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Già… viviamo tra l’oblio che spinge i corpi e la risata che li copre.


Già… c’è un dato che osservo, che scorre silenzioso tra le cifre degli incassi, una cifra che non fa clamore, che non genera titoli trionfali e mi chiedo cosa significhi, davvero, per me, per noi…

Mentre un film comico solca il cielo del botteghini come una cometa festosa, un altro film, che racconta uno dei processi più bui e necessari della nostra storia, “Norimberga”, arranca in terza posizione con un incasso che è poco più di un decimo rispetto al colosso in testa. 

Non si tratta di giudicare il valore del sorriso, che è medicina preziosa soprattutto in questo periodo in cui viviamo – a causa dei conflitti – tempi grami, ma si tratta di notare una direzione, già… una propensione dell’animo collettivo. 

Mi sembra che ci sia una volontà precisa, soprattutto nei più giovani, ma non solo, di cercare soltanto la spensieratezza, o al contrario, di schierarsi socialmente con furore da tribù, brandendo slogan pescati dal flusso dei social, ma nel mezzo, però, svanisce la pazienza per la profondità, l’interesse per la stratificazione amara e complessa della verità.

Si preferisce la semplificazione, la pillola già digerita, sia essa una risata garantita o un’opinione preconfezionata e così accade che un film che mostra, tra le altre cose, un bulldozer che spinge centinaia di corpi senza vita in una fossa comune, resti sullo sfondo, quasi un disturbo per la nostra serenità costruita. 

Quelle immagini riprodotte però, non sono una finzione macabra, sono il documento di ciò che mani umane hanno compiuto, non in un medioevo lontano, ma ottant’anni fa. Sì… dovremmo guardarle nuovamente tutti per riconoscere la meschinità di cui può ammalarsi l’anima quando si crede pura, quando si illude di edificare un paradiso sulla terra cancellando chi è giudicato impuro. 

Quella sola scena – da sola – potrebbe insegnarci quanto fragile e spesso ipocrita sia la nostra normalità, che avanza fingendo di non sapere, o scegliendo di dimenticare in fretta, sepolta sotto il frastuono del divertimento e della polemica quotidiana.

Quel bulldozer nei campi di sterminio è il simbolo estremo dell’oblio attivo, della spinta meccanica a rimuovere la prova, a far scomparire non solo le vite ma la loro stessa traccia materiale. Oggi, quell’oblio non è più così violento e manifesto. È più subdolo! 

È la stanchezza di sapere, la noia di fronte alla complessità, la scelta volontaria di distogliere lo sguardo perché “è troppo pesante” o “è roba vecchia” oppure come sento ripetere da molti in questi giorni: “ma loro non stanno facendo lo stesso a Gaza?“. È lo scrollare via, il cambiare canale, il preferire altro. E su questa rimozione silenziosa, costruiamo la nostra risata. Non una risata liberatoria o genuinamente gioiosa, ma una risata-copertura, un rumore di fondo assordante che ci garantisce di non sentire il brusio inquietante della storia, di non dover rispondere alla domanda più scomoda: “E io, in tutto questo, cosa sarei stato?“.

Eppure, il bisogno di evasione è legittimo, lo comprendo. Le sale si riempiono di risate e forse, in quel momento di condivisione, c’è anche un po’ di sollievo autentico. Ma un popolo che misura la sua vitalità culturale solo dal battito della risata, e non anche dalla capacità di sostare nel disagio della memoria, rischia di diventare un popolo superficiale. Un popolo che affida la sua comprensione del mondo ai trend e ai post, senza mai scavare negli aspetti storici, nei vissuti, nelle contraddizioni che hanno portato a quelle fosse comuni, è un popolo che dorme nella storia, credendosi sveglio.

Forse il punto non è scegliere tra Checco Zalone Russell Crowe, tra la commedia e il dramma storico, no… il punto è l’equilibrio perduto, la scomparsa di un desiderio di completezza. Vogliamo solo essere trasportati lontano, o infiammarci in dispute virtuali, ma non vogliamo più essere interrogati, messi in discussione, costretti a pensare con la nostra testa, al di là delle narrazioni che ci vengono propinate. Quella fila per il film comico, così lunga, e quella per “Norimberga”, così esile, sono due facce della stessa medaglia: la ricerca di un presente senza peso. Accettiamo di vivere in questa strana terra di nessuno, tra l’oblio che spinge i corpi e la risata che li copre. È più comodo così.

Ma la vera sfida non è smettere di ridere. È non permettere che quella risata diventi la colonna sonora della nostra dimenticanza. È trovare il coraggio di guardare, almeno ogni tanto, nella direzione del bulldozer, e ascoltare il suo rombo sinistro che riecheggia, ancora, sotto alle nostre risate. 

Perché una vita che fa finta di andare avanti, voltando le spalle a quella macchina e al suo carico, è davvero una vita vissuta o è solo un’attesa spensierata nell’anticamera della storia, che prima o poi bussa sempre di nuovo alla porta, con domande a cui non abbiamo imparato a rispondere?