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Leggendo i Vangeli, qualche fedele potrebbe credere che Gesù abbia attraversato il mondo, quando in realtà non si è mai allontanato (più di tanto) da casa.


È interessante notare come, negli ultimi due decenni, la geografia biblica abbia compiuto un salto non da poco: non più affidata solo a disegni schematici nei libri di studio, ma a modelli digitali interattivi, costruiti con dati archeologici, satellitari e testuali incrociati. 

Il Digital Atlas of the Holy Land, curato dalla Society of Biblical Literature in collaborazione con ricercatori di università come Yale e Tel Aviv, offre oggi una ricostruzione stratigrafica dei percorsi antichi, compresi quelli plausibili del I secolo. 

Lì, per esempio, si può tracciare in tempo reale la via che da Sefforis – città romana vicina a Nazaret, dove Gesù probabilmente lavorò come artigiano – conduceva a Cafarnao: un tracciato di circa 35 km, in gran parte su una strada secondaria che costeggiava le colline della Bassa Galilea, con pendenze dolci ma polvere abbondante nei mesi estivi.

Anche BiblePlaces.com, fondato dall’archeologo Todd Bolen, va oltre la semplice mappa: integra foto aeree attuali, scansioni LiDAR e ricostruzioni 3D di siti come il pozzo di Giacobbe a Sichem o le rovine di Gerico pre-70 d.C., consentendo di confrontare il paesaggio odierno con quello che Gesù avrebbe visto. 

In una delle sue schede su Jesus’ Travels, si legge una nota particolarmente evocativa: i ricercatori hanno calcolato, in base all’andatura media di un camminatore antico (4–5 km/h, con soste ogni due ore), che il viaggio da Cafarnao a Gerico – tappa intermedia cruciale prima della salita a Gerusalemme – richiedeva circa tre giorni, con pernottamenti a Scitopoli o a Fasaelis, villaggi ormai ridotti a cumuli di pietra, ma ben documentati negli archivi del Israel Antiquities Authority.

Una cosa colpisce: quasi tutti questi spostamenti rientrano in un’area di circa 150 km di diametro – meno della distanza tra Catania e Palermo. Eppure, quella piccola porzione di terra era un crocevia di lingue, imperi, culti e resistenze. Camminare da Nazaret a Gerusalemme significava passare da un villaggio aramaico a una città ellenizzata, da una regione governata da Erode Antipa a un’altra sotto diretto controllo romano, con dogane, dialetti diversi, monete non sempre accettate. 

Non era solo una questione di chilometri: era un attraversamento continuo di mondi. E Gesù lo fece a piedi, senza scorta, senza permessi speciali, un uomo in movimento in un territorio controllato.

Quel che i dati moderni confermano, più di ogni altra cosa, è la località radicale della sua missione. Non parlava dal centro del potere, né da un pulpito remoto: lo faceva nei campi, sulle rive, alle porte delle città, in luoghi dove la gente si fermava per necessità, non per devozione. Il pozzo di Sichem, per esempio, non era un santuario: era un punto d’acqua quotidiano, un crocevia femminile, un non-luogo sacro che diventa, per un dialogo, luogo di rivelazione. 

Oggi, grazie alle mappe del Digital Atlas, possiamo vedere che quel pozzo si trova a poche centinaia di metri da una strada carovaniera secondaria – non isolato, ma attraversato, proprio come la donna samaritana, proprio come il Vangelo stesso.

Se vi interessa esplorare personalmente questi percorsi, ti segnalo due risorse aperte e gratuite:

– Il Digital Atlas of the Holy Land è accessibile qui: https://dathl.sbl-site.org

– Le mappe tematiche di BiblePlaces.com, compresa quella dedicata ai viaggi di Gesù, si trovano in questa sezione: https://www.bibleplaces.com/jesus-travels/

Entrambe permettono di sovrapporre antico e moderno, di misurare distanze con precisione, di capire non solo dove, ma come si camminava allora e forse, per contrasto, come camminiamo noi oggi, sempre più veloci, sempre meno presenti.

Perché, alla fine, questo post non vuole ridurre il sacro al misurabile: vuole però restituire a quell’uomo, quello spessore umano che qualcuno (dopo tre secoli dalla sua morte) ha voluto stravolgere, sì…  per creare quel “mistero di Cristo”, un concetto chiave che includendo egli alla cosiddetta “trinità”, ha potuto di fatto elevare quei semplici uomini ad un livello e ad una gerarchia, capace di condizionare la storia per millenni, influenzando fino ad oggi, 2,4\miliardi di cristiani nel mondo.

Oggi, grazie alle mappe del Digital Atlas, possiamo vedere che quel pozzo si trova a poche centinaia di metri da una strada carovaniera secondaria, non isolato, ma attraversato, proprio come la donna samaritana, proprio come il Vangelo stesso.

E allora, forse, il vero scopo di riproporvi queste mappe non è ridurre il sacro al misurabile, è piuttosto restituire a quell’uomo il suo spessore umano, troppo spesso offuscato da secoli di dottrina. Quel “mistero di Cristo“, un concetto chiave che, a partire da tre secoli dopo la sua morte – includendolo nella cosiddetta “trinità” – ha di fatto elevato anche quei semplici uomini a un livello gerarchico capace di condizionare la storia per millenni – influenzando fino ad oggi 2,4 miliardi di cristiani – e che – il più delle volte – ne ha allontanato il volto più autentico.

Il mio desiderio, viceversa, è più semplice e più radicale: restituire a quell’uomo il respiro di chi cammina davvero. I piedi gonfi, la gola secca, lo sguardo rivolto al prossimo incontro. Gli occhi di chi sa che la trascendenza non abita in un altro mondo, remoto, ma proprio qui, nel terreno battuto ogni giorno. Nella polvere sollevata da un passo stanco, nella luce obliqua di un tramonto, nel gesto disarmante di chiedere un po’ d’acqua e di concedere, in cambio, una parola che cambia tutto.

Perché è in quel gesto, in quella parola disarmata e potente, che risiede la distanza più breve e al tempo stesso incolmabile tra l’umano e il divino. Una distanza che nessuna mappa, e forse neppure alcuna Chiesa, potrà mai contenere…

Oltre le cazzate sul Paradiso…

Albert Einstein, quando gli veniva chiesto se credesse in Dio, rispondeva spesso con una frase tanto semplice quanto enigmatica: “Credo nel Dio di Spinoza“.

Per molti, questa risposta potrebbe sembrare poco chiara o addirittura priva di significato, ma in realtà racchiude un intero universo di pensiero, una visione che trascende la religione convenzionale per abbracciare qualcosa di profondamente razionale e naturale. Per comprendere il senso di questa affermazione, dobbiamo immergerci nel pensiero di Baruch Spinoza, filosofo del XVII secolo e figura centrale del razionalismo.

Spinoza, vissuto in un periodo dominato dalla fede e dalla dogmatica religiosa, concepì Dio in un modo completamente innovativo, identificandolo con l’ordine geometrico del mondo, manifestazione suprema della perfezione della Natura. Una delle sue massime più celebri, Deus sive natura (Dio ovvero la Natura), riassume il suo pensiero: Dio non è un’entità separata e trascendente, ma è immanente, presente in ogni aspetto del mondo naturale. Egli è la legge stessa che regola l’universo, la logica che permea ogni cosa.

Immaginando il Dio di Spinoza parlare, potremmo attribuirgli queste parole:

“Smettila di pregare e di batterti sul petto. Divertiti, ama, canta e goditi tutto ciò che questo mondo ti può dare. Non voglio che tu visiti i templi freddi e bui che chiami la mia casa. La mia casa è nelle montagne, nelle foreste, nei fiumi, nei laghi e sulle spiagge. Lì è dove esprimo il mio amore. Non farti ingannare dai testi scritti che parlano di me: se vuoi trovarmi, guarda un paesaggio, senti il vento e il calore sulla tua pelle.

Non chiedermi nulla: non ho il potere di cambiare la tua vita. Tu, però, sì. Non avere paura: non giudico, non critico, non punisco. Non credere a chi mi riduce a un elenco di regole. Quelle servono solo a farti sentire inadeguato, colpevole, e a controllarti. Non pensare al mondo dopo la morte: non è lì che troverai la bellezza. Questo mondo è pieno di meraviglie, e sta a te scoprirle. Non voglio che tu creda in me per fede cieca, ma che tu mi senta sempre in te e intorno a te.

È facile intuire come il pensiero di Spinoza fosse radicale per la sua epoca, e lo rimane tutt’oggi. 

Il Dio che descrive è un Dio di libertà, estraneo alle dinamiche umane del perdono e della punizione, un Dio che non richiede sottomissione ma che invita alla celebrazione della vita. Questo spostamento di prospettiva – dalla paura del giudizio alla valorizzazione della bellezza del mondo – restituisce l’esistenza nelle mani di chi la vive.

E allora, è inevitabile chiederci: quanto delle religioni istituzionalizzate si basa su una narrazione di controllo e paura? Quante dottrine promettono un aldilà glorioso a patto che si rispettino determinate regole, spesso arbitrariamente dettate? Queste idee non sembrano servire tanto a elevare l’anima umana, quanto a vincolarla, a tenerla incatenata al timore di una punizione eterna o alla speranza di una ricompensa ultraterrena.

Ma se, come diceva Lavoisier, “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma” allora non è più liberatorio pensare che siamo energia in continuo mutamento? Un’energia che non scompare con la morte, ma che si reintegra nel grande disegno dell’universo, proprio come la Natura di Spinoza.

Forse è tempo di abbandonare le cazzate di chi ci promette un paradiso celeste in cambio della nostra sottomissione. 

Forse è tempo di guardare il mondo per quello che è: un luogo straordinariamente bello, ricco di opportunità per amare, gioire e vivere. 

La vera spiritualità non risiede in dogmi e templi, ma nell’esperienza diretta della vita, nel riconoscere il divino in ogni respiro del vento e in ogni raggio di sole.

Un grazie a Palermo e uno sguardo sulla festa della Madonna.

Da un paio di mesi la città di Palermo mi accoglie, e oggi, trovandomi in via Roma, ho voluto ringraziarla condividendo ciò che ho vissuto durante la festa della Madonna. 
Una folla di fedeli ha preso parte alla celebrazione, deponendo rose – offerte dai Vigili del Fuoco – ai piedi della statua posta in cima a una colonna.
Come in tutte le feste religiose, non mancava nessuno: dall’Arcivescovo con la sua omelia ai politici e militari in primo piano sul palco (senza dimenticare le confidenze ironiche di Emanuele, un ragazzo accanto a me). 
E poi i futuri seminaristi in vesti bianche, i parrocchiani devoti con il Sacro Cuore di Gesù sul petto, e i giovani volontari che, pieni di speranza, credono nel cambiamento attraverso l’amore e la parola di Dio – anche se, a volte, senza approfondire quel patrimonio scritto che potrebbe guidarli verso una spiritualità più consapevole.
Non mancavano neppure chi vive ai margini della comunità, ma che in queste occasioni trova conforto nell’organizzare processioni, preghiere o semplicemente nell’essere presente. 
E poi i negozianti, che approfittano dell’evento per tenere aperto, cercando di vendere la loro merce – un’abitudine antica, se pensiamo ai mercanti cacciati da Gesù dal Tempio di Gerusalemme.
La banda intonava canti religiosi, le acclamazioni si alzavano, gli applausi concludevano la cerimonia. 
Poi, tutto è tornato alla normalità: chiacchiere, preoccupazioni quotidiane, programmi per la serata. 
Quell’attimo di devozione sembra svanire troppo in fretta, lasciando spazio all’indifferenza di sempre. 
Quante volte, dopo un’esperienza che dovrebbe commuoverci, riprendiamo la routine come se nulla fosse?
Ma oggi, tra le tante cose, ho coltivato un desiderio: che Yara, quella ragazzina il cui nome tutti conosciamo, possa presto tornare a casa e lasciarsi alle spalle questi giorni bui. 

Perché in fondo, anche se a volte la fede sembra un rituale distratto, è nelle speranze più semplici che si nasconde la vera devozione.