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33 anni di bugie! Perché la strage di Borsellino è ancora un segreto di Stato?

Era il 19 luglio 1992 quando una bomba di inaudita violenza squarciò il silenzio di via D’Amelio a Palermo, spegnendo per sempre le vite di Paolo Borsellino e dei cinque agenti della sua scorta.

Trentatré anni dopo, quel boato continua a riecheggiare nelle coscienze di chi cerca ancora verità, nonostante i depistaggi, le omissioni e i silenzi istituzionali che hanno avvolto questa strage in una fitta nebbia.
Mentre le commemorazioni ufficiali si susseguono con il loro rituale di retorica e ipocrisia politica, c’è una voce che rompe il coro ben orchestrato dell’oblio: quella di Salvatore Borsellino, fratello del magistrato assassinato, che con coraggio indica senza mezzi termini quelle che furono – a suo giudizio – le cause acceleranti della strage.

Quell’intervista rilasciata ai francesi il 21 maggio 1992 non fu un episodio casuale, ma un atto di straordinaria lucidità e determinazione. In quelle dichiarazioni, Paolo Borsellino fece i nomi di Vittorio Mangano, Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi, tessendo un filo che legava il potere mafioso a quello politico e imprenditoriale.

Un collegamento pericoloso, scomodo, che forse rappresentò il punto di non ritorno. Salvatore Borsellino lo ricorda con amarezza: suo fratello sapeva di aver scavato troppo in profondità, di aver sollevato un velo su connivenze che molti preferivano lasciare sepolte. Eppure, non si tirò indietro, consapevole che la giustizia non può essere esercitata a metà.

C’è un altro tassello che completa questo tragico puzzle, sempre secondo il fondatore del movimento Agende Rosse. Quel discorso tenuto da Paolo Borsellino alla biblioteca comunale di Palermo, in cui si dichiarò pronto a testimoniare sull’attentato di Capaci, fu l’ultimo atto di una sfida lanciata alle forze oscure che già tramavano nell’ombra.

Non aveva mai indagato direttamente su Berlusconi e Dell’Utri, eppure la sua voce rappresentava una minaccia troppo grande per essere ignorata. L’archiviazione dell’inchiesta nel 2001 da parte del gip di Caltanissetta non è che l’ultimo capitolo di una storia fatta di verità negate e giustizia incompiuta.

Oggi, mentre il Paese si prepara a un’altra commemorazione formale, è tempo di rompere il cerchio del silenzio. Le nuove generazioni meritano di conoscere non solo i nomi delle vittime, ma anche quelli dei mandanti e dei complici che ancora camminano liberi.

Il messaggio di Salvatore Borsellino è un faro in questa notte di omertà istituzionale, un invito a non accontentarsi delle verità ufficiali ma a continuare a scavare, a chiedere, a pretendere risposte. Perché la storia d’Italia non potrà mai essere riscritta finché questi nomi rimarranno nascosti nell’ombra, protetti da quel sistema di potere che ha trasformato le stragi del ’92 in una ferita ancora aperta.

Forse un giorno, quando i fili di questa intricata matassa verranno finalmente dipanati, capiremo perché trentatré anni non sono bastati a fare piena luce su via D’Amelio…

Fino ad allora, restano le parole di Salvatore Borsellino, ultimo custode di una memoria scomoda ma necessaria, e l’impegno di chi non si rassegna a vedere la giustizia tradita.

Perché continuare a commemorare non basta più: è tempo di verità, senza se e senza ma!

Quando i segreti in questo nostro Paese fanno storia!!!

 

Trentatré anni dopo, il silenzio che avvolgeva una pagina oscura sembra incrinarsi sotto il peso di un documento ritrovato, come se il tempo avesse deciso di consegnarci ciò che qualcuno aveva sperato di tenere nascosto per sempre.

Un foglio dimenticato, un verbale che racconta di incontri, di voci, di dettagli mai approfonditi, prova che sin dall’inizio c’erano elementi in grado di cambiare la direzione delle indagini. Ma non fu così.

Già… chi poteva agire non lo fece e chi doveva ascoltare preferì ignorare…

E mentre si costruiva una verità ufficiale, comoda e rassicurante, altre tracce venivano cancellate, archiviate, occultate con cura.

Un magistrato, poco prima della sua fine violenta, aveva cercato di ottenere una delega per interrogare un pentito. Non era una richiesta qualsiasi. Quell’uomo parlava di collegamenti tra organizzazioni estremiste e ambienti mafiosi, di accordi stretti al riparo da occhi indiscreti. Voleva portare quelle informazioni ai colleghi che indagavano su una strage che ancora oggi fa dibattere.

Ma sappiamo bene come finii… non ebbe il tempo di completare il suo lavoro. Il verbale rimase lì, abbandonato tra carte che nessuno volle leggere fino in fondo. Perché? Chi decise che quelle rivelazioni non meritavano attenzione?

Eppure, negli anni, si è sempre faticato a far emergere certe connessioni. Si parlò di “ pista nera “, ma fu liquidata come una teoria inconsistente, quasi una fantasia. Altri, invece, ci credettero. Lo stesso pentito insistette più volte, insieme alla sua compagna, anch’essa messa in discussione, sospettata non per le prove prodotte ma per chi le pronunciava. Fu accusato di mentire, lei di suggestionarlo. E quelli che avrebbero dovuto ascoltarlo, che forse ne conoscevano i segreti, fecero orecchie da mercante. Oggi però quel verbale è tornato alla luce grazie all’ostinazione di un avvocato che non ha accettato il silenzio come risposta.

E allora ci si chiede: perché quelle parole furono ignorate? Perché chi le raccolse finì sotto processo, mentre chi le avrebbe potute usare per scavare più a fondo non fu mai davvero chiamato a rispondere?

C’è un filo che lega tutto, invisibile ma resistente, che collega depistaggi, omissioni, incontri notturni e luoghi sospetti. Il pentito raccontò di un boss che controllava un territorio preciso, di persone che frequentavano ambienti diversi ma con interessi convergenti, di sopralluoghi mai registrati, di movimenti anomali mai indagati. Parlò anche di un politico, non tanto per nome quanto per rapporto personale con uno dei protagonisti di questa storia. Di un uomo che, a scuola, aveva condiviso banchi e ideali con il magistrato. Che strano destino, no? Vedere intrecciarsi vite così distanti in superficie ma collegate da fili che affondano nel profondo. E proprio in quei giorni, il magistrato confessò a qualcuno di sentirsi tradito da un amico. Un’amarezza improvvisa, una frase buttata lì, come un barlume di consapevolezza. Ma nessuno gli chiese mai chi fosse quel traditore. Nessuno volle sapere.

Forse perché certe domande, una volta poste, non lasciano spazio alle bugie. Forse perché scoprire troppo avrebbe significato smontare equilibri precari, mettere in discussione ruoli e fedeltà. E allora si preferì tacere. Si preferì processare chi parlava, piuttosto che chi sapeva. Si preferì archiviare, piuttosto che indagare. Ma i documenti, quando sono veri, non muoiono mai. Aspettano solo il momento giusto per riemergere. E oggi, quel verbale parla chiaro.

Per cui… non possiamo fingere di non aver capito. Possiamo solo chiederci cosa altro è stato nascosto, quanti altri nodi non sono stati sciolti, quante verità hanno pagato il prezzo dell’omertà. In questo paese, purtroppo, i segreti sono sempre stati più numerosi delle verità. E forse, per qualcuno, continueranno a esserlo.


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Povera… Sicilia

Ci mancava solo questo…
Una Sicilia divisa… già tagliata in tutti i sensi…
E’ dire, che quel tratto stradale, era da anni in completo sfacelo e tutti, hanno fatto finta di non vedere… in particolare quanti avrebbero dovuto verificarne l’idoneità…
Mi chiedevo, considerato che erano in molti ad attraversare questo tratto stradale, per poter giungere nel capoluogo a svolgere i consueti incontri, presso i vari uffici nel comprensorio di Palermo, come per esempio, il palazzo della Regione, gli uffici della Provincia, i vari assessorati, le associazioni, gli ordini, le società partecipate, unioni, collegi, consorzi, etc…, ecco, come può essere che, a nessuno di questi soggetti che tanto si prodigano in riunioni, dibattiti, convegni, sia venuto in mente di denunciarne il fastidioso dissesto???
Personaggi illustri e altisonanti della nostra politica e/o di tutte quelle associazioni di cui sopra – e stranamente a nessuno di loro è venuto in mente che forse qualcosa su quel viadotto non andava….
Un viadotto che da sempre presentava nel mezzo delle carreggiate, in entrambi i sensi di marcia, i soliti dissuasori in plastica, quegli inutili birilli colorati che hanno la funzione di avvisarci che ci sono dei lavori in corso, peccato che poi però, nessuno ci lavori o meglio, in tutto il tratto stradale da Catania a Palermo ( parlo per gli anni in cui la percorrevo assiduamente), vedevo soltanto occasionalmente qualche squadra d’operai, circa 220 km ed una sola squadra, a volte due…
E’ facile comunque valutare quanto sto riportando, basterebbe farsi consegnare i rapportini giornalieri, non solo coi nominativi presenti dei dipendenti e dei mezzi d’opera delle società che eseguivano i lavori, ma soprattutto analizzare se attraverso quei report, si possa capire quali interventi siano stati eseguiti e soprattutto, se da parte dei preposti, fossero state fatte rilevare delle problematiche e se successivamente tali note fossero stare rapportate ai propri superiori…
Già…sarei curioso di vederli quei rapportini… 
Quindi, con una economia disperata ed una viabilità che – se pur deficitaria – permetteva comunque una certa mobilità…, ora purtroppo, siamo completamente divisi e non da “madre natura”, ma dall’incuria umana, realizzata attraverso le  consuete macchinazioni e da soliti mandanti… più o meno occulti!!!
Ora, ci vogliono dalle tre alle quattro ore per passare da una parte all’altra della Regione ed il bello è che ho letto, che per completare i lavori ci vorranno anni… si avete sentito bene, mentre negli altri paesi del mondo in pochi anni costruiscono delle città… da noi per rifare un pezzo di viadotto… ci vorranno anni!!!
Ed allora mi soffermo a pensare… se per l’opera ci vorranno anni… non lascio immaginare quanto denaro pubblico ci vorrà… e quanti su quest’opera ci “mangeranno” ( prevedo già da parte degli organi inquirenti… una futura inchiesta… ) e noi come sempre, oltre al disagio… pagheremo!!!
Ora si parla di proclamare lo stato di emergenza, richiesta che ovviamente trova tutti d’accordo… 
Già, è dire che sono gli stessi,  che avrebbero dovuti essere uniti, per fare in modo che quanto accaduto non si realizzasse… 
Ma da noi, sono tutti bravi a parlare… dopo…, mai prima…, nessuno che fa il primo passo, che denunci, che si discosti dai soliti luoghi comuni, da quegli intrecci, da quell’ordinario malaffare…, stanno sempre lì… in silenzio, barricati dietro quella loro inutilità…
Comunque alla fine… non si risolve il problema demolendo il viadotto… quello (per quanto se ne possa dire) – rappresenta oggi il nostro male minore…, ciò che invece va completamente demolito è questo sistema, che permette ovunque ad imprese colluse, la realizzazioni di opere pubbliche, non solo inservibili, ma soprattutto limitate nel tempo…