
Pax vobis in hac nocte sacra, et lumen Christi fulgeat in cordibus vestris – (Tradizione Cattolica): Pace a voi in questa notte sacra, e la luce di Cristo brilli nei vostri cuori.
Eirḗnē hymîn en têi hagíai nyktí, kaì tò phôs toû Christoû phaínetai en taîs kardíais hymôn – (tradizione Ortodossa): Pace a voi nella notte santa, e la luce di Cristo risplenda nei vostri cuori.
Friede sei mit euch in dieser heiligen Nacht, und das Licht Christi leuchte in euren Herzen – (Tradizione Protestante): Pace sia con voi in questa notte santa, e la luce di Cristo risplenda nei vostri cuori.
Tre frasi. Tre lingue. Tre tradizioni che custodiscono lo stesso senso, pur pronunciandolo con suoni diversi, gesti diversi, calendari che talvolta si sfasano di giorni, di settimane.
Non è un caso che in ognuna risuoni la parola “pace” – non come assenza di rumore, ma come silenzio scelto, come gesto di chi decide di fermarsi, abbassare la voce, deporre il giudizio. Pace come riconoscimento: nell’altro non un errore da correggere, ma un cammino da ascoltare.
Eppure proprio in questa festa, che racconta di un Dio che si fa fragile per abitare la nostra fragilità, continuiamo a innalzare muri alti quanto le nostre cattedrali. Ci dividiamo sulla formula giusta, sulla data esatta, sulla liturgia più autentica, come se la verità fosse un codice da decifrare invece che una luce da condividere. Come se bastasse parlare la stessa lingua per capirsi davvero.
Dimentichiamo che quelle stesse parole latine, greche, tedesche furono tradotte non per uniformare, ma per avvicinare. Perché la fede non è un deposito da sorvegliare, ma una fiamma da passare di mano in mano – senza pretendere che bruci allo stesso modo in ogni cuore.
Il Natale, nella sua essenza religiosa, è profondamente cristiana. Ma la sua eco ha scavalcato i recinti dei templi. Si è fatta canto di piazza, abete addobbato in un condominio laico, scatola regalo lasciata sulla scrivania di un collega che prega rivolto alla Mecca, luci accese su una vetrina a Pechino dove nessuno sa chi sia quel bambino nella mangiatoia, ma tutti sentono, in qualche modo, che quella notte chiede un passo indietro dal rumore del mondo.
Non è annacquamento. È la prova che certe domande, come su cosa significhi nascere, su cosa valga proteggere una vita piccola, su come tenere acceso il calore quando fuori fa buio e freddo, non appartengono ad una sola tradizione, ma attraversano l’intera umanità.
Eppure, finché resteremo convinti che l’altro debba diventare come noi per meritare rispetto, quella luce resterà confinata in una nicchia, spenta dal vento della banale superiorità.
Perché la pace non nasce dall’uniformità, ma dal coraggio di stare insieme pur essendo diversi – senza fingere che le differenze non esistano, ma scegliendo di non farne un’arma.
Finché divideremo il mondo in ortodossi ed eretici, in fedeli e indifferenti, in chi ha capito e chi ancora sbaglia, non celebreremo mai davvero il Natale. Ne consumeremo solo la superficie, come una decorazione da appendere e poi – come accade puntualmente a gennaio – rimuovere.
Ecco… forse la domanda più importante di questa notte e di questo mattino non è chi ha ragione, ma chi siamo disposti a lasciare fuori dalla stalla.
Perché là dentro – come accade ahimè ancora oggi – c’è freddo, fame, disperazione. Eppure, un nuovo respiro cancella per un istante tutta quella sofferenza. Lì… non c’è posto per strategie, armi, politica, ma solo il desiderio di poter andare avanti, di lasciarsi quell’orribile mondo che li circonda alle spalle.
Buon Natale, allora, a tutti – a chi lo vive con fede, a chi con memoria, a chi con affetto, e a chi come me, lo attraversa con dubbio, ma non con indifferenza. Perché il dubbio, se è onesto, non allontana: chiede solo di camminare più lentamente, per non lasciare indietro nessuno.
E quel coraggio – piccolo, quotidiano, spesso inascoltato – di voler restare insieme, pur senza accordi preventivi, pur senza identità sovrapposte, è forse il gesto più vicino allo spirito di quella notte: non chiudere la porta, non pretendere che l’altro impari la nostra lingua, ma sedersi accanto, in silenzio, e provare a inventare una nuova parola, breve, antica, ma oggi più che mai necessaria: Noi













