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33 anni di bugie! Perché la strage di Borsellino è ancora un segreto di Stato?

Era il 19 luglio 1992 quando una bomba di inaudita violenza squarciò il silenzio di via D’Amelio a Palermo, spegnendo per sempre le vite di Paolo Borsellino e dei cinque agenti della sua scorta.

Trentatré anni dopo, quel boato continua a riecheggiare nelle coscienze di chi cerca ancora verità, nonostante i depistaggi, le omissioni e i silenzi istituzionali che hanno avvolto questa strage in una fitta nebbia.
Mentre le commemorazioni ufficiali si susseguono con il loro rituale di retorica e ipocrisia politica, c’è una voce che rompe il coro ben orchestrato dell’oblio: quella di Salvatore Borsellino, fratello del magistrato assassinato, che con coraggio indica senza mezzi termini quelle che furono – a suo giudizio – le cause acceleranti della strage.

Quell’intervista rilasciata ai francesi il 21 maggio 1992 non fu un episodio casuale, ma un atto di straordinaria lucidità e determinazione. In quelle dichiarazioni, Paolo Borsellino fece i nomi di Vittorio Mangano, Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi, tessendo un filo che legava il potere mafioso a quello politico e imprenditoriale.

Un collegamento pericoloso, scomodo, che forse rappresentò il punto di non ritorno. Salvatore Borsellino lo ricorda con amarezza: suo fratello sapeva di aver scavato troppo in profondità, di aver sollevato un velo su connivenze che molti preferivano lasciare sepolte. Eppure, non si tirò indietro, consapevole che la giustizia non può essere esercitata a metà.

C’è un altro tassello che completa questo tragico puzzle, sempre secondo il fondatore del movimento Agende Rosse. Quel discorso tenuto da Paolo Borsellino alla biblioteca comunale di Palermo, in cui si dichiarò pronto a testimoniare sull’attentato di Capaci, fu l’ultimo atto di una sfida lanciata alle forze oscure che già tramavano nell’ombra.

Non aveva mai indagato direttamente su Berlusconi e Dell’Utri, eppure la sua voce rappresentava una minaccia troppo grande per essere ignorata. L’archiviazione dell’inchiesta nel 2001 da parte del gip di Caltanissetta non è che l’ultimo capitolo di una storia fatta di verità negate e giustizia incompiuta.

Oggi, mentre il Paese si prepara a un’altra commemorazione formale, è tempo di rompere il cerchio del silenzio. Le nuove generazioni meritano di conoscere non solo i nomi delle vittime, ma anche quelli dei mandanti e dei complici che ancora camminano liberi.

Il messaggio di Salvatore Borsellino è un faro in questa notte di omertà istituzionale, un invito a non accontentarsi delle verità ufficiali ma a continuare a scavare, a chiedere, a pretendere risposte. Perché la storia d’Italia non potrà mai essere riscritta finché questi nomi rimarranno nascosti nell’ombra, protetti da quel sistema di potere che ha trasformato le stragi del ’92 in una ferita ancora aperta.

Forse un giorno, quando i fili di questa intricata matassa verranno finalmente dipanati, capiremo perché trentatré anni non sono bastati a fare piena luce su via D’Amelio…

Fino ad allora, restano le parole di Salvatore Borsellino, ultimo custode di una memoria scomoda ma necessaria, e l’impegno di chi non si rassegna a vedere la giustizia tradita.

Perché continuare a commemorare non basta più: è tempo di verità, senza se e senza ma!

Borsellino: sul rapporto "mafia e appalti" non me la raccontate giusta…

“Sono passati trentadue anni, ma lo ricordo come fosse ieri” a riportato Antonio Ingroia, all’epoca sostituto procuratore a Palermo.

Al termine di una movimentata riunione nella stanza del procuratore Giammanco, Paolo Borsellino si avvicinò a Guido Lo Forte e Giuseppe Pignatone, disse: “Voi due non me la raccontate giusta sul dossier mafia e appalti»!!!
L’ex magistrato, stretto collaboratore del giudice ucciso il 19 luglio 1992, ha raccontato il clima all’interno della procura di Palermo diretta da Pietro Giammanco. “Lui e i suoi fedelissimi misero Borsellino in un angolo”…
E loro cosa risposero?

«Fecero un sorriso e si allontanarono».

Quando si tenne quella riunione?

«Giammanco l’aveva convocata per il 14 luglio, dopo le polemiche seguite alla pubblicazione di stralci del diario di Falcone, in cui si parlava della difficoltà di lavorare alla procura di Palermo».

Che cosa si disse in quell’incontro?

«Si fece il punto su diverse indagini, ma su quella riunione ho ricordi sbiaditi. La collega Antonella Consiglio raccontò qualche settimana dopo al Csm che Borsellino espresse un certo dissenso: lamentava che alcuni atti della procura di Marsala non erano stati acquisiti nel fascicolo su Angelo Siino».

Anche a Marsala vi eravate occupati di mafia e appalti?

«Dopo aver ricevuto il rapporto del Ros, Giammanco aveva fatto una sorta di spezzatino, inviandoci uno stralcio che riguardava il porto di Pantelleria. Il procuratore Borsellino aveva incaricato me di occuparmene, arrivammo ad arrestare il sindaco. Ricordo pure che eravamo stati a Palermo per parlare di alcuni aspetti dell’indagine con Giammanco».

Quando avvenne?

«Paolo era ancora il procuratore di Marsala, erano i giorni in cui stava meditando di fare domanda per ricoprire la funzione di procuratore aggiunto a Palermo, incarico che poi iniziò nel settembre 1991».

Cosa accadde in quest’altra riunione con Giammanco?

«Ricordo che nella stanza c’erano i colleghi Lo Forte e Pignatone, i più fedeli collaboratori di Giammanco. Parlammo dello stralcio di mafia e appalti che ci avevano inviato, ma Paolo lanciò anche una battuta a Giammanco: “Se faccio domanda a Palermo come procuratore aggiunto mi metti a occuparmi di esecuzioni in un sottoscala?”. 
Giammanco sorrise, disse che gli avrebbe dato la delega a seguire le indagini di mafia su Trapani e Agrigento. 
Tornando a Marsala, Paolo mi disse: “Questi qui cercheranno di mettermi in un angolo”. 
Ma fece comunque domanda per Palermo».

Aveva visto giusto Borsellino, si trovò presto isolato all’interno della procura di Giammanco.

«Dopo il delitto Lima, Falcone e Borsellino compresero che era accaduta una cosa epocale. Borsellino voleva indagare sulle dinamiche mafiose di Palermo e anche sull’omicidio dell’europarlamentare Dc, ma Giammanco glielo negò. 
Borsellino voleva anche andare negli Stati Uniti per interrogare Buscetta: pure questo Giammanco impedì. 
Il procuratore arrivò a nascondergli la notizia del pentimento di Gaspare Mutolo!!!

Inizialmente, chi era stato incaricato di interrogare quel collaboratore così importante?

«Aliquò, Lo Forte e anche Natoli, che all’epoca era vicino agli uomini di Giammanco, pure avendo trascorso un periodo importante all’ufficio istruzione di Falcone e Borsellino».

In quello che abbiamo dei diari di Falcone, ci sono molti riferimenti all’isolamento all’interno della procura di Giammanco. 

Cosa le disse Paolo Borsellino al proposito?

«Paolo era convinto che dietro ogni annotazione potesse nascondersi uno spunto importante per comprendere la causale della strage di Capaci. Per questo voleva indagare a fondo su ogni spunto».

Sono trascorsi trentadue anni, i reati contestati dalla procura di Caltanissetta sono tutti prescritti, è il segno che una verità processuale su quella stagione non potrà mai più esserci?

«Una verità processuale forse non potrà esserci, è vero, ma sono doverosi gli approfondimenti che la magistratura continua a fare su un periodo storico ancora carico di misteri.

Certo, per questo tipo di ricerche, forse la sede più adeguata dovrebbe essere quella di una commissione parlamentare d’inchiesta, ma nel nostro paese i veti incrociati della politica e le contrapposte “tifoserie” hanno sempre bloccato il lavoro delle commissioni.

Dunque, ben vengano le indagini della magistratura. E mi aspetterei che ci fosse collaborazione da parte di tutti».

A chi si riferisce?

«Mi ha colpito il silenzio di Natoli e Pignatone quando sono stati convocati per l’interrogatorio. 

Ovviamente, era un loro diritto tacere, ma quando ad essere interrogati sono personaggi pubblici, questi dovrebbero rendere conto alla collettività.

Così, ci siamo ritrovati a criticare Silvio Berlusconi, quando si è avvalso della facoltà di non rispondere al processo Dell’Utri.

Certi silenzi agli occhi dei cittadini appaiono ancor più pesanti»!!!

Se volete approfondire l’argomento vi consiglio post intitolato: Il Rapporto Mafia&Appalti e l’eliminazione del dottor Paolo Borsellino – link https://progettosanfrancesco.it/2023/07/13/il-rapporto-mafiaappalti-e-leliminazione-del-dottor-paolo-borsellino/ 

Caro Paolo, sono passati ben 11 anni da questa lettera di Roberto, eppure siamo ancora qui a chiederci: da chi sei stato assassinato???

Chi ha ucciso Paolo Borsellino? La mafia o, come scrivono i giudici della Corte d’assise di Caltanissetta, “soggetti diversi da Cosa nostra”??? 31 anni non sono bastati per conoscere la verità!!!

Caro Paolo,

oggi siamo qui a commemorarti in forma privata perché più trascorrono gli anni e più diventa imbarazzante il 23 maggio ed il 19 luglio partecipare alle cerimonie ufficiali che ricordano le stragi di Capaci e di via D’Amelio.

Stringe il cuore a vedere talora tra le prime file, nei posti riservati alle autorità, anche personaggi la cui condotta di vita sembra essere la negazione stessa di quei valori di giustizia e di legalità per i quali tu ti sei fatto uccidere; personaggi dal passato e dal presente equivoco le cui vite – per usare le tue parole – emanano quel puzzo del compromesso morale che tu tanto aborrivi e che si contrappone al fresco profumo della libertà.

E come se non bastasse, Paolo, intorno a costoro si accalca una corte di anime in livrea, di piccoli e grandi maggiordomi del potere, di questuanti pronti a piegare la schiena e abarattare l’anima in cambio di promozioni in carriera o dell’accesso al mondo dorato dei facili privilegi.

Se fosse possibile verrebbe da chiedere a tutti loro di farci la grazia di restarsene a casa il 19 luglio, di concederci un giorno di tregua dalla loro presenza. Ma, soprattutto, verrebbe da chiedere che almeno ci facessero la grazia di tacere, perché pronunciate da loro, parole come Stato, legalità, giustizia, perdono senso, si riducono a retorica stantia, a gusci vuoti e rinsecchiti.

Voi che a null’altro credete se non alla religione del potere e del denaro, e voi che non siete capaci di innalzarvi mai al di sopra dei vostri piccoli interessi personali, il 19 luglio tacete, perché questo giorno è dedicato al ricordo di un uomo che sacrificò la propria vita perché parole come Stato, come Giustizia, come Legge acquistassero finalmente un significato e un valore nuovo in questo nostro povero e disgraziato paese.

Un paese nel quale per troppi secoli la legge è stata solo la voce del padrone, la voce di un potere forte con i deboli e debole con i forti. Un paese nel quale lo Stato non era considerato credibile e rispettabile perché agli occhi dei cittadini si manifestava solo con i volti impresentabili di deputati, senatori, ministri, presidenti del consiglio, prefetti, e tanti altri che con la mafia avevano scelto di convivere o, peggio, grazie alla mafia avevano costruito carriere e fortune.

Sapevi bene Paolo che questo era il problema dei problemi e non ti stancavi di ripeterlo ai ragazzi nelle scuole e nei dibattiti, come quando il 26 gennaio 1989 agli studenti di Bassano del Grappa ripetesti: “Lo Stato non si presenta con la faccia pulita… Che cosa si è fatto per dare allo Stato… Una immagine credibile?… La vera soluzione sta nell’invocare, nel lavorare affinché lo Stato diventi più credibile, perché noi ci dobbiamo identificare di più in queste istituzioni”.

E a un ragazzo che ti chiedeva se ti sentivi protetto dallo Stato e se avessi fiducia nello Stato, rispondesti: “No, io non mi sento protetto dallo Stato perché quando la lotta alla mafia viene delegata solo alla magistratura e alle forze dell’ordine, non si incide sulle cause di questo fenomeno criminale”. E proprio perché eri consapevole che il vero problema era restituire credibilità allo Stato, hai dedicato tutta la vita a questa missione.

Nelle cerimonie pubbliche ti ricordano soprattutto come un grande magistrato, come l’artefice insieme a Giovanni Falcone del maxiprocesso che distrusse il mito della invincibilità della mafia e riabilitò la potenza dello Stato. Ma tu e Giovanni siete stati molto di più che dei magistrati esemplari. Siete stati soprattutto straordinari creatori di senso. 

Avete compiuto la missione storica di restituire lo Stato alla gente, perché grazie a voi e a uomini come voi per la prima volta nella storia di questo paese lo Stato si presentava finalmente agli occhi dei cittadini con volti credibili nei quali era possibile identificarsi ed acquistava senso dire “ Lo Stato siamo noi”. Ci avete insegnato che per costruire insieme quel grande Noi che è lo Stato democratico di diritto, occorre che ciascuno ritrovi e coltivi la capacità di innamorarsi del destino degli altri. Nelle pubbliche cerimonie ti ricordano come esempio del senso del dovere.

Ti sottovalutano, Paolo, perché la tua lezione umana è stata molto più grande. Ci hai insegnato che il senso del dovere è poca cosa se si riduce a distaccato adempimento burocratico dei propri compiti e a obbedienza gerarchica ai superiori. Ci hai detto chiaramente che se tu restavi al tuo posto dopo la strage di Capaci sapendo di essere condannato a morte, non era per un astratto e militaresco senso del dovere, ma per amore, per umanissimo amore.

Lo hai ripetuto la sera del 23 giugno 1992 mentre commemoravi Giovanni, Francesca,Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Parlando di Giovanni dicesti: “Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché mai si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore! La sua vita è stata un atto di amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato”.

Questo dicesti la sera del 23 giugno 1992, Paolo, parlando di Giovanni, ma ora sappiamo che in quel momento stavi parlando anche di te stesso e ci stavi comunicando che anche la tua scelta di non fuggire, di accettare la tremenda situazione nella quale eri precipitato, era una scelta d’amore perché ti sentivi chiamato a rispondere della speranza che tutti noi riponevamo in te dopo la morte di Giovanni.

Ti caricammo e ti caricasti di un peso troppo grande: quello di reggere da solo sulle tue spalle la credibilità di uno Stato che dopo la strage di Capaci sembrava cadere in pezzi, di uno Stato in ginocchio ed incapace di reagire.

Sentisti che quella era divenuta la tua ultima missione e te lo sentisti ripetere il 4 luglio 1992, quando pochi giorni prima di morire, i tuoi sostituti della Procura di Marsala ti scrissero: “La morte di Giovanni e di Francesca è stata per tutti noi un po’ come la morte dello Stato in questa Sicilia. Le polemiche, i dissidi, le contraddizioni che c’erano prima di questo tragico evento e che, immancabilmente, si sono ripetute anche dopo, ci fanno pensare troppo spesso che non ce la faremo, che lo Stato in Sicilia è contro lo Stato e che non puoi fidarti di nessuno. Qui il tuo compito personale, ma sai bene che non abbiamo molti altri interlocutori: sii la nostra fiducia nello Stato”.

Missione doppiamente compiuta, Paolo. Se riuscito con la tua vita a restituire nuova vita a parole come Stato e Giustizia, prima morte perché private di senso. E sei riuscito con la tua morte a farci capire che una vita senza la forza dell’amore è una vita senza senso; che in una società del disamore nella quale dove ciò che conta è solo la forza del denaro ed il potere fine a se stesso, non ha senso parlare di Stato e di Giustizia e di legalità.

E dunque per tanti di noi è stato un privilegio conoscerti personalmente e apprendere da te questa straordinaria lezione che ancora oggi nutre la nostra vita e ci ha dato la forza necessaria per ricominciare quando dopo la strage di via D’Amelio sembrava – come disse Antonino Caponnetto tra le lacrime – che tutto fosse ormai finito.

Ed invece Paolo, non era affatto finita e non è finita. Come quando nel corso di una furiosa battaglia viene colpito a morte chi porta in alto il vessillo della patria, così noi per essere degni di indossare la tua stessa toga, abbiamo raccolto il vessillo che tu avevi sino ad allora portato in alto, perché non finisse nella polvere e sotto le macerie.

Sotto le macerie dove invece erano disposti a seppellirlo quanti mentre il tuo sangue non si era ancora asciugato, trattavano segretamente la resa dello Stato al potere mafioso alle nostre spalle e a nostra insaputa.

Abbiamo portato avanti la vostra costruzione di senso e la vostra forza è divenuta la nostra forza sorretta dal sostegno di migliaia di cittadini che in quei giorni tremendi riempirono le piazze, le vie, circondarono il palazzo di giustizia facendoci sentire che non eravamo soli.

E così Paolo, ci siamo spinti laddove voi eravate stati fermati e dove sareste certamente arrivati se non avessero prima smobilitato il pool antimafia, poi costretto Giovanni ad andar via da Palermo ed infine non vi avessero lasciato morire.

Abbiamo portato sul banco degli imputati e abbiamo processato gli intoccabili: presidenti del Consiglio, ministri, parlamentari nazionali e regionali, presidenti della Regione siciliana, vertici dei Servizi segreti e della Polizia, alti magistrati, avvocati di grido dalle parcelle d’oro, personaggi di vertice dell’economia e della finanza e molti altri.

Uno stuolo di sepolcri imbiancati, un popolo di colletti bianchi che hanno frequentato le nostre stesse scuole, che affollano i migliori salotti, che nelle chiese si battono il petto dopo avere partecipato a summit mafiosi. Un esercito di piccoli e grandi Don Rodrigo senza la cui protezione i Riina, i Provenzano sarebbero stati nessuno e mai avrebbero osato sfidare lo Stato, uccidere i suoi rappresentanti e questo paese si sarebbe liberato dalla mafia da tanto tempo.

Ma, caro Paolo, tutto questo nelle pubbliche cerimonie viene rimosso come se si trattasse di uno spinoso affare di famiglia di cui è sconveniente parlare in pubblico. Così ai ragazzi che non erano ancora nati nel 1992 quando voi morivate, viene raccontata la favola che la mafia è solo quella delle estorsioni e del traffico di stupefacenti.

Si racconta che la mafia è costituita solo da una piccola minoranza di criminali, da personaggi come Riina e Provenzano. Si racconta che personaggi simili, ex villici che non sanno neppure esprimersi in un italiano corretto, da soli hanno tenuto sotto scacco per un secolo e mezzo la nostra terra e che essi da soli osarono sfidare lo Stato nel 1992 e nel 1993 ideando e attuando la strategia stragista di quegli anni. Ora sappiamo che questa non è tutta la verità.

E sappiamo che fosti proprio tu il primo a capire che dietro i carnefici delle stragi, dietro i tuoi assassini si celavano forze oscure e potenti. E per questo motivo ti sentisti tradito, e per questo motivo ti si gelò il cuore e ti sembrò che lo Stato, quello Stato che nel 1985 ti aveva salvato dalla morte portandoti nel carcere dell’Asinara, questa volta non era in grado di proteggerti, o, peggio, forse non voleva proteggerti. 

Per questo dicesti a tua moglie Agnese: “Mi ucciderà la mafia, ma saranno altri che mi faranno uccidere, la mafia mi ucciderà quando altri lo consentiranno”. Quelle forze hanno continuato ad agire Paolo anche dopo la tua morte per cancellare le tracce della loro presenza. E per tenerci nascosta la verità, è stato fatto di tutto e di più.

Pochi minuti dopo l’esplosione in Via D’Amelio mentre tutti erano colti dal panico e il fumo oscurava la vista, hanno fatto sparire la tua agenda rossa perché sapevano che leggendo quelle pagine avremmo capito quel che tu avevi capito.

Hanno fatto sparire tutti i documenti che si trovavano nel covo di Salvatore Riina dopo la sua cattura. Hanno preferito che finissero nella mani dei mafiosi piuttosto che in quelle dei magistrati. Hanno ingannato i magistrati che indagavano sulla strage con falsi collaboratori ai quali hanno fatto dire menzogne. Ma nonostante siano ancora forti e potenti, cominciano ad avere paura.

Le loro notti si fanno sempre più insonni e angosciose, perché hanno capito che non ci fermeremo, perché sanno che è solo questione di tempo. Sanno che riusciremo a scoprire la verità. Sanno che uno di questi giorni alla porta delle loro lussuosi palazzi busserà lo Stato, il vero Stato quello al quale tu e Giovanni avete dedicato le vostre vite e la vostra morte. 

E sanno che quel giorno saranno nudi dinanzi alla verità e alla giustizia che si erano illusi di calpestare e saranno chiamati a rendere conto della loro crudeltà e della loro viltà dinanzi alla Nazione.

Intervento di Roberto Scarpinato, procuratore generale della Corte di Appello di Caltanissetta, letto alla commemorazione per i 20 anni dell’assassinio di Paolo Borsellino, con il quale ha lavorato fianco a fianco nel pool antimafia.

Come pilotare i processi…

Continuando con quel sistema colluso che interviene, protegge, condiziona e modifica i processi, ecco un articolo interessante che spiega in maniera perfetta, quanto accaduto alcuni anni fa ad un imprenditore pugliese. 

Ci sono la massoneria e i servizi segreti deviati. C’è persino il sistema Gladio, l’organizzazione paramilitare nata su impulso della Nato in chiave antisovietica. Sono gravide di questi riferimenti le minacce di morte raccontate, quando, “dopo dieci anni, il pozzo si è prosciugato”. Le confessioni fiume rese dall’imprenditore di Corato (Bari) Flavio D’Introno dicono di una paura piena, ma anche di depistaggi e di una fuga all’estero ben architettata, il “sistema Albania”. Le sue parole ricostruiscono gli ingranaggi del presunto sistema di corruzione nel tribunale di Trani e inchiodano il magistrato Michele Nardi, almeno stando alle oltre 800 pagine di ordinanza firmata dal gip del Tribunale di Lecce Giovanni Gallo. Ieri, sono state eseguite le misure di custodia cautelare in carcere a carico suo e dell’ex pm di Trani Antonio Savasta, oltre che di un ispettore di polizia. Tra le misure interdittive notificate, una è a carico del noto imprenditore Luigi Dagostino.

LE MINACCE DI MORTE E LO SPAURACCHIO GLADIO

“Disse che se io parlo allora mi doveva far ammazzare da questi dei servizi segreti, tanto lui a Lecce era molto potente, conosceva gip, capo procura, conosceva tutti, disse: ‘Tu sei un morto che cammina se parli’, disse”. Così D’Introno ricostruisce lo “stillicidio” durante gli interrogatori, perché Nardi ci andava giù pesante quando lui non era disponibile: “Quando faccio vedere la tua foto – gli avrebbe detto – faccio uscire a uno e viene qua… io ho i contatti con i servizi segreti. Ho sentito “Inzerrillo” disse su un altro procedimento penale della struttura Gladio”. Lo ribadisce più volte: “Nardi mi ha minacciato di morte dicendosi capace di fare del male sia alla dottoressa Licci (la pm, ndr) che a me che al luogotenente Santoniccolo per il tramite dei servizi segreti deviati”. Così Flavio D’Introno s’è deciso a parlare. Inizialmente, riferisce solo dei suoi rapporti con Nardi, cerca di tener fuori Savasta, in virtù del “patto d’onore” tra loro. Pian piano, però, si apre e delinea i contorni di quella che lui stesso definisce “associazione a delinquere” finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, accusa che per il gip ha sostanza.

L’imprenditore 46enne fa di più: per dare maggiore riscontro alle sue dichiarazioni, nell’autunno scorso prende a registrare con lo smartphone i colloqui al bar e altrove. A tratti i rapporti si invertono. Savasta evidentemente ha seri timori: lo invita a non dire nulla di loro e gli promette 50mila euro per fuggire alle Seychelles. È il “prezzo del silenzio di D’Introno – è annotato nell’ordinanza – così come emerge il pieno coinvolgimento anche di Nardi nella strategia finalizzata a comprare il silenzio, provvedendo a fornirgli i mezzi per fuggire dall’Italia e rendersi definitivamente irreperibile”. Il 18 novembre 2018, Savasta consegna a D’Introno i primi 1.800 euro a titolo di anticipo, perché “diciamo tu ti rendi conto che dovremmo vergognarci di vivere per quello che uscirà fuori di merda”, gli spiega l’ex pm.

A CIASCUNO IL SUO RUOLO

È l’epilogo di un’organizzazione in cui ciascuno ha il suo ruolo, nella ricostruzione fatta dal pm Roberta Licci e dal procuratore di Lecce Leonardo Leone De Castris: “Nardi è colui che stabilisce le regole organizzative dell’associazione e la ripartizione dei profitti”, “crea i contatti, acquisisce informazioni”; Savasta, “in virtù delle sue funzioni presso la Procura di Trani, concretamente ha il potere di intervenire ed agisce attivando le più disparate iniziative giudiziarie”.

Vincenzo Di Chiaro, ispettore presso il commissariato di Corato, “ha il compito di predisporre false relazioni di servizio e comunicazioni di reato, tutte puntualmente ‘canalizzate’ in modo tale da farle pervenire direttamente a Savasta” ed è il trait d’union tra quest’ultimo e D’Introno; Simona Cuomo, nella sua veste di avvocato, “fornisce copertura giuridica alle iniziative concordate”, costruendo anche false denunce. Grazie a questa architettura si sarebbe consumata più volte la svendita della funzione giudiziaria, un “asservimento, e la circostanza rende se possibile ancora più squallida l’intera vicenda, che i due magistrati – scrive il gip – offrono all’imprenditore D’Introno per risolvere i suoi guai giudiziari, imprenditore visto quale una ‘gallina dalle uova d’oro’ a cui spillare denaro e altre utilità in ogni possibile occasione”.

IL SISTEMA DEL 10%

Dalle carte, disseminate di omissis, emerge che i due magistrati hanno tenuto rapporti diretti anche con altri imprenditori, capitolo su cui le indagini sono ancora in corso. Il sistema, comunque, sempre lo stesso: Nardi “pretendeva il 10 per cento su tutte le questioni trattate da altri magistrati grazie alla sua intercessione”. Pur essendo ormai da diversi anni in servizio a Roma, ora come pm e prima nell’ispettorato del ministero della Giustizia, aveva, a quanto pare, porte aperte nella locale Procura: “Nardi – stando a quanto riferito da D’Introno – aveva il tabulato dei turni dei magistrati di Trani ed era in grado di segnalarmi i giorni precisi per fare in modo che le denunce da me presentate andassero direttamente nella competenza di Savasta”. Nardi tornava nella sua città ogni fine settimana e “ogni dieci, quindici giorni io gli consegnavo soldi in contanti, 1000, 2000, 1500”, rivela l’imprenditore.

In un decennio gli avrebbe dato di tutto, come prezzo della mediazione “ma anche con il pretesto di dover comprare il favore di altri giudici”: un viaggio a Dubai da 10mila euro; la ristrutturazione di un immobile a Roma per 120mila euro e di una villa a Trani per 600mila; diverse somme in contanti; un Rolex d’oro dal valore di 34mila euro; due diamanti da 27mila euro ciascuno. Nardi inizia a proporre poi investimenti nella capitale, come due appartamenti in Piazza di Spagna, finiti in una indagine per bancarotta fraudolenta che lui sta seguendo. Di più: gli chiede due milioni di euro, somme che giustifica come necessarie per corrompere altri giudici, ad una settimana dalla definizione del processo Fenerator in cui l’imprenditore è imputato per usura. D’Introno, però, non ha più soldi. E da quel procedimento giudiziario, anche in appello, ne esce con una condanna. Dopo anni di versamenti, inizia a pensare di “essere stato sfruttato senza in fondo ottenere i risultati che gli erano stati garantiti”.

IL TENTATIVO DI DEPISTAGGIO

Nardi a quel punto gli fa paura: vanta amicizie potenti e la capacità di influenzare gli ambienti giudiziari. Del procedimento a suo carico a Lecce, ad esempio, sembra sapere molto sin dall’inizio, grazie ad una talpa (non individuata) nel palazzo di giustizia salentino. Poiché sa – è la motivazione per cui è stata accolta la richiesta di custodia cautelare in carcere – tenta la carta dell’inquinamento probatorio: “In sostanza – spiega D’Introno – lui mi diceva di riferire volutamente durante i contatti telefonici delle circostanze non aderenti alla realtà, per creare delle prove a suo favore che gli servivano per depistare le nostre indagini di cui lui era sempre a conoscenza. In questo modo si garantiva l’impunità o meglio una imputazione più blanda, di cui era stato già rassicurato da sue fonti interne alla Procura di Lecce”. Per lo stesso motivo, Nardi avrebbe orchestrato con l’avvocato Cuomo una strategia tale da rendere Savasta “il capro espiatorio di tutta la vicenda”. Invece, l’imprenditore puntualizza: sì, “erano un tutt’uno” ma “Savasta eseguiva gli ordini di Nardi. Nardi comandava, la parola precisa”.

COME PILOTARE I PROCESSI

Su “mandato di Nardi” e con la collaborazione dell’ispettore Di Chiaro, Savasta avrebbe cercato di pilotare i processi di primo e secondo grado in cui era imputato D’Introno. Lo avrebbe fatto, in cambio di complessivi 300mila euro, con il fuoco incrociato: stando all’impianto accusatorio, si è mosso attivando – pur non essendo titolare del procedimento Fenerator – procedimenti penali a carico di parti offese e testimoni, a mezzo stralcio da suoi procedimenti concernenti persone e vicende del tutto scollegate. Al poliziotto il compito di creare l’input, depositando annotazioni di polizia giudiziaria e informative di reato attestanti false circostanze e supportate da false dichiarazioni rese da due uomini di D’Introno. Tutto con l’obiettivo di minare l’attendibilità delle prove d’accusa a carico di quest’ultimo. L’imprenditore sarebbe stato aiutato anche per fronteggiare cartelle esattoriali per milioni di euro e nel tentativo di un “golpe aziendale” nella Ceramiche San Nicola, una delle più redditizie aziende di famiglia, che avrebbe voluto sfilare dalle mani del padre e della sorella attraverso un continuo attacco giudiziario sferrato da Savasta.

L’articolo è stato estratto da: https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/01/15/massoneria-servizi-deviati-gladio-le-minacce-di-morte-del-giudice-allimprenditore-che-non-poteva-piu-pagarlo/4897863/

Strage di Capaci: quei misteri ancora irrisolti…

La era integra dopo l’esplosione”… 
Già, con queste parole il fotografo Antonio Vassallo rivela la Strage di Capaci…

Il testimone che abita ancora oggi vicino il luogo dell’esplosione, ricorda quei momenti tragici in cui alle ore 17.58 scoppio l’ordigno che uccise il giudice Falcone, sua moglie e collega Francesca Morvillo e gli agenti della scorta, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani.

Egli infatti accorse immediatamente nel luogo dell’attentato e tra quelle devastanti macerie iniziò a fotografare quanto fosse accaduto e forse anche qualcosa in più…  che non avrebbe dovuto imprimere su quella pellicola!!!

Infatti di lì a poco, il rullino gli venne sottratto da quelli che si presentarono come poliziotti in borghese e nonostante i suoi tentativi di recuperarli, i negativi sparirono nel nulla… 

Ciò che nessuno ha però detto è quel ricordo nitido che il Vassallo ha sulla “Quarto Savona 15”, la Fiat Croma su cui viaggiava il magistrato, oggi un ammasso attorcigliato di lamiere che viaggiano per il nostro Paese all’interno di una teca, ma stranamente – al tempo della deflagrazione (secondo il fotografo) – quasi completamente integra!!!

Già… “la macchina era finita dall’altra parte dell’autostrada – ha rivelato il fotografo al quotidiano “PalermoToday” – era capovolta, ma ricordo di averla vista integra, non sicuramente come viene presentata oggi”, certo il sottoscritto osservando la foto sotto riportata, ritiene che qualcosa di quella dichiarazioni non collimi perfettamente con la realtà, ma potrei anche sbagliarmi… 

Certamente un dubbio mi sorge e cioè perché accartocciarla, sicuramente l’hanno modificata con qualche pressa idraulica, di quelle che si trovano abitualmente negli “sfasciacarrozze”??? 

E dove è finita la borsa del giudice??? Già… dove sono le due agende e l’agendina elettronica che il giudice portava sempre con se???

Sembra di rivedere nuovamente quanto accaduto alcuni giorni dopo in Via D’Amelio con la borsa e l’agenda del collega Borsellino ed ora, nessuno sa nulla, ne di quella valigetta e neppure di quel rullino!!! 

Ed ancora, perché ridurre in quel modo un’auto che prima era integra… 

Cos’è… si vuole creare nelle coscienze dei miei conterranei un momento ancor più intimo di riflessione, in particolare lo si desidera fare nei confronti degli adolescenti – visto che l’auto viene solitamente esposta all’interno delle scuole – e quindi per far apparire ancor più tragico quell’attentato (già visivamente arduo da accettare…) – si è ridotta in un cumulo di lamiere quell’auto?”. 

Certamente l’auto è stata ripulita di tutto… affinché nulla venisse trovato al suo interno!!!

Nulla esclude – ipotizza il fotografo – che qualcuno abbia volutamente fatto sparire la ventiquattrore di Falcone, un po’ come è successo con la famosa agenda rossa di Borsellino, in via D’Amelio. Sono convinto che quell’auto non fosse ridotta così come ce la mostrano adesso. Perché nessuno ha spiegato cosa sia successo a quell’auto?. Un particolare che salta fuori adesso perché – spiega il fotografo – è solo recentemente che i brandelli della Croma vengono mostrati in pubblico. 

Una cosa è certa… anche se molti parlano di “sospetti“, si sa come nel nostro paese sia sempre difficile giungere alla verità, in particolare quando questa risulta scomoda poiché coinvolge taluni soggetti legati ad apparati deviati dello Stato o perché mandanti occulti celati dietro la politica o la massoneria… gli stessi che proprio grazie alle stragi e omicidi compiuti nel nostro Paese (mafiose e terroristiche), hanno potuto beneficiare di vantaggi personali e non solo!!!

Emanuele Piazza: Uno sbirro non lo salva nessuno!!!

Vi sono uomini che più di altri, vivono la propria vita come una missione!!!
Scelgono solitamente una professione scomoda, chissà forse per provare a dare un senso compiuto alle propria esistenza, indirizzando quotidianamente le proprie azioni nella ricerca di verità e giustizia…
Non sono dei soggetti a servizio di se stessi, non puntano ad avere glorie personali e non si lasciano limitare da esortazioni famigliari o da cautele consigliate da amici…
Loro hanno scelto d’essere ciò che sono, hanno voluto affrontare in prima persona tutti i rischi che quella divisa comportava… 
Hanno deciso di combattere, senza stare protetti dietro ad una scrivania, odiavano percepire quello stipendio indebitamente o in maniera infruttuosa e non schivano i pericoli, anzi l’affrontano, sapendo che il più delle volte per quelle operazioni, si sarebbero ritrovati da soli!!!
Ma a loro non importa, in quei drammatici frangenti, il coraggio e la determinazione, rappresentano la piena manifestazione di quella propria generosità, di quell’alto senso per lo Stato che è principalmente senso di dovere e responsabilità.
Già, ce n’è fossero come Emanuele Piazza… ed è bello vedere come in questi giorni, un autorevole scrittore abbia voluto dare il proprio contributo attraverso la pubblicazione di un libro, attraverso il quale, rende onore ed esprime ammirazione per quella autentica dedizione di un uomo, nell’interesse delle Istituzioni e dei suoi cittadini.
Aver raccontato il suo impegno personale e la sua storia professionale è certamente il modo più autentico e nobile per ricordarLo e soprattutto per riconoscere come egli abbia lasciato un segno autentico e di rilevo nella storia della Polizia Italiana…
Grazie… Emanuele.
Premessa:
Emanuele Piazza, aveva 29 anni quando, nel 1990, scomparve all’improvviso da Palermo e di lui si perse ogni traccia… 
Fu solo grazie alla perseveranza dei suoi familiari e all’impegno del giudice Giovanni Falcone se le indagini su questo caso presero avvio e -dopo molti anni caratterizzati da omertà e depistaggi- su quella sparizione, la verità venne alla luce…
Si apprese successivamente che egli, ex poliziotto, collaborasse sotto copertura con il Sisde: sembra che possedesse una lista con 136 nomi di super latitanti di mafia, tra i quali Totò Riina, Bernardo Provenzano e Salvatore Lo Piccolo…
La sua missione consisteva nell’infiltrarsi presso alcuni pericolosi punti di ritrovo d’affiliati criminali, ricercando informazioni utili su quei latitanti boss, al fine di condurre le forze dell’ordine alla loro cattura. 
Una caccia ovviamente molto rischiosa, che lo condusse purtroppo ad una tragica fine, rivelata anni dopo nei dettagli, da alcuni pentiti di mafia…

Se non fosse stato per la caparbietà ed il rigore investigativo del giudice Giovanni Falcone, e soprattutto l’ostinazione dei familiari del giovane Emanuele, la verità su quella misteriosa scomparsa… ahimè, non sarebbe mai emersa… 
Sì… sarebbe rimasta misteriosa, come una di quelle tante circostanze irrisolte che il nostro Paese si porta dietro: stragi, attentati, intrighi su servizi segreti, politica, mafia, omertà, tradimenti e quant’altro di più oscuro si possa immaginare….
Ecco il perché lo scrittore palermitano Giacomo Cacciatore, ha voluto ricostruire questa vicenda drammatica ed inquietante in questo suo libro verità: “Uno sbirro non lo salva nessuno“, che ha come sottotitolo “La vera storia di Emanuele Piazza, il Serpico palermitano“!!!

Ma quel poliziotto americano FranK Vincent “Serpico”, alla fine di quella esperienza – se pur con una pallottola in faccia e un’invalidità che lo ha reso sordo da un orecchio- si è salvato, con tutti gli onori del caso (distintivo da detective e una medaglia d’onore)… Emanuele purtroppo no!!!
Di lui ci si era dimenticati…  quando sparì, nessuno s’assunse la responsabilità di cercarlo, anzi negarono peraltro l’incarico affidatogli: dissero al “SISDE” che non operava per conto loro!!! 
Oggi lo scrittore palermitano Giacomo Cacciatore, tenta in questo suo libro, di ricostruire la drammatica vicenda di Emanuele, riuscendo a fare in modo che la sparizione non venisse consegnata alla storia giudiziaria come uno dei tanti misteri d’Italia… o ancor peggio, che passasse l’abituale notizia, che Emanuele fosse fuggito con una donna…
D’altronde si sa, il nostro paese, anzi la nostra terra siciliana è esperta nel depistare le prove e a fuorviare la verità!!!

Chissà, forse ora finalmente è stato messo un ulteriore tassello su quel mosaico d’intrighi ed inganni, che hanno fatto in modo di scompaginare la realtà dei fatti… 
Speriamo almeno che con il tempo, emergeranno tutti i nomi di coloro che hanno “segretamente”  collaborato in quegli anni con la criminalità organizzata e che quindi di fatto, hanno permesso ed acconsentito alla morte di Emanuele!!!

Intravvedere un lumino in fondo al tunnel… non basta più!!!

Ci sono due famiglie a Palermo che da anni aspettano di conoscere la verità sulla morte dei loro figli.
Nino Agostino e la sua giovane moglie incinta, Ida Castellucci, sono stati uccisi il 5 agosto 1989 a Villagrazia di Carini.
Dell’esecuzione e del movente, nonostante l’impegno di magistratura e forze dell’ordine, non si è potuto accertare nulla. 
Il papà di Nino,Vincenzo ha giurato che non si sarebbe mai più tagliato la barba fino a quando non avesse ottenuto giustizia e oggi, che quella barba è diventata lunghissima e bianca, chiede che venga tolto il segreto di stato sulla morte del figlio e della nuora.
Emanuele Piazza, invece, è stato strangolato nel piano inferiore di un negozio di mobili a Capaci il 16 marzo 1990. 
Lo ha raccontato il pentito Francesco Onorato. 
Aveva ricevuto l’ordine di eliminare Emanuele di cui era amico da Salvatore Biondino in persona. Il capo della famiglia di San Lorenzo e misterioso autista personale di Riina (quando li catturarono assieme il 15 gennaio 1993 era incensurato) lo aveva visto scambiare quattro chiacchiere amichevoli con Piazza e lo aveva rimproverato: “Che fai ti abbracci con gli sbirri?” 
Come Biondino sapesse cosa faceva Emanuele e soprattutto che avesse il compito, super riservato, in accordo con i servizi segreti, di cercare i latitanti la dice lunga sullo spessore di tale personaggio.
C’è poi un intero Paese che da sempre aspetta di capire quanto la vera gestione del potere nella Repubblica italiana sia stata affidata pienamente a governi democraticamente e legittimamente eletti dal popolo come presupporrebbe la Costituzione oppure no. 
Dietro tutte le stragi a partire da Portella della Ginestra fino a Capaci, via D’Amelio e alle bombe del continente, passando per i terrorismi neri e rossi, si agita lo spettro di quell’entità che a quanto pare ha condizionato la nostra intera storia, ma di cui non abbiamo se non una nebulosa idea: i servizi segreti.
Infiltrati, deviati, etero-diretti, non individuabili e soprattutto non punibili per motivi di sicurezza, ma chi sono, che fanno e soprattutto chi servono, questi servizi?
Documenti de-secretati negli anni dagli archivi di vari Paesi e alcune sentenze dei processi per omicidi e stragi ci restituiscono l’immagine di questa sorta di Forza Superiore che interviene, in accordo con altre, per influenzare gli equilibri di un Paese. 
E che questo sia accaduto in Italia è ormai storia.
Oggi lo schemino dei servizi che in connubio con Cosa Nostra avevano progettato e cercato di portare ad esecuzione l’attentato all’Addaura ai danni del giudice Falcone torna agli onori della cronaca con un articolo di Attilio Bolzoni su La Repubblica. 
Già da un po’ di tempo si sapeva che erano in corso nuove indagini e da quanto scrive l’esperta penna, attorno agli scogli sui quali fu rinvenuta la borsa piena di candelotti destinata al magistrato e ai suoi ospiti (Carla del Ponte e Claudio Lehman magistrati elvetici con cui Falcone stava indagando il riciclaggio di denaro in Svizzera, ndr) in quel giorno, il 21 giugno 1989, vi sarebbero state due squadre di servizi segreti addirittura l’una contro l’altra. 
Una che voleva Falcone morto l’altra vivo. 
E al largo su di un gommone, a cercare di salvare Falcone ci sarebbero stati proprio Nino Agostino ed Emanuele Piazza. 
Uccisi poi perché sapevano troppo.
Se così fosse si spiegherebbe perché Falcone al funerale di Nino avrebbe detto: “Questo ragazzo forse mi ha salvato la vita”.
Ipotesi però, nulla di più in questo momento, l’unica costante certa è il depistaggio, scientifico, metodologico che annacqua ogni indizio e lo indebolisce al punto che dopo vent’anni ancora ci si debba accontentare di ipotesi. 
E’ una prassi regolare e purtroppo, a guardare l’iter giudiziario degli omicidi strategici, estremamente efficace.
I magistrati titolari delle indagini, così come hanno fatto altri, pochi, magistrati in passato faranno il loro dovere ma non si può pensare di lasciare l’onere di questa verità solo a loro. 
La morte di Falcone è stata un danno irreparabile per tutta la nostra Nazione. 
Come quella di Borsellino. 
Giganti che avrebbero dato tutta un’altra dignità a questo nostro paesetto di nani.
Quei pochi politici onesti che abitano le Istituzioni si attivino perché si faccia chiarezza. 
Così tutte le altre forze sociali, dagli intellettuali ai singoli cittadini che vogliono un altro Paese.
Che cadano le maschere… di coloro cui questi servizi obbediscono! 
Sono loro che hanno fatto uccidere Falcone, Borsellino e tutti gli altri elementi eterogenei che avrebbero potuto indebolire il sistema criminale che ci governa. 
Basta con il gioco delle tre carte, servizi e non servizi! 
Intravvedere un lumino in fondo al tunnel non basta più! 
E’ ora per l’Italia di crescere, di guardare in faccia alla verità, ci piaccia a no, se si vuole voltare pagina e provare a diventare la democrazia che sognavano i nostri padri costituenti…