da quei Tg perle di saggezza, dipingendo il loro lavoro come una missione, sì come qualcosa di unico ed eccezionale, un momento storico paragonabile a un faro di progresso, capace di cambiare per sempre le sorti della nostra nazione in particolare del Mezzogiorno.

E così tra annunci propagandistici che mirano a indurre specifici atteggiamenti attraverso l’uso sistematico di tecniche di persuasione (a modello Goebbels), ecco che il mio pensiero si rivolge agli allarmi in vigore nelle Procure nazionali, alla Dia e soprattutto all’Antimafia, che in questi anni stanno segnalando come le grandi opere siano il banchetto preferito delle criminalità organizzate, attratte dai fiumi di denaro e dalla “giungla” dei subappalti.

Ecco perché nutro inquietudine, perché di fronte a questi pericoli concreti, leggo ogni giorno le risposte delle nostre istituzioni che usano dozzinali battute sprezzanti, già… come se la criminalità organizzata fosse una scusa per non fare, e non un avversario da cui proteggersi con ogni mezzo.

Alla fine, vedrete, non sarà il cemento a unire due regioni, ma il silenzio a dividere la verità dalla menzogna, e quel ponte, se mai sorgerà, non collegherà Sicilia e Calabria, ma diventerà il simbolo di un Paese che ancora una volta ha scelto di voltarsi dall’altra parte, mentre chi conta ci guadagna, e chi vive qui, come sempre, ci perde!

Giustizia a senso unico: nei nostri appalti, chi opera onestamente subisce il torto e la beffa. E lo Stato, invece di punire, paga i “General Contractor” con indennizzi miliardari.

Dove si cela la giustizia in questo paese, quando si parla di contratti e di lavoro onesto?

Già… ti sei fatto in quattro. Hai seguito ogni regola, presentato ogni documento richiesto, persino quelli antimafia, per dimostrare la tua trasparenza e la tua serietà.

Hai superato ogni ostacolo, ogni verifica, per aggiudicarti quel piccolo pezzo di un appalto molto più grande, convinto che il merito e la correttezza avessero ancora un valore.

Poi, quasi a volerti mettere alla prova ulteriormente, ti è stato chiesto di fare da banca a chi ti ha commissionato il lavoro, rilasciando una fideiussione a garanzia dei lavori da compiere.

Incredibile… dovrebbero essere loro a rilasciarla a garanzia dei pagamenti! Pagamenti che, come si sa, nei casi migliori non arriveranno prima di centoventi lunghissimi giorni.

Eppure, hai accettato anche questo, sopportando il peso di un flusso di cassa strangolato, nella speranza che almeno il rapporto di lavoro fosse basato sul rispetto reciproco. Hai creduto in quel patto, investito risorse, mezzi e la tua professionalità, pensando di aver finalmente costruito qualcosa di solido.

Ma poi, all’improvviso, il silenzio. I pagamenti promessi non arrivano più, le comunicazioni si fanno rarefatte, i responsabili con cui hai interloquito spariscono e ti ritrovi a inseguire un credito che sembra essersi volatilizzato nel nulla. E la reazione, quando osi far valere le tue ragioni e chiedere ciò che ti spetta di diritto, è di una durezza inaudita.

Subisci non solo il torto del mancato pagamento, ma anche la beffa della disdetta del contratto!

Sì… per aver semplicemente preteso che venga rispettato un accordo, ti vedi recidere il rapporto alle radici. È un paradosso amaro che lascia senza parole, dove la parte che ha già sopportato ogni onere si ritrova punita per aver rivendicato un diritto.

Ma il colmo dell’ingiustizia è sapere che, mentre tu lotti per vedere riconosciuti i tuoi crediti, quel general contractor che ti ha messo in crisi è al sicuro. Già… perché alcuni di questi soggetti hanno ricevuto, da quella stessa politica con cui intrattengono rapporti opachi, dei veri e propri salvagenti economici.

Garanzie pubbliche, clausole contrattuali capestro, che prevedono la corresponsione di indennizzi milionari, a volte persino miliardari, nel caso in cui la commessa venga interrotta per motivi ufficialmente dipendenti dallo Stato.

Così, mentre la tua impresa rischia il collasso per quei pagamenti mai ricevuti, loro, non solo non pagheranno nessuno, ma incasseranno una lauta buona uscita. Una somma che permetterà ad essi di superare indenni la crisi che hanno creato ad altri, ma non solo, di trarne addirittura un ingente profitto, forse superiore a quello che avrebbero ottenuto portando a termine l’opera in maniera corretta.

E allora ti chiedi: dove sono finiti i protocolli di legalità tanto sbandierati? Valgono forse solo per una parte della filiera, mentre le imprese più piccole, quelle che materialmente realizzano l’opera, devono soltanto subire e tacere?

È una vergogna che sta lacerando il tessuto produttivo di questa terra. Ci si dimentica troppo spesso delle migliaia di imprese, alcune operanti da generazioni, che in vent’anni hanno chiuso i battenti proprio a causa di queste dinamiche perverse.

General contractor, spesso consorzi del nord Italia, si aggiudicano appalti milionari e poi li gestiscono in modo da lasciare dietro di sé una scia di fallimenti e debiti insoluti. La circostanza più assurda è che nessuno, finora, ha pagato per questo. Nessuna sanzione amministrativa, men che meno penale, per aver devastato un intero ecosistema economico.

E allora sorge spontanea una domanda, amara e diretta: perché affidare i lavori a questi grandi soggetti, quando sono le nostre imprese, quelle del territorio, a doverli materialmente realizzare? Perché creare un intermediario così potente e spesso così distante dalle reali esigenze del progetto?

Un’idea, purtroppo, me la sono fatta. Basta guardare alle migliaia di assunzioni gestite attraverso le segreterie politiche, che spesso si intrecciano in modo poco trasparente con gli stessi soggetti che, casualmente, si aggiudicano le commesse più succulente.

Sì… lo vado ripetendo ormai da anni: è un gioco dove a perdere sono sempre i soliti, quelli che con il sudore della fronte cercano solo di lavorare onestamente.

La politica che sopravvive grazie al voto di scambio: il circuito perfetto tra mafia, consenso e appalti.

Buongiorno a tutti, oggi voglio condividere con voi una riflessione profonda su un male che affligge il nostro Paese da decenni, un cancro che si insinua nelle pieghe della nostra democrazia e ne corrode le fondamenta.
È mia ferma convinzione che in gran parte delle regioni italiane, specialmente quelle dove la presenza mafiosa è più radicata, non siano più i cittadini a decidere liberamente chi debba salire al potere, ma sia piuttosto un sistema trino, perfetta e perversa fusione di tre attori, già… tutti legati come i tre frutti della foto.

Eccoli quindi, per primi i politici (affiliati direttamente o che sanno di poter godere di quelle organizzazioni criminali), seguono quanti legati al mondo del lavoro (imprenditori compiacenti, segreterie politiche, caf, taluni sindacati, associazioni, circoli, resp. delle risorse umane, e coloro inseriti appositamente all’interno di quei cosiddetti “General Contractor”, etc… ) ed infine – quest’ultima non manca mai – la “criminalità organizzata”, che riesce a manipolare il consenso elettorale in cambio di favori illeciti.

Questo meccanismo perverso rappresenta una delle più gravi distorsioni del nostro sistema democratico, dove la volontà popolare viene sostituita da calcoli opportunistici e interessi criminali.

Il voto di scambio è purtroppo una realtà consolidata in molti territori, dove la mafia o altre organizzazioni criminali stabiliscono patti segreti con esponenti politici, garantendo loro un ampio sostegno elettorale in cambio di finanziamenti, appalti pubblici e altre utilità.

Questi accordi illeciti avvengono lontano dagli occhi dei cittadini, nelle stanze del potere dove si decidono le sorti delle comunità, e sono spesso difficili da scoprire e perseguire a causa della loro natura opaca e delle complicità che coinvolgono.

Dall’altra parte, la politica concede beni pubblici e risorse che dovrebbero essere destinate allo sviluppo collettivo, ma che invece vengono dirottate verso interessi privati e criminali.

Gli appalti vengono assegnati non in base alla meritocrazia o all’efficienza, ma secondo logiche di affiliazione e complicità, dove gli “amici degli amici” ricevono favori e contratti lucrosi senza alcun riguardo per la legalità o il bene comune.

Lo stesso vale per i posti di lavoro, che spesso vengono distribuiti a familiari o a persone vicine a questa organizzazione, già… come ricompensa per il sostegno elettorale offerto, creando un sistema di clientelismo che soffoca la meritocrazia e impoverisce la comunità.

Un meccanismo perverso che non solo distorce il mercato del lavoro, ma mina alla base la fiducia dei cittadini nelle istituzioni, alimentando un circolo vizioso di sfiducia e rassegnazione .

L’ingranaggio di questo sistema corruttivo deve chiudersi perfettamente, in modo che ciascun attore coinvolto ottenga i propri benefici.

E così, la mafia consolida il suo potere sul territorio e accede a risorse economiche preziose e la politica garantisce la propria sopravvivenza e il proprio mantenimento al potere, anche a costo di svendere pezzi dello Stato e dei suoi principi fondamentali.

In questo modo, gli interessi criminali e quelli politici si fondono in una simbiosi perversa che danneggia soprattutto i cittadini onesti.

Purtroppo, molte inchieste giudiziarie hanno portato alla luce queste dinamiche, ma troppo spesso vengono soffocate dai media o da quei giudici che sono complici di questo sistema, preferendo mantenere il silenzio piuttosto che affrontare la verità scomoda che emerge dalle indagini.

È inquietante d’altronde notare come certe inchieste vengano aperte e portate avanti per anni, per poi essere magari archiviate o ridimensionate in modo da non intaccare realmente le strutture di potere coinvolte.

Non possiamo più permettere che questa situazione continui a perpetuarsi, perché il prezzo che paghiamo come comunità è troppo alto: è il prezzo della dignità, della giustizia sociale e della stessa democrazia, che viene svuotata di significato e ridotta a una mera formalità. Dobbiamo pretendere che la politica si purifichi da queste pratiche illegali e che ritrovi la sua vocazione originale di servizio verso i cittadini e il bene comune.

È necessario che tutti, cittadini e istituzioni, ancora parte sana del Paese, alzino la guardia e combattiamo con determinazione questo fenomeno, denunciando ogni abuso e pretendendo trasparenza e accountability da parte di chi ci governa, perché solo così potremo sperare in un futuro migliore per il nostro Paese. La lotta alla corruzione e al voto di scambio non deve essere una battaglia di parte, ma un impegno collettivo per ridare credibilità alla nostra democrazia.

Ed allora, rivolgendomi a tutti coloro che finora non sono stati intaccati da quel marciume, ecco, vi chiedo di non voltarvi dall’altra parte, di non cadere nella trappola del disincanto e della rassegnazione, ma di essere vigili e attivi nel difendere i valori della legalità e della giustizia, perché solo attraverso un impegno corale potremo sconfiggere questo sistema malato e costruire una società più equa e trasparente per noi e per le generazioni future. Il cambiamento parte da ciascuno di noi, dalla nostra volontà di non accettare compromessi e di pretendere il rispetto delle regole da parte di chi ci amministra.

Grazie per avermi ascoltato e spero che questa riflessione possa contribuire ad accendere una luce su un problema che troppo spesso viene taciuto o sottovalutato, ma che rappresenta una delle principali minacce per il nostro vivere civile e per la nostra democrazia.

Costruiamo insieme un futuro dove il voto sia davvero libero e la politica torni a essere uno strumento di servizio e non di potere personale o criminale, altrimenti ne pagheremo tutti le conseguenze.

P.s. Ringrazio per la foto, l’amico Fabio Corselli: http://www.fabiocorselli.it

Monsignor Renna rompe il tabù: ‘Sant’Agata detesta la mafia’. E i giornali preferiscono parlare di processioni…

Per la prima volta a Catania (finalmente…) la Chiesa – grazie a Monsignor Renna – si schiera in maniera diretta contro la criminalità organizzata e i suoi affiliati. 

È incredibile come le testate web abbiano glissato su questo passaggio pronunciato così cruciale, limitandosi a riportare gli aspetti religiosi dell’omelia, senza viceversa mettere in grassetto le uniche parole che avrebbero dovuto risuonare forte.

Monsignor Renna ha parlato con una chiarezza senza precedenti, denunciando chi osa mischiare il nome di Sant’Agata con il malaffare. 

Puri e forti“, ha esortato, ricordando che la forza non è quella delle armi o della violenza. 

Eppure, nessun giornale ha riportato con il dovuto rilievo il suo monito a chi, pur frequentando le celebrazioni, ha armi in casa o vive nell’illegalità. Sant’Agata, ha sottolineato, detesta la violenza, la droga, l’abbandono dei figli, eppure queste parole sono state soffocate nel rumore di un racconto devozionale superficiale.

Ha lanciato un appello tagliente ai genitori: “Date ai vostri figli nomi cristiani come Agata o Agatino, non quelli di personaggi discutibili“. E qui, il riferimento è chiaro, basti pensare a certi nomi che risuonano nelle cronache nere, celebrati come fossero eroi. “È dal nome che indirizzi tuo figlio“, ha insistito, promettendo un attestato a chi avrà il coraggio di rompere questa deriva. Un gesto simbolico, sì, ma potentissimo: perché la legalità si costruisce anche così, nelle scelte che sembrano piccole ma plasmano il futuro.

E così… mentre i media preferiscono parlare di rituali e processioni, Renna ha sfidato Catania a fare i conti con le sue responsabilità, ha chiesto una fede che non si accontenti di cerimonie, ma che bruci come il fuoco del Vangelo, trasformando la città. 

Eppure, di questo incendio di verità, non c’è traccia nei titoli. Forse perché certe verità bruciano più del sole d’agosto e a qualcuno fa comodo tenerle nascoste o come sospetto, evidenzia – per l’ennesima volta – di essere di fatto… assoggettato a quel sistema! 

I raggiri di Ferragosto sono i più esilaranti… peccato non siano una barzelletta!

Ferragosto, si sa, è il periodo della spensieratezza e così, mentre la maggior parte del Paese si gode il sole in spiaggia, il silenzio della montagna o il rumore di una griglia accesa, c’è chi, invece, approfitta di questa tregua collettiva per muoversi nell’ombra…

E no, non sto parlando di fantasmi, ma di raggiri, truffe e abusi che sembrano moltiplicarsi proprio quando gli uffici giudiziari sono ridotti all’osso e le procure lavorano a rilento.

Ho letto alcune notizie in questi giorni sul web che, più che indignarmi, mi fanno sorridere amaramente…

Perché è tutto così prevedibile, eppure nessuno sembra accorgersene. Le forze dell’ordine? Prese tra turni ridotti e emergenze estive. Le procure? Metà in ferie, l’altra metà probabilmente sommersa da pratiche o, peggio, gestita da chi ancora non ha l’esperienza per riconoscere ciò che sta davanti ai suoi occhi.

E difatti, mentre i cittadini credono di vivere in un Paese dove la legalità non va in vacanza, la realtà è ben diversa. Chi vuole agire illegalmente sa benissimo che agosto è il mese perfetto: meno controlli, meno personale, ma soprattutto meno attenzione!

E se per caso qualcuno – già… con il mio stesso acume, ma diversamente da me che non ricopro ruoli istituzionali – si dovesse accorgere di qualcosa che non va… già, cosa fare? Basterà, come al solito, aspettare…

Sì… aspettare che un esposto, magari scritto nei modi e nei tempi imposti dalla Legge Cartabia – quella stessa legge che, guarda caso, sembra fatta apposta per scoraggiare le denunce – giunga sulla sua scrivania. E nel frattempo? Nel frattempo, tutto procede come al solito, con la complicità di chi, invece di vigilare, abbassa lo sguardo o, peggio, finge di non vedere.

Mi chiedo: è davvero solo incapacità? O c’è dell’altro? Perché certe dinamiche sembrano ripetersi con una precisione quasi sospetta. Funzionari compiacenti, pratiche che si perdono nel vuoto, tempistiche che coincidono troppo bene con le assenze dei vertici. E dovrei aggiungere quanto, ahimè, ho scoperto… ma così sarebbe troppo semplice, quantomeno per chi dovrebbe scoprire i raggiri posti in atto.

Continuare ad aiutarli non mi sembra più così corretto: d’altronde, è quello il loro lavoro (sono loro a prendersi le “coccarde”). E quindi, se non sanno compiere bene il proprio lavoro, forse, chissà… dovrebbero cambiarlo!

Già… basterebbe loro ricordare le parole del giudice Borsellino: «A fine mese, quando ricevo lo stipendio, faccio l’esame di coscienza e mi chiedo se me lo sono guadagnato».

E così, mentre il sottoscritto scrive questo post, le truffe e i raggiri continuano. E chi si ritrova – da semplice cittadino – a combattere contro questo sistema illegale, resta solo, sì… perché chi dovrebbe proteggerlo, alla fine… gli rema contro.

Ecco perché scrivo. Sì, lo faccio per tutti quei soggetti istituzionali che considerano Ferragosto come il periodo dei bagni, delle grigliate, delle gite al lago o in montagna, mentre invece dovrebbero iniziare a dedicare il proprio tempo a chiedersi cosa succede davvero in questa nostra regione, mentre tutto intorno dorme.

Perché se è vero che la legalità non dovrebbe mai andare in ferie, allora qualcuno dovrebbe spiegare perché, invece, sembra proprio che sia così…

Ovviamente, mi rendo disponibile – come sempre, d’altronde, nei miei ultimi quindici anni – a spiegare a qualche funzionario inquirente cosa sta, ahimè, accadendo. Già… purtroppo sotto gli occhi di tutti. Anzi, no: sotto i loro occhi. Ma forse, ahimè, non se ne sono accorti. O forse – e qui sta il dramma – per muoversi hanno bisogno di un esposto formalmente presentato, altrimenti, di loro iniziativa… non possono agire, già… nemmeno dinnanzi alla più palese delle violazioni!

Ma d’altronde, è questo il Paese che – proprio grazie alla nuova riforma sulla giustizia – si vuole ottenere! Dove ogni denuncia deve superare un percorso a ostacoli degno delle olimpiadi burocratiche, mentre i furbi continuano a fare il bello e il cattivo tempo.

Complimenti vivissimi ai geni che hanno realizzato questo splendido sistema giuridico. Già… che progresso, signori miei… che progresso.

Quando la legalità è solo uno slogan: politica e interessi privati. Dov’è la Procura?

Già… una legalità che risuona solo nei discorsi, mentre nella realtà si sgretola come un castello di sabbia al primo soffio di vento. Le parole volano alte, impennate come aquiloni in un cielo sereno, ma i fatti strisciano nel fango, lenti e viscidi, e quel fango è lo stesso in cui affondano le mani coloro che dovrebbero custodire il bene comune con rigore e silenzio.
Questo schifo di politica, gonfia di potere e intrisa di privilegi, ha trasformato la gestione della cosa pubblica in un affare privato, un mercato sommerso dove ogni decisione è un debito da saldare con un favore, ogni posto di lavoro una ricompensa per chi ha baciato l’anello al momento giusto.

Quelli che abbiamo eletto per rappresentarci, per lavorare per tutti, hanno invece interpretato il mandato come un diritto ereditario, una specie di investitura divina a spartirsi ricchezze, appalti, poltrone, come se la città fosse una villa di famiglia da dividere tra eredi. E il peggio? Che lo fanno con la spudoratezza di chi crede di essere nel giusto, di chi si guarda allo specchio e vede un benefattore, non un parassita.

Forse il problema sta proprio in quelle parole mal interpretate, in quel “governare come il buon padre di famiglia” che hanno preso alla lettera, ma nel modo più distorto, più meschino possibile. Per loro, essere “buoni padri” non significa avere cura del paese, ma garantire che i figli abbiano un posto in Comune, che i cognati gestiscano le gare d’appalto, che gli amici più fedeli trovino sempre una raccomandazione pronta presso uno degli uffici. E i concorsi pubblici? Una farsa, una sceneggiata dove i copioni sono scritti mesi prima e gli attori principali sono sempre gli stessi, quelli che non hanno mai aperto un bando ma sanno già dove finirà il posto.

E mentre tutto questo accade, mentre il denaro pubblico diventa moneta di scambio per lealtà personali, mentre le opere incompiute marciscono sotto il sole e i giovani scappano all’estero, mi chiedo: ma le Procure dove sono? Dormono? O forse, anche lì, qualcuno ha deciso che certe cose è meglio non vederle, che certi nomi vanno trattati con riguardo, che certe inchieste potrebbero far cadere troppi alberi in un bosco già malato?

Lasciate quindi che vi racconti una storia, una di quelle che sembrano uscite da un romanzo grottesco, ma che purtroppo è vera, anzi, quotidiana. Un Comune etneo, piccolo ma non troppo, dove le dinamiche di potere si intrecciano con affari, favori e raccomandazioni come radici in un terreno avvelenato. E la cosa più agghiacciante? Che non è l’unico. È solo uno dei tanti anelli di una catena che sembra non avere fine, un sistema che si ripete identico in cento paesi, in cento province, con volti diversi ma stesse mosse, stessi silenzi, stesse complicità.

Ma la domanda che resta, alla fine, è sempre la stessa: fino a quando continueremo a permettere che tutto questo accada? Fino a quando lasceremo che il bene di tutti diventi il bottino di pochi, che la speranza si trasformi in rancore e il rancore in rassegnazione?

Il sottoscritto pensa – ahimè – che non cambierà mai nulla in questo nostro Paese. È un circolo vizioso che si autoalimenta, perché in fondo ai miei connazionali piace questo sistema clientelare, lo tollerano, lo subiscono, ma segretamente sperano di poterne usufruire un giorno, quando toccherà a loro. È un gioco di specchi dove tutti fingono di indignarsi, ma nessuno rompe davvero lo schema, perché ognuno coltiva il sogno di diventare un giorno il padrone del favore, non più il mendicante.

Forse solo un conflitto armato, una di quelle tragedie che sconquassano le fondamenta di una nazione, potrebbe costringerci a un reset, a spezzare la catena e ricominciare da zero. Già, perché così è stato per i nostri padri e nonni. Sì… quelli che hanno vissuto il dopoguerra sanno cosa significa vedere un Paese in macerie e doverlo ricostruire partendo dalla fame, dalla cenere, dai sassi.

D’altronde basti osservare quanto sta accadendo in queste ore nella striscia di Gaza o in Ucraina per comprendere le difficoltà, per capire cosa significa perdere tutto e dover ricominciare con le mani nude. Come oggi, anche allora da noi – in quegli anni bui – accadde qualcosa di straordinario. Quando il pane era razionato e le città ed i suoi palazzi erano ridotti a scheletri di mattoni, la gente si aiutava, non per dovere, ma per necessità, perché l’altro era il fratello della stessa miseria.

Le donne dividevano l’ultima manciata di farina per fare una minestra, mentre i contadini – che nascondevano il grano – ora provavano a sfamare i vicini, gli operai viceversa iniziavano la ricostruzione con le mani nude, con la forza di chi non ha più niente da perdere. Se qualcuno volesse rivivere quei momenti, gli basterà osservare alcuni film neorealisti come “Ladri di biciclette” o “Roma città aperta”; in quei cortometraggi si racconta in modo reale la vita – in quel momento storico – del nostro Paese: non c’era eroismo, solo disperazione e una solidarietà che sgorgava spontanea, unico modo di sopravvivenza.

Persino i bambini raccoglievano cicche di sigarette per rivenderle, le donne facevano la fila per ore per un litro di latte annacquato. Eppure, in quella miseria, c’era una dignità che oggi sembra svanita, un senso di appartenenza che non si comprava, non si raccomandava, ma nasceva dal sangue e dalla terra. Forse perché allora si lottava per qualcosa di concreto: un tetto, un lavoro, un futuro. Oggi, invece, ci accontentiamo di illusioni e piccoli privilegi, mentre il sistema ci divora pezzo a pezzo, in silenzio.

Ma il dopoguerra insegnò anche altro: che la ricostruzione non fu solo merito degli aiuti americani del Piano Marshall. Fu soprattutto la gente comune, quella che non aveva niente da perdere, a rimettere in piedi l’Italia, mattone dopo mattone, con le unghie e con i denti. Senza aspettare che lo facessero i politici, già anche allora impegnati a spartirsi le poltrone, a costruire nuovi castelli di sabbia sulle macerie del vecchio mondo.

Chissà se serve davvero una nuova catastrofe per ritrovare quell’istinto di comunità, quel senso del noi che sembra ormai sepolto sotto tonnellate di individualismo e rancore. Sì… forse, semplicemente, abbiamo dimenticato troppo in fretta cosa significa aver fame, cosa significa non avere niente e dover costruire tutto. E soprattutto, cosa significa alzarsi insieme per cambiare le cose, non per interesse, ma per dignità.

Comunque, domani vi racconto la storia di cui vi ho accennato, vedrete… resterete senza parole.

Mafia e antimafia, tra riforme e passi indietro! – Parte Finale

Sono giunto alla fine di questa “mini-serie” sulla giustizia, e vorrei concludere riepilogando con precisione ciò che accade a chi, armato di coraggio, prova a denunciare.

Come già accennavo ieri, la “Legge Cartabia” ha finito per scoraggiare chiunque avesse presentato un esposto, anche se spesso, più per motivi profondamente personali che per fare il proprio dovere di cittadini. Ora che la riforma impone di procedere solo tramite formale querela, molti hanno preferito ritirarsi, lasciando che il sistema li inghiottisse nel silenzio.

Alcuni mesi fa, mi trovavo in Tribunale a Messina come teste per la procura, e prima del mio intervento erano in calendario ben sette processi. Pensavo sarebbe stata una lunga attesa, che avrei impiegato almeno tutta la mattinata. Invece no. Il giudice apriva il dibattimento, chiamava i testimoni, e puntualmente gli avvocati comunicavano la rinuncia dei loro assistiti. Non è successo una volta, ma tutte e sette. In mezz’ora, ero già seduto per testimoniare.

Una dimostrazione lampante di come questa legge non serva a ridurre i processi, ma a farli evaporare prima ancora che inizino.

E poi c’è l’altro aspetto, quello più logorante. Quando denunci qualcosa che non ti riguarda direttamente, quando provi a fare la tua parte, il sistema ti accoglie con una serie infinita di intoppi.

L’udienza slitta di sei mesi per l’agenda del giudice, l’avvocato della difesa non si presenta bloccato in un altro tribunale. La volta successiva: il PM è assente per un “impegno istituzionale”. Poi tocca agli scioperi – prima i magistrati, poi i legali e infine gli uscieri – e quando finalmente sembra tutto a posto, l’imputato gioca la carta del “malore improvviso” e il processo si blocca di nuovo.

Nel frattempo, nessuno ti avvisa che l’udienza è saltata. E così, chi ha cercato solo di fare il proprio dovere, si ritrova a perdere tempo e denaro. Perché magari ha preso un aereo, essendo per lavoro in un’altra regione o addirittura all’estero. E lo Stato? Non ti rimborsa nulla. O meglio, mi dicono che puoi chiedere qualcosa per il biglietto del treno, rigorosamente di seconda classe.

Negli Stati Uniti, se grazie a una denuncia lo Stato smaschera una frode, chi ha contribuito viene premiato con una percentuale del recupero. Da noi, invece, sei tu a pagare. Sempre!

È comprensibile, allora, che chi ha già vissuto questa tortura preferisca rinunciare in partenza, evitando di riviverla. E così, l’illecito che avrebbe potuto essere fermato, prosegue indisturbato, mentre il sistema fa di tutto per scoraggiare chiunque provi a cambiare le cose.

Denuncia! È questo il mantra che ci ripetono in coro, dal Presidente della Repubblica all’ultimo funzionario di periferia. Peccato che nessuno di loro, quando si tratta di circostanze che non li riguardano personalmente, abbia mai avuto il coraggio di farlo davvero. Nessuno ha mai sacrificato un briciolo della propria comoda posizione, figuriamoci la carriera.

Basterebbe guardarsi intorno per capire come funziona questo sistema malato. Basterebbe ascoltare le inchieste giudiziarie che ci vengono vomitate addosso ogni giorno, con nomi e cognomi di politici inquisiti, coinvolti, condannati. Eppure, stranamente, eccoli lì, sempre gli stessi, che risorgono come zombi, pronti a riprendersi il loro posto come se nulla fosse.

È questo il Paese che abbiamo. Un Paese che non merita cittadini onesti, perché li schianta, li logora, li umilia. Un Paese che, per andare avanti, ha bisogno dei soliti meschini personaggi, quelli che da decenni si aggrappano alle poltrone e non hanno intenzione di mollare. Perché qui, chi denuncia perde. Chi tace, invece, sopravvive. E chi dovrebbe cambiare le cose, è troppo occupato a garantirsi l’immunità.

E allora, mi rivolgo ora a voi, cari Procuratori, con cui ho aperto questa serie di interventi – e permettetemi, in questa sede, di aggiungere due nomi che stimo profondamente: Nicola Gratteri, oggi Capo della Procura di Napoli, e Raffaele Cantone, alla guida della Procura di Perugia. A voi, che siete la parte sana del Paese, voi che ogni giorno sfidate questo sistema marcio, pongo una domanda semplice, ma straziante nella sua ovvietà: perché mai qualcuno dovrebbe ancora provarci?

Perché dovrebbe presentarsi in procura, denunciare alla Dia, segnalare alla Finanza, quando poi si ritrova solo contro un sistema che lo punisce per il suo coraggio? Quando scopre che i potenti indagati hanno più diritti dei cittadini onesti? Quando si accorge che i reati spariscano come neve al sole tra rinvii, prescrizioni e cavilli procedurali, ma anche quando alla fine si riesce a giungere ad una condanna?

Già… perché dovrebbe credere in uno Stato che, quando va bene, lo ignora, e quando va male, lo punisce per aver osato disturbare?

Voi lo sapete meglio di chiunque altro quanto costa, in termini di coraggio e solitudine, alzare la mano e dire “basta”. Eppure, nonostante tutto, continuate a farlo. Ma ditemi: quanti ancora resisteranno, prima di capire che qui la giustizia è un lusso, non un diritto? Quanti cittadini perbene dovranno sbattere la faccia contro questo muro di gomma, prima che qualcosa – finalmente – si rompa?

Con affetto (e molta amarezza),
Nicola Costanzo

P.S. Questo non è un addio, ma un invito a non arrendersi. Sappiate che non sarete soli in questa battaglia: finché ci sarà anche solo uno di voi disposto a lottare, troverete sempre persone come il sottoscritto al vostro fianco. Perché la speranza, quando diventa collettiva, smette di essere un’illusione e diventa un’arma!

Mafia e antimafia, tra riforme e (aggiunge il sottoscritto: ‘troppi’) passi indietro! – Quarta parte.

Eccoci qui, al penultimo atto di questo viaggio attraverso i meandri di mafia, antimafia e riforma giudiziaria. Ora, come promesso, parliamo di chi, come me, non abbassa lo sguardo davanti alle verità più scomode, quelle che bruciano, quelle che fanno girare la testa a tanti, ma che alla fine tutti noi, volenti o nolenti, ci ritroviamo a ingoiare…
E permettetemi di essere chiaro: urlare per un torto subìto in prima persona è una cosa, ben altra è alzare la voce per chi non ti ha mai fatto nulla di personale, ma opera in quell’ambiente che dovrebbe essere la casa della giustizia. Parlo di chi siede nelle istituzioni. Di chi fa politica. Di chi riceve incarichi dai Tribunali a nome dello Stato. Di chi dirige enti, associazioni e dovrebbe vigilare ed invece copre raggiri, truffe, soldi pubblici sperperati.

Ed allora: A chi giova questo silenzio? A chi conviene che i Tribunali continuino a nominare gli stessi nomi che, come dimostrano gli scandali di questi anni, persino di questi giorni, sono intrecciati a collusioni e corruzione? A chi serve un’antimafia che abbaia ma non morde? Chi ci guadagna da un sistema clientelare, tentacolare, radicato, che tiene in piedi la politica col voto di scambio e si nutre della criminalità attraverso appalti, concessioni, finanziamenti?

E qui arriva il punto. Il problema non sono solo i corrotti. Il vero cancro è chi, in questi anni, non ha voluto o saputo fare leggi serie, permettendo alla corruzione di diventare sistema. Un sistema in cui il silenzio è omertà. Dove nessuno denuncia, perché denunciare significa sfidare un meccanismo che ti schiaccia.

Difatti… cosa succede quando qualcuno prova a fare il proprio dovere? Prendiamo il caso di chi ricopre incarichi dirigenziali, con responsabilità civili e penali che potrebbero costargli la libertà. Fintanto che un dipendente o professionista non deve rispondere personalmente, su aspetti tecnici, amministrativi, di sicurezza sul lavoro, ambientali o gestionali, potrei ancora comprendere (senza però giustificare…) quel voltarsi dall’altra parte. Quel fare finta di non vedere. Ma quando uno risponde in prima persona, quando mette a rischio non solo il posto ma la propria libertà, senza essere nemmeno l’amministratore della società, allora la domanda sorge spontanea: perché? Perché accettare di diventare complici, quando tra l’altro non si riceve nulla in cambio? Quando l’unica ricompensa è soltanto la possibilità di continuare a lavorare?

È pura follia? O forse no. Forse è l’effetto di quel meccanismo perverso di sottomissione al datore di lavoro, soprattutto nelle aziende private gestite con metodi patriarcali. Ancora peggio quando l’impresa è legata a doppio filo alla criminalità organizzata, quando quei soldi che circolano sono capitali riciclati, quando quel sistema può contare su dirigenti e funzionari pubblici compiacenti, pronti ad aprire le porte ad appalti milionari. E così il cerchio si chiude. La stessa persona che dovrebbe vigilare, che ha responsabilità penali, che potrebbe perdere tutto, tace. Per paura? Per convenienza? Per quel senso distorto di lealtà che trasforma dipendenti in complici? Intanto, il meccanismo continua a macinare vittime e profitti. E la mafia ringrazia.

E quel dipendente o professionista che ha denunciato? Che fine fa? Diventa un sopravvissuto. Un fantasma professionale. Inizialmente, molte di queste imprese, se il soggetto non si è già esposto pubblicamente, non hanno un sistema di selezione abbastanza sofisticato da individuare certi difetti caratteriali. Non cercano coscienze, cercano esecutori. Così, all’inizio, quel professionista viene assunto. Poi, gradualmente, emerge la verità: quel soggetto non è disposto a mediare. Non chiuderà gli occhi davanti a fatture truccate, a materiali scadenti, a norme di sicurezza ignorate, a gestione rifiuti taroccate. Non diventerà complice di quel gioco sporco che l’impresa, o meglio, quel fantoccio amministrativo messo lì dalla criminalità organizzata, considera normalità.

E allora scatta la trappola. Se il dipendente o professionista ha la fortuna, o la sfortuna, di non avere disperato bisogno di quel lavoro, può fare ciò che ho fatto io più volte: guardarli negli occhi e mandarli a fanculo. Ma non prima di aver denunciato tutto. Documenti alla mano. Prove inconfutabili. Peccato che, per quanti non hanno la forza di resistere a quel sistema colluso, si ritrovino, dopo aver provato a compiere il proprio dovere, ad essere neutralizzati. Già… le denunce finiscono in un cassetto, i procedimenti si arenano e intanto, quel professionista scomodo viene marchiato come problematico, poco flessibile, non un team player. La sua carriera si inceppa. Le porte si chiudono…

Già, è così che funziona a chi svolge l’incarico di professionista, un po’ meno problemi hanno coloro che svolgono la loro funzione da dipendenti, perché quest’ultimi possono sempre trovare un’impresa, se non nella propria terra, certamente in qualsivoglia altra regione del paese o ancor meglio all’estero. E così tutto prosegue indisturbato. Da una parte, l’impresa criminale che continua a operare, protetta da una rete di connivenze, dall’altra, chi ha provato a rompere il muro dell’omertà e si ritrova solo, con un futuro professionale in frantumi o lontano dove non può dare fastidio…

Eppure, qualcuno continua a denunciare. Non per dignità o per rabbia, ma per quel senso del dovere che neanche questo sistema marcio può riuscire a cancellare. La domanda che in questi anni mi sono chiesto – sia come associato di alcune note associazioni di legalità, ma anche come delegato per la provincia di Catania di una di esse – è: quanto ancora resisteremo prima che l’antimafia smetta di essere uno slogan e torni a essere una battaglia?

E allora veniamo al punto cruciale: cosa succede davvero quando si denuncia? Soprattutto oggi, con la tanto celebrata riforma Cartabia che doveva cambiare le regole del gioco? Perché qui, vedete, il paradosso è atroce. Tu denunci. Metti a repentaglio la tua carriera, la tua tranquillità, a volte la tua sicurezza personale. Lo fai credendo nello Stato, nelle istituzioni, in quella giustizia che dovrebbe premiare chi ha il coraggio di dire basta. E invece ti ritrovi solo. Sempre!

La riforma prometteva tempi più celeri, maggiori tutele per chi denuncia. Ma nella realtà? I processi continuano a durare anni. Le indagini si impantanano. Le prescrizioni fioccano. Intanto, chi ha denunciato viene emarginato professionalmente. Già, non è un team player. Subisce ritorsioni sottili ma devastanti. Mobbing, demansionamento. Attende i tempi di una giustizia in un limbo che logora l’anima.

Mentre tutti gli altri? Quelli che partecipano, che si fanno corrompere, che svendono la loro dignità, o nei migliori casi, si fanno i cazzi loro e girano la testa dall’altra parte. Quei corrotti che continuano a prendere mazzette. Quelle loro amiche imprese opache che continuano ad aggiudicarsi gli appalti, e poi cercano, attraverso subappalti o pseudo noli a caldo o freddo, quelle imprese che eseguono per conto loro i lavori appaltati. E i funzionari collusi che dovrebbero controllare? Lasciamo perdere… non solo restano al loro posto, ma con il tempo vengono pure promossi.

Riassumendo, il sistema ha una perfezione diabolica. E difatti: chi denuncia paga subito. Chi è denunciato paga forse anni dopo, se mai pagherà. E la riforma Cartabia? A parole, un passo avanti. Ma nei fatti i tempi processuali restano biblici. Le tutele per i whistleblower sono più teoriche che pratiche. L’impunità di sistema non viene minimamente scalfita.

Io continuerò a denunciare, lo sapete. Ma ditemi: quando realizzeremo che uno Stato che non protegge davvero chi denuncia è uno Stato che, di fatto, tutela i corrotti? Perché alla fine, il messaggio in ogni territorio è sempre lo stesso: fatti i fatti tuoi, abbassa la testa, tanto non cambia nulla.

E chi non ci sta? Quello paga. Sempre. E il peggio? Che tutti lo sanno, ma fanno finta di non sapere.

Se il direttore dei trasporti c’è solo sulla carta, chi risponde davvero?

Negli ultimi anni, c’è una figura professionale che più di altre mi fa riflettere, e non in senso positivo…
Parliamo del “direttore dei trasporti”, un ruolo che dovrebbe essere svolto con massima cura e competenza, ma che troppo spesso viene trattato come una formalità, una semplice voce da inserire in un organigramma. Eppure, le responsabilità legate a questo incarico sono enormi, sia dal punto di vista penale che in termini di sicurezza e rispetto delle normative.

Alcuni dei miei lettori – quelli per i cui uffici passano quotidianamente dossier ben più corposi di questo – mi perdoneranno se sorvolo su certe dinamiche, del resto, se fossero davvero un mistero, non ci sarebbe nemmeno bisogno di parlarne, come d’altronde mi spiace dover deludere chi magari vorrebbe un discorso edulcorato, ma stasera non ho intenzione di girare attorno al problema.

La realtà è che molti di coloro che ricoprono questo ruolo lo fanno in modo superficiale, senza alcun reale interesse o competenza. Spesso vengono nominati solo per rispettare un obbligo di legge, senza possedere un contratto regolare e ancor meno una retribuzione adeguata, ma soprattutto senza la consapevolezza di ciò che quell’incarico comporta.

È come se quella figura del direttore dei trasporti fosse ridotta a un mero timbro, una firma su un documento, mentre tutto il resto viene gestito in modo approssimativo, quando non del tutto negligente.

E qui si aprirebbe un capitolo infinito sulle mancanze, sulle omissioni, sulle pratiche scorrette che si ripetono giorno dopo giorno. Ma non servono pagine e pagine di esempi per capire che il problema esiste ed in taluni casi è sistemico.

Chi dovrebbe vigilare, chi dovrebbe garantire che tutto funzioni come previsto, spesso chiude un occhio, o peggio, contribuisce a questo circolo vizioso, eppure, basterebbe un minimo di serietà, di controllo, di rispetto per le regole, per evitare conseguenze disastrose.

Per questo mi rivolgo a chi, più o meno consapevolmente, si trova a ricoprire questo ruolo senza averne piena cognizione. Le conseguenze di una gestione negligente possono essere gravissime: da sanzioni amministrative a veri e propri reati penali, a seconda della gravità delle violazioni.

E non si tratta di ipotesi remote. Pensate a un incidente mortale causato da un veicolo mal mantenuto, a uno sversamento di materiali pericolosi che inquina l’ambiente, a frodi fiscali legate alla gestione dei trasporti. In tutti questi casi, il direttore dei trasporti potrebbe finire nel mirino della giustizia, accusato di omicidio colposo, reati ambientali o evasione fiscale.

E non è tutto. La responsabilità non si limita alle proprie azioni, ma si estende anche a quelle di chi lavora sotto la sua supervisione. Se un dipendente commette un illecito, il direttore potrebbe essere chiamato a risponderne, soprattutto se non ha adottato le necessarie misure preventive. Insomma, un ruolo che dovrebbe essere sinonimo di garanzia e sicurezza, troppo spesso viene svuotato di significato, con il rischio – di trasformarsi in un boomerang – che ritorna su se stesso.

Alla fine, ciò che emerge è un quadro desolante. Il direttore dei trasporti dovrebbe essere una figura chiave, un garante della legalità e della sicurezza. Invece, troppo spesso è solo un nome riportato su un foglio, un incarico svolto con sufficienza, senza alcun minimo processo di qualità, anche se non obbligatoriamente certificato. E il risultato? Un sistema che funziona male, che mette a rischio vite umane, che alimenta illegalità e inefficienza.

La domanda è: per quanto ancora si potrà andare avanti così?

La Mafia? Non spara più, ma rilascia fattura…

Già, la mafia non spara più come una volta, ma uccide ancora, silenziosamente, con metodi meno appariscenti eppure infinitamente più devastanti.
Uccide le imprese oneste, strangola l’economia reale, soffoca lo sviluppo di intere comunità, impedendo che il merito possa aprire la strada a chi lavora con dignità e trasparenza .

E mentre molti si compiacciono del fatto che non si vedano più sparatorie per strada, non si accorgono che il cancro si è semplicemente spostato dentro i bilanci delle aziende, nei bandi d’appalto, nelle assunzioni pilotate, negli appalti truccati…

La mafia di oggi non ha bisogno di mostrare la pistola, perché ha imparato a indossare la giacca, a parlare con tono pacato, a firmare contratti, a sedersi ai tavoli delle trattative dove si decidono investimenti milionari.

Il suo restyling non è purificazione, ma travestimento!

Si è ripulita in superficie, ha cancellato l’immagine cruenta del passato, ma dentro continua a marcire dello stesso veleno che da decenni corrompe le coscienze, piega le volontà, comprime la libertà.

Parliamo di un’infezione che non ha mai smesso di diffondersi, anzi, si è adattata, ha mutato forma, infiltrandosi nel tessuto produttivo del paese con una capacità di mimetismo impressionante.

Non urla più minacce al telefono, ma impone condizioni attraverso intermediari rispettabili, uomini di fiducia che operano all’ombra di società regolari, cooperative modello, consorzi virtuosi.

E così, mentre le forze dell’ordine celebrano arresti importanti, la rete continua a espandersi, silenziosa, capillare, radicata in ogni settore che genera reddito e influenza.

Basti pensare alla provincia di Trapani, dove anche dopo la cattura di Matteo Messina Denaro, non si è affatto spenta la presenza mafiosa, al contrario, negli ultimi nove mesi la procura nazionale ha emesso settanta misure interdittive antimafia, un numero che non lascia spazio a illusioni: la mafia non è sconfitta, si è riorganizzata.

La mafia è ovunque, in particolare nei cantieri, nei centri logistici, nelle strutture ricettive, nelle filiere agricole, nei progetti energetici, portando con sé quel sistema di potere parallelo che decide chi lavora, chi vince gli appalti, chi viene escluso.

Ma d’altronde il legame con certi segmenti del potere politico e istituzionale non si è mai spezzato, anzi, si è fatto più sottile, più difficile da individuare, ma certamente solido e sono proprio quei referenti istituzionali a farsi promotori delle collusioni e di quel diffuso malaffare.

La Commissione d’inchiesta sulla mafia e la corruzione lo ha ribadito con chiarezza: la mafia, da nord a sud, ha sempre avuto una particolare abilità nel penetrare l’economia locale e difatti non si limita a estorcere, ormai produce, gestisce, investe, ricicla, già… si presenta come imprenditore serio, attento alle normative, sensibile all’ambiente e al territorio.

Ma dietro quei bilanci in ordine, dietro quelle certificazioni ambientali, dietro anche quelle donazioni benefiche sociali, si nasconde un vero e proprio sistema di controllo basato sul clientelismo, favoritismo, costrizione e compravendita del voto.

E ciò che rende tutto ancora più grave è che questa presenza non è più percepita come anomalia, ma è spesso vista come normalità, quasi una condizione inevitabile per sopravvivere in certi contesti.

Perché sono tanti, troppi, coloro che accettano quel sottobosco di vantaggi immorali: la bustarella mensile, il posto di lavoro garantito a un parente senza titoli, l’appalto assegnato senza gare vere, la protezione contro le ispezioni.

E ogni volta che qualcuno accetta un privilegio illegittimo, anche se lo fa per disperazione o per paura, diventa complice inconsapevole di un sistema che soffoca il futuro.

Ho letto in questi giorni quanto riportato dell’ex presidente della Commissione Cracolici che ha colto nel segno quando ha dichiarato: i mafiosi temono due cose, la galera e la perdita del patrimonio, certo, ma soprattutto temono di perdere la reputazione.

Perché la loro forza non sta soltanto nel denaro o nell’intimidazione, ma nella credibilità sociale che riescono a costruirsi. Sono considerati uomini di parola, imprenditori capaci, benefattori del paese, mentre in realtà sono accumulatori di potere illegittimo, che usano la legalità come maschera per perpetuare il dominio.

Ed è proprio qui che risiede il pericolo maggiore: quando la mafia non viene più vista come nemica, ma come parte integrante del sistema, quando il cittadino comune smette di indignarsi e comincia a dipendere dai suoi meccanismi perversi!

Ed è per questo che combatterla richiede molto più delle retate o dei processi, sì… richiede di una rivoluzione culturale che finora non c’è stata, di un rifiuto netto e quotidiano ad ogni compromesso, di una necessaria educazione alla legalità che parta dalle scuole, ma soprattutto si sviluppa dalle famiglie e nei luoghi di lavoro.

Perché finché ci sarà qualcuno disposto a scambiare la propria dignità con un vantaggio effimero, la mafia continuerà a respirare, a crescere, a prosperare.

Ma soprattutto, finché la società civile non farà sentire forte e chiaro il proprio “NO”, essa resterà viva, non nelle strade, ma nei palazzi, nei conti bancari, nei progetti che dovrebbero servire il bene comune e invece alimentano quel loro impero di falso progresso

Finchè non estirpiamo questo marciume, non ci sarà  futuro per il Paese.

C’è qualcosa di profondamente malato nel modo in cui il potere si muove, qualcosa che va ben oltre la corruzione occasionale e che affonda le sue radici in un sistema costruito per proteggere se stesso e i suoi protagonisti. 

Osservate con attenzione tutti quei politici che all’improvviso decidono di dimettersi, quasi sempre poco prima che emergano notizie poco piacevoli sul loro conto, noterete come il più delle volte, non si tratta di vere rinunce ma solo di manovre preventive, una sorta di passo indietro calcolato per non bruciare definitivamente la propria immagine e lasciare aperta una porta da cui rientrare quando l’attenzione si sarà spostata altrove. 

A questi soggetti si sommano poi tutta una serie di imprenditori che, pur essendo sotto inchiesta (o addirittura esser stati già condannati…), continuano a vincere appalti pubblici, aggiudicandosi commesse milionarie come se nulla fosse. 

Tutti sanno, ma nessuno fa niente! Le Istituzioni tacciono, chi dovrebbe vigilare sembra guardare da un’altra parte e alla fine ci ritroviamo a parlare di quei meschini impiegati pubblici, “infedeli”, che compaiono puntualmente nelle liste dell’agenda di quell’imprenditore che ogni mese si premura di far arrivare a ciascuno la sua bustarella.

Questo non è frutto del caso, né tantomeno di singole deviazioni morali. No, è qualcosa di più strutturato, un meccanismo perverso e perfettamente oliato dove politica e alcuni pezzi dello Stato si intrecciano in un gioco sporco che ha poco a che fare con il bene comune e molto con l’arricchimento di pochi. 

Pensiamo ai casi recenti: politici indagati per associazione a delinquere, voto di scambio, tangenti, truffa, turbativa d’asta. Sono centinaia i nomi coinvolti, eppure molti di loro occupano ancora ruoli di potere, altri gestiscono affari con la stessa naturalezza di sempre, distribuendo incarichi e favori ai loro fedelissimi. 

La cosa più assurda non è neanche il fatto che siano finiti nei guai, quanto il modo in cui il sistema reagisce al loro allontanamento apparente. Si crea immediatamente un vuoto che viene colmato da altri imprenditori con interdittive alle spalle, da funzionari infedeli che ormai da anni alterano gare d’appalto senza mai essere fermati, cui seguono assessori che fanno da ponte tra soldi pubblici e interessi privati.

E quando finalmente qualche inchiesta giudiziaria comincia a scoperchiare il vaso, ecco che improvvisamente arrivano le dimissioni, sempre motivate da ragioni personali o familiari. Una commedia all’italiana, recitata così tante volte da aver perso ogni credibilità. Ma quanti sono realmente caduti in disgrazia? 

Quanti hanno davvero pagato per i loro errori? Ormai da oltre trent’anni assistiamo a questa sceneggiata, riproposta in ogni città, in ogni regione, come se fosse diventata la regola e non l’eccezione. Non si tratta più di singoli episodi isolati, ma di un vero e proprio metodo, consolidato nel tempo e ormai radicato nella nostra quotidianità.

L’imprenditoria malsana, quella che negli anni abbiamo visto sfilare in televisione, sui giornali e sui social, non ha servito soltanto la criminalità organizzata, ha altresì alimentato anche quel pezzo dello Stato che avrebbe dovuto controllarla. 

Funzionari, dirigenti, politici che invece di vigilare sono diventati complici, garantendo che il flusso di denaro e soprattutto i favori non si interrompessero mai. Un circolo vizioso in cui la politica si nutre di affari sporchi e gli affari sporchi si nutrono della politica, in un abbraccio mortale che strangola ogni possibilità di cambiamento.

Allora chiedo: chi mai potrà smantellare questo meccanismo? Se la politica continua a perseguire i propri interessi opachi, gli scandali che leggiamo ogni giorno saranno semplicemente fuochi di paglia, destinati a spegnersi senza lasciare traccia. 

La corruzione non è più un incidente di percorso, è diventata strutturale, quasi inevitabile. È come un cancro che si autoalimenta grazie a politici corrotti finanziati da imprenditori poco puliti o legati alla criminalità, i quali a loro volta chiedono favori a burocrati che, in cambio della carriera, chiudono entrambi gli occhi.

Ma una speranza c’è. Forse dobbiamo tornare a quel momento storico del 1945, quando il Paese, dopo anni di guerra e umiliazioni, seppe rialzarsi, capì che era necessario ricostruire tutto, partendo da zero e abbandonando il marciume del passato. 

Solo così potremo sognare un’Italia diversa, equa, senza diseguaglianze, senza ladri nascosti dietro poltrone istituzionali. Dobbiamo trovare il coraggio di estirpare questa malattia, di liberare il Paese da chi lo sta soffocando, perché solo eliminando il male alla radice potremo sperare di riavere un Paese degno di essere chiamato tale.

L'Abuso che nasce dalla fiducia: Quando la collaborazione diventa tradimento.

La prestazione d’opera – quel rapporto anche di fatto – diventa l’occasione e la ragione di quello possessorio proprio lì, in quel legame apparentemente innocuo, in quella collaborazione di fiducia nata sì… per esigenza, ma perché imposta dalla normativa vigente. Ed è qui che ahimè si annida il pericolo più subdolo: quell’incarico professionale che si trasforma in un’arma silenziosa protetta dall’ipocrisia, dall’omertà e ancor peggio…dal compromesso!

Un’opportunità perfetta, sì, per chi sa scorgere nella vicinanza la chiave dei propri fini illeciti. Così comincia il gioco: un incarico formale, un sorriso rassicurante, una stretta di mano che sigilla promesse di perfezione. 

Ma sotto questa patina di correttezza pulsa una realtà ben diversa, perché l’uomo in malafede conosce un segreto crudele: la fiducia è la serratura più facile da scassinare!

Documenti, fondi, rapporti riservati, tutto gli viene consegnato con ingenua solerzia. La prestazione d’opera si trasforma così nel pretesto perfetto, nella maschera più convincente. È l’ombrello sotto cui nascondere movimenti nell’ombra, appropriazioni indebite, distrazioni di somme, manipolazioni calcolate. Una frode che avanza al ritmo regolare di chi sa di poter essere al sicuro – perché quando sei “quello di fiducia“, chi oserebbe controllarti e poi se chi controlla è anche partecipe all’inganno…

Il sistema si autoalimenta: complicità passive, silenzi interessati, occhi volutamente distratti, finché – improvviso – il crollo. Un coraggioso rompe il muro dell’omertà, porta alla luce vuoti contabili, incongruenze, scuse che ormai puzzano di menzogna. La sentenza di condanna arriva come un macigno: sì… quelle denunce secondo molti (per lo più gli stessi che si erano resi complici di quel malaffare o che auspicavano di ricevere da quel sostegno dato, chissà… qualche briciola) erano “fantasiose“, ma che – dalla sentenza pronunciata – si scopre essere una verità scomoda! 

Ed ora, già… ora quegli stessi complici si scoprono “vittime“, fingono stupore – “Come abbiamo fatto a non capire, a non vedere, come è stato possibile tutto ciò?” – quando invece… avevano scelto di non guardare!

La verità è cruda: ogni ignavo è complice! Ogni silenzio ha permesso all’illegalità di radicarsi. L’abusatore, certo, è stato abile: ha studiato mosse e contromosse, ha sfruttato ogni dettaglio, ha vestito il crimine con l’abito rassicurante della normalità. Ma la sua forza veniva principalmente dall’indifferenza altrui!

Ora la lezione è chiara: diffidare non basta. Occorre vigilare, controllare, ma soprattutto ricordare!

Perché ogni rapporto professionale porta in sé un paradosso: la fiducia è necessaria, ma può diventare il cavallo di Troia dell’inganno. Riconoscere i segnali  e soprattutto – gli ipocriti sostenitori del sistemi – non è cinismo: è l’unico vaccino contro danni irreparabili. 

Il prezzo della legalità? L’eterna vigilanza!

Legalità in teoria, ma non in pratica: il paradosso delle regole aggirate.

Da un po’ di tempo in Sicilia ho come l’impressione che tutto proceda in maniera perfetta…

Già… scorgendo i quotidiani e/o le notizie sul web, occasionalmente mi ritrovo a leggere di qualche inchiesta giudiziaria, per lo più delle volte, gli argomenti trattano argomenti futili o certamente di poco conto.

Ed allora mi sono chiesto come fosse possibile che la regione che ha ottenuto i maggiori finanziamenti europei (sì perchè con 5,9 miliardi di euro, la Sicilia è prima tra le regioni italiane, seguita da Lombardia con €. 5,5 mld e Campania con €. 5,2 mld) e con una rete diffusa di appalti in corso (e in fase di progettazione) non sia più sotto le mire di quella ben nota organizzazione criminale.    

Ma soprattutto mi chiedo: come può essere che quell’intreccio da sempre indissolubile, tra mafia, economia e politica, abbia deciso improvvisamente di sciogliersi? 

Ed allora debbo credere che quanto avvenga sia soltanto di facciata, che si è semplicemente passati ad una modalità che potremmo definire accomodante e soprattutto “occultata“; si tratta semplicemente di operare in maniera celata, facendo in modo che ad aggiudicarsi gli appalti siano proprio quelle loro imprese affiliate…

E così una grossa fetta di quegli appalti finisce nelle loro tasche, soffocando di conseguenza, non tanto lo sviluppo della regione – che grazie ai miliardi pervenuti sta volando a gonfie vele – no… è in quel voler entrare a gamba tesa nell’economia e negli aspetti sociali che ahimè riesce a condizionare la vita di ciascun mio conterraneo.

Sì… vediamo saltuariamente alcuni colpi inflitti dalle forze dell’ordine e dalla magistratura, ma “cosa nostra” continua di fatto a rappresentare una minaccia persistente e in continua evoluzione. 

Peraltro, anche il più ingenuo cittadino ha compreso come quell’organizzazione mafiosa si dimostri abile nel reinventarsi e nel trovare nuovi spazi di azione evidenziando proprio in quei fondi del PNRR il loro interesse, infiltrandosi così nei gangli vitali del tessuto economico ed in quello politico-amministrativo.

Difatti, è proprio grazie a questi legami che si permette a quell’organizzazione di esercitare un controllo capillare sul territorio, sfruttando vecchie logiche e, al contempo, promuovendo nuovi referenti per gestire i suoi affari illeciti.

Qualcuno potrebbe obiettare che esistono i controlli, che vi sono norme da rispettare, che c’è un protocollo di legalità che sovrasta qualsivoglia procedimento. Ma quanto queste azioni risultino concrete, beh… è tutto da verificarsi. D’altronde, ditemi: chi controlla i controllori?

Affidarsi alle regole non è sufficiente!!!

 Il sistema – secondo il sottoscritto – risulta ancora troppo bypassabile. E se qualcuno fa finta di non averlo compreso, è solo perché gli fa comodo così!

Riflessione sul problema dello smaltimento dei rifiuti: un confronto tra Sicilia e altre regioni italiane.

Il recente intervento dei Carabinieri del Noe (Nucleo Operativo Ecologico) nelle province di Taranto, Matera e Cosenza ha riportato all’attenzione un problema che affligge da sempre il nostro Paese e, in particolare, la mia amata Sicilia: lo smaltimento illecito dei rifiuti, speciali e non.

L’operazione ha portato all’arresto di nove persone e al sequestro di oltre 4.000 tonnellate di rifiuti abbandonati in capannoni dismessi e aree agricole. 

Un’ennesima conferma di come il traffico illecito di rifiuti sia un fenomeno strutturato e organizzato, spesso gestito da vere e proprie associazioni criminali.

Ma questo caso non è solo la prova della gravità del problema ambientale in Italia. È anche l’occasione per riflettere sulle differenze di approccio tra le varie regioni nel contrastare questi reati.

In alcune zone del Paese, come quelle coinvolte in questa operazione, le forze dell’ordine e le procure dimostrano una capacità di intervento tempestiva ed efficace. In altre viceversa, come ad esempio la Sicilia, il fenomeno sembra affrontato,  con minore incisività. 

Troppe volte infatti, chi cerca di denunciare, si scontra con un apparato burocratico che, anziché proteggere, ostacola e ancor più scoraggia…. E così, chi con coraggio prova a fare la cosa giusta finisce per trovarsi solo, esposto a rischi e difficoltà.

All’estero, in Paesi come gli Stati Uniti, chi denuncia non solo è tutelato, ma può anche beneficiare di incentivi (economici) proporzionali al danno svelato: fino al 30% del valore recuperato, con cifre che possono arrivare a milioni di dollari. 

In Italia, invece, accade proprio l’opposto. Chi denuncia si ritrova spesso invischiato in procedimenti giudiziari interminabili, affronta rinvii infiniti e deve sostenere di tasca propria tutti i costi: viaggi, avvocati e soprattutto tempo perso. Tutto questo per aver fatto il proprio dovere di cittadino, senza alcun interesse personale, ma solo per difendere il bene comune.

Tornando quindi alla questione principale, la gestione illecita dei rifiuti segue un copione noto: i rifiuti “spariscono” nel nulla, smaltiti illegalmente per evitare i costi di un trattamento regolare. 

Questo sistema, da interessi finanziari illeciti, non solo devasta l’ecosistema, ma mette a rischio la salute pubblica e rafforza circuiti criminali che prosperano a scapito di tutti noi.

In Sicilia, il fenomeno è particolarmente diffuso, ma operazioni come quella in Puglia o in Campania sono alquanto rare. D’altronde, basti osservare tutte le testate di cronaca nel web per costatare come – in questi ultimi anni – le inchieste per questa tipologia di reato, si siano contate sulle punta di una mano…

Già… parliamo d’indagini che spesso si arenano di fronte a una rete di complicità e omertà che rende difficile individuare e perseguire i responsabili, in particolare quando quei soggetti sono fortemente legati alla criminalità organizzata o evidenziano di godere di protezioni politiche e ahimè, anche istituzionali…

Questo divario nell’efficacia dei controlli solleva un interrogativo: perché non adottare un approccio uniforme e coordinato su scala nazionale?

L’operazione dei Carabinieri del Noe, coordinata dalla Procura di Lecce, dimostra che contrastare il fenomeno è possibile, ma perché sia davvero efficace servono interventi costanti, non azioni sporadiche. È necessaria una strategia nazionale che rafforzi i controlli, aumenti le risorse per la tutela ambientale e, soprattutto, protegga e incentivi chi ha il coraggio di denunciare.

Lo smaltimento illecito dei rifiuti non è solo una questione ambientale: è un’emergenza sociale ed economica che richiede un impegno concreto da parte di tutte le istituzioni. 

La Sicilia, come altre regioni del Sud Italia, non può più permettersi di restare indietro in questa battaglia. È tempo di agire con la stessa determinazione dimostrata dai Carabinieri del Noe, per garantire un futuro più sostenibile e giusto per tutti.

Quando la mafia si insinua nei Comuni: il rischio di perdere lo Stato!

Il prefetto di Catania ha disposto, su delega del ministro dell’Interno, l’accesso ispettivo al Comune di Paternò per «verificare l’eventuale sussistenza di elementi concreti, univoci e rilevanti su collegamenti diretti o indiretti con la criminalità organizzata di tipo mafioso».

La Commissione si è insediata il 31 gennaio e, come previsto dal Testo unico sull’ordinamento degli Enti locali, dovrà concludere gli accertamenti entro un massimo di sei mesi. Questa indagine amministrativa è fondamentale per verificare se l’attività del Comune sia stata condizionata da interessi illeciti, minando la legalità e la trasparenza dell’ente.

Ciò che m’interessa evidenziare o quantomeno far comprendere è cosa significa, concretamente, un’infiltrazione mafiosa all’interno di un Comune!

Innanzitutto partiamo dal controllo del territorio attraverso la politica e la burocrazia…

L’inchiesta che ha portato all’accesso ispettivo parte da un’operazione condotta dai carabinieri nell’aprile del 2024, che ha fatto emergere presunte infiltrazioni mafiose nella gestione delle aste di terreni e immobili. Complessivamente, sono 49 le persone indagate, tra cui esponenti politici locali, imprenditori e affiliati a un clan mafioso.

Tra le accuse più gravi vi è lo scambio elettorale politico-mafioso, un meccanismo che consente ai clan di ottenere favori e potere all’interno delle amministrazioni pubbliche. Secondo l’accusa, in occasione delle elezioni comunali del 2022, sarebbero stati garantiti voti in cambio dell’assunzione di soggetti vicini alla criminalità organizzata in un’azienda che opera nel settore della raccolta e smaltimento rifiuti.

Comprenderete bene come un simile sistema non si limita a garantire il successo elettorale di determinati candidati, ma permette alla mafia di entrare direttamente nella gestione del Comune, influenzando appalti, assunzioni e decisioni strategiche.

Il vero pericolo si concretizza quando la mafia prende il posto dello Stato, controllando le istituzioni e spegnendo la democrazia.

Difatti, quando la criminalità organizzata riesce a infiltrarsi in un’amministrazione comunale, i danni per la comunità sono enormi e questi si manifestano ahimè su più livelli:

Innanzitutto ad essere distrutta è proprio la democrazia: il voto perde il suo valore reale e la rappresentanza politica viene distorta, favorendo solo gli interessi di gruppi criminali invece che quelli della collettività.

Ed ancora, una gestione illecita delle risorse pubbliche: i finanziamenti destinati al miglioramento dei servizi per i cittadini vengono dirottati per arricchire gruppi mafiosi e imprenditori compiacenti. Strade, scuole, servizi sociali vengono trascurati perché il denaro pubblico viene utilizzato per alimentare clientele e reti di potere.

C’è poi il condizionamento degli appalti pubblici: le gare d’appalto vengono pilotate per favorire aziende vicine ai clan, escludendo imprese oneste e creando un mercato drogato in cui a vincere non è chi offre il miglior servizio, ma chi è più vicino alla mafia. Questo porta a lavori di scarsa qualità e all’aumento dei costi per la collettività.

A ciò si aggiunge il sistema delle raccomandazioni e delle assunzioni pilotate, non solo nelle imprese affiliate, ma anche nel settore pubblico: quando i clan riescono a far entrare loro uomini negli uffici comunali o nelle società partecipate, hanno accesso a informazioni riservate, possono rallentare o favorire pratiche burocratiche e bloccare controlli su attività illecite. In questo modo, il Comune diventa un ingranaggio della macchina mafiosa.

Tutto ciò determina un’evidente crescita dell’illegalità e quando i cittadini vedono che le istituzioni sono controllate dalla mafia, aumenta purtroppo la sfiducia nello Stato e si rafforza l’idea che rivolgersi ai clan sia l’unico modo per ottenere favori, lavoro o sicurezza. 

Ed è questo che genera quel maledetto circolo vizioso in cui la mafia diventa sempre più forte e difficile da sradicare.

Ecco perché sono fondamentali le indagini condotte dalle forze di polizia, perché solo attraverso di esse si può cercare di ancora avere una forma di vigilanza democratica: denunciare, vigilare e pretendere trasparenza sono gli strumenti più potenti per difendere la nostra democrazia e impedire che il crimine organizzato soffochi il futuro delle nostre comunità.

Perché solo grazie alle verifiche condotte nei Comuni della nostra regione che si può tentare di comprendere se le amministrazioni sia realmente condizionate dalla criminalità organizzata e nel caso in cui emergessero elementi concreti, si potrebbe arrivare allo scioglimento dell’ente per infiltrazioni mafiose, come già avvenuto in passato in altri nostri comuni siciliani.

E quindi, se da un lato le istituzioni devono rimanere vigili per evitare che la criminalità si impossessi delle strutture pubbliche, dall’altro è fondamentale che i cittadini prendano coscienza della gravità del problema e pretendano trasparenza e legalità da chi governa le loro città. 

Solo così si può spezzare il legame tra mafia e politica e restituire ai comuni il loro vero ruolo: essere al servizio della collettività, e non di interessi criminali!!!

Come smantellare il modello operativo della criminalità organizzata?

Sì… per smantellare il modello operativo della criminalità organizzata, è necessario un approccio più articolato e soprattutto su più livelli. 
Innanzitutto, le forze dell’ordine debbono essere dallo Stato sostenute affinchè possano rafforzare le indagini per smantellare le strutture delle organizzazioni criminali e contrastare così tutte quelle attività ad alta priorità, mettendo in atto altresì la cooperazione transnazionale tra gli Stati membri dell’UE.

Un altro aspetto cruciale infatti riguarda l’eliminazione delle risorse finanziarie della criminalità organizzata! 

Bisogna colpire i profitti generati dai gruppi criminali attraverso il rafforzamento delle leggi sul sequestro e la confisca dei beni illeciti. Inoltre, un attento monitoraggio delle operazioni finanziarie consentirà di individuare e bloccare i flussi di denaro sospetti, prevenendo così il riciclaggio. E’ fondamentale la collaborazione con il settore privato, incluse banche e imprese, diventa quindi essenziale per intercettare transazioni anomale e spezzare i circuiti di finanziamento illecito.

Parallelamente, occorre prevenire l’infiltrazione della criminalità organizzata nell’economia legale. L’acquisizione di aziende in difficoltà da parte di gruppi criminali rappresenta una minaccia concreta e, per contrastare questo fenomeno, è necessario potenziare la vigilanza sugli investimenti sospetti e introdurre misure di supporto per le imprese in crisi, così da sottrarle all’influenza delle organizzazioni malavitose.

Un altro pilastro essenziale riguarda la protezione delle istituzioni e della società civile. 

La corruzione, strumento principale della criminalità organizzata, deve essere combattuta con politiche di trasparenza più rigorose, maggiore protezione per i whistleblower e controlli stringenti sui funzionari pubblici. Inoltre, diventa prioritario sensibilizzare la cittadinanza sui rischi della criminalità organizzata e promuovere una cultura della legalità, a partire dall’educazione nelle scuole, per giungere fin dentro le case degli italiani, attraverso messaggi in Tv per diffondere e incentivare l’assunzione di responsabilità del singolo verso la collettività .

Infine, l’uso della tecnologia rappresenta una leva strategica per il contrasto alla criminalità. L’intelligenza artificiale e le tecnologie avanzate offrono strumenti efficaci per individuare schemi di riciclaggio, monitorare il dark web e prevenire attacchi informatici. Le istituzioni devono investire in soluzioni digitali per migliorare l’efficienza delle indagini e garantire una risposta rapida ed efficace alle minacce emergenti.

Certo, la lotta alla criminalità organizzata richiede un grande impegno, coordinato e costante, già… non basta semplicemente perseguire i singoli reati:, ma occorre agire a livello strutturale per interrompere i flussi finanziari illeciti, rafforzare la trasparenza nelle istituzioni e impedire l’infiltrazione nell’economia legale.

Solo con un approccio sistemico e una forte cooperazione internazionale sarà possibile smantellare il modello operativo della criminalità organizzata e restituire ai cittadini quella fiducia e sicurezza, che oggi vedono ahimè molto distante.

Mi viene da piangere per il Procuratore Gratteri…

Non so voi, ma ogni volta che vedo in TV o leggo un articolo sul mio omonimo, il Procuratore Nazionale Nicola Gratteri, mi vien da piangere…

L’altra sera l’ho rivisto su La7 da Lilli Gruber, e ancora una volta ho provato un senso di amarezza profonda.

Penso a chi dedica la propria vita a questo Paese, rischiando tutto, e a chi invece non ha mai mosso un dito, anzi, fa carriera restando nell’ombra, seduto dietro una scrivania.

È così che funziona qui, ed è così che continuerà finché il sistema clientelare e giudiziario resterà colluso, legato a quelle correnti politiche che decidono chi deve avanzare senza merito e chi, invece – come Gratteri – deve essere ostacolato, quasi esiliato, solo perché fa bene il proprio lavoro.

Mi torna in mente la vicenda di Giovanni Falcone, ostacolato nella sua nomina a Consigliere Istruttore del Tribunale di Palermo. Oggi la storia si ripete con Gratteri, escluso dalla Procura Nazionale Antimafia perché non allineato a certe logiche di potere. Lo aveva già previsto, tanto da dichiarare in un’intervista: “Io lo sapevo, ma ho scelto di non iscrivermi a nessuna corrente. Non conosco nemmeno il 50% dei membri del CSM, non li riconoscerei per strada, perché non li frequento“.

Qualcuno ha deciso di sbarrargli la strada. Forse perché ha indagato troppo, su mafia, ‘ndrangheta, camorra… certamente più di tutti loro messi insieme. E questo ha dato fastidio.

Ora, da Procuratore di Napoli, si ritrova sotto attacco: un’inchiesta si sgretola, i reati vanno in prescrizione, le accuse si rivelano inconsistenti, il processo si chiude nel nulla. Con un costo umano, politico e istituzionale, altissimo.

E allora sì, mi viene da piangere. Perché vedo il silenzio della stampa – e chissà, magari qualcuno sotto sotto ride pure. Perché nessuno lo difende???

Certo, Gratteri è un uomo, può sbagliare. Uno, due, tre, quattro, cinque volte.

Ma finché continuerà a indagare con onestà, senza piegarsi a pressioni o interessi di parte, resterà una delle poche figure di cui questo Paese può ancora fidarsi. Ed io, pur comprendendo talune critiche giuste e forse anche costruttive, beh… come dicevo, preferisco sempre un magistrato che, ogni tanto, possa commettere un errore piuttosto che uno che non sbaglia mai… perché in malafede.

L'ombra della mafia sulle imprese e sui fondi pubblici

Mentre continua a gestire e ampliare i propri traffici illeciti, come droga, prostituzione, racket ed usura – tutti settori che generano enormi profitti – la mafia rivolge il suo interesse verso un obiettivo più subdolo e strategico: il controllo delle attività imprenditoriali attraverso il riciclaggio di denaro. Questo meccanismo non solo le consente di nascondere i guadagni illeciti, ma anche di consolidare il proprio potere economico e sociale.

Recentemente, durante la relazione di inaugurazione dell’anno giudiziario, il presidente della Corte d’Appello di Palermo, Matteo Frasca, ha lanciato un allarme chiaro: nonostante i colpi inferti negli ultimi anni, la mafia continua a essere una forza criminale attiva, con l’obiettivo di penetrare nell’economia legale e intercettare i fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr). Frasca ha sottolineato come la capacità della mafia di infiltrarsi sia strettamente legata alla persistenza di collusioni con settori politico-amministrativi, che fungono da ponte per il controllo del territorio e per l’accesso alle risorse pubbliche.

Un aspetto cruciale è rappresentato dalla capacità della mafia di rinnovarsi. Anche dopo arresti e processi che hanno decapitato i vertici delle organizzazioni, queste riescono rapidamente a ricostituire le proprie strutture di comando, mantenendo vive le regole mafiose tradizionali e trovando nuovi alleati per rafforzare la propria influenza.

Tra gli obiettivi principali dell’organizzazione spiccano le opere pubbliche realizzate sul territorio. Attraverso atti estorsivi, la mafia esercita pressioni su imprese affidatarie, fornitori e subappaltatori, sfruttando ogni opportunità per trarre vantaggi economici. Questo modus operandi non sarebbe possibile senza la complicità di imprenditori senza scrupoli, che accettano di collaborare con l’organizzazione criminale per ottenere favori o protezione, diventando parte integrante del sistema mafioso senza subirne direttamente le conseguenze.

Questa situazione richiede una risposta ferma e coordinata da parte della società civile, delle istituzioni e delle forze dell’ordine. Combattere la mafia significa non solo colpire i suoi esponenti principali, ma anche spezzare la rete di complicità e connivenze che ne garantisce la sopravvivenza.

Solo attraverso un impegno congiunto si potrà impedire che la mafia continui a infiltrarsi nell’economia legale, compromettendo il futuro di intere comunità. Il messaggio deve essere chiaro: non c’è spazio per chi antepone i propri interessi personali al bene comune.

La complicità dello Stato: un'illusoria lotta alla criminalità organizzata.

Stasera voglio riprendere un mio vecchio post del 2013. Sono passati 12 anni, ma nulla è cambiato. Anzi, molte cose sono peggiorate, forse troppe…
 
Lotta alla criminalità“. Quante volte abbiamo sentito questa espressione? Eppure, più che una lotta, sembra un’operazione cosmetica, utile a decorare discorsi preconfezionati durante campagne elettorali o celebrazioni ufficiali. Dietro queste parole non c’è la sicurezza dei cittadini, ma un teatrino politico in cui l’interesse reale è tutt’altro.

Ogni giorno, i notiziari riportano rapine, violenze, spaccio, estorsioni e altri crimini che, anziché diminuire, si moltiplicano. E lo Stato? Dove si trova quando la criminalità si evolve e cresce sotto i nostri occhi?

Si dice di non generalizzare, che lo Stato è presente e combatte. Ma i fatti dimostrano il contrario: le azioni si limitano a interventi sporadici, a operazioni dal forte impatto mediatico ma prive di un vero seguito. Nel frattempo, la criminalità si riorganizza, si insinua nei settori economici e istituzionali, trasformando il malaffare in sistema.

Dopo le stragi e le grandi operazioni di facciata, la lotta alla criminalità si è trasformata in compromesso. Non c’è prevenzione, non c’è visione strategica. L’impegno dello Stato sembra più mirato a gestire che a estirpare il problema, lasciando spazio a un sistema che ormai si nutre di collusioni, connivenze e silenzi.

Cosa serve davvero? Un sistema che prevenga il crimine prima che si manifesti? Un impegno reale nel sostenere le famiglie disagiate, educare i giovani, creare opportunità di lavoro? Pene certe, giuste e celeri, senza vie di fuga per i criminali?

Ma tutto questo rimane un miraggio, perché è qui che emerge la vera sconfitta dello Stato. La criminalità organizzata non è solo tollerata: in molti casi, è protetta. Esistono figure istituzionali che, dietro una maschera di rispettabilità, lavorano attivamente per mantenere intatto il sistema. Non per incapacità, ma per volontà.

Il punto più infame è proprio questo: lo Stato che dovrebbe combattere il crimine ne è spesso complice. Non solo con le sue omissioni, ma con le sue azioni. Chi è chiamato a rappresentare la legalità si piega a interessi privati, trasformando le istituzioni in strumenti di potere al servizio di pochi.

Il contrasto alla criminalità organizzata non è una priorità, ma una farsa. Perché cambiare lo status quo significherebbe colpire quegli stessi interessi che alimentano carriere politiche e arricchiscono chi, in teoria, dovrebbe difenderci. Fino a quando questo sistema resterà intoccabile, ogni discorso sulla lotta al crimine sarà solo una recita ben orchestrata.

Ed è questo il vero tradimento dello Stato verso i suoi cittadini: aver abdicato al suo ruolo di garante della giustizia, scegliendo di convivere con il male invece di combatterlo.

Criminalità giovanile: un futuro diverso è possibile se diamo ai giovani una vera alternativa.

Basta leggere qualsiasi studio sul fenomeno della criminalità per capire come i giovani siano i più vulnerabili a scivolare nell’illegalità. 

Le statistiche parlano chiaro: la delinquenza è più diffusa tra i giovani e raggiunge il picco tra i 20 e i 25 anni, per poi diminuire gradualmente con l’età. 

Questa tendenza evidenzia come l’attività criminale inizi spesso precocemente, alimentata dall’immaturità, dall’inesperienza e dalla difficoltà nel riconoscere i pericoli, inclusi i soggetti che spingono verso il malaffare.

I giovani, in questa fase della vita, sono più inclini a comportamenti impulsivi, ribelli e meno conformisti. 

Questi fattori, insieme a una maturità sociale non ancora pienamente sviluppata, contribuiscono a renderli più esposti alle attività illecite. Ed è proprio per questo che è essenziale intervenire: sostenere i ragazzi nel loro percorso di crescita psicologica e sociale è la chiave per allontanarli dalle lusinghe della criminalità.

Osservando in questi lunghi anni il mondo lavorativo posso affermare, senza alcuna incertezza, che i giovani coinvolti in attività criminali svolgano ruoli marginali, spesso i più rischiosi e facilmente identificabili, come furti o rapine. 

Al contrario, le attività criminali più sofisticate, come quelle nel mondo economico o ai vertici delle organizzazioni mafiose, sono riservate a chi ha raggiunto una posizione consolidata con l’età. Questo scenario rende ancora più urgente offrire ai giovani opportunità alternative che possano dare loro un senso di appartenenza e realizzazione senza dover ricorrere al crimine.

Laddove la disoccupazione e l’esclusione sociale sono più forti, l’adesione a una “cosca” spesso appare come l’unica via per ottenere promozione sociale e affermazione personale.

E allora, cosa possiamo fare? Lo Stato ha il dovere di offrire ai ragazzi percorsi di formazione, lavoro e crescita che li aiutino a dire “NO” alla criminalità, anche in contesti difficili. Dare loro una vera alternativa significa sottrarli alla morsa della criminalità organizzata, offrendo un futuro migliore non solo a loro, ma anche alla nostra società.

Se vogliamo davvero contrastare la criminalità giovanile, dobbiamo smettere con le chiacchiere sterili e investire seriamente in programmi che mettano i giovani al centro, perché ogni ragazzo salvato dal crimine è un passo verso una società più giusta e sicura per tutti.

AMMINISTRATORE GIUDIZIARIO ARRESTATO

Il tema degli amministratori giudiziari è stato affrontato più volte su questo blog (e non solo), con particolare attenzione alle modalità attraverso cui alcune imprese sottoposte a sequestro o confisca sono state, di fatto, gestite senza soluzione di continuità dalle stesse organizzazioni cui erano state sottratte.

E infatti, il nuovo procuratore capo di Messina, Antonio D’Amato, si è distinto, a differenza di altri colleghi che negli anni sembravano aver “dormito” o addirittura “celato” esposti ufficialmente protocollati. 

Ricordo a chi di dovere che tali esposti dovrebbero ancora trovarsi negli archivi del Tribunale e quindi nella disponibilità dei sostituti procuratori che potrebbero ora, finalmente, riprenderli in mano…

Per cui, grazie alle investigazioni condotte attraverso intercettazioni, monitoraggi e, pare, con il contributo di un collaboratore di giustizia, si è scoperto che questa situazione era resa possibile, secondo l’accusa, dalla complicità di un amministratore giudiziario.

Come spesso ripeto, l’antimafia, in questi lunghi anni, è servita a molti, specialmente a coloro incaricati di gestire beni e imprese confiscate. 

Ricordo che parliamo di un patrimonio immenso, spesso a scapito delle imprese stesse e dei loro titolari, sottoposti a provvedimenti interdittivi.

Basti pensare al caso di un magistrato, allora presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, finito sotto processo insieme ad altri imputati. Secondo l’accusa, quel magistrato avrebbe gestito i beni confiscati alla mafia in modo clientelare, creando un vero e proprio “sistema“. Al suo fianco agivano fedelissimi, tra cui commercialisti, professori universitari, amministratori giudiziari, uomini in divisa e persino familiari. Secondo i PM nisseni, questo gruppo rappresentava il “cerchio magico” del presidente.

Ma d’altronde è sufficiente recarsi in alcuni uffici per notare come tra i collaboratori vi siano professionisti, dipendenti e altre figure legate, in qualità di familiari, parenti o amici, a referenti istituzionali. Ed è per questi motivi infatti che questi ultimi, abitualmente, affidano loro quegli incarichi di gestione e amministrazione.

Nel caso specifico, l’impresa in questione era già stata destinataria di diversi provvedimenti giudiziari di sequestro e confisca, divenuti definitivi dopo procedimenti penali e misure di prevenzione. Tuttavia, nonostante l’amministrazione giudiziaria, secondo l’inchiesta in corso, l’impresa continuava a essere gestita dagli stessi soggetti interdetti. Questo sarebbe stato reso possibile grazie alla complicità dell’amministratore giudiziario, completamente asservito.

L’attività investigativa ha permesso di ricostruire il modus operandi degli indagati, finalizzato alla creazione di illeciti guadagni grazie alla complicità dell’amministratore giudiziario. Per tali motivi, il Giudice per le Indagini Preliminari, su richiesta della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Messina – Direzione Distrettuale Antimafia, ha applicato una misura restrittiva nei confronti dell’indagato.

Mi chiedevo – discutendo con un amico – come questa vicenda mettesse ora in evidenza un ulteriore paradosso: lo Stato, a seguito dell’arresto dell’amministratore giudiziario, si ritrova ora nella necessità di nominare un nuovo referente per la gestione dei beni sequestrati. Una situazione che non solo rappresenta un evidente fallimento del sistema, ma che getta un’ombra pesante sulle istituzioni, dimostrando come i loro stessi rappresentanti possano risultare altrettanto corrotti. La fiducia dei cittadini ne risulta gravemente compromessa, poiché ciò che dovrebbe essere garanzia di legalità si trasforma spesso in ulteriore occasione di abusi e malaffare!!!

La libertà di un Paese passa con il voto!

Purtroppo, nel nostro Paese, e in particolare nella mia regione, la Sicilia (ma potrei dire lo stesso per molte altre…), quel voto è diventato merce di scambio. Sì, principalmente per interessi personali!

Non dico che sia sbagliato esprimere una preferenza, ma quando ciò accade senza alcun senso di responsabilità o come mero atto di scambio, si finisce per tradire l’essenza stessa della democrazia. E allora, a che serve quella “X” nell’urna? A cosa porta, se non all’indifferenza generale verso i partiti, i candidati e, cosa ancora più grave, l’intero sistema Paese?

Si va avanti così, tra apatia e opportunismo, ignorando deliberatamente le conseguenze delle decisioni prese nei palazzi del potere. La politica diventa un campo sterile, dove tutto si riduce a un ciclo perverso: il cittadino baratta il proprio voto per un tornaconto personale, e in cambio alimenta un sistema corrotto che soffoca ogni possibilità di cambiamento.

Le cronache sono piene di scandali, inchieste e amministrazioni sciolte per infiltrazioni mafiose. È un copione tristemente noto: un “patto” elettorale tra candidati e criminalità organizzata, costruito sulla compravendita del consenso.

La criminalità utilizza metodi ormai collaudati: dal pagamento in contanti per ogni voto garantito, allo scambio in natura, come buoni spesa o favori lavorativi. A questo si aggiungono le pressioni esercitate da chi, con il ruolo di datore di lavoro, impone ai propri dipendenti una preferenza elettorale in cambio della promessa di sicurezza occupazionale.

È chiaro che il cosiddetto “voto di scambio” rappresenta un reato grave, codificato come scambio elettorale politico-mafioso, punito con pene dai 4 ai 10 anni di reclusione. Ma quanti candidati temono davvero questa legge? Quanti si preoccupano delle conseguenze? Pochi, pochissimi. Perché, in fondo, sanno di agire in un contesto dove la complicità e l’omertà garantiscono l’impunità.

Ed allora come possiamo invertire questa rotta?

Già… se vogliamo davvero spezzare questo circolo vizioso, servono non solo azioni concrete, ma un profondo cambio di mentalità:

Ad esempio, bisogna ripartire con l’educazione civica e la sensibilizzazione: Le scuole devono tornare a essere il luogo dove si educa al valore del voto come strumento di partecipazione e cambiamento. Solo cittadini consapevoli possono rifiutare le logiche corrotte.

Ed ancora è necessaria più trasparenza e soprattutto un corretto monitoraggio; ad esempio si possono rafforzare i controlli durante le campagne elettorali e garantire la trasparenza nei finanziamenti ai candidati e ai partiti.

Implementare eventuali sistemi di segnalazione anonima sia per chi subisce pressioni, ma anche per chi viene intimidito, affinchè quel voto risulti libero da coercizioni e grazie a questi nuovi meccanismi si riesca a proteggere gli eventuali denuncianti.

Ed ancora, pene più severe e certe, perché non basta che il reato esista soltanto nel codice penale e poi come vediamo spesso nessuno paga!!! E tempo che le pene vengano applicate con rigore, afficnhè la società civile possa esser pronta a chiedere conto ai responsabili.

Ed infine è necessario incentivare la partecipazione attiva!!! La politica non deve essere percepita come un mondo distante o corrotto, ma come uno strumento nelle mani dei cittadini. Favorire una maggiore partecipazione ai processi decisionali, attraverso piattaforme digitali o incontri pubblici, solo così si può far riscoprire il senso di appartenenza.

In definitiva, il voto non è solo un diritto: è un dovere morale verso noi stessi e le generazioni future.

Se continueremo a svenderlo al migliore offerente, tradiremo ogni speranza di riscatto per la nostra terra. Solo con un impegno collettivo e una rinascita della coscienza civile potremo davvero riconquistare quella libertà che oggi appare sempre più compromessa.

La corruzione: il male invisibile che permea tutto!

La corruzione è percepita come un fenomeno diffusissimo, in particolare nei grandi appalti pubblici, dove sembra essere una presenza storica e radicata. Ma non si ferma lì: investe i concorsi pubblici, la gestione delle carriere, e persino settori essenziali come la sanità e l’istruzione universitaria.

Per molti cittadini, è quasi una necessità: un “male utile” per ottenere servizi o avanzare in ambiti dominati da favoritismi e scorciatoie. Questa percezione non solo alimenta sfiducia e disillusione verso le istituzioni, ma normalizza la corruzione stessa, facendola sembrare inevitabile, un pezzo inscindibile della nostra vita pubblica e privata.

È qui che si nasconde il vero pericolo: accettare la corruzione come parte integrante della società significa rinunciare a combatterla. La consideriamo endemica, quasi genetica, quando in realtà essa prospera grazie all’indifferenza, all’omissione e, a volte, alla complicità.

E mentre il fenomeno cresce, cala la partecipazione attiva dei cittadini. Le piazze si svuotano. Le denunce diminuiscono. Sempre più persone vedono il whistleblowing non come un dovere civico, ma come un rischio personale e professionale. E così il silenzio diventa complice.

Pochi sono i coraggiosi che denunciano, che credono ancora nella giustizia e si impegnano a fare il proprio dovere. E difatti a dimostrazione di quanto detto, dove sono tutti gli altri? Già… ditemi, chi sono questi eroi che tanto parlano ma che poi di fatto sr rendono silenziosi? Sì… chi sono quei cittadini, politici, imprenditori o anche dirigenti e funzionari che alzano la voce contro la corruzione? Fatemi i loro nomi perché io non ne conosco!!!

La verità è amara: questo sistema corrotto fa comodo a troppi. È un male che non solo tolleriamo, ma a cui partecipiamo, attivamente o passivamente, affinché nulla cambi.

Ma possiamo davvero accettarlo? È così che vogliamo vivere, in una società che si arrende al marcio?

È tempo di guardarsi allo specchio e chiedervi se volete continuare ad essere ancora parte del problema o della soluzione. 

Il cambiamento parte da noi, dalla nostra volontà di dire “basta” e di agire, anche con piccoli gesti, per costruire un futuro libero da questa piaga.

Dove non c’è lavoro, c’è mafia! E dove c’è lavoro, ahimè, c’è sempre mafia: una riflessione sul rapporto tra disoccupazione e criminalità organizzata.

Non è rigidamente dimostrato che un aumento della disoccupazione comporti necessariamente una maggiore espansione della mafia e delle sue attività. 

Tuttavia, è innegabile che le sacche di emarginazione sociale favoriscano il reclutamento di manodopera per le organizzazioni mafiose.

La mafia, però, non si limita a sostituirsi allo Stato laddove questo è assente, già… attraverso il controllo di appalti e finanziamenti pubblici, offre lavoro come parte di uno scambio biunivoco: favori e complicità in cambio di quel “posto” che diventa un’arma di controllo sociale. 

Chi accetta un impiego in un sistema così corrotto viene poi abitualmente coinvolto, anche indirettamente, in dinamiche illecite. 

Si sa… questo sistema clientelare alimenta il silenzio, la complicità e persino il consenso elettorale in favore dei politici che hanno permesso l’aggiudicazione di quegli appalti o l’accesso delle imprese mafiose a risorse statali milionarie.

Il risultato finale è un tessuto lavorativo degradato, in cui anche la manodopera si adegua a logiche di collusione. 

Viceversa, chi si oppone a questo sistema viene emarginato, privato di opportunità o costretto a cercare altrove – spesso in altre regioni – uno spazio in cui può dimostrare la propria professionalità.

La mafia infatti prospera sfruttando non solo la disoccupazione, ma anche il lavoro stesso come strumento di controllo e sopraffazione. 

Le sue dinamiche alterano le regole della concorrenza, marginalizzano le imprese sane e costruiscono un sistema dove il capitale sporco si intreccia con il capitale “pulito”, contaminando l’economia e la società.

L’infiltrazione mafiosa non è mai neutrale: essa esporta violenza, corruzione e soprusi, alterando il mercato e alimentando una spirale di illegalità che danneggia l’intera collettività. 

È dimostrato che l’assenza di adeguati controlli sui flussi finanziari – come quelli legati a commesse pubbliche o grandi progetti infrastrutturali – non solo attrae le organizzazioni mafiose, ma spesso scatena conflitti interni e pericolose faide, con gravi ripercussioni sull’ordine pubblico.

Non significa che lo Stato debba rinunciare a creare lavoro nelle aree a rischio, tuttavia, è essenziale rafforzare le istituzioni per spezzare i legami tra mafia e pubblica amministrazione. 

Provvedimenti come lo scioglimento di consigli comunali infiltrati rappresentano un primo passo, ma servono azioni sistematiche e una rinnovata cultura della legalità per restituire dignità al lavoro e ai diritti di ogni cittadino.

D’altronde, come ripeto ormai da oltre 15 anni, la lotta alla mafia non può più limitarsi alla repressione, ma deve mirare a costruire un sistema in cui il lavoro non sia più strumento di ricatto e corruzione, ma un diritto libero e autentico che possa dare a tutti i cittadini eguali opportunità o, quantomeno, privilegiare il merito rispetto alla sterile raccomandazione!

La Verità Amara: Quando le imprese cercano la "Mafia"!!!

Ormai mi sono convinto, e credo di non essere più il solo ad aver compreso cosa sta accadendo da anni, non solo nella mia regione, ma in tutto il Paese.

Sempre più spesso, le piccole e medie imprese in difficoltà si rivolgono alle organizzazioni criminali per risolvere rapidamente i loro problemi, in particolare la mancanza di liquidità.
Secondo le stime, il volume d’affari delle mafie italiane si aggira attorno ai 40 miliardi di euro l’anno.
Una cifra spaventosa, pari a due punti di PIL. Questo cosiddetto “fatturato” colloca l’industria criminale al quarto posto tra le principali realtà economiche nazionali, subito dopo Eni (93,7 miliardi), Enel (92,9 miliardi) e Gestore dei Servizi Energetici (55,1 miliardi).
Tuttavia, questi numeri sono probabilmente sottostimati: è impossibile calcolare con precisione i proventi generati dall’infiltrazione mafiosa nell’economia legale. Dopotutto, queste organizzazioni sono esperte nell’occultare i propri traffici illeciti e i guadagni che ne derivano.
Incrociando i dati della Banca d’Italia con quelli della DIA e della magistratura, si stima che in Italia vi siano almeno 150 mila imprese potenzialmente contigue a contesti di criminalità organizzata.
Solo in Lombardia i numeri sono impressionanti: a Bergamo 2.298, a Brescia 4.043 e a Milano addirittura 15.644. Province che costituiscono il cuore pulsante di quello che possiamo definire un “triangolo delle Bermuda” lombardo.
Le attività criminali più comuni includono narcotraffico, traffico d’armi, smaltimento illegale di rifiuti, appalti pubblici, gioco d’azzardo, contrabbando di sigarette e prostituzione. A queste si aggiungono le estorsioni, spesso a danno degli imprenditori, che negli ultimi dieci anni sono aumentate del 63%.
Secondo la Direzione Investigativa Antimafia, soprattutto al Nord, le estorsioni non avvengono più con minacce esplicite o violenza. Al contrario, si cerca di instaurare una sorta di complicità con le vittime.
Le imprese vengono coinvolte in pratiche apparentemente vantaggiose, come l’assunzione di personale, la fornitura di servizi o la fatturazione per operazioni inesistenti. 
Ma dietro queste proposte si nasconde una pressione costante: le imprese sono obbligate a pagare in contanti l’importo dell’IVA per operazioni fittizie. In questo modo, i mafiosi mascherano l’estorsione come un normale adempimento fiscale.
Questo scenario evidenzia quanto il legame tra mafia e imprese non sia sempre frutto di coercizione, ma spesso il risultato di scelte dettate dalla disperazione economica.
Una realtà inquietante che, ahimè, non possiamo ignorare.