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L’inganno della tregua: Donald Trump raccoglie gli applausi, ma il merito va a suo genero Kushner, all’inviato speciale Witkoff e al leader di Hamas, Khalil al-Hayya.


Già… bisogna ringraziare Jared Kushner e l’inviato speciale Steve Witkoff, insieme ai capi di Hamas – capeggiati dal loro leader Khalil al-Hayya, sopravvissuto appena tre settimane prima a un attacco israeliano a Doha – se l’accordo è stato realizzato.

Parliamo degli stessi protagonisti che in passato avevano promosso gli “Accordi di Abramo”, quei patti volti a normalizzare le relazioni tra Israele e diversi Paesi arabi.

Come sempre accade nella vita – e il sottoscritto ne sa qualcosa – gli applausi e le coccarde non vanno mai a chi svolge il lavoro sporco sul campo, bensì a chi incarna la figura istituzionale. Così, anche Donald Trump si riprende la scena, mentre chi, dietro le quinte, ha condotto per settimane la trattativa a tu per tu con i quattro leader di Hamas, non riceve neppure un ringraziamento pubblico.

Ma permettetemi di contraddire quanto scritto in queste ore da pseudo-giornalisti legati in maniera diretta a quel meccanismo di “propaganda politica di governo” che ormai ha infettato il nostro Paese. Uscendo da quello schema – che ricorda fin troppo da vicino il metodo Goebbels – non posso che constatare una realtà scomoda: la tregua raggiunta è stata esclusivamente un mero scambio di prigionieri. Da un lato gli ultimi venti ostaggi israeliani, dall’altro circa duemila detenuti palestinesi. Un baratto umano che ha sollevato un velo di sollievo, ma che non ha scalfito il cuore del problema.

D’altronde, questo nuovo accordo, celebrato a Sharm el-Sheikh da numerosi leader internazionali, ha deliberatamente escluso le parti direttamente coinvolte – Israele e Hamas – come se il destino di una terra potesse essere deciso senza di loro. È lo stesso errore già commesso negli anni passati, e proprio in questa grave assenza risiede, secondo il sottoscritto, l’ennesimo grande fallimento: un fallimento che lascia i due popoli confinanti separati da una voragine… già, proprio come nella mia foto.
Ho osservato – dopo due anni di guerra – quanto è accaduto a seguito del raid di Hamas, e non posso che prendere atto di ciò che resta oggi: un immenso cimitero a cielo aperto, la distruzione totale della Striscia di Gaza, con case, ospedali e scuole ridotti in macerie, e soprattutto oltre sessantasettemila morti e una popolazione stremata dalla fame.

In questo scenario apocalittico, ogni parte ha perso qualcosa, ma forse Hamas ha perso più di tutti, incluso il favore del suo stesso popolo, sfiancato da una violenza che non ha condotto da nessuna parte se non alla rovina.

L’Autorità Palestinese, con sede in Cisgiordania, cerca ora di ritagliarsi uno spazio di mediazione, presentandosi all’ONU e al mondo come l’unico interlocutore credibile per riavviare un dialogo che porti finalmente alla costituzione di uno Stato palestinese – un sogno che sembra più vicino sulla carta che nella realtà.

E quindi non posso fare a meno di essere scettico di fronte a questo entusiasmo euforico, perché la storia ci insegna che i conflitti in questa terra hanno radici profonde e che le soluzioni imposte dall’alto raramente attecchiscono.

Quello che stiamo vivendo è solo una pausa, un momento passeggero dettato dall’urgenza di risolvere la questione degli ostaggi e di permettere l’ingresso degli aiuti umanitari – un bisogno così disperato che persino i combattimenti tra fazioni a Khan Yunis, dove clan locali hanno sfidato Hamas, sono serviti a ricordare a tutti la precarietà del potere.

Sono profondamente convinto che tra qualche mese, quando le macerie saranno state rimosse e la situazione sembrerà stabilizzata, i conflitti riprenderanno con rinnovata ferocia. Hamas – un movimento nato dalla resistenza e dalla militanza armata – non accetterà mai di essere relegato a forza a ruolo subalterno, né di essere messo da parte da un governo tecnocratico o da un’autorità imposta dall’esterno.

La tregua, quindi, non è la fine, ma solo un interludio: un respiro profondo prima che il ciclone di violenza si scateni di nuovo, portando con sé, come sempre, altra morte e altra distruzione, in un ciclo infinito che nessun accordo, finora, è riuscito a spezzare.

Mentre i leader sorridono, Gaza trema…


Il fragore delle armi a Gaza si è spento, ma il silenzio che avvolge la Striscia non sa di pace: sa piuttosto di respiro trattenuto, di pausa forzata, di attesa carica di tensione.
La cerimonia di firma in Egitto, prevista per lunedì, e lo scambio di prigionieri che ne seguirà, accendono certo una fiammella di speranza.

Eppure, basti guardare con attenzione alle condizioni di questo accordo per capire che non si tratta affatto di una soluzione, ma dell’ennesimo baratto tra vite umane: da un lato, gli ostaggi israeliani ancora in mano a Hamas; dall’altro, quasi duemila detenuti palestinesi rinchiusi nelle carceri israeliane, tra cui centinaia condannati all’ergastolo.

Questo non è un compromesso per la pace, è un patto di sopravvivenza momentanea, destinato a esaurirsi non appena le parti torneranno a guardarsi negli occhi con le armi in pugno.

La struttura stessa dell’accordo rivela tutta la sua fragilità. Israele ottiene l’appoggio internazionale anche di alcuni paesi arabi e il rilascio degli ostaggi, ma mantiene di fatto il controllo militare su oltre la metà del territorio di Gaza. Hamas, dal canto suo, ottiene sì… il cessate il fuoco e recupera centinaia dei suoi uomini, ma rifiuta con fermezza ogni ipotesi di disarmo; un punto, questo, che come sappiamo, per Israele non è negoziabile.

Difatti, un funzionario del movimento ha dichiarato in forma anonima, ma con chiarezza assoluta, che la richiesta di smantellare il suo apparato militare è “fuori discussione”, mentre Netanyahu, non ha esitato a ribadire che, senza disarmo, la guerra tornerà. Dunque, non si tratta di pace, ma di un braccio di ferro sospeso: le armi tacciono, ma le intenzioni non sono cambiate.

Le parole dei leader di Hamas confermano questa lettura. Hossam Badran, esponente di spicco dell’ufficio politico del movimento, ha definito “assurda e senza senso” qualsiasi proposta che preveda l’allontanamento dei suoi dirigenti da Gaza. Ha poi avvertito che, in caso di ripresa delle ostilità, Hamas risponderà a “qualsiasi aggressione israeliana”, e ha descritto la prossima fase dei negoziati come “più difficile e complessa”.

Comprenderete che non sono certo le parole di chi vuole deporre le armi per costruire un futuro comune, ma viceversa, quelle di chi si prepara alla prossima battaglia. E dall’altra parte, Israele non ha alcuna intenzione di permettere ad Hamas di rialzarsi: la determinazione a colpire di nuovo, se necessario, è esplicita, ed ecco perché in questo contesto, la ripresa del conflitto non è una possibilità remota: è quasi una certezza!

A rendere il quadro ancora più cupo è il ruolo di alcuni attori esterni, in particolare l’Iran. Il ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi, ha espresso “totale sfiducia” nella volontà di Israele di rispettare gli accordi, parlando apertamente di “trucchi e tradimenti del regime sionista”.

Ed infatti, pur appoggiando formalmente il cessate il fuoco, Teheran ha escluso con forza ogni ipotesi di normalizzazione con Israele, definendola “semplice illusione”. E poiché l’Iran continua a sostenere militarmente e politicamente Hamas, il suo atteggiamento non fa che incoraggiare le frange più radicali del movimento a resistere a qualsiasi concessione sostanziale.

Ecco perché in questo gioco, la tregua diventa solo un intervallo utile per riarmarsi, riorganizzarsi e attendere il momento giusto per colpire di nuovo, la storia, d’altronde, ci ha abituati a questi corsi e ricorsi e sappiamo come le radici di questo conflitto affondano in decenni di dispute territoriali, religiose e nazionali che nessun accordo superficiale ha saputo mai sanare.

Gli Accordi di Oslo, un tempo simbolo di speranza, sono finiti nel dimenticatoio. La soluzione dei due Stati, pur invocata da anni dalla comunità internazionale è rimasta un miraggio e quindi, l’attuale tregua, per quanto necessaria a fermare l’indicibile sofferenza dei civili, non tocca minimamente le questioni fondamentali: lo status di Gerusalemme, il diritto al ritorno dei rifugiati, la fine degli insediamenti israeliani, la sovranità di uno Stato palestinese.

Quindi, finché queste ferite resteranno aperte, ogni cessate il fuoco sarà solo un cerotto su una piaga profonda, destinato a staccarsi non appena il vento del conflitto tornerà a soffiare. Quello che stiamo vivendo non è la fine della guerra, ma un breve intervallo in una tempesta che non ha ancora esaurito la sua furia.

Già… a differenza di molti leader, in particolare i nostri politici attualmente al Governo, così entusiasti di giungere in Egitto per farsi un selfie con il “loro” Presidente Trump, beh… il sottoscritto teme che ahimè, molto presto, il fragore tornerà a farsi sentire, e purtroppo, sarà più forte di prima

Il conflitto in Medio Oriente: tutto si riduce a uno scambio di prigionieri?

Osservando quanto sta accadendo in questi giorni – dopo l’accordo di cessate il fuoco tra Israele e Hamas del 19 gennaio – ho ripensato ai quindici mesi di conflitto in quel territorio. 

Migliaia di civili uccisi, tra cui donne e bambini, la Striscia di Gaza ridotta a un cumulo di macerie, una devastazione totale. 

Mi chiedo: a cosa è servito tutto questo? Qual era, fin dall’inizio, il vero obiettivo di Hamas? Liberare i propri ostaggi (e forse alcuni familiari), sacrificando la popolazione civile?

Questa mattina Hamas ha rilasciato altri due ostaggi israeliani, con il previsto rilascio di un terzo nelle prossime ore: un cittadino con doppia cittadinanza, israeliana e statunitense. In cambio, Israele dovrebbe liberare 183 prigionieri palestinesi. Secondo Hamas, tra questi 18 stanno scontando l’ergastolo mentre 54 hanno condanne a lungo termine; i restanti sono abitanti di Gaza arrestati dopo l’attacco del 7 ottobre 2023.

I tre ostaggi liberati oggi – Bibas, Kalderon e Siegel – sono civili imparentati con altre persone sequestrate in quel tragico giorno. La moglie di Siegel e i figli di Kalderon erano stati liberati durante la breve tregua di novembre 2023. La vicenda della famiglia Bibas, invece, è ancora più drammatica: Yarden Bibas è il padre di Kfir e Ariel, due bambini di nove mesi e quattro anni al momento del rapimento, e marito di Shiri Bibas.

Hamas sostiene che i tre siano stati uccisi in un bombardamento israeliano nel 2023, ma Israele non ha conferme in merito. Secondo i termini dell’accordo, se fossero stati vivi sarebbero dovuti essere rilasciati prima degli uomini, cosa che non è avvenuta. La restituzione dei corpi degli ostaggi morti in prigionia è prevista nelle fasi successive del cessate il fuoco.

Questa volta il rilascio è stato meno caotico rispetto ai precedenti, quando gli ostaggi venivano liberati in mezzo a folle di palestinesi accorsi ad assistere alla scena, creando calche che rallentavano il trasferimento.

Ancora una volta sorge una domanda: la vera battaglia non dovrebbe essere per risolvere i problemi della società civile? Per trovare un modo pacifico di convivere con Israele, per costruire uno Stato Palestinese riconosciuto a livello internazionale? Per adottare processi che portino a una società più democratica e meno armata?

No, nulla di tutto questo. Il bilancio è solo quello di oltre 45.000 vittime civili, trasformate in scudi umani e carne da macello per gli interessi di un gruppo militare che si fa portavoce della liberazione di un popolo, ma che in realtà persegue solo il potere e la liberazione di alcuni suoi affiliati.

Quindici mesi di conflitto che hanno infiammato tutto il Medio Oriente: dal pogrom all’invasione di Gaza, dagli attacchi dei ribelli yemeniti alla crisi in Siria. Ma per cosa, esattamente?

Già…il dramma di Gaza: vite sacrificate per uno scambio di prigionieri…

Israele/Palestina: una volta, il mio caro amico arch. Renzo (di Omegna) mi disse: Nicola, quando due litigano, perdono entrambi!!! Con il tempo ho compreso quanto avesse ragione!!!

Non si può pensare di continuare in eterno così…

Israeliani e palestinesi devono raggiungere un accordo di pace definitivo, lo devono proprio per quel Dna che da sempre li vede fratelli…  

Già… come non ricordare ciò che unisce questi due popoli attraverso la stirpe di Abramo, quell’amore fraterno che dovrebbe di fatto unirli e non dividerli, esecrando quindi qualsiasi discriminazione e persecuzione, facendo viceversa riferimento a quel principio comune, come base indiscussa di uguaglianza e fratellanza…

Non vi è in essi alcuna legittima differenziazione, ne culturale e ancor meno da una diversa identità religiosa, non vi è nulla che delimita e separa le due parti da una diversa identità, né come prodotto di un travaglio distinto.

Certo, nessuno può contraddire il fatto che dal primo governo Netanyahu ad oggi, il crescente peso dei partiti appoggiati dai coloni abbia favorito sempre più una legislazione restrittiva del dissenso e la negazione della realtà dell’occupazione. 

Peraltro vorrei ricordare come in quegli anni, il capo dello Shin Bet (l’agenzia di intelligence per gli affari interni dello stato di Israele) mise in guardia sulla “tirannia incrementale” che minacciava la democrazia di Israele… 

E quindi, voler credere oggi che, il miglior servizio di sicurezza mondiale, in particolare nel campo della prevenzione e del contrasto al terrorismo, insieme ad Aman e Mossad, non abbia previsto quanto ora accaduto con l’attacco di Hamas, è come voler ammettere che le torri gemelle a New York, siano crollate a causa di due aeroplani!!!

Israele si stava preparando, anzi era già da tempo pronta a invadere la “Striscia di gaza”, aspettava soltanto il momento opportuno (come per gli Usa le torri gemelle…) e cioè, quell’azione terroristica condotta da parte del gruppo di Hamas, per dare il via alla propria escalation militare, la stessa che ora non si fermerà fintanto che tutta quell’area e sicuramente anche parte della Cisgiordania, non verrà rasa al suolo, per le nuove future esigenze…    

Ecco perché la comunità mondiale deve fare in modo che si torni presto ad una nuova volontà di dialogo, ad un impegno personale e collettivo che costruisca ponti fra quei due universi certamente differenti e per come abbiamo visto dalla storia, da sempre potenzialmente conflittuali…

In un momento storico come quello che stiamo assistendo, segnato sia a livello europeo, con la guerra in Ucraina, sia a livello mondiale, con quanto sta accadendo in queste ore nel territorio palestinese nella “Striscia di Gaza”, ecco che bisogna intervenire celermente per limitare la serie di fatti cruenti e luttuosi e che potrebbero provocare l’allargamento del conflitto stesso, a cui qualcuno, secondo il sottoscritto, si è già preparato!!!  

Vorrei inoltre evidenziare quanto sta accadendo in questi giorni accadendo in molte città europee, mi riferisco a tutta una serie di atti violenti nei confronti dei cittadini ebraici, che non fanno altro che alimentare nuovo odio e a indurre molti giovani a proselitismi in quella espressione nota come “antisemitismo”!!!

E’ tempo di fare tutti un passo indietro, rivedere le proprie posizioni, perché come diceva l’amico mio Arch. di Omegna, Renzo: quando due litigano, perdono entrambi!!! 

Nel concludere, permettetemi di ricordare la figura storica di Woodrow Wilson e le parole che pronunciò al Senato il 22 gennaio 1917: “Nessuna nazione cercherà di estendere la sua politica su ogni altra nazione o popolo […];  ogni popolo sarà libero di determinare la propria politica, dal più piccolo al più grande e potente”.