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Il silenzio degli Stati arabi e il dilemma palestinese


In questi giorni mi sono domandato, come certamente molti di voi: perché nessun paese arabo, a parte l’Iran, lo Yemen e in parte il Libano, sia andato in difesa concreta dei palestinesi in quest’ultimo terribile conflitto con Israele?

Già, dov’è finita quella ostentata unione islamica?

Ora, per favore, non ditemi che le ragioni vanno ricercate nell’eventuale rischio di una possibile terza guerra mondiale o nel timore che una risposta israeliana – se venisse nuovamente attaccata come nel 1967 da quegli stessi Paesi arabi o da altri – potrebbe spingerla, questa volta, all’uso delle armi nucleari.

Tutta questa situazione è – a mio avviso – molto più semplice da leggersi di quanto i complessi ragionamenti geopolitici vogliano farci credere; ritengo che, se si abbassassero per un attimo i toni della retorica e si osservasse in maniera distaccata gli avvenimenti storici, su quanto finora è accaduto, ecco che la lettura di questa grave crisi mediorientale, diventa, a mio parere, molto più semplice e spietatamente chiara

Abbiamo letto di come l’Egitto e la Giordania, di comune accordo, abbiano stabilito già da anni di non accogliere ulteriori profughi palestinesi, come d’altronde sono parecchi gli altri Stati arabi a non vedere di buon grado “Hamas”.

La conferma peraltro è avvenuta con la “Dichiarazione di New York”, firmata da Paesi come Qatar, Arabia Saudita, Egitto, Giordania, Turchia ed altri, oltre che dall’Unione Europea…

In quel documento si condannano gli attacchi militari di Hamas (del 7 ottobre dello scorso anno), esortando il gruppo a liberare immediatamente tutti gli ostaggi ancora nelle loro mani e a cedere le armi all’Autorità Nazionale Palestinese, rinunciando così definitivamente al controllo di Gaza.

Con questa firma si comprende come, secondo questi Paesi, il problema sia costituito propriamente da “Hamas”, e che essi, non intendono avere ulteriori problemi, sia interni, accogliendo nuove masse di palestinesi, sia esterni, pensando di dover affrontare Israele in una guerra.

E difatti: l’Egitto non vuole i palestinesi neanche a pagarli, mentre la Giordania – che già ospita circa due milioni di rifugiati – vorrebbe addirittura mandarli via. Il Libano, che ne ha accolti già molti, si è ritrovato in passato, e di nuovo recentemente, con la guerra civile in casa, propria a causa delle tensioni che questi arrivi di profughi, hanno generato. La verità – che nessuno ha il coraggio di dire apertamente – è che i palestinesi, purtroppo, non li vuole nessuno, e questo – ahimè – è un dato di fatto innegabile.

Ecco perché se i palestinesi vogliono un aiuto internazionale concreto, devono decidere una volta per tutte quale strada intraprendere, del resto, pensare di poter continuare una guerra senza una soluzione definitiva è una follia.

Basti osservare la storia di quel territorio: si cerca di trovare una pace da oltre un secolo, da quando nella prima metà del Novecento il movimento sionista e il nazionalismo palestinese iniziarono a scontrarsi per il controllo di quella stessa terra. Non ci sono riusciti loro, e ancor meno ci è riuscita l’ONU, che aveva proposto uno Stato Palestinese già nel 1947.

I palestinesi allora rifiutarono quel piano di spartizione perché volevano di più, e così non ottennero nulla, anzi potremmo dire il contrario, visto che sono passati quasi ottant’anni e quello Stato non è ancora ufficialmente riconosciuto da tutti i paesi del mondo, Italia compresa.

Permettetemi (con l’immagine allegata) di ricordare quel piano ONU del 1947, che assegnava le zone a maggioranza ebraica a Israele e quelle a maggioranza araba alla Palestina. Israele accettò, mentre i palestinesi rifiutarono.

Negli anni seguenti sappiamo bene come le tensioni sociali e i ripetuti conflitti armati, con i paesi arabi confinanti, abbiano portato Israele a vincere e quindi ad espandersi fino alla situazione odierna. Tutto è ancor più precipitato con il raid di Hamas del 7 ottobre, che ha provocato circa 1.200 morti (in gran parte civili) e la cattura di circa 250 ostaggi, alcuni dei quali ancora prigionieri. Un attacco mostruoso nella sua esecuzione, che ha fornito a Israele la motivazione – di fronte alla comunità internazionale – per scatenare il conflitto attuale, con l’obiettivo dichiarato di espellere i palestinesi da Gaza e portare la striscia, alla sua totale annessione.

Per cui da quanto è accaduto possiamo affermare che ciò che restava di quella Palestina disegnata nel 1947, oggi, non esiste più. I palestinesi si sono ridotti a meno di due milioni nella Striscia, mentre gli israeliani sono cresciuti fino a oltre dieci milioni. Va detto comunque che oltre un milione e mezzo di palestinesi sono residenti in Israele e convivono con gli israeliani da decenni, per lo più senza grossi problemi, dimostrando che una coesistenza in certe condizioni è possibile.

Ora tentare di ricercare motivazioni storiche profonde, chiedersi di chi sia la colpa, rivoltarsi contro l’uno o l’altro, o cercare di comprenderne le ragioni, è un’operazione veramente difficile se non impossibile.

I conflitti armati, come abbiamo visto, non hanno portato a nulla di buono, e i palestinesi dovrebbero saperlo meglio di chiunque altro, avendone persi almeno tre, con le inevitabili conseguenze che tutti abbiamo visto. Io non so cosa si dovrebbe fare esattamente, anche se una possibile soluzione l’ho proposta personalmente nel mio blog (link: https://nicola-costanzo.blogspot.com/2023/11/ecco-una-soluzione-per-creare-due-stati.html), ma credo che pochi lo sappiano davvero. So per certo però che Hamas non vorrà mai una pace definitiva con Israele, perché nella sua ideologia è previsto il totale annientamento dello Stato ebraico.

D’altronde pensare oggi di far scomparire gli ebrei dalla Palestina è qualcosa di folle e tantomeno realizzabile, basti guardare la potenza degli armamenti in possesso di Israele per comprenderne l’assoluta fallacia.

Certo, oggi a pagare le conseguenze di queste azioni militari e politiche, è soprattutto il popolo palestinese (ma consentitemi di ricordare anche i familiari delle vittime di quel 7 Ottobre), gente comune, inerme, fatta soprattutto di donne e bambini, che si sono trovati stretti – all’interno di quella Striscia – tra l’incudine di dover in qualche modo proteggere i terroristi di Hamas e il martello dell’esercito israeliano con i suoi bombardamenti.

Insistere su una retorica fine a se stessa, come spesso accade nel nostro Paese e in televisione, si è rivelato del tutto inutile e, come la storia recente dimostra, incapace di produrre un cambiamento reale. La soluzione a questo conflitto non può essere calata dall’alto, ma deve essere costruita dalle due popolazioni che da oltre mezzo secolo non conoscono pace.

L’intervento della comunità internazionale è certamente necessario, ma non deve ripetere gli errori del passato, fatti più di propaganda politica e mediatica che di sostanza. Deve piuttosto tradursi in un’azione concreta e coraggiosa per far rispettare le regole di una civile convivenza e il diritto internazionale.

Ciò significa, in questo frangente, garantire con ogni mezzo la protezione della popolazione civile e assicurare che gli aiuti umanitari raggiungano chi ne ha disperato bisogno, come il popolo palestinese a Gaza, anche attraverso missioni internazionali legittime il cui operato sia sottoposto a controlli democratici.

Solo attraverso un impegno di questo tipo – che ponga al primo posto i diritti umani universali e il ripudio della guerra – può onorare i principi di umanità.

L’Egitto riaccende un sogno sepolto nella sabbia.

C’è qualcosa che si muove nel profondo del nostro immaginario collettivo quando pensiamo a un luogo dove l’uomo decide di cambiare il volto della Terra, come se in quegli atti estremi si celasse una parte della nostra anima più antica, quella che un tempo costruiva piramidi e sognava città perdute sotto le onde. 

È lo stesso brivido che oggi ci spinge a osservare con attenzione ciò che accade in Egitto, dove un’idea sepolta nel tempo sta riemergendo dalla sabbia con una forza inaspettata: quella di trasformare la depressione di Qattara, un’enorme conca nel deserto che scende a più di cento metri sotto il livello del mare, in un nuovo mare artificiale. 

L’idea è semplice, quasi elementare: scavare un canale di circa 50 km che colleghi il Mediterraneo a questa voragine e lasciare che l’acqua scorra, inevitabile, verso il basso, portando con sé energia, vita e un futuro diverso.

Per decenni questo progetto è rimasto confinato nei manuali di ingegneria visionaria, accantonato per i costi proibitivi e le incertezze tecniche, ma oggi qualcosa è cambiato. La crisi climatica, la carenza d’acqua, la corsa alle energie rinnovabili e la pressione demografica stanno ridisegnando le priorità, già… un oro liquido blu prezioso che scorre sempre più raramente, diventando il centro di ogni strategia. 

Così, quello che sembrava un sogno impossibile riprende corpo, non come fantasia, ma come possibile necessità. L’Egitto, terra di opere titaniche, sembra pronto a sfidare ancora una volta la natura, non per vanità, ma per sopravvivenza. Dopotutto, non è forse la stessa civiltà che ha domato il Nilo, scavato canali attraverso deserti e costruito città dove prima c’era solo silenzio?

C’è un precedente, silenzioso ma potente, che emerge dal deserto del Nord Africa e che non possiamo permetterci di dimenticare: il Grande Mare Fossile, l’enorme acquedotto sotterraneo voluto da Gheddafi in Libia, un’opera titanica che ancora oggi trasporta acqua dolce dalle antiche falde del Sahara, risalenti a migliaia di anni fa, fino alle città del Mediterraneo come Tripoli e Bengasi. 

Fu un progetto ambizioso, uno dei più grandi al mondo, capace di muovere milioni di metri cubi d’acqua al giorno attraverso migliaia di chilometri di tubi, come se il deserto stesso avesse un cuore pulsante nascosto sotto la sabbia. All’epoca fu definito il “Settimo Miracolo del Mondo” da chi lo celebrava, mentre altri lo vedevano come un atto di sperpero, un prelievo massiccio da riserve non rinnovabili che un giorno si sarebbero esaurite. 

Ma al di là del giudizio, quell’opera resta un monito e un esempio: dimostra che quando la necessità stringe, gli esseri umani sono capaci di progettare su scale inimmaginabili, di spostare l’acqua come se fosse sangue per un corpo assetato. E proprio per questo, oggi, mentre si parla di Qattara, non possiamo ignorare ciò che la Libia ci ha mostrato: che trasformare il deserto è possibile, ma che ogni goccia portata alla luce ha un costo, e che il tempo, spesso, è il giudice più spietato.

Eppure, dietro ogni grande cambiamento c’è un’ombra, una domanda che non può essere ignorata. Che cosa accadrà a quel deserto, così arido e apparentemente sterile, ma che in realtà nasconde un equilibrio delicato, un ecosistema unico che ha imparato a vivere con pochissimo? 

Alcuni temono che l’arrivo dell’acqua salata possa contaminare le falde sotterranee, l’unica fonte di vita per le oasi e le comunità che ancora resistono in quei luoghi remoti. E se l’evaporazione, inevitabile in un clima così caldo, lasciasse dietro di sé immense distese di sale tossico, come una cicatrice bianca che si allarga giorno dopo giorno? Non sarebbe allora un nuovo Mar d’Aral, quel lago scomparso che oggi è un monito per l’umanità intera?

Oltre il confine, in Israele e in altri paesi del Mediterraneo, questa prospettiva non suscita solo curiosità, ma preoccupazione. Non si tratta più solo di un progetto nazionale, ma di un’alterazione geografica che potrebbe avere ripercussioni su scala regionale, forse globale. Il dibattito cresce, acceso, tra chi vede in questa impresa una via di salvezza e chi invece teme un effetto domino irreversibile. 

E allora ci si chiede: chi decide per il destino di un intero ecosistema? Chi ha il diritto di trasformare un deserto in un mare, di giocare con forze così immense, con conseguenze che nessun modello può prevedere con certezza?

È in questo punto che il sogno si fa ambiguo, dove la speranza di un mondo migliore si intreccia con il rischio di un disastro annunciato. Perché dietro ogni grande realizzazione c’è sempre la stessa speranza: che l’uomo, con la sua intelligenza e la sua audacia, possa superare i limiti, migliorare le condizioni di vita, portare luce dove c’era solo aridità. 

Ma c’è anche il pericolo di dimenticare che ogni intervento lascia un segno, e che a volte il progresso assomiglia troppo a una fuga in avanti senza bussola. Eppure, non possiamo fermarci. Non possiamo rinunciare a immaginare, a provare, a cercare soluzioni dove sembra non essercene. 

Forse il vero valore di un progetto come quello di Qattara non è nemmeno nella sua realizzazione, ma nel fatto che ci costringe a pensare in grande, a confrontarci con domande scomode, a prendere sul serio la responsabilità che abbiamo verso il pianeta e verso chi verrà dopo di noi.

Ma d’altronde, davanti alle spese faraoniche per alimentare il complesso industriale-militare non si può non pensare a dove scorrono veramente i soldi. Molti di quei capitali, infatti, sono finiti in un settore i cui profitti sono cresciuti in modo spropositato proprio sulle vittime dei numerosi conflitti che insanguinano il mondo. 

Se poi aggiungiamo tutti i soldi buttati al vento per andare nello spazio, già… su Marte, sulla Luna, beh… credo che forse sia giunto il tempo di provare a realizzare quest’opera, sì… un nuovo mare artificiale che non sarà soltanto un lago di acqua salata in mezzo al deserto, ma rappresenterà uno specchio in cui tutta l’umanità potrà guardarsi, riflessa nella sua ambizione, nella sua paura, ma soprattutto nella sua inesausta voglia di ricominciare. 

Sì… forse, in quel riflesso, riusciremo a vedere non solo ciò che abbiamo fatto, ma ciò che potremmo ancora diventare…

Doha: si prova a raggiungere una tregua…

I mediatori del vertice di Doha stanno cercando di trovare una soluzione per raggiungere al più presto una tregua…

Usa, Egitto, Qatar, Israele e Hamas provano a trovare un accordo ma sembra che dal vertice non ci sia alcuna corrispondenza con quanto si era stabilito il 2 luglio scorso…

La verità è che senza il rilascio degli ostaggi e dei detenuti, difficilmente si giungerà a quell’auspicato cessate il fuoco.

Certo Hamas spera nell’intervento dell’Iran, ma il rischio di ampliare il conflitto in caso di attacco a Israele, condurrebbe – per come ho già anticipato – il governo di Teheran a subire conseguenze “catastrofiche” e si concluderebbe qualsivoglia trattativa!!!

Non credo che Israele torni sui suoi passi o che restituisca i territori ai palestinesi, gli stessi che di fatto occupava sin dal 1967, ritengo viceversa che le politiche del primo ministro Benjamin Netanyahu siano estremamente nazionaliste e quindi sarà difficile che si potrà ritornare a quella condivisione tra i due popoli prima dell’attacco di Hamas…

Se non si pensa di costruire un nuovo Stato palestinese al di fuori dei territori d’Israele, sarà del tutto impossibile riuscire a risolvere questo problema che come abbiamo visto, sono decenni che non trova soluzione e non sarà l’uso della forza che potrà modificare questa attuale condizione.

Accordo di pace mediante il trattato di Abramo??? Non credo sia la giusta soluzione…

Gli accordi prendono il nome dal patriarca Abramo, considerato un profeta da entrambe le religioni dell’ebraismo e dell’islam, e difatti condiviso dai popoli ebraico ed arabo (tramite Isacco ed Ismaele), ma permettetemi di aggiungere, anche dal nostro cristianesimo…

Parliamo di un accordo raggiunto il 13Agosto del 2020,  derivante da una dichiarazione congiunta tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Stati Uniti che ha segnato l’inizio delle relazioni tra un Paese arabo e Israele dopo quelle formalizzate con l’Egitto nel 1979 e con la Giordania nel 1994. 
Gli accordi di Abramo firmati il 15 settembre 2020 presso la casa binaca a Washinton ha visto la firma dei ministri degli esteri degli Emirati Arabi Uniti, del ministro degli esteri del Bahrein, del presidente degli Stati Uniti e del primo ministro israeliano, l’attuale Benjamin Netanyahu…
Con l’accordo si sanciva la normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Israele e Bahrain, ovvero una dichiarazione di pace e relazioni diplomatiche, si puntava inoltre ad un trattato di pace che prevedesse una piena normalizzazione tra gli Emirati Arabi Uniti e lo Stato di Israele, i quali si impegnano nell’instaurare pace, prosperità e sicurezza nella regione mediorientale.
Tuttavia, l’accordo firmato non teneva conto e soprattutto non specificava a quale porzione di territori ci si riferiva, in particolare nulla era stato redatto sulla questione palestinese e quindi su quei territori occupati da Israele, nonostante le condanne già ricevute dalla comunità internazionale.
E difatti, il mancato riconoscimento di quei territori, mi riferisco alla Cisgiordania, Gerusalemme est e la Striscia di Gaza, considerati – come riportavo sopra – una violazione internazionale, hanno alimentato ancor più quel sentimento di odio da parte dei paesi arabi nei confronti degli israeliani, tanto d’aver imposto a tutti gli Stati di matrice musulmana di astenersi a manifestazioni di riconoscimento internazionale nei confronti di quello Stato israeliano!!!
Ecco quindi il reale motivo che ha portato finora a sabotare qualsivoglia accordo di pace e non vi sarà – vedrete – alcuna tregua che obbligerà Israele alla restituzione dei territori occupati, anzi, il nuovo conflitto in corso, porterà alla totale annessione di quei territori attualmente coivolti nelle operazioni militari. 
Perchè soltanto attraverso la costituzione di un nuovo Stato e di un’area destinata a cuscinetto (sotto il controllo dell’Onu), si potrà giungere ad una celere soluzione, altrimenti il conflitto non potrà che continuare e ahimè allargarsi… 

Ecco una soluzione per creare due Stati indipendenti e una pace duratura!!!

Pensare che il conflitto israelo-palestinese possa risolversi da solo o che la situazione tra i due popoli possa restare immutata senza conseguenze è pura illusione. Dopo oltre 70 anni di discordia, non si può più tornare indietro: è arrivato il momento di superare le divergenze e trovare una soluzione definitiva.
La creazione di uno Stato Palestinese è una necessità. Deve essere riconosciuto dalla comunità internazionale, libero e indipendente da Israele. Tuttavia, va accettato il fatto che i territori occupati non saranno mai restituiti ai legittimi proprietari. 
La storia ci insegna che, a seguito delle guerre, molti confini sono stati ridefiniti dai vincitori a scapito dei vinti. Anche l’Italia ha vissuto questa realtà, pagando un prezzo per le scelte del passato. Credere che la situazione possa cambiare improvvisamente è irrealistico.
Basta guardare cosa sta accadendo in Ucraina: le guerre sono ovunque, spesso per il controllo di territori di scarsa utilità. E allora, perché non pensare a una soluzione alternativa? Serve un sacrificio per costruire qualcosa di nuovo. Un sacrificio che richiede l’impegno di tutti.
Non intendo schierarmi né con Israele né con la Palestina, ma è chiaro che Israele non ha intenzione di fermarsi. Il paese è pronto a combattere su più fronti per difendere la propria esistenza, identità e cultura. Illudersi su una tregua o su una restituzione dei territori occupati non è realistico: a breve, anche la Cisgiordania sarà completamente sotto il controllo israeliano.
Se nessuno lo dice apertamente, è solo questione di tempo prima che i palestinesi vengano definitivamente espulsi da Israele, almeno quelli ritenuti ostili. E allora, invece di negare la realtà, perché non cercare una soluzione che possa garantire una pace duratura?
Propongo la creazione di un nuovo Stato Palestinese in una fascia di territorio tra il Mar Mediterraneo e il Mar Rosso, oggi parte dell’Egitto. Questo nuovo Stato, pur rimanendo sotto la protezione egiziana, darebbe finalmente ai palestinesi una patria riconosciuta.
Ovviamente, questo richiede un compromesso: l’Egitto dovrebbe cedere parte del suo territorio, ma in cambio riceverebbe un risarcimento significativo. Israele dovrebbe contribuire economicamente alla costruzione delle infrastrutture necessarie per accogliere il popolo palestinese. Anche gli altri Stati arabi dovrebbero fare la loro parte, permettendo ai profughi palestinesi di riunirsi alle loro famiglie nella nuova nazione.
Per rendere questo progetto fattibile, i paesi arabi più ricchi – come Qatar, Oman, Emirati Arabi, Kuwait e altri – dovrebbero garantire all’Egitto una somma significativa, intorno ai mille miliardi di dollari, come compensazione territoriale. Inoltre, un ulteriore fondo di 300 miliardi di dollari dovrebbe essere destinato alla creazione di una zona cuscinetto, gestita dall’ONU, per garantire la sicurezza della nuova nazione nei suoi primi anni di vita.
Il tempo dirà quando questa zona potrà essere reintegrata nell’Egitto, ma intanto si potrebbe porre fine a un conflitto che dura da troppo tempo.
So che questa idea potrà sembrare irrealizzabile o provocatoria, ma è meglio proporre soluzioni che restare immobili a guardare. Troppo spesso, chi critica senza offrire alternative è lo stesso che ignora la realtà del conflitto e preferisce perdersi nei social piuttosto che affrontare il problema con serietà.
Se qualcuno ha un’idea migliore, sono aperto al confronto. L’importante è capire che la pace si costruisce con l’impegno di tutti, nessuno escluso. Non si può promuovere la pace parlando solo con chi è d’accordo con noi. Serve coraggio, visione e, soprattutto, la volontà di agire.

Prove tecniche per l'inizio di un nuovo conflitto…

Alcuni mesi fa scrivendo su una profezia della Bibbia, concludevo dicendo: “Non va dimenticato come da quella rivoluzione islamica nel 1979, gran parte della politica interna dell’Iran, controllata dagli ayatollah, sia basata sulla propaganda contro l’occidente in particolare nei confronti di Israele; ecco quindi che oggi, gli iraniani provano ad usare la rabbia di Russia e Turchia contro le sanzioni imposte sia a loro che ai due Stati di sopra, affinché si possa consolidare quella alleanza da utilizzarsi contro gli Stati Uniti e i loro alleati…”!!!

Purtroppo non è passato molto tempo che quella escalation militare ha iniziato a mettere in atto quei piani…
Le forze missilistiche dell’Iran, insieme al suo alleato libanese “Hezbollah” e con il sostegno di “Hamas”, hanno iniziato a colpire in queste ore alcune città israeliane, dando così a Israele la possibilità di scatenare tutta la sua potenza aerea che difatti ha colpito gran parte degli obiettivi strategici in Iran. 
Questa conflittualità è in corso già da alcuni anni, in particolare da quando gli israeliani hanno cercato di impedire che le armi iraniane potessero diventare sempre più sofisticate.
Mi riferisco in particolare ai missili a lungo raggio  passati dall’Iran agli Hezbollah in Libano, a cui vanno sommati tutti quei trasporti che celati da convogli alimentari trasportavano armi da consegnare a gruppi estremisti, i quali sono stati intercettati e che fatti detonare…
Non va inoltre dimenticato quel programma nucleare che –secondo le informazioni proveniente dal governo iraniano– è stato più volte sabotato dai servizi segreti israeliani, con l’eliminazione (enigmatica) di alcuni loro scienziati…
Inoltre, la guerra in Siria ha permesso di aumentare la vicinanza delle forze belliche iraniane ai confini settentrionali israeliani, dando così sostegno al governo del presidente Bashar al-Assad che grazie alla forza militare russa, ha potuto far sopravvivere quel suo governo, permettendo altresì all’Iran di poter sfruttare questa attuale situazione per promuovere la sua politica contraria allo stato ebraico e appoggiando d conseguenza, tutta una serie di gruppi radicali intenti alla sua distruzione!!!
L’Iran spera che questi attacchi possano trasformarsi a breve in una guerra a tutto campo, nei quali altri paesi arabi possano entrare in appoggio…
Un ricorso storico di quel memorabile 1967, un conflitto allora combattuto tra Israele da una parte ed Egitto, Siria e Giordania dall’altra, che si tramutò come sappiamo in una vittoria israeliana… Ed ora l’Iran spera di portare in tempi rapidi ad una escalation militare, anche se – come sempre avviene in queste circostanze – nessuno dei contendenti dichiara, che “nessuno vuole la guerra”.
Infine va aggiunto come la Russia non stia intervenendo sul conflitto in corso, permettendo difatti all’aviazione militare israeliana libertà di movimento nei cieli sopra il Libano e la Siria…
Analoga posizione è quella presa da Washington che sta pensando ad un ritiro nella regione delle proprie forze militari a seguito delle nuove politiche statunitensi intraprese dell’amministrazione Trump, che vede di buon grado un cambio di regime, piuttosto che un dialogo…
Viceversa Teheran vede le azioni di Israele come un ulteriore indicatore dell’intenzione degli Stati Uniti a giungere ad un nuovo conflitto, spingendo così entrambi sull’orlo di una guerra su vasta scala!!!
Una guerra sta per scatenarsi???
Le prove tecniche in corso dicono di si…