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L’inganno della tregua: Donald Trump raccoglie gli applausi, ma il merito va a suo genero Kushner, all’inviato speciale Witkoff e al leader di Hamas, Khalil al-Hayya.


Già… bisogna ringraziare Jared Kushner e l’inviato speciale Steve Witkoff, insieme ai capi di Hamas – capeggiati dal loro leader Khalil al-Hayya, sopravvissuto appena tre settimane prima a un attacco israeliano a Doha – se l’accordo è stato realizzato.

Parliamo degli stessi protagonisti che in passato avevano promosso gli “Accordi di Abramo”, quei patti volti a normalizzare le relazioni tra Israele e diversi Paesi arabi.

Come sempre accade nella vita – e il sottoscritto ne sa qualcosa – gli applausi e le coccarde non vanno mai a chi svolge il lavoro sporco sul campo, bensì a chi incarna la figura istituzionale. Così, anche Donald Trump si riprende la scena, mentre chi, dietro le quinte, ha condotto per settimane la trattativa a tu per tu con i quattro leader di Hamas, non riceve neppure un ringraziamento pubblico.

Ma permettetemi di contraddire quanto scritto in queste ore da pseudo-giornalisti legati in maniera diretta a quel meccanismo di “propaganda politica di governo” che ormai ha infettato il nostro Paese. Uscendo da quello schema – che ricorda fin troppo da vicino il metodo Goebbels – non posso che constatare una realtà scomoda: la tregua raggiunta è stata esclusivamente un mero scambio di prigionieri. Da un lato gli ultimi venti ostaggi israeliani, dall’altro circa duemila detenuti palestinesi. Un baratto umano che ha sollevato un velo di sollievo, ma che non ha scalfito il cuore del problema.

D’altronde, questo nuovo accordo, celebrato a Sharm el-Sheikh da numerosi leader internazionali, ha deliberatamente escluso le parti direttamente coinvolte – Israele e Hamas – come se il destino di una terra potesse essere deciso senza di loro. È lo stesso errore già commesso negli anni passati, e proprio in questa grave assenza risiede, secondo il sottoscritto, l’ennesimo grande fallimento: un fallimento che lascia i due popoli confinanti separati da una voragine… già, proprio come nella mia foto.
Ho osservato – dopo due anni di guerra – quanto è accaduto a seguito del raid di Hamas, e non posso che prendere atto di ciò che resta oggi: un immenso cimitero a cielo aperto, la distruzione totale della Striscia di Gaza, con case, ospedali e scuole ridotti in macerie, e soprattutto oltre sessantasettemila morti e una popolazione stremata dalla fame.

In questo scenario apocalittico, ogni parte ha perso qualcosa, ma forse Hamas ha perso più di tutti, incluso il favore del suo stesso popolo, sfiancato da una violenza che non ha condotto da nessuna parte se non alla rovina.

L’Autorità Palestinese, con sede in Cisgiordania, cerca ora di ritagliarsi uno spazio di mediazione, presentandosi all’ONU e al mondo come l’unico interlocutore credibile per riavviare un dialogo che porti finalmente alla costituzione di uno Stato palestinese – un sogno che sembra più vicino sulla carta che nella realtà.

E quindi non posso fare a meno di essere scettico di fronte a questo entusiasmo euforico, perché la storia ci insegna che i conflitti in questa terra hanno radici profonde e che le soluzioni imposte dall’alto raramente attecchiscono.

Quello che stiamo vivendo è solo una pausa, un momento passeggero dettato dall’urgenza di risolvere la questione degli ostaggi e di permettere l’ingresso degli aiuti umanitari – un bisogno così disperato che persino i combattimenti tra fazioni a Khan Yunis, dove clan locali hanno sfidato Hamas, sono serviti a ricordare a tutti la precarietà del potere.

Sono profondamente convinto che tra qualche mese, quando le macerie saranno state rimosse e la situazione sembrerà stabilizzata, i conflitti riprenderanno con rinnovata ferocia. Hamas – un movimento nato dalla resistenza e dalla militanza armata – non accetterà mai di essere relegato a forza a ruolo subalterno, né di essere messo da parte da un governo tecnocratico o da un’autorità imposta dall’esterno.

La tregua, quindi, non è la fine, ma solo un interludio: un respiro profondo prima che il ciclone di violenza si scateni di nuovo, portando con sé, come sempre, altra morte e altra distruzione, in un ciclo infinito che nessun accordo, finora, è riuscito a spezzare.

Quando la legalità è solo uno slogan: politica e interessi privati. Dov’è la Procura?

Già… una legalità che risuona solo nei discorsi, mentre nella realtà si sgretola come un castello di sabbia al primo soffio di vento. Le parole volano alte, impennate come aquiloni in un cielo sereno, ma i fatti strisciano nel fango, lenti e viscidi, e quel fango è lo stesso in cui affondano le mani coloro che dovrebbero custodire il bene comune con rigore e silenzio.
Questo schifo di politica, gonfia di potere e intrisa di privilegi, ha trasformato la gestione della cosa pubblica in un affare privato, un mercato sommerso dove ogni decisione è un debito da saldare con un favore, ogni posto di lavoro una ricompensa per chi ha baciato l’anello al momento giusto.

Quelli che abbiamo eletto per rappresentarci, per lavorare per tutti, hanno invece interpretato il mandato come un diritto ereditario, una specie di investitura divina a spartirsi ricchezze, appalti, poltrone, come se la città fosse una villa di famiglia da dividere tra eredi. E il peggio? Che lo fanno con la spudoratezza di chi crede di essere nel giusto, di chi si guarda allo specchio e vede un benefattore, non un parassita.

Forse il problema sta proprio in quelle parole mal interpretate, in quel “governare come il buon padre di famiglia” che hanno preso alla lettera, ma nel modo più distorto, più meschino possibile. Per loro, essere “buoni padri” non significa avere cura del paese, ma garantire che i figli abbiano un posto in Comune, che i cognati gestiscano le gare d’appalto, che gli amici più fedeli trovino sempre una raccomandazione pronta presso uno degli uffici. E i concorsi pubblici? Una farsa, una sceneggiata dove i copioni sono scritti mesi prima e gli attori principali sono sempre gli stessi, quelli che non hanno mai aperto un bando ma sanno già dove finirà il posto.

E mentre tutto questo accade, mentre il denaro pubblico diventa moneta di scambio per lealtà personali, mentre le opere incompiute marciscono sotto il sole e i giovani scappano all’estero, mi chiedo: ma le Procure dove sono? Dormono? O forse, anche lì, qualcuno ha deciso che certe cose è meglio non vederle, che certi nomi vanno trattati con riguardo, che certe inchieste potrebbero far cadere troppi alberi in un bosco già malato?

Lasciate quindi che vi racconti una storia, una di quelle che sembrano uscite da un romanzo grottesco, ma che purtroppo è vera, anzi, quotidiana. Un Comune etneo, piccolo ma non troppo, dove le dinamiche di potere si intrecciano con affari, favori e raccomandazioni come radici in un terreno avvelenato. E la cosa più agghiacciante? Che non è l’unico. È solo uno dei tanti anelli di una catena che sembra non avere fine, un sistema che si ripete identico in cento paesi, in cento province, con volti diversi ma stesse mosse, stessi silenzi, stesse complicità.

Ma la domanda che resta, alla fine, è sempre la stessa: fino a quando continueremo a permettere che tutto questo accada? Fino a quando lasceremo che il bene di tutti diventi il bottino di pochi, che la speranza si trasformi in rancore e il rancore in rassegnazione?

Il sottoscritto pensa – ahimè – che non cambierà mai nulla in questo nostro Paese. È un circolo vizioso che si autoalimenta, perché in fondo ai miei connazionali piace questo sistema clientelare, lo tollerano, lo subiscono, ma segretamente sperano di poterne usufruire un giorno, quando toccherà a loro. È un gioco di specchi dove tutti fingono di indignarsi, ma nessuno rompe davvero lo schema, perché ognuno coltiva il sogno di diventare un giorno il padrone del favore, non più il mendicante.

Forse solo un conflitto armato, una di quelle tragedie che sconquassano le fondamenta di una nazione, potrebbe costringerci a un reset, a spezzare la catena e ricominciare da zero. Già, perché così è stato per i nostri padri e nonni. Sì… quelli che hanno vissuto il dopoguerra sanno cosa significa vedere un Paese in macerie e doverlo ricostruire partendo dalla fame, dalla cenere, dai sassi.

D’altronde basti osservare quanto sta accadendo in queste ore nella striscia di Gaza o in Ucraina per comprendere le difficoltà, per capire cosa significa perdere tutto e dover ricominciare con le mani nude. Come oggi, anche allora da noi – in quegli anni bui – accadde qualcosa di straordinario. Quando il pane era razionato e le città ed i suoi palazzi erano ridotti a scheletri di mattoni, la gente si aiutava, non per dovere, ma per necessità, perché l’altro era il fratello della stessa miseria.

Le donne dividevano l’ultima manciata di farina per fare una minestra, mentre i contadini – che nascondevano il grano – ora provavano a sfamare i vicini, gli operai viceversa iniziavano la ricostruzione con le mani nude, con la forza di chi non ha più niente da perdere. Se qualcuno volesse rivivere quei momenti, gli basterà osservare alcuni film neorealisti come “Ladri di biciclette” o “Roma città aperta”; in quei cortometraggi si racconta in modo reale la vita – in quel momento storico – del nostro Paese: non c’era eroismo, solo disperazione e una solidarietà che sgorgava spontanea, unico modo di sopravvivenza.

Persino i bambini raccoglievano cicche di sigarette per rivenderle, le donne facevano la fila per ore per un litro di latte annacquato. Eppure, in quella miseria, c’era una dignità che oggi sembra svanita, un senso di appartenenza che non si comprava, non si raccomandava, ma nasceva dal sangue e dalla terra. Forse perché allora si lottava per qualcosa di concreto: un tetto, un lavoro, un futuro. Oggi, invece, ci accontentiamo di illusioni e piccoli privilegi, mentre il sistema ci divora pezzo a pezzo, in silenzio.

Ma il dopoguerra insegnò anche altro: che la ricostruzione non fu solo merito degli aiuti americani del Piano Marshall. Fu soprattutto la gente comune, quella che non aveva niente da perdere, a rimettere in piedi l’Italia, mattone dopo mattone, con le unghie e con i denti. Senza aspettare che lo facessero i politici, già anche allora impegnati a spartirsi le poltrone, a costruire nuovi castelli di sabbia sulle macerie del vecchio mondo.

Chissà se serve davvero una nuova catastrofe per ritrovare quell’istinto di comunità, quel senso del noi che sembra ormai sepolto sotto tonnellate di individualismo e rancore. Sì… forse, semplicemente, abbiamo dimenticato troppo in fretta cosa significa aver fame, cosa significa non avere niente e dover costruire tutto. E soprattutto, cosa significa alzarsi insieme per cambiare le cose, non per interesse, ma per dignità.

Comunque, domani vi racconto la storia di cui vi ho accennato, vedrete… resterete senza parole.

Dalle macerie alla rinascita: Gaetano Vecchio e la sfida di un’Ucraina sostenibile

Quelle strade, un tempo affollate di vita quotidiana, oggi segnate dal fragore delle esplosioni, sembrano incarnare una verità più grande: quella di un popolo che resiste, nonostante tutto.

E proprio quel senso di resilienza ritorna oggi mentre ascolto le parole del presidente dell’Ance, Gaetano Vecchio, che con chiarezza ha indicato una direzione precisa per il lungo cammino della ricostruzione.

Secondo Vecchio, essa dovrà essere anzitutto orientata a una trasformazione sostenibile, per costruire un futuro più verde, resiliente e moderno. Non si tratta solo di alzare nuovamente muri o riparare strade distrutte, ma di ridisegnare un Paese intero, immaginandone uno nuovo, più giusto e più adatto ai tempi che verranno.

Parlare di ricostruzione significa allora andare ben oltre i mattoni e il cemento, come lui stesso ha ricordato. È parlare di un futuro europeo, di un’Ucraina che non debba limitarsi a tornare com’era, ma che possa trasformarsi in qualcosa di meglio, di più avanzato e soprattutto più rispettoso dell’ambiente e dei bisogni reali delle persone.

Questo processo richiederà inevitabilmente una forte collaborazione tra imprese europee e realtà locali, perché solo lavorando insieme si possono mettere in rete competenze tecniche e conoscenze radicate nel territorio, valorizzando ciò che esiste e costruendo soluzioni concrete, durature e adeguate.

L’Europa, d’altronde, non può fermarsi alla solidarietà durante il conflitto, deve spingersi fino a sostenere il lungo e complesso percorso della ricostruzione. Le cifre sono enormi, quasi incredibili: 506 miliardi di euro stimati per rimettere in piedi un Paese devastato. Di questi, 81 miliardi riguardano l’edilizia residenziale, 75 i trasporti, 12,6 lo smaltimento delle macerie. Numeri che fanno paura, certo, ma anche progetti che aprono la mente e il cuore a un domani possibile.

E non si tratta solo di quantità. Piero Petrucco, presidente della FIEC, ha ricordato con forza che chi lavora nel settore delle costruzioni non è semplicemente un tecnico o un operaio, ma un abilitatore della ripresa, della coesione sociale, della capacità stessa del Paese di tenersi insieme. Ricostruire, quindi, non è solo un atto materiale, ma anche morale, politico, umano. Significa ricostruire fiducia, comunità, istituzioni, tessuto sociale.

La conferenza URC2025 svoltasi a Roma ne è stata una dimostrazione tangibile, riunendo leader internazionali, aziende e rappresentanti delle istituzioni attorno a un’unica idea: che la distruzione possa trasformarsi in opportunità, che la guerra lasci il posto a una pace costruita con le mani, con gli strumenti, con la volontà di fare meglio di prima. Il messaggio lanciato è chiaro: l’Ucraina potrà essere libera, prospera, rinnovata non solo nelle sue strutture fisiche ma dentro sé stessa, nella sua identità profonda.

Investire nell’Ucraina, come si è detto, è investire in noi stessi, perché ogni conflitto che esplode lontano finisce sempre per toccarci da vicino. Mentre accordi si stringono tra aziende italiane e ucraine, e nasce un nuovo fondo europeo per accompagnare questo processo, ci si muove già per preservare quei luoghi e quei simboli che raccontano la storia e l’anima di un popolo.

Sì, la strada è lunga, disseminata di ostacoli e incertezze, ma penso a quando anch’io, da giovane, arrivai ad Odessa per lavoro e restai colpito da quanto potesse offrire quel Paese, nonostante i suoi problemi. Oggi, come allora, credo che l’Ucraina abbia davanti a sé una possibilità vera, se solo si saprà cogliere questa occasione con coraggio e visione.

Perché, come fecero tanti Paesi dopo la Seconda Guerra Mondiale, anche l’Ucraina può rialzarsi. Deve farlo. E io non posso che tornare con il pensiero a quelle pagine scritte mesi fa, dove dicevo che Odessa, con tutta la sua forza e bellezza, merita di rinascere. Perché nessuna guerra, nessuna bomba, potrà mai cancellare la luce che brilla negli occhi di chi non si arrende.


Originally published at http://nicola-costanzo.blogspot.com.

Gaza City Resort: all-inclusive con vista sulle rovine!

Buongiorno,
a volte ho l’impressione che i nostri politici siano degli inetti o, quantomeno, impreparati, soprattutto quando si tratta di affrontare problemi di carattere globale. 
Poi leggo alcuni post o dichiarazioni di illustri leader mondiali, e comincio a pensare che, alla fine, l’ignoranza sia la madre di tutti i mali che affliggono la nostra società.
Prendiamo, ad esempio, le recenti dichiarazioni di Donald Trump sulla Striscia di Gaza. 
L’idea di trasformare Gaza in una sorta di località di villeggiatura, mentre il popolo palestinese vive una delle tragedie più profonde della sua storia, è non solo irrealistica, ma anche profondamente insensibile… 
Migliaia di persone sono senza casa, senza accesso a servizi di base, vivono in condizioni disumane. Pensare di risolvere tutto con un progetto edilizio o turistico è una visione miope che ignora le radici del conflitto e le sofferenze di un intero popolo.
È vero, il popolo palestinese ha bisogno di trovare una propria identità e di costruire un futuro di pace e stabilità. Ma questo non può avvenire sotto la minaccia di gruppi armati come Hamas, che, pur presentandosi come difensori della causa palestinese, hanno spesso contribuito a perpetuare il ciclo di violenza e sofferenza. La libertà e la democrazia non si costruiscono con le armi, ma attraverso il dialogo, la cooperazione e il rispetto dei diritti umani.
C’è bisogno di una vera e propria indipendenza da tutte quelle forze rivoluzionarie che, invece di favorire lo sviluppo di una società libera e giusta, alimentano odio e divisioni. Un Paese che vuole raggiungere un proprio status nella comunità internazionale non può farlo attraverso la violenza, ma deve puntare sulla diplomazia, sull’istruzione e sulla costruzione di istituzioni solide e trasparenti.
Non si può pensare di combattere per sempre. Arriva un momento in cui le parole devono avere il sopravvento sulle armi, altrimenti si resta prigionieri di un ciclo infinito di oppressione e vendetta. Chi detiene il potere, sia esso politico, militare o economico, ha la responsabilità di agire con saggezza e lungimiranza, non con coercizione e forza bruta.
È tempo che i palestinesi riprendano in mano le proprie vite, lottando non solo contro l’occupazione esterna, ma anche contro chi, all’interno, li strumentalizza per interessi personali o ideologici. Donne, bambini e intere famiglie sono spesso lasciati in balia di un destino crudele, utilizzati come pedine in un gioco politico che non tiene conto della loro dignità e dei loro diritti.
Certo, immaginare Gaza come un luogo prospero e pacifico, dove i palestinesi possano vivere in condizioni dignitose, sarebbe meraviglioso. Ma questa visione non può restare un’utopia. Negli anni, miliardi di dollari sono stati inviati nella regione, sia dalla comunità internazionale che dai Paesi arabi. Eppure, questi fondi non sono stati utilizzati per costruire scuole, ospedali o infrastrutture, ma per finanziare tunnel, armi e missili. Una scelta scellerata che ha alimentato ulteriore odio e distruzione, lasciando Gaza in macerie.
Oggi ci troviamo di fronte a una terra devastata, dove persino ripulire le macerie richiederà anni. E mentre il mondo guarda, ci si chiede: quando finirà questa spirale di violenza? Quando si capirà che la vera forza non sta nella distruzione, ma nella costruzione di ponti, nel dialogo e nella riconciliazione?
Il popolo palestinese merita di più. Merita un futuro in cui i bambini possano crescere senza paura, in cui le donne possano vivere con dignità e in cui gli uomini possano costruire un Paese libero e prospero. Ma questo futuro non arriverà finché prevarrà la logica della guerra e dell’odio.
Forse è arrivato il momento di smettere di guardare alla Palestina (e a Israele) solo attraverso le lenti del conflitto e di iniziare a pensare a soluzioni concrete, che mettano al centro le persone e i loro diritti. Perché, in fondo, la pace non è un sogno irrealizzabile, ma una scelta che richiede coraggio, umanità e volontà di cambiare.

Cosa sta accadendo in Siria e quanto sincere sono le dichiarazioni del suo leader?

Mentre gran parte del mondo sembra entusiasta per l’attuale governo siriano, io nutro forti dubbi riguardo alla sincerità delle dichiarazioni del leader Ahmad al-Shara, precedentemente noto come Abu Mohammed al-Jolani. 

Non posso fare a meno di pensare che dietro le sue belle parole si celi l’intenzione di ripristinare un modello di governo simile a quello dell’Afghanistan sotto i “Talebani”.

A differenza di Papa Francesco, che si è mostrato ottimista nel recepire i segnali di apertura verso la comunità cristiana, io sono convinto che le azioni intraprese siano semplicemente una facciata per guadagnare tempo e rinforzarsi militarmente, riprendendo poi atteggiamenti che hanno già caratterizzato il passato di questo leader.

L’obiettivo non dovrebbe limitarsi a evitare conflitti militari o ideologici, ma a promuovere un concetto di democrazia più inclusivo e rispettoso… 

Certo, non possiamo aspettarci un modello ideale nell’immediato, ma almeno un sistema simile a quello della Turchia, che consenta alle donne di vivere con dignità e senza coercizioni, rappresenterebbe un progresso rispetto alla realtà attuale. 

Tuttavia, la mia sensazione è che il nuovo governo stia solo cercando di stabilire le condizioni minime per la sopravvivenza, sfruttando gli aiuti internazionali.

Difatti, questa prospettiva si riflette nelle recenti dichiarazioni del ministro degli Esteri siriano, Asaad Hassan al-Shaibani; durante una visita in Qatar, ha chiesto agli Stati Uniti di revocare le sanzioni, definendole un ostacolo alla ripresa del Paese devastato dalla guerra. Secondo al-Shaibani, “le sanzioni rappresentano una barriera per il popolo siriano, impedendo lo sviluppo e la creazione di partnership con altri Paesi”. Ha ribadito che l’appello a eliminare queste misure non è più legato al regime di Bashar al-Assad, ma è ormai una necessità per la popolazione civile.

Anche il primo ministro del Qatar, Sheikh Mohammed bin Abdulrahman bin Jassim Al Thani, ha riaffermato il sostegno del suo Paese all’unità, alla sovranità e all’indipendenza della Siria. Ed è in questo contesto che i ministri degli Esteri di Francia e Germania hanno incontrato al-Shara a Damasco. Tuttavia l’incontro è stato segnato da polemiche: al-Shara ha stretto la mano al ministro francese, ma ha salutato la collega tedesca, Annalena Baerbock, con un gesto del cuore, citando una rigida interpretazione delle regole del Corano.

Di una cosa sono certo: è fondamentale valutare concretamente l’evoluzione politica di questa dirigenza e verificare se alle promesse seguiranno azioni concrete. 

Se ciò non accadrà, sarà necessario pensare a soluzioni diverse. La popolazione civile, ancora presente in Siria, ha bisogno di ritrovare non solo unità d’intenti per il bene comune, ma soprattutto una serenità che manca da oltre mezzo secolo.

Fuori Autostrade per l'Italia dalla ricostruzione del ponte Morandi…

L’amico Mauro da Genova mi ha chiesto di far condividere il post di Luca M, che ha lanciato questa petizione su Charge.org!!!
Il messaggio riporta: Noi siamo contrari ad affidare la ricostruzione del ponte Morandi ad Autostrade per l’italia non per un sentimento di vendetta o di punizione ma per combattere la logica di chi guadagna risparmiando sulle manutenzioni per poi guadagnare nuovamente nella ricostruzione.  Sarebbe un invito a far si che nuove tragedie avvengano…
Autostrade per l’Italia non deve partecipare alla ricostruzione del ponte Morandi, così come tutte le aziende della galassia del gruppo. 
Una azienda che non ha fatto quasi nessuna manutenzione per decenni, una azienda che investe utili in operazioni finanziarie e non in manutenzione, oggi chiede in maniera insistente di partecipare alla ricostruzione. 
Perchè??? 
Ovvio vuole partecipare alla spartizione della torta…
Sembra banale… ma “un piccolo gesto“, da a ciascuno di noi la possibilità di poter cambiare quanto può sembrare già deciso…
Sì… perché un piccolo gesto 
è come una pietra preziosa
cela un segreto che è molto potente
qualcosa accade, se tu fai qualcosa
e niente accade, se tu non fai niente.
Basta un secchiello a vuotare il mare?
Basta una scopa a pulire la città?
Forse non basta, ma devi provare
se provi, forse, qualcosa accadrà…
È un gesto inutile, ma non importa
piccoli gesti hanno forza infinita
se ognuno spazza davanti alla porta
la città intera sarà pulita!!!

Fuori Autostrade per l'Italia dalla ricostruzione del ponte Morandi…

L’amico Mauro da Genova mi ha chiesto di far condividere il post di Luca M, che ha lanciato questa petizione su Charge.org!!!
Il messaggio riporta: Noi siamo contrari ad affidare la ricostruzione del ponte Morandi ad Autostrade per l’italia non per un sentimento di vendetta o di punizione ma per combattere la logica di chi guadagna risparmiando sulle manutenzioni per poi guadagnare nuovamente nella ricostruzione.  Sarebbe un invito a far si che nuove tragedie avvengano…
Autostrade per l’Italia non deve partecipare alla ricostruzione del ponte Morandi, così come tutte le aziende della galassia del gruppo. 
Una azienda che non ha fatto quasi nessuna manutenzione per decenni, una azienda che investe utili in operazioni finanziarie e non in manutenzione, oggi chiede in maniera insistente di partecipare alla ricostruzione. 
Perchè??? 
Ovvio vuole partecipare alla spartizione della torta…
Sembra banale… ma “un piccolo gesto“, da a ciascuno di noi la possibilità di poter cambiare quanto può sembrare già deciso…
Sì… perché un piccolo gesto 
è come una pietra preziosa
cela un segreto che è molto potente
qualcosa accade, se tu fai qualcosa
e niente accade, se tu non fai niente.
Basta un secchiello a vuotare il mare?
Basta una scopa a pulire la città?
Forse non basta, ma devi provare
se provi, forse, qualcosa accadrà…
È un gesto inutile, ma non importa
piccoli gesti hanno forza infinita
se ognuno spazza davanti alla porta
la città intera sarà pulita!!!

Credetemi… sono il male assoluto!!!

Il primo impegno sarà trasparenza, regole e controlli, costruendo un sistema chiaro, leggibile e meno burocratico possibile“.
Con queste parole il commissario Vasco Errani ha indicato le priorità ed ancora, “Il primo atto sarà costituire un luogo istituzionale in cui discutere e assumere le scelte per ricostruzione, sarà una struttura leggera che decideremo con le Regioni e le autonomie in rapporto alle necessità che ci sono. Servirà accuratezza nella spesa ed il primo impegno sarà la trasparenze delle regole e dei controlli“. 
Le premesse ci sono tutte e speriamo che alla fine quanto sopra, non si trasformi nel conosciuto “gioco di prestigio” dove la metodologia clientelare ha il sopravvento, facendo in modo che la maggior parte degli appalti, vengano affidati a quelle imprese ben inserite nel meccanismo delle cooperative rosse…
Abbiamo già avuto modo di vedere, con quali modi, si attuino quegli scambi illeciti di favori, nei quali, chi ottiene gli appalti, provvederà successivamente a promuovere le istanze di quanti operano nella vita politica e amministrativa di questo paese…
Difatti il cavaliere durante quei lavori di ricostruzione dell’Aquila, impegnò tutto se stesso affinché ad operare, fossero esclusivamente le proprie imprese di fiducia, ed oggi, è logico aspettarsi, che l’attuale Presidente del Consiglio, privilegi quelle di colore “rosso” o quelle eventualmente disponibili a sottomettersi…
Siamo in un paese dove non esistono le regole o meglio le regole ci sono, il problema è farle rispettare affinché chiunque possa beneficiare di eguali condizione.
Sì… purtroppo sono in molti ad aver dimenticato lo scandalo della “Coopservice”, che, in vista della quotazione in borsa di una sua società controllata (la “Servizi Italia”) specializzata in servizio alle imprese, organizzò un giro di azioni (tramite una finanziaria in Lussemburgo), costituendo proprio lì, un tesoretto di circa 36 milioni di euro, ovviamente destinati ai vertici aziendali, con tanti saluti allo scopo mutualistico e non speculativo delle Coop!!! 
Comunque, l’indagine coinvolgeva 46 nominativi, ma soltanto due furono quelli indagati, poiché, quel cosiddetto spirito cooperativo non fu successivamente messo in pratica, anzi tutt’altro; già, cercarono con i fatti, di tradire una parte di essi, per distribuire quelle plusvalenze ad un numero certamente ridotto…
Il Pm comunque.. ( chissà forse aveva quel giorno la toga rossa…) chiese l’archiviazione anche per i due indagati, poiché la procedura di Insader Trading, non poteva essere applicata in quanto la società non era stata ancora ammessa alla quotazione in Borsa… 
Ora, quanto sopra riportato serve per accogliere la vicenda giudiziaria che ha coinvolto il Governatore dell’Emilia Romagna, Vasco Errani…
Una coincidenza… una omonimia, comunque, fu accusato di falso ideologico per aver favorito, attraverso un mutuo regionale, il fratello Giovanni – presidente della cooperativa “Terremerse”…
La vicenda, apri un squarcio tra “Coop Rosse” e Partito democratico (Pd), un potere trasversale che ancora oggi detta le regole economiche in una regione, l’Emilia Romagna, dove proprio Lega Coop, può contare su circa 1.500 unità, tre milioni di soci, 145.000 lavoratori ed un fatturato che supera i 50 miliardi di euro…
Bisogna comprendere che soltanto in quella regione, le Coop si aggiudicano un appalto ogni quattro e controllano più del 70% della grande distribuzione alimentare…
Una vera e propria anomalia a livello nazionale e in particolare nel mondo dell’impresa, un intreccio che lega in maniera indissolubile, politica ed economia ed anche mafia… che fa in modo di garantire un elettorato fedele e soprattutto tante poltrone che contano…
Ora ditemi… dopo aver letto quanto sopra, credete ancora che nel procedere alla ricostruzione di quelle zone terremotate, ci sarà trasparenza, regole e controlli, senza che possa intervenire un qualche compromesso o accomodamento??? 
Sì… lo so, ci starebbe bene una di quelle faccine ridenti con le lacrime di… “whatsapp”!!!