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Dove i vangeli “non ufficiali” raccontano un’altra Chiesa – (Terza e ultima parte). E un invito, caro Roberto, per il monologo che ancora manca.


E in questa tradizione, il cosiddetto Vangelo di Giacomo – un testo apocrifo del II secolo – stranamente non è stata inserita come biografia evangelica, c’è la ricostruzione della sacralità della famiglia: Maria è presentata come figlia del tempio, dedicata fin da bambina a Dio; Giuseppe è un vedovo anziano, scelto solo per proteggere la sua purezza; Gesù nasce in silenzio, senza clamore, e subito dopo è Giacomo, il primogenito di Giuseppe, a entrare in scena come custode della sorellina (Maria) e poi del fratellastro (divino). 

Non vi è alcun miracolo nel parto, e neppure adorazione dei magi, c’è semplice devozione, rispetto, familiarità. Per gli ebioniti, la santità non era nell’eccezionale, ma nel quotidiano. Nel fare bene ciò che la Torah chiede, senza sconti, senza scorciatoie e quando Giacomo morì lapidato, per loro non cadde un leader tra tanti: cadde il pilastro che teneva ancora unita la casa di Gesù alla casa d’Israele.

Certo, col tempo quella voce si fece sempre più flebile e così mentre Roma cresceva, Antiochia dibatteva e Alessandria speculava, Gerusalemme era stata sepolta dai romani sotto le ceneri…

E i vangeli – non parlo solo di quei quattro che ormai leggiamo come fossero uno – non furono scritti in un’unica volta, né con un unico intento. Ognuno porta i segni del suo tempo, delle sue ferite, dei suoi conflitti risolti a parole quando non era più possibile risolverli a fatti. 

Quello di Marco, probabilmente scritto prima della distruzione del Tempio, non conosce ancora la figura di Pietro come fondamento: lo mostra smarrito, che fugge nudo dal Getsemani (un dettaglio troppo strano per essere inventato…), che tace davanti al sommo sacerdote, che non compare alla tomba vuota, anzi, le donne “non dissero nulla a nessuno, perché avevano paura”, un testo aperto, incerto, come la comunità che lo genera. 

E poi Matteo, scritto dopo il 70, in una chiesa divisa tra ebrei osservanti e convertiti ellenisti, sente il bisogno di chiudere quella incertezza: ecco allora il discorso della montagna, le antitesi («Avete inteso che fu detto… ma io vi dico»), e, appunto, la dichiarazione su Pietro — «Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa». Ma attenzione, quanto scritto non rappresenta un titolo di proprietà, è un atto di fiducia in un momento di crisi. È come se la comunità dicesse: “Abbiamo perso Gerusalemme, abbiamo perso il Tempio, abbiamo perso Giacomo, ma non abbiamo perso la possibilità di ricominciare e se proprio dobbiamo ricominciare, che sia qualcuno che ha fallito, ma che è stato guardato ancora”.

Luca, viceversa, cerca l’unità: fa parlare Pietro a Pentecoste, ma affida la parola decisiva al concilio a Giacomo; mostra Paolo in viaggio, ma lo fa arrestare a Gerusalemme, in quella stessa città dove Giacomo camminava a testa alta fino all’ultimo. Giovanni, infine, scrive più tardi, forse a Efeso, e sa che ormai Giacomo è un nome quasi scomparso: allora trasforma Pietro in Simone figlio di Giovanni, lo fa riconoscere tre volte da Gesù dopo il rinnegamento – non per umiliarlo – ma per restituirgli il posto non come capo, ma come pastore. È un gesto di riconciliazione postuma, un tentativo di tenere insieme ciò che la storia aveva separato.

Ecco che così, pagina dopo pagina, quei vangeli non raccontano solo ciò che accadde, ma anche ciò che si sperò potesse ancora accadere: un’unità che non cancellasse le differenze, una fedeltà che non diventasse rigidità, una memoria che non si trasformasse in mito. 

Il problema non fu mai che qualcuno abbia “inventato” il Pietro che oggi tutti conoscono, quello che, in questi giorni, Roberto Benigni ha raccontato con tanta grazia e forza. No… il problema fu che, più tardi, qualcuno decise che quella sola immagine dovesse bastare a reggere tutto, la fede, il potere, la memoria persino e nel farlo, lasciò fuori le altre voci, i volti che non chiedevano di comandare, ma solo di testimoniare.

Come se la casa di Gesù potesse avere un’unica colonna portante, e non invece una trama di relazioni, di tensioni, di silenzi pesanti e parole ritrovate. Perché la verità è che Gesù non ha lasciato un successore: ha lasciato una tavola apparecchiata e su quella tavola c’erano dodici posti e quindi non uno solo. Alcuni furono occupati da chi rimase, altri da chi decise di andare lontano, altri ancora restarono vuoti, segno che nessuno poteva dire: “Qui siedo io, e qui nessun altro”!

Ecco allora che – a seconda di come vogliamo leggere la storia, forse o certamente – il vero errore non fu tanto mettere Pietro troppo in alto, quanto dimenticare che ogni volta che lo si sollevava, qualcun altro veniva inevitabilmente spinto giù: Giacomo, Maria di Magdala, Giuda di Giacima, la vedova con le sue due monetine, non furono cancellati, no… furono semplicemente messi fuori campo, come ombre al bordo della tela ufficiale, mentre la luce veniva concentrata su un solo volto.

Ecco per cui, mio caro Roberto, consentimi di suggerirti il tuo prossimo monologo e cioè l’unico e vero messaggio che Cristo desiderava: un insegnamento che riuniva l’umanità intera, senza divisioni religiose, senza più poveri e ricchi, senza padroni e servi, senza chi comanda in nome di Dio e chi obbedisce per paura del castigo. 

Il tutto potremmo dire riunito in una sola legge – scritta non su pietra – ma nel cuore: “ama il prossimo tuo come te stesso”.

Basta  un solo segno distintivo: non la fede dichiarata, bensì il pane spezzato con chi non ha, con una giustizia equa fatta anche per chi non conta, la verità detta a chi non la vuole sentire, perché Gesù non venne a fondare una Chiesa, venne a ricordare a tutti che siamo una sola famiglia e che ogni volta che qualcuno viene lasciato fuori – non è lui a essere escluso – siamo noi a smettere di essere umani.
E quel giorno, non è Dio che si allontana: è l’uomo che si dimentica di sé!

Quando il silenzio di Giacomo parla più delle parole di Pietro – Seconda parte


Consentitemi – prima di iniziare la seconda parte del mio post – di riportarvi quanto ricevuto – ieri – dalla mia prima lettrice, e cioè mia moglie (ma sono certo che sarete stati in molti a pensare la stessa cosa…):

  • Troppo lungo per leggerlo immediatamente, lo farò con calma. Hai forse voluto eguagliare Benigni per lunghezza??? Ma lui a differenza tua è stato profumatamente pagato per intrattenere gli spettatori 🤣🤣🤣🤣

Risposta (che in un qualche modo preannuncia quanto sto ora per scrivere):

  • Hai ragione sulla lunghezza, ma per trattare con serietà un tema così vasto (e come sappiamo troppo spesso edulcorato…) servono necessariamente più parole. Ho preferito quindi una divisione in più parti a un riassunto frettoloso. Il punto centrale del mio post non è la mia opinione personale, ma il tentativo di ricostruire coerentemente eventi storici che, da duemila anni, vengono (sempre) celati dietro narrazioni più “comode e spettacolari”, come per l’appunto alcuni monologhi di intrattenimento.

Ed allora – dando seguito a quanto scritto ieri – ho lasciato l’ultima parola al “silenzio”, come si fa quando si è detto qualcosa che non può essere né aggiustato né cancellato, solo accolto. La storia – e quindi non la leggenda – ci ha consegnato un Giacomo solido, silenzioso, radicato in quella terra di Gerusalemme, mentre viceversa ci ha fatto conoscere un Pietro che cammina sui margini, tra le onde e le città, tra l’entusiasmo coraggioso di chi crede ciecamente ed il ripensamento umano di chi evidenzia paura, già… tra il fuoco e il dubbio.

Eppure, non finisce qui, perché se è vero che la storia non mente, è altrettanto vero che non parla mai da sola: le sue parole sono sempre intrecciate con quelle di chi, dopo, ha dovuto scegliere da che parte stare, in tempi in cui non si trattava più di seguire un uomo, ma di costruire una memoria capace di resistere al tempo. E quella memoria, inevitabilmente, ha dovuto fare i conti con conflitti che non erano più tra Giudei e Romani, ma dentro la stessa comunità dei discepoli.

Paolo e Pietro, per esempio, non furono mai compagni di strada nel senso tranquillo del termine.

Paolo, cittadino romano, colto, irruente, convinto che la buona novella fosse per tutti, senza distinzioni di circoncisione né di legge; Pietro, galileo, cresciuto nel ritmo delle sinagoghe, fedele alla Torah anche quando non ne capiva più il senso, sempre in bilico tra ciò che aveva udito da Gesù e ciò che il cuore gli imponeva di non abbandonare.

Ad Antiochia – come ho scritto ieri – lo scontro è netto: Pietro mangia con i pagani finché non arrivano gli emissari di Giacomo, allora si ritrae, come chi teme di aver oltrepassato un confine che non gli compete spostare: «Se tu, che sei Giudeo, vivi come i pagani… come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei?». Non è un rimprovero teologico: è la voce di chi sente cedere il terreno sotto i piedi, perché sa che se la legge diventa barriera, allora la grazia non è più grazia. Ma Pietro tace e quel silenzio, più di ogni parola, ci dice quanto il primato non fosse mai stato suo: non aveva l’autorità di decidere da solo, perché la comunità di Gerusalemme aveva un centro, e quel centro si chiamava Giacomo.

E proprio attorno a Giacomo si radica una corrente di pensiero oggi quasi dimenticata, ma che per secoli fu viva, presente, resistente: gli ebioniti, i “poveri”, che vedevano in Gesù non un dio disceso dal cielo, ma un uomo giusto, profeta e maestro, figlio di Giuseppe e Maria, fratello di Giacomo, osservante della Legge fino all’ultimo respiro. Per loro, il vero erede non era chi predicava la libertà dai precetti, ma chi, come Giacomo, portava ogni giorno il “tallit”, pregava nel tempio, rifiutava la carne sacrificata agli idoli e viveva in povertà radicale.

Non avevano bisogno quindi di un Pietro universale, né di un Paolo che parlava in greco alle città: avevano bisogno di un fratello che camminava per le strade di Sion come aveva camminato Gesù, con le stesse scarpe polverose e lo stesso sguardo sulle vedove e gli orfani.

FINE SECONDA PARTE