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Quando il silenzio di Giacomo parla più delle parole di Pietro – Seconda parte


Consentitemi – prima di iniziare la seconda parte del mio post – di riportarvi quanto ricevuto – ieri – dalla mia prima lettrice, e cioè mia moglie (ma sono certo che sarete stati in molti a pensare la stessa cosa…):

  • Troppo lungo per leggerlo immediatamente, lo farò con calma. Hai forse voluto eguagliare Benigni per lunghezza??? Ma lui a differenza tua è stato profumatamente pagato per intrattenere gli spettatori 🤣🤣🤣🤣

Risposta (che in un qualche modo preannuncia quanto sto ora per scrivere):

  • Hai ragione sulla lunghezza, ma per trattare con serietà un tema così vasto (e come sappiamo troppo spesso edulcorato…) servono necessariamente più parole. Ho preferito quindi una divisione in più parti a un riassunto frettoloso. Il punto centrale del mio post non è la mia opinione personale, ma il tentativo di ricostruire coerentemente eventi storici che, da duemila anni, vengono (sempre) celati dietro narrazioni più “comode e spettacolari”, come per l’appunto alcuni monologhi di intrattenimento.

Ed allora – dando seguito a quanto scritto ieri – ho lasciato l’ultima parola al “silenzio”, come si fa quando si è detto qualcosa che non può essere né aggiustato né cancellato, solo accolto. La storia – e quindi non la leggenda – ci ha consegnato un Giacomo solido, silenzioso, radicato in quella terra di Gerusalemme, mentre viceversa ci ha fatto conoscere un Pietro che cammina sui margini, tra le onde e le città, tra l’entusiasmo coraggioso di chi crede ciecamente ed il ripensamento umano di chi evidenzia paura, già… tra il fuoco e il dubbio.

Eppure, non finisce qui, perché se è vero che la storia non mente, è altrettanto vero che non parla mai da sola: le sue parole sono sempre intrecciate con quelle di chi, dopo, ha dovuto scegliere da che parte stare, in tempi in cui non si trattava più di seguire un uomo, ma di costruire una memoria capace di resistere al tempo. E quella memoria, inevitabilmente, ha dovuto fare i conti con conflitti che non erano più tra Giudei e Romani, ma dentro la stessa comunità dei discepoli.

Paolo e Pietro, per esempio, non furono mai compagni di strada nel senso tranquillo del termine.

Paolo, cittadino romano, colto, irruente, convinto che la buona novella fosse per tutti, senza distinzioni di circoncisione né di legge; Pietro, galileo, cresciuto nel ritmo delle sinagoghe, fedele alla Torah anche quando non ne capiva più il senso, sempre in bilico tra ciò che aveva udito da Gesù e ciò che il cuore gli imponeva di non abbandonare.

Ad Antiochia – come ho scritto ieri – lo scontro è netto: Pietro mangia con i pagani finché non arrivano gli emissari di Giacomo, allora si ritrae, come chi teme di aver oltrepassato un confine che non gli compete spostare: «Se tu, che sei Giudeo, vivi come i pagani… come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei?». Non è un rimprovero teologico: è la voce di chi sente cedere il terreno sotto i piedi, perché sa che se la legge diventa barriera, allora la grazia non è più grazia. Ma Pietro tace e quel silenzio, più di ogni parola, ci dice quanto il primato non fosse mai stato suo: non aveva l’autorità di decidere da solo, perché la comunità di Gerusalemme aveva un centro, e quel centro si chiamava Giacomo.

E proprio attorno a Giacomo si radica una corrente di pensiero oggi quasi dimenticata, ma che per secoli fu viva, presente, resistente: gli ebioniti, i “poveri”, che vedevano in Gesù non un dio disceso dal cielo, ma un uomo giusto, profeta e maestro, figlio di Giuseppe e Maria, fratello di Giacomo, osservante della Legge fino all’ultimo respiro. Per loro, il vero erede non era chi predicava la libertà dai precetti, ma chi, come Giacomo, portava ogni giorno il “tallit”, pregava nel tempio, rifiutava la carne sacrificata agli idoli e viveva in povertà radicale.

Non avevano bisogno quindi di un Pietro universale, né di un Paolo che parlava in greco alle città: avevano bisogno di un fratello che camminava per le strade di Sion come aveva camminato Gesù, con le stesse scarpe polverose e lo stesso sguardo sulle vedove e gli orfani.

FINE SECONDA PARTE

Roberto (Benigni), il tuo monologo su Pietro è meraviglioso, ma la storia di quell’uomo racconta tutt’altro – Prima parte


Dopo la presentazione su Rai 1 del monologo di Roberto Benigni sul discepolo di Gesù, Pietro, ho letto nel web un post di Vatican News che riprendeva quell’assolo e lo intitolava “Quella forza che nasce dalla fragilità, Benigni racconta San Pietro”, ed allora ho deciso che fosse “giusto” (sì… un parola che trova proprio in questo contesto la sua perfetta collocazione…) bilanciare, sì…quanto da entrambi riportato. 

Sì… perché anch’io, come molti di voi, ho ascoltato con attenzione quel monologo durato circa due ore – opera del grande attore, regista, sceneggiatore e cantautore che tutti conosciamo – ma debbo dire che quanto ho udito mi è sembrato più un racconto fantasioso – certo bello – avvincente, a volte commovente, ma non un terreno su cui fermarsi a riflettere, bensì uno specchio in cui riconoscersi senza dover mai mettersi in discussione.

Già – caro Roberto – ciò che hai detto va bene ai bambini, e va bene anche a tuuti quei fedeli che vogliono credere tenendo però gli occhi chiusi, senza mai mettere in discussione nulla, accettando – quasi fossero seguaci di una verità che non ammette domande – tutto ciò che viene loro insegnato: già… mai a chiedersi se quegli insegnamenti siano radicati nella storia o costruiti per consolare.

Non chiedono a se stessi se quelle parole ascoltate con devozione, a volte persino studiate in modo approfondito, servano davvero a discernere il giusto dall’ingiusto o – come solitamente accade – solo a confermare ciò che già si vuole sentire. Già… l’importante è riceverle – e basta– come se a parlare loro fosse il divino in persona.

Per cui, quanto andrò ora a scrivere non è per tutti, in particolare non per chi ha da sempre chiuso il proprio cuore e cammina come un cavallo con i paraocchi, sì… perché la strada non l’ha scelta lui: l’ha decisa il fantino!

Ed allora, consentimi di far conoscere chi era realmente – quantomeno storicamente – quel Pietro da te tanto decantato con amorevole passione e scusami se nel mio post, mi rivolgerò a te senza darti del lei, ma su questo punto, sono certo che apprezzerai il mio esser spontaneo.   

Innanzitutto desidero precisare che nel tuo monologo ti stessi riferendo a quel soggetto chiamato “Simone”, detto Kefà, in aramaico: “roccia”, (tradotto in greco Petros). Ed allora iniziamo a vedere chi era questo umile pescatore, originario di Betsaida (Galilea); certamente era un analfabeta o quantomeno con una bassissima scolarizzazione: basti leggersi il passaggio – Atti 4,13 – dove viene descritto come “agrammatos kai idiotēs” –  e cioè “senza lettere e privo di formazione”.

Ed allora continuando, vediamo cosa sappiamo di lui (quantomeno) con certezza: dovrebbe esser stato uno dei primi seguaci di Gesù ed è anche presente in molti episodi riportati come la trasfigurazione, Getsemani, rinnegamento (quest’ultimo come sappiamo presente in tutti e quattro i vangeli canonici).

Sappiamo inoltre che dopo la morte del profeta Gesù, egli è tra i protagonisti del movimento post-pasquale: appare per primo – o quantomeno tra i primi –  a Gesù risorto (vedasi Cor 15,5; Lc 24,34), inoltre, predica la Pentecoste (Atti 2), ma sappiamo bene come questa rappresentazione sia una narrazione teologica molto tardiva.

Certo svolge un ruolo di rilievo tra i dodici apostoli, ma quel numero “Dodici” rappresenta un gruppo simbolico, non un organo stabile, difatti, dopo la morte di Giuda, Mattia viene “sorteggiato” e quindi scelto, ma stranamente non compare più…

Passiamo allora a tutta una serie di frasi riportate nei cosiddetti vangeli sinottici, in particolare quella in cui Gesù chiama Simone Pietro e gli dice: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa” (Mt 16,18). 

Ma questo testo compare solo in Matteo- ed è in greco- segno che non risale alla tradizione aramaica di Gesù- ma a una redazione posteriore- forse ad Antiochia, attorno agli anni 80-90 d.C. – in una comunità attraversata da tensioni interne – alla ricerca non di un’identità “unica”, ma di un’autorità riconosciuta da tutti, proprio mentre giudeo-cristiani ed ellenisti stavano prendendo strade diverse.

Se prendiamo ad esempio quello di Marco (il più antico), lì… non vi è riportato nulla!

Ed ancora, permettimi di aggiungere come Luca e Giovanni non lo riportano in quella forma; si comprende quindi come quell’episodio sembra rispondere più a una situazione successiva e non ai giorni di Gesù. Vi è in quella frase – creata appositamente – la ricerca di legittimazione gerarchica, soprattutto in un periodo nel quale emergevano forti tensioni tra giudeo-cristiani ed ellenisti.

Per cui, la frase “tu sei Pietro…” probabilmente non possiede nulla di storico, nel senso di “pronunciato da Gesù in quel momento”, ma riflette una volontà di sviluppò teologico che voleva porre Pietro in un ruolo di leader che non gli spettava e che, come sappiamo, fu assegnato a Giacomo detto “il Giusto”.

Ed allora, mettiamo per un momento da parte questa figura di Pietro e andiamo ad analizzare la figura di Giacomo (Ya‘aqov), fratello di Gesù (Mc 6,3; Gal 1,19), che emerge con chiarezza già nei primi decenni, e in modo assai più concreto rispetto (a questo tuo e non solo tuo…) “Pietro”. 

Paolo lo chiama “Giacomo, il fratello del Signore” (Gal 1,19), e dice di averlo incontrato a Gerusalemme e difatti, in Galati 2,9, si legge: e riconoscendo la grazia a me conferita, Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne, diedero a me e a Barnaba la loro destra in segno di comunione, perché noi andassimo verso i pagani ed essi verso i circoncisi.

Scusami Roberto, hai letto? I “pilastri” della chiesa di Gerusalemme sono “Giacomo, Cefa (Pietro) e Giovanni”, ma è Giacomo ad essere nominato per primo.

Ma non solo, nello stesso capitolo, Paolo riferisce di un disaccordo ad Antiochia tra Giacomo e Pietro (Gal 2,11–14): 11 Ma quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto perché evidentemente aveva torto. 12 Infatti, prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo, egli prendeva cibo insieme ai pagani; ma dopo la loro venuta, cominciò a evitarli e a tenersi in disparte, per timore dei circoncisi. 13 E anche gli altri Giudei lo imitarono nella simulazione, al punto che anche Barnaba si lasciò attirare nella loro ipocrisia. 14 Ora quando vidi che non si comportavano rettamente secondo la verità del vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: «Se tu, che sei Giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera dei Giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei?

Si comprende da questo passo come Pietro si ritiri dalla mensa comune con i pagani per timore “di quelli che venivano da Giacomo”, un segno tangibile di come fosse Giacomo ad avere l’autorità, riconosciuta anche fuori Gerusalemme.

Andiamo avanti, prendiamo ora gli Atti degli apostoli al passaggio 15 (concilio di Gerusalemme) è ancora Giacomo a pronunciare la decisione finale (At 15,13–21) e non Pietro, quest’ultimo parla solo per primo: “Fratelli- voi sapete che già da molto tempo Dio ha fatto una scelta fra voi- perché i pagani ascoltassero per bocca mia la parola del vangelo” (At 15,7), ma quando tutti finiscono di parlare, è Giacomo a concludere: Fratelli- ascoltatemi- Simone ha riferito come fin da principio Dio ha voluto scegliere tra i pagani un popolo per consacrarlo al suo nome” (At 15,13–14). Il ruolo decisivo è suo!

Ecco perché mi dispiace contraddirti quando dici: “Voi potete prendere qualunque libro al mondo, ma quando si arriva al Vangelo non c’è discussione”. No… perdonami ma non sono d’accordo, viceversa ritengo ci sia molto da discutere ed allora per farlo continuo ad argomentare quanto tu hai “abilmente” sospeso…

Prendiamo ad esempio un bellissimo libro di Giuseppe Flavio – https://www.homolaicus.com/religioni/fonti/antichita-giudaiche.pdf – Antichità giudaiche XX,200“Poiché Anano – sommo sacerdote – riteneva di avere ora l’occasione propizia, convocò il sinedrio e vi fece comparire il fratello di Gesù –detto Cristo– di nome Giacomo e alcuni altri, e li fece lapidare.” Siamo nel 62 d.C. e Giacomo – non Pietro – viene ucciso come leader riconosciuto della comunità giudeo-cristiana.

La conclusione storica è evidente a chiunque – in particolare a chi vuole avere un cuore aperto – e cioè che, tra il 30 e il 62 d.C., Giacomo è il vero centro di gravità della chiesa madre di Gerusalemme, mentre Pietro ha un ruolo certamente itinerante e carismatico, ma non stabile, né direttivo nel senso istituzionale.

Ed allora viene spontaneo chiedersi: perché Pietro storicamente “sopravvive” e Giacomo scompare dalla memoria popolare?

Per rispondere a questa domanda dobbiamo innanzitutto far riferimento ad alcune circostanze: 

-la distruzione di Gerusalemme (70 d.C.) – la chiesa madre viene dispersa e la successiva centralità va prima ad Antiochia e poi a Roma, dove la tradizione petrina si radica presto (fine I sec.: Clemente romano chiama Pietro “esempio di sopportazione”, 1 Clem 5,4–7).

– Giacomo è strettamente legato al giudaismo: osservante della Torah, asceta, “giusto”, ma è dopo il 70, che la separazione tra ebraismo e cristianesimo inizia ad accentuarsi e quindi quella sua figura non si adatta facilmente a una chiesa sempre più ellenistica e soprattutto pagana.

– Pietro diventa “universale”: quel pescatore impulsivo, fallibile (rinnegamento), poi convertito, rappresenta un personaggio più “umano” e narrativamente efficace, difatti è proprio ciò che hai realizzato tu, in maniera sublime, esaltando la sua virtù umana: è diventato anche il mio migliore amico, perché me ne sono innamorato! (…) Come parla, come si muove, come reagisce, come guarda, come cammina, come pesca E quante ne combina! Oh, Signore! All’inizio non ne fa una giusta. Non capisce, sbaglia, inciampa, ci ripensa, (…) è proprio uguale a noi, ripeto: il più vicino a noi, e nello stesso tempo il più vicino a Gesù. 

La vicenda umana del pescatore di Galilea – raccontata da te – è perfetta:  svela «cosa può fare un uomo per Dio e cosa può fare Dio di un uomo». E difatti, la sua morte a Roma (probabile sotto Nerone, ca. 64–67) lo lega indissolubilmente alla nuova Chiesa di Roma, destinata a un ruolo sempre più crescente.

Ed allora concludendo, ma soprattutto basando le mie riflessioni su fatti concreti (ho eliminato qualsivoglia fantasia), non vi è alcuna prova storica che Gesù abbia istituito Pietro come “capo” della futura chiesa, come peraltro il ruolo di Pietro se pur reale, non fu mai gerarchico nel senso moderno. Viceversa fu Giacomo “il Giusto“, ad esser stato nominato leader della prima comunità cristiana, con un’autorità riconosciuta anche da Paolo e dallo stesso Pietro stesso.

Ecco perché quanto emerso dalla storia sta in netto contrasto con il racconto del tuo monologo – e ancor più con la tradizione consolidata della Chiesa – in particolare con quella “primazia” di Pietro che non ha fondamento nei primi decenni dopo Gesù, ma si forma lentamente, tra l’80 e il II secolo, già… come risposta a bisogni reali (e non divini…) di unità, riconoscibilità e continuità, in una fede che stava diventando universale – ma rischiava di perdere le radici – e così si decise di costruire un fondamento solido, sì… su una pietra che, storicamente, non era mai stata posta dal profeta di Nazaret.

FINE PRIMA PARTE

Charlie Kirk è morto perchè non aveva paura di essere odiato. Il problema è che qualcuno ha finito col prenderlo sul serio!


Buongiorno, oggi ho deciso di affrontare un argomento che in questi giorni si è diffuso rapidamente tra le pagine dei social, sollevando reazioni contrastanti e silenzi eloquenti: la morte di Charlie Kirk, ucciso il 10 settembre 2025 a Orem, nello Utah, da un colpo d’arma da fuoco, lasciando la moglie e due figli.

Ammetto che non conoscevo Kirk prima di questa notizia, né avevo mai seguito il suo lavoro. La verità è che tendo a stare alla larga da chi usa toni estremi, soprattutto quando quei toni sono rivolti ai giovani, veicolati con la forza dell’ideologia piuttosto che del dialogo. 

Ricordo vagamente, di essermi imbattuto in una pagina social su X, già… in una sua clip: parlava con voce decisa, sguardo fisso, mentre smontava concetti complessi in frasi brevi e martellanti. Ma ascoltandolo, ho trovato le sue argomentazioni così sterili, prive di profondità, che non mi sono più soffermato su di lui. Ecco perché non ho più cercato altri interventi e ancor meno ho voluto approfondire su di lui…

Forse quella volta è stata l’unica in cui gli ho prestato un minuto della mia attenzione, già…finché la notizia della sua morte non ha riportato il suo nome al centro della discussione. Eppure, nonostante quella mia distanza iniziale, ho sentito in questi giorni il bisogno di comprendere chi fosse davvero, al di là degli elogi postumi o delle polemiche virali sui social.

Mi sono dedicato quindi ad ascoltare in questi giorni le sue parole, leggere alcuni suoi testi, vedere i dibattiti, senza farmi influenzare da chi oggi lo celebra come martire o da chi lo deride come ciarlatano. Volevo partire da lui, dal suo messaggio, per poi chiedermi: cosa c’era dietro tutto questo? Perché tanta attenzione ora, dopo anni di discorsi incendiari? E soprattutto, perché certe figure riescono a radunare così tanta folla intorno a idee che, se analizzate con calma, appaiono fragili, anacronistiche e talvolta pericolose?

Partiamo da una frase che lui stesso ha trasformato in slogan: “Prove Me Wrong”, dimostrami che sbaglio. Suona come una sfida onesta, aperta, quasi scientifica. Ma nel contesto in cui veniva usata, diventava un’arma retorica, non uno strumento di ricerca della verità. Lo diceva seduto sotto un tendone con quella scritta, invitando studenti universitari a confrontarsi con lui, spesso giovanissimi, impreparati, visibilmente intimiditi. Li lasciava parlare, li ascoltava con aria compiaciuta, poi li smontava con precisione chirurgica, usando logiche stringate, esempi distorti, a volte semplice sarcasmo.

Il pubblico applaudiva, i video diventavano virali, il mito del “debater imbattibile” cresceva. Ma era davvero un confronto? Oppure una sceneggiatura ben studiata, dove l’avversario serviva solo a far brillare il protagonista? Mi viene in mente Tracy Asè-Shabazz (Assistente Amministratore presso la St. George’s University a Grenada), che dopo averlo visto all’opera disse: “Kirk va nei campus a discutere con bambini. Non può discutere con persone della sua età”. Ecco, forse in quelle parole c’è tutta la sostanza del metodo: non cercare il dialogo, ma la vittoria mediatica. Creare spettacolo, non riflessione.

E allora proviamo a guardare alle sue posizioni, non per demolirle con odio, ma per capire come abbiano potuto attecchire in così tanti. Sì, parlava contro Big Tech, contro i media mainstream, contro il governo troppo grande, contro l’élite accademica. Prometteva libertà individuale, sovranità del cittadino, il ritorno ai valori della famiglia, delle piccole imprese, della Costituzione originale. Tutto questo risuona in un’epoca in cui molte persone si sentono escluse, ignorate, tradite dalle istituzioni.

Ed è qui che il suo messaggio diventa potente: non perché sia profondo, ma perché arriva dritto al cuore di chi si sente invisibile. Diceva di voler rompere la “camera d’eco liberale”, mostrare che la sinistra sui campus ha paura del confronto. Ma il confronto che proponeva era spesso un monologo travestito da dialogo, una guerra culturale presentata come difesa della verità. Parlava di aborto come di una questione assoluta, pro-life senza compromessi, arrivando a dichiarare che anche se sua figlia di dieci anni fosse stata violentata e rimasta incinta, avrebbe voluto che portasse a termine la gravidanza. Sul clima, negava il ruolo dell’uomo nel cambiamento climatico. Sul Covid, sminuiva l’importanza dei vaccini e dei lockdown. Sul Secondo Emendamento, sosteneva il diritto a possedere armi a ogni costo, persino se significava accettare morti annuali come prezzo inevitabile.

E poi c’erano i temi più esplosivi: l’immigrazione, che secondo lui era parte di una “Grande Sostituzione”, un piano per cancellare l’America bianca e rurale; i diritti transgender, che definiva una “delusione woke”, parlando di trans donne come uomini con “autoginefilia”, un termine pseudoscientifico respinto dalla comunità medica; il movimento Black Lives Matter, che riduceva a una narrazione basata sul privilegio bianco, mentre attribuiva i problemi della comunità nera all’assenza del padre in casa, cancellando decenni di studi sul razzismo sistemico. Ha detto, durante un dibattito, che forse era più facile per una persona nera entrare alla University of Florida che per una bianca. Frasi così non sono semplici opinioni: sono semina di divisione. Eppure, proprio per questo, funzionano. Perché creano identità attraverso il nemico: il politicamente corretto, il woke, il globalista, il burocrate. E chi grida più forte contro questi mostri, diventa un paladino.

Ma come si arriva a sparare a un uomo per le sue idee? È questo il punto che non riesco a superare! Nessuno merita di morire per ciò che pensa, neanche quando quel pensiero è tossico, miope, dannoso. I tempi dell’inquisizione dovrebbero essere finiti, e invece sembra che qualcuno abbia deciso di riprenderli in mano, con una pistola.

E allora mi chiedo: chi alimenta questo clima? Chi trasforma il disaccordo in odio, la critica in demonizzazione? Perché ora, dopo la sua morte, sento certi politici italiani – eviterò di nominarli – esprimere cordoglio per Kirk, lodarlo come difensore della libertà, quando è evidente che molti di loro non hanno mai ascoltato un suo podcast, letto un suo libro, né tantomeno compreso il senso della sua battaglia! 

È ipocrisia? Opportunismo? O forse condividono in silenzio quel mondo che lui rappresentava? Perché altrimenti celebrare un uomo che ha fatto della provocazione un mestiere, che ha costruito un impero su divisione e paura?

Ho ascoltato alcuni dei suoi episodi, visitato il suo sito, osservato i suoi dibattiti. C’è qualcosa di magnetico in lui, lo ammetto: carisma, sicurezza, capacità di sintesi. Ma c’è anche una totale mancanza di autoreflexività, un’incapacità di mettersi in discussione che stride con lo slogan “Prove Me Wrong”.

Perché se davvero avesse voluto mettersi alla prova, avrebbe scelto interlocutori preparati, seri, capaci di ribattere con dati e argomenti, non studenti emozionati o attivisti improvvisati. Invece ha preferito il il teatro, il conflitto, il dominio, gia come molti nostri politicanti!

E il risultato è un circolo vizioso: più polarizza, più cresce il suo seguito; più cresce il suo seguito, più aumenta l’odio verso di lui. Fino al gesto estremo. E ora che è morto, rischia di diventare un simbolo ancora più potente di quando era vivo. Trump, pare, voglia assegnargli postuma la Medaglia Presidenziale della Libertà. Un gesto politico, certo. Ma anche un acceleratore di mito, per non dire l’ennesima cazz… 

Tutto questo mi lascia con un groviglio dentro. Da un lato, condanno con forza le sue posizioni, che considero regressivo, culturalmente arretrate, spesso crudeli. Dall’altro, non posso accettare che la violenza sia diventata l’ultima parola del dissenso. E nel mezzo, vedo un paese – e non parlo solo degli Stati Uniti – sempre più frammentato, dove la parola è stata sostituita dal grido, il ragionamento dal like, il dibattito dal tifo, e dove persino le affermazioni più incredibili vengono pronunciate con sicumera nei palazzi delle istituzioni, come se la realtà potesse piegarsi alla retorica. 

L’ultima l’ho ascoltata in questi giorni nei Tg, dal Palazzo di Vetro dell’ONU, quando il Presidente degli Stati Uniti ha dichiarato con orgoglio di aver concluso sette guerre durante il suo mandato. Sette guerre. Ma quale guerre? Di quali conflitti parlava? Perché non ne ho mai sentito nominare una? Non una firma su un trattato, non un annuncio internazionale, nessuna cronaca che documenti la fine di un solo conflitto armato sotto la sua guida. Eppure l’ha detto così, come se fosse un dato incontrovertibile, mentre nella sala scendeva un silenzio imbarazzato, subito coperto dagli applausi dei suoi sostenitori. Una frase vuota, forse perfino inventata, ma efficace: perché nell’era dello spettacolo, basta che suoni forte per sembrare vera.

Ho già scritto in passato che stavamo andando verso derive violente. Forse, in cuor mio, speravo di sbagliarmi. Ma ormai devo ammettere che, purtroppo, in quindici anni di post, i miei timori si sono rivelati quasi sempre fondati. E ogni volta che una mia previsione si è avverata, il prezzo è stato alto. 

Trump decide per tutti, sia per l’Ue che per l’Italia!

Ho scritto più volte che la politica internazionale, specie quella europea e ancor più quella italiana, conta quanto il due di coppa quando la briscola è a oro.

Vedrete infatti che né la Von der Leyen, né Zelensky, e men che mai i nostri referenti istituzionali (ahimè impreparati…), riusciranno a far sedere russi e ucraini a un tavolo per risolvere questo conflitto.

La ragione, al di là delle cazzate propinate dai Tg, sta in una decisione precisa del Presidente Trump.

Dopo l’incontro con Putin e le critiche ricevute dai leader europei per la loro esclusione dai colloqui in Alaska, egli ha scelto deliberatamente di mettersi da parte.

Sta soprassedendo, osservando con quale goffa inefficacia l’Ue stia gestendo una partita che è troppo grande per lei, sapendo bene che le sue politiche non porteranno a nulla. È solo questione di tempo!

Quando la situazione entrerà in stallo e tutti si piegheranno a supplicarlo, lui, come una prima donna, farà il suo ingresso trionfale per dettare una pace alle sue condizioni, e a quelle di Putin, già ampiamente concordate.

Chi non accetterà questa realtà ne subirà le conseguenze, perché il gioco è già fatto e l’Europa non è stata nemmeno consultata. È chiaro ormai che le decisioni finali non si prenderanno a Bruxelles o a Roma, ma altrove.

Riflessioni e perplessità sulle parole di Papa Francesco.

Forse è tempo che il Papa consideri il ritiro, come già fatto dal suo predecessore Ratzinger, anche se per ragioni diverse, probabilmente legate a circostanze poco chiare accadute durante il suo pontificato.

Già… ho l’impressione che ogni volta che Papa Francesco venga intervistato senza l’ausilio di note preparate, tenda a lasciarsi andare a dichiarazioni che sorprendono o lasciano interdetti molti di noi.

Credo che queste sue affermazioni siano influenzate da una condizione psico-fisica in declino, comune a molti della sua età, che lo porta ad esprimere il proprio pensiero in modo eccessivamente aperto. Questo si manifesta particolarmente in commenti fortemente critici e talvolta troppo schierati.

Un aspetto cruciale è che le sue parole non rappresentano il pensiero di un comune cittadino, bensì quello della massima autorità religiosa cristiana, con una responsabilità verso oltre 2,3 miliardi di fedeli. Ogni dichiarazione dovrebbe essere ponderata con estrema attenzione, per evitare interpretazioni gravi e conseguenze irreversibili.

Un esempio significativo è rappresentato dalle sue recenti dichiarazioni durante un incontro con un accademico iraniano. Sebbene siano state in seguito chiarite come riferite alle politiche del premier israeliano Netanyahu e non agli ebrei o allo Stato di Israele in generale, le sue parole hanno suscitato ampie critiche. Questo ha portato a contestazioni per il modo in cui ha affrontato il tema del massacro a Gaza.

Se è vero che il Papa ha diritto di esprimere il suo pensiero, non può farlo in modo da coinvolgere l’intera comunità cristiana. Criticare apertamente il mondo ebraico, Israele o il premier Netanyahu per presunti comportamenti criminali legati all’alto numero di vittime civili a Gaza è una scelta inopportuna. Non è compito del Papa assumere il ruolo di giudice del Tribunale del diritto internazionale.

Non è la prima volta che Francesco prende posizione sulla guerra tra Israele e Hamas, iniziata dopo il terribile attentato terroristico del 7 ottobre 2023. Le sue dichiarazioni, come l’invito a valutare se quanto accade nella Striscia possa essere definito “genocidio”, hanno scatenato reazioni dure, tra cui quelle dell’ambasciata israeliana presso la Santa Sede. La posizione ufficiale del Vaticano, ribadita dal segretario di Stato cardinale Pietro Parolin, è stata di condanna dell’antisemitismo, ma il dibattito resta acceso.

Poco prima di Natale, il Papa ha sottolineato la crudeltà dei bombardamenti che colpiscono anche i bambini, definendo tali azioni non guerra ma barbarie. Tuttavia, il suo incontro con l’accademico iraniano Abolhassan Navab, presidente dell’Università delle religioni, ha fornito ulteriori spunti polemici. Navab ha elogiato Francesco per il suo coraggio nel difendere il popolo palestinese e il Papa avrebbe risposto ribadendo l’assenza di problemi con il popolo ebraico, ma criticando duramente Netanyahu per il mancato rispetto delle leggi internazionali e soprattutto dei diritti umani.

Queste parole, per quanto possano riflettere un’opinione personale, sono problematiche nel contesto del ruolo che il Papa riveste e il loro peso è amplificato dalla posizione che occupa e dalle implicazioni che ogni sua dichiarazione può avere sulla scena internazionale.

Il post continua…