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Doha e Varsavia: Il prossimo drone cadrà qui? Già… mentre i nostri governanti saranno ancora in TV a parlare!


Ancora una volta il mondo sembra scivolare inesorabilmente verso un baratro a causa di due eventi militari, distanti migliaia di chilometri da noi, ma che dipingono un quadro allarmante e un’escalation globale senza precedenti.
A Doha, il raid israeliano che ha preso di mira i leader di Hamas in territorio qatarino, ha violato ogni norma di sovranità, scatenando condanne internazionali e minacciando di far saltare i fragili negoziati per il cessate il fuoco a Gaza e poche ore dopo, i cieli della Polonia sono stati violati da sciami di droni russi, in quello che Varsavia non esita a definire un atto di aggressione deliberato, spingendo la NATO a invocare l’articolo 4 e a mettere in discussione la sicurezza collettiva di tutto l’Occidente.

Due attacchi, due teatri, con un’unica pericolosa logica: la sfida aperta all’ordine internazionale e il disprezzo per la sovranità degli stati!

Ora, dietro la retorica ufficiale delle cancellerie, si nasconde ahimè una verità scomoda: qualcuno sta deliberatamente alzando la posta in gioco!

Netanyahu si assume la piena responsabilità dell’operazione a Doha, definendola un necessario colpo all’asse del male, mentre il Cremlino liquida le incursioni in Polonia come un tema di cui non è competente, attribuendole a fantomatici errori o a droni ucraini.

Ma è difficile credere che si tratti di semplici coincidenze o calcoli errati. Queste azioni appaiono troppo audaci, troppo provocatorie per non essere dei test ben orchestrati. Test per saggiare la coesione e la reattività dell’Occidente, per verificare fino a dove sia possibile spingersi senza innescare una risposta militare definitiva.

La reazione della comunità internazionale è un coro dissonante di allarme e impotenza; già… da un lato, troviamo leader europei che condannano con fermezza entrambe le violazioni, parlando di inaccettabili violazioni della sovranità e promettendo solidarietà agli alleati colpiti, dall’altro, le parole sembrano vuote, già… di fronte alla necessità di dover procedere con azioni concrete.

Ed in tutto questo le dichiarazioni del Presidente Trump, che definiscono errate le mosse israeliane, ma nel contempo loda l’obiettivo di eliminare Hamas, e si interroga con un criptico messaggio “eccoci qui” sulle violazioni russe, rivelando la profonda ambiguità e le divisioni che paralizzano qualsiasi possibilità di una risposta unitaria e risoluta. Il rischio ovviamente è che questa percezione di divisione e soprattutto di “debolezza”, incoraggi ancor più audaci provocazioni e non mi meraviglierei che anche altri Paesi, come la Cina e la Corea del Nord, non pensino anch’essi di iniziare nuovi conflitti, per espandere i propri territori…

Ciò che emerge con chiarezza è che le tradizionali regole del gioco sono state stravolte: Il concetto di confine nazionale, sacro dopo la Seconda Guerra Mondiale, viene eroso da droni e raid transnazionali.

Le organizzazioni come la NATO e le Nazioni Unite sembrano arrancare nel buio e soprattutto sono costrette a dover reagire a crisi che mettono in discussione il loro stesso ruolo di garanti della sicurezza.

Difatti, il premier polacco Tusk avverte che siamo più vicini a un conflitto aperto di quanto lo siamo stati dalla Seconda Guerra Mondiale, e le sue parole non suonano più come un’allarmistica esagerazione, ma come un lucido e spaventoso avvertimento.

Mi chiedo, con un senso di angoscia crescente, dove sia il limite, sì… Qual è il punto di non ritorno oltre il quale una provocazione calcolata si trasformerà in uno scontro aperto e irreversibile? Ma non solo… cosa guida realmente questa fuga in avanti? È la ricerca di un vantaggio tattico locale, come indebolire Hamas o logorare il sostegno all’Ucraina, o fa parte di una strategia molto più ampia e oscura di ridisegnare con la forza l’ordine globale?

Perché di una cosa ormai sono convinto: le motivazioni ufficiali che ci vengono costantemente proposte, appaiono sempre più come pretesti, vere e proprie maschere che nascondono calcoli di potere più profondi e pericolosi.

Il filo rosso che lega Doha alla Polonia è la percezione che l’era della deterrenza e del rispetto formale della sovranità stia volgendo al termine, già… stiamo entrando in una fase nuova e pericolosa in cui le potenze revisioniste si sentono autorizzate a colpire ovunque, sfidando apertamente le alleanze occidentali e le norme internazionali, contando proprio sulla loro divisione e sulla loro ritrosia ad affrontare un rischio sistemico.

Difatti, il pericolo maggiore non è forse nel contrasto e quindi nell’attacco in sé, ma nella lentezza e nella confusione della risposta, che potrebbe essere interpretata come un assenso implicito o, peggio, come una debolezza da sfruttare…

Alla fine, infatti, ciò che mi terrorizza non è la forza dei nostri avversari, ma la nostra fragilità. Già… la nostra incapacità di leggere queste mosse come parti di un unico, grande disegno destabilizzante e la nostra riluttanza a comprendere che siamo di fronte a una sfida esistenziale per un mondo libero e basato su regole condivise.

Forse, la prossima volta, un drone non cadrà in Polonia ma nel nostro paese, sì… mentre i nostri governanti vengono intervistati e stanno “sterilmente” rispondendo alle domande di quei giornalisti in Tv, evidenziando con le loro risposte, di non aver compreso cosa stia realmente accadendo: vedrete… quanto tutto ciò accadrà, quando quel drone non riuscirà ad essere abbattuto – ma viceversa porterà con sé un carico di distruzione letale – beh… a quel punto, ogni discorso, anche questo mio, sarà di fatto, totalmente inutile.

Il tempo per le riflessioni sta finendo, sostituito dal rombo dei motori e dal sibilo dei missili in cieli che credevamo inviolabili…

Il Medio Oriente e l’eterno fallimento americano: già… quando le “nuove strade” portano sempre allo stesso vicolo cieco!

Sono anni che si sussurra di una “nuova strada” americana in Medio Oriente, ma la realtà è che ogni amministrazione ripete lo stesso copione fallimentare, rivestito solo di nuovi slogan.

Quando Trump, a maggio di quest’anno, ha sventolato accordi per 1.400 miliardi di dollari con Arabia Saudita, Emirati e Qatar, promettendo una rivoluzione negli equilibri regionali, ha solo riciclato la retorica di Obama nel 2009: grandi proclami, pochi fatti.

Qual è oggi la differenza? Nessuna. Sì, mentre Obama annunciava il disimpegno con un linguaggio conciliante, Trump ha imballato quelle vecchie promesse in un nuovo pacchetto regalo, con un involucro più aggressivo, ma alla fine la sostanza è rimasta immutata.

Eppure tutti i media – sottomessi e pilotati dalla politica Usa (basti osservare quanto accade oggi attraverso le decisioni messe in atto dal nostro governo…) – hanno celebrato il discorso tenuto a Riad come una svolta epocale, dimenticando (o volendo ignorare) che la storia in Medio Oriente si ripete ormai con imbarazzante regolarità.

E infatti, riprendendo il nervo pulsante di questa “nuova strategia” americana, si scopre quanto essa rappresenti di fatto un paradosso: attirare capitali dal Golfo mentre quei stessi Paesi cercano disperatamente di diversificare le proprie economie.

I numeri proposti sono astronomici, ma in fondo privi di sostanza!

Il Qatar, ad esempio, promette investimenti quintuplicati rispetto al suo PIL, mentre l’Arabia Saudita raddoppia magicamente il budget militare per acquistare armi USA, e infine gli Emirati annunciano il più grande campus di intelligenza artificiale al mondo fuori dagli Stati Uniti.

Peccato però che nel 2017 questi stessi protagonisti abbiano portato a termine soltanto il 20% degli accordi prefissati. Difatti, con il petrolio a prezzi più bassi e il Fondo Sovrano Saudita (PIF) che riduce le esposizioni negli asset americani, anche gli investitori arabi, pieni di petrodollari, sembrano meno entusiasti di questa pseudo-partnership.

E così, mentre Washington e i Paesi ricchi del Golfo giocano a poker, rilanciandosi con cifre da capogiro, una parte di quel Medio Oriente continua, ahimè, a bruciare e a perdere vite umane.

Lo stesso presunto accordo nucleare con l’Iran, che avrebbe dovuto portare stabilità in quell’area, ha di fatto riacceso la guerra per procura tra Teheran e Riyadh, cui si sono aggiunte Siria, Yemen, Libano e la striscia di Gaza.

E così l’Iran, dopo essersi liberato delle sanzioni, ha cercato di rafforzare la propria leadership con i gruppi militari di Hezbollah, Houthi e Hamas, mentre l’Arabia Saudita ha risposto stringendo ancor più il legame con gli Usa e finanziando i tanti gruppi sunniti.

Nessun Paese arabo sembra volersi muovere. Restano tutti a guardare, senza prendere posizione o intervenire, per non restare coinvolti in conflitti che non vogliono. E così, quelle note “primavere arabe”, nate per portare democrazia, alla fine si sono trasformate in un incubo.

Difatti, la Tunisia, un tempo modello di transizione pacifica, oggi vede fuggire migliaia di giovani verso le nostre coste. L’Egitto è tornato a essere una dittatura militare. La Libia e lo Yemen sono inghiottiti da guerre civili. E per finire, la Siria e il territorio palestinese sono ormai un mosaico di macerie e distruzione.

Nessuna rivolta è stata capace di stravolgere gli equilibri, e soprattutto, la mancata presenza di una classe dirigente capace ha impedito di ribaltare i governi in atto, i quali hanno immediatamente represso nel sangue quei tentativi di cambiamento.

E l’Occidente, nel frattempo, sta a guardare. Sì, promuove di voler sostenere il cambiamento, ma alla fine ha preferito allearsi con chi garantiva una stabilità almeno illusoria, ben sapendo che, il più delle volte, alimentava gruppi terroristici.

Ecco, forse è qui il fallimento più grande: nell’incapacità di imparare dal passato. Gli Stati Uniti e il loro attuale Presidente sono convinti che basti sostituire un alleato scomodo con un altro, come se il problema fossero i singoli attori e non il sistema stesso.

Già, Trump punta tutto sui dazi, sugli investimenti miliardari obbligatori per il suo Paese, ma anche sull’acquisto di armi prodotte dai suoi amici industriali. Parliamo di società tra le più ricche del mondo, come Lockheed Martin, RTX (Raytheon Technologies), Northrop Grumman, Boeing e General Dynamics, tutte aziende che prosperano grazie alla vendita di tecnologia militare.

E infine, per foraggiare quei suoi amici miliardari, utilizza le loro imprese per vendere ai Paesi arabi software, intelligenza artificiale e microchip, presentati come necessari per aggiornare la “sicurezza” contro le nuove minacce, il tutto in cambio di petrolio.

E così, mentre l’Arabia Saudita potenzia le sue difese missilistiche con sistemi come il THAAD e il Patriot, altri Paesi del Golfo ampliano la cooperazione militare con gli Stati Uniti. Nel frattempo, Abu Dhabi costruisce data center, Israele e Iran si scambiano missili, e la Palestina cerca di non scomparire del tutto dai radar.

Ecco perché ritengo che, senza una visione che vada oltre gli interessi immediati, ogni “nuova strada” proposta sarà soltanto l’ennesimo vicolo cieco imboccato in quel labirinto mediorientale.

Ecco una soluzione per creare due Stati indipendenti e una pace duratura!!!

Pensare che il conflitto israelo-palestinese possa risolversi da solo o che la situazione tra i due popoli possa restare immutata senza conseguenze è pura illusione. Dopo oltre 70 anni di discordia, non si può più tornare indietro: è arrivato il momento di superare le divergenze e trovare una soluzione definitiva.
La creazione di uno Stato Palestinese è una necessità. Deve essere riconosciuto dalla comunità internazionale, libero e indipendente da Israele. Tuttavia, va accettato il fatto che i territori occupati non saranno mai restituiti ai legittimi proprietari. 
La storia ci insegna che, a seguito delle guerre, molti confini sono stati ridefiniti dai vincitori a scapito dei vinti. Anche l’Italia ha vissuto questa realtà, pagando un prezzo per le scelte del passato. Credere che la situazione possa cambiare improvvisamente è irrealistico.
Basta guardare cosa sta accadendo in Ucraina: le guerre sono ovunque, spesso per il controllo di territori di scarsa utilità. E allora, perché non pensare a una soluzione alternativa? Serve un sacrificio per costruire qualcosa di nuovo. Un sacrificio che richiede l’impegno di tutti.
Non intendo schierarmi né con Israele né con la Palestina, ma è chiaro che Israele non ha intenzione di fermarsi. Il paese è pronto a combattere su più fronti per difendere la propria esistenza, identità e cultura. Illudersi su una tregua o su una restituzione dei territori occupati non è realistico: a breve, anche la Cisgiordania sarà completamente sotto il controllo israeliano.
Se nessuno lo dice apertamente, è solo questione di tempo prima che i palestinesi vengano definitivamente espulsi da Israele, almeno quelli ritenuti ostili. E allora, invece di negare la realtà, perché non cercare una soluzione che possa garantire una pace duratura?
Propongo la creazione di un nuovo Stato Palestinese in una fascia di territorio tra il Mar Mediterraneo e il Mar Rosso, oggi parte dell’Egitto. Questo nuovo Stato, pur rimanendo sotto la protezione egiziana, darebbe finalmente ai palestinesi una patria riconosciuta.
Ovviamente, questo richiede un compromesso: l’Egitto dovrebbe cedere parte del suo territorio, ma in cambio riceverebbe un risarcimento significativo. Israele dovrebbe contribuire economicamente alla costruzione delle infrastrutture necessarie per accogliere il popolo palestinese. Anche gli altri Stati arabi dovrebbero fare la loro parte, permettendo ai profughi palestinesi di riunirsi alle loro famiglie nella nuova nazione.
Per rendere questo progetto fattibile, i paesi arabi più ricchi – come Qatar, Oman, Emirati Arabi, Kuwait e altri – dovrebbero garantire all’Egitto una somma significativa, intorno ai mille miliardi di dollari, come compensazione territoriale. Inoltre, un ulteriore fondo di 300 miliardi di dollari dovrebbe essere destinato alla creazione di una zona cuscinetto, gestita dall’ONU, per garantire la sicurezza della nuova nazione nei suoi primi anni di vita.
Il tempo dirà quando questa zona potrà essere reintegrata nell’Egitto, ma intanto si potrebbe porre fine a un conflitto che dura da troppo tempo.
So che questa idea potrà sembrare irrealizzabile o provocatoria, ma è meglio proporre soluzioni che restare immobili a guardare. Troppo spesso, chi critica senza offrire alternative è lo stesso che ignora la realtà del conflitto e preferisce perdersi nei social piuttosto che affrontare il problema con serietà.
Se qualcuno ha un’idea migliore, sono aperto al confronto. L’importante è capire che la pace si costruisce con l’impegno di tutti, nessuno escluso. Non si può promuovere la pace parlando solo con chi è d’accordo con noi. Serve coraggio, visione e, soprattutto, la volontà di agire.

Mazzette, mazzette e ancora mazzette!!!

Alle valigie piene di denaro, si sommano i reati contestati: concorso in associazione per delinquere, corruzione e riciclaggio. 

Certo come sempre avviene in questi casi, i legali proveranno a difendere i loro clienti, depositando memorie e richiedendo il rinvio dell’udienza per meglio difendere i propri assistiti o per presentare eventuali dichiarazioni spontanee…

Certo l’Italia non fa una bella figura in Europa per le mazzette in Europa, per esaltare le politiche in materia di diritti civili del Marocco e del Qatar, a cui si sono sommati i “regali”, secondo l’inchiesta ricevuti …

Dispiace leggere articoli come quelli ora riportati in tutte le Tv e testate giornalistiche, soprattutto perché da quanto occorso si comprende come il raggiungere posizioni elevate e/o una condizione economica facoltosa, non basti mai a far felici alcuni individui, che dimostrano essere bramosi di successo e ingordi di denaro…

Pape satàn, aleppe! Già… ancora una volta si ripete quel grido inquietante e confuso che interpreta bene lo smarrimento dell’individuo contemporaneo che abita l’attuale società liquida.

Dante e Virgilio entrando nel IV cerchio infernale incontrano due schiere di soggetti: «D’una parte e d’altra, con grand’urli, voltando pesi per forza di poppa», i dannati sono impegnati a spingere dei grandi massi con la forza del petto. 

Dante descrive una sorta di danza eterna semicircolare. I peccatori sono separati in due schiere e si muovono in cerchio in direzioni opposte. Si incontrano a metà strada, si girano, e ricominciano a spingere il masso dall’altra parte; da una parte il gruppo degli avari che “tiene” stretto il denaro e dall’altra il gruppo dei prodighi che “burla”, sperpera e dilapida… 

Già… il contrappasso, una vita senza scopo dedicata ad accumulare o dissipare i volubili beni terreni ed ora – se dovessero venir confermati i reati – perdere tutto, in particolare l’onore e la reputazione!!!