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Non c’è amore più grande che darsi interamente a chi si ama.


Era la prima volta che sentivo il silenzio parlare così forte

Non il silenzio del borgo, quello lo conoscevo bene, era un vecchio amico fatto di pietre consumate dal tempo e di strade che si allungano senza fretta nella campagna, no, questa volta era un silenzio diverso, più intimo, che riempiva la chiesetta di Brancion come un velo sospeso, denso e chiaro al tempo stesso, come se perfino il tempo, qui così abituato a fermarsi, avesse trattenuto il fiato per ascoltare qualcosa di essenziale.

Ero seduta in fondo, come mi capita spesso, a osservare i figli, i nipoti, gli amici che si stringevano intorno alla bara del dottor Martin, e mi è venuto spontaneo pensare a quanto le nostre professioni, all’apparenza così distanti – la mia custode del riposo, la sua custode della vita – siano in realtà sorelle nella sostanza, accomunate da un’unica vocazione: accogliere chi vacilla, tenere aperta una porta quando tutto sembra chiudersi, essere presenza prima ancora che parola.

Suo figlio, dal pulpito, ha raccontato di un uomo che non si limitava a curare, ma si prendeva cura, un medico che faceva pagare una sola visita, anche se tornava tre volte nello stesso pomeriggio, o se, con un gesto solo, auscultava il cuore di un’intera famiglia radunata in cucina.

Un uomo che sapeva porre tre domande appena, e da quelle riusciva a cogliere non solo la malattia, ma la storia intera di chi aveva davanti, in un’epoca in cui i farmaci non erano ancora una scelta infinita, eppure la guarigione arrivava lo stesso, perché la cura più potente era già lì, nel modo in cui ti guardava, nel modo in cui restava.

Le sue parole mi hanno riportata a tanti volti che ho incontrato quando varcavano il cancello del cimitero: smarriti, stremati, sospesi tra un prima e un dopo che non riconoscono più.

Ho ripensato a quanto sia fragile il confine tra conforto e formalità, e a come, spesso, sia proprio nella rinuncia alla fretta che si nasconde l’unico gesto davvero riparatore: fare posto, senza condizioni, al dolore dell’altro.

Essere una persona perbene, nella vita come nel lavoro, non è una maschera da indossare, né un ruolo da interpretare in scena, è una scelta silenziosa, quotidiana, che non reclama applausi, che non chiede restituzione.

È voltarsi verso chi ha bisogno, anche quando la stanchezza preme sulle spalle, anche quando nessuno lo vedrà, nessuno lo ricorderà.

Poi è arrivato il momento della lapide, e il mio sguardo si è fermato su quel medaglione di ceramica.

Non c’era una foto in posa, né una cerimonia, né un ritratto ufficiale. C’era lui, forse sui cinquant’anni, con il viso segnato dal sole e gli occhi che ridevano prima ancora delle labbra, davanti a un orizzonte di mare aperto, lontano dalle strade polverose della campagna, lontano dai richiami notturni, dalle tosse stizzose, dai letti da visitare all’alba.

Quell’immagine ha detto più di ogni elogio: non si era identificato solo con la sua missione, per quanto intera fosse stata la sua dedizione. Aveva saputo ritagliarsi spazi di leggerezza, non per sfuggire, ma per tornare più intero, più vero, più capace di donare.

Ho capito allora che per dare senza esaurirsi, bisogna prima aver accolto qualcosa di bello dentro di sé.

Non è egoismo cercare la propria luce: è responsabilità. È il riconoscimento che ogni dono autentico nasce da una sorgente che va alimentata, non prosciugata.

Prima della benedizione, il sacerdote ha citato il Vangelo, e quelle parole sono cadute nella navata con la forza di una verità antica che non invecchia mai: Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi.

E ho pensato che dare la vita non significa sempre un gesto eclatante, un sacrificio estremo. Può significare restare, quando sarebbe più facile andarsene. Può significare ascoltare, quando il silenzio sarebbe più comodo. Può significare sorridere, anche se dentro c’è un peso.

Questo è il lascito del dottor Martin: una vita vissuta come un atto d’amore continuo, discreto, non negoziabile.

Vivere così – con coerenza, con delicatezza, con fedeltà – vuol dire scegliere ogni giorno di essere un rifugio. Per chi è ancora in cammino, e per chi ha già concluso il suo viaggio e affida a noi, con fiducia, la custodia della sua memoria.

La cortesia che cerco di praticare nell’accogliere i parenti in lacrime, e quella che lui esercitava chinandosi su un lettino di ferro per prendere un polso con le dita ferme e calde, nascono dalla stessa radice: la convinzione che ogni incontro meriti rispetto, e che nel dono di sé non si perde nulla, anzi, si guadagna una forma più alta di esistenza.

Uscendo dalla chiesa, il sole di Brancion accarezzava le facciate di pietra, e il silenzio era tornato, ma non più denso, non più trattenuto: era diventato leggero, vivo.

Il tempo non era fermo, no: si era mosso, dolcemente, portando via con sé una cerimonia, e lasciando in cambio una lezione incisa non sulla pietra, ma nelle pieghe dell’anima.

Essere una persona perbene non è un epitaffio da incidere alla fine, è un verbo, da coniugare ogni mattina.

È scegliere di cambiare l’acqua ai fiori non solo nel proprio giardino, ma in ogni angolo di vita che attraversiamo. È sapere che un giorno, forse, di noi resterà solo un sorriso impresso in una foto sbiadita, una voce che ha saputo ascoltare, una mano che non ha mai chiesto indietro niente.

E che quel sorriso, quella voce, quella mano, saranno abbastanza, sì… abbastanza per dire: era una persona perbene!

E non c’è eredità più preziosa..

Fuori Croazia e Albania da "Euro 2024"!!!

Continuando con quanto avevo riportato ieri, già rifefendomi all’abietta natura umana, ecco che a conferma di quanto scritto ieri, alcuni tifosi della Croazia e dell’Albania, hanno confermatoquel pensiero, già… manifestando tutta la propria sterilità con azioni ignobili che non trovano paragone neppure con taluni comportamenti degli animali… 

Quello che è successo è scandaloso”, a dirlo è la Serbia che ora minaccia di lasciare “Euro 2024: chiederemo sanzioni alla UEFA, anche a costo di non continuare la competizione”!!!

Sembra infatti che durante l’ultima partita tra Croazia e Albania i tifosi abbiano innalzato cori discriminatori contro la Serbia!!!

Ora, cosa centrano quei cori con la partita non si capisce…

Ma d’altride come ho scritto sopra, questi soggetti sono in fondo poveri d’animo ed evidenziano di esser vittime di una triste condizione, già… poveretti mi fanno pena, perchè non si rendono conto, tanto da non porsi il problema, di quanto essi siano inutili, non solo per se stessi ma anche per gli altri…

La mia opinione personale vedendo quesi atteggiamenti è che viviamo in una società umana basata sulla legge dell’egoismo, dove ciascuno pensa soltanto per se e se ne fotte degli altri, mi riferisco a chi da semrpe soffre, di quanti hanno bisogno, di tutti coloro che potrebbero essere aiutati ed invece viviamo in una società riprovevole in cui vivere e disgraziatamente per quanto noi possiamo deplorare questa condizione, ciò non le impedisce di manifestarsi!!!

Non si può parlare neppure di egoismo, già questa parola sarebbe troppo riduttiva, anche se si adatta in maniera perfetta alla definizione di quei soggetti, ma qui si tratta d’inidividui incapaci di comprendere e di conseguenza valutare in modo opportuno le proprie azioni, soprattutto quelle compiute nei confronti degli altri. 

Ma lo stesso potremmo dire accade al contrario e cioè nell’interpretare in modo sbagliato le azioni degli altri nei propri confronti, il tutto ovviamente aggravato da una totale mancanza di empatia del prossimo!!!

Quindi, non si tratta d’esser sportivi ancor prima che tifosi, qui non sono le società a dover essere con le loro azioni processate,  ma i loro tifosi, cittadini benestanti di Stati ricchi sotto il profilo materiale, ma certamente “poveri” dentro…

Difatti, ciascuno di quegli individui “egocentrici” dimostra esser incapace di aiutare il prossimo, poichè essi sono sono poveri d’animo e difatti, in quella loro totale ignoranza, non fanno nulla per colmare le proprie mancanze, anzi viceversa evidenziano in ogni corcostanza atteggiamenti aggressivi, razzisti, egoisti ed aggiungerei avidi…

E’ tempo di dar loro quindi il buon esempio, buoni esempio, far comprendere cosa è giusto e come diventare generosi nei confronti degli altri, ecco perché ritengo sia corretto estromettere dal torneo quelle due squadre e di conseguenza le loro tifoserie, affinche si comprenda, una volta e per tutte, che è giunto un rinnovamento culturale e sociale!!!

Sicramente quanto sopra non verrà realizzato, ed allora affido questo pensiero alla giustizia divina, auspicando che grazie ad essa, queste due squadre verrano – una volta e per tutte – buttate fuori dal torneo, mentre viceversa non posso che augurare alla Serbia di proseguire in questa competizione!!!