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Offresi aspirante regista per film sulla "gestione statale italiana": budget 2 milioni (ma ne bastano 800mila se il film non lo giriamo davvero).

Sì… forse è arrivato il momento di abbandonare la passione del “blogger” e dedicarmi all’arte del cinema… 

Già… potrei esordire come regista con un film dal titolo emblematico: “Truffe ai Danni dello Stato” -una tragicommedia ispirata a fatti realmente accaduti.

D’altronde, se bastano un progetto fasullo e un po’ di fantasia per ottenere finanziamenti pubblici, viene spontaneo chiedersi: perché non approfittarne? 

E magari, per rendere il progetto più autentico, potrei presentare il tutto con uno pseudonimo, un bel “tax credit” già prenotato, e qualche scena girata solo nella mia immaginazione. Peraltro, se lo Stato regala soldi per film che non esistono, chi sono io per contraddire il sistema?

Come dite? La sceneggiatura? Ah… ma quella è già stata scritta nella realtà e la cosa bella è che non servono neppure effetti speciali: basta la solita, squallida normalità italiana!

Lo so… viene da piangere e allora ripartiamo dall’inizio…
Sì… la storia rappresenta un pseudo regista e il suo film fantasma; la perfetta metafora di un sistema che, invece di sostenere la cultura, regala soldi pubblici a chiunque sappia aggirare le regole con un po’ di fantasia e un passaporto falso. Ottocentomila euro svaniti nel nulla, come se fossero stati gettati nel vento, mentre lo Stato fingeva di controllare. 
Eppure, basterebbe un minimo di buonsenso per capire che se un film non esiste, non può aver diritto a un finanziamento. Ma qui, evidentemente, il buonsenso è un optional.

Il trucco era semplice: presentare documenti falsi, inventarsi un regista inesistente, e approfittare di un buco normativo che non richiedeva neppure la prova che il film fosse stato girato. Così, mentre il ministero si illudeva di aver visto “spezzoni” di un’opera mai realizzata, quel pseudo regista intascava (o quasi) un credito fiscale da 836mila euro. Una farsa tragicomica, se non fosse che quei soldi erano nostri, dei contribuenti, e potevano essere spesi per cose reali, come scuole, ospedali, o magari per finanziare veri film.

E mentre qualcuno giocava con identità false, il governo annunciava trionfante il successo del tax credit, senza accorgersi che il sistema era così fragile da poter essere raggirato da chiunque avesse un po’ di malizia. Ma non preoccupatevi: oggi, dopo lo scandalo, il ministro ha promesso nuovi controlli. Peccato che servissero due omicidi e un film inesistente per rendersi conto che forse, già… forse, qualcosa non funzionava.

La cosa più grottesca? Questo non è un caso isolato. È solo l’ultimo di una lunga serie di sprechi, dove i soldi pubblici finiscono in progetti evanescenti, mentre il cinema vero soffre. Eppure, il tax credit potrebbe essere uno strumento prezioso, se solo lo si gestisse con un minimo di serietà. Invece, siamo qui a discutere di come un truffatore abbia preso in giro lo Stato, mentre i politici si affrettano a fare dichiarazioni indignate, come se non avessero avuto anni per sistemare le cose.

Ed allora, invece di finanziare film immaginari, dovremmo produrne uno sulla realtà: un thriller sulla burocrazia italiana, dove i soldi spariscono nel nulla, i controlli sono solo sulla carta, e l’unico finale possibile è l’ennesima beffa per chi crede ancora nello Stato. 

E pensare che a me, per scrivere questo post, non hanno dato nemmeno un euro di tax credit; mi sarebbero bastati poco meno di due milioni di euro per raccontare questa farsa tragicomica. Ma forse è meglio lasciar perdere: la mia vena artistica resterà un sogno inespresso, mentre lo Stato continuerà a finanziare opere che nessuno vedrà mai. D’altronde, in questo paese, l’unica vera arte è: l’arte della fuga… dei capitali.

D’altronde, con le regole in vigore in questo nostro Paese, realizzare truffe è qualcosa di banale, all’ordine del giorno, difatti… basterà a qualcuno presentare un nuovo progetto falso e un nome inventato, ed altri milioni seguiranno la strada della sparizione.

Tanto – lo ripeto da anni come un disco rotto – verifiche non ne fa nessuno. E mentre i fondi evaporano, l’unica “opera d’arte” che ne risulta è la perfezione grottesca del sistema: una macchina che trasforma denaro pubblico in fantasia.

Consentitemi di aggiungere: con un efficienza da “Premio Oscar”!

Le notizie riportate sui social sono come fili invisibili: quando le nostre opinioni non sono davvero nostre!

Oggi più che mai mi ritrovo a pensare a quanto siamo immersi in una rete di condizionamenti sottili e pervasivi che plasmano le nostre opinioni, spesso senza che ce ne accorgiamo. 

Viviamo in un mondo in cui ogni sistema sociale sembra aver imparato a mascherare i propri obiettivi dietro ciò che appare come spontaneo desiderio individuale, quasi come se fossimo guidati da fili invisibili che ci fanno muovere in una direzione precisa. 

Ciò che colpisce è la capacità di queste strutture di farci percepire le loro esigenze come nostre motivazioni personali, convincendoci che ciò che serve al sistema sia in realtà ciò che vogliamo davvero.

A volte questo processo avviene in modo palese, attraverso strumenti che chiamiamo educazione civica o formazione ideologica, dove i valori di un sistema vengono presentati come universali e imprescindibili. 

Altre volte, invece, tutto accade in maniera più subdola, con modelli di comportamento che ci vengono trasmessi indirettamente, quasi per osmosi, finché non diventano parte delle nostre abitudini quotidiane. 

Questi schemi, una volta assimilati, ci portano a risolvere i problemi e a prendere decisioni in modi che favoriscono la stabilità e la riproduzione del sistema stesso, senza che ci poniamo troppe domande sul perché lo facciamo.

Quello che emerge è un quadro inquietante, in cui il confine tra libero arbitrio e condizionamento diventa sempre più sfumato. Riflettendoci, mi chiedo quanto spesso le nostre opinioni siano davvero frutto di un ragionamento autonomo e quanto invece siano influenzate da chi detiene il potere politico o economico. 

È difficile non vedere come le grandi narrazioni, i messaggi mediatici e le tendenze culturali dominanti siano strumenti potentissimi per orientare le masse in una direzione precisa, spesso a nostro discapito. 

Eppure, continuiamo a credere di essere noi gli artefici delle nostre scelte, mentre in realtà siamo spesso pedine inconsapevoli di giochi molto più grandi. Forse è arrivato il momento di fermarci a riflettere su quanto siamo disposti ad accettare passivamente queste influenze. 

Dobbiamo imparare a guardare oltre le apparenze, a interrogarci sulle origini delle nostre convinzioni e a chiederci se davvero rispecchiano ciò che siamo o se sono solo il riflesso di una strategia ben orchestrata per mantenere lo status quo. 

Solo così potremmo cominciare a riprenderci un briciolo di autenticità in un mondo sempre più condizionato da interessi che non coincidono con i nostri.

Perchè Raffaele Cantone è la scelta giusta per la Procura di Napoli Nord!

Napoli Nord aspetta il suo nuovo procuratore, e mentre la politica gioca le sue carte, il Paese sembra dimenticare ancora una volta ciò che davvero conta. 

Si parla di curriculum, di legami, di equilibri di potere, ma quasi nessuno ricorda che una Procura così strategica dovrebbe essere affidata a chi ha dimostrato, sul campo, di saper combattere la criminalità organizzata con coraggio e competenza. 

Raffaele Cantone non è solo un nome, è un magistrato che ha trascorso la sua carriera a inseguire la giustizia, persino quando ciò significava sfidare i boss più temuti. È cresciuto in quel territorio, lo conosce, lo ha vissuto nelle aule di tribunale e nelle indagini che hanno portato agli ergastoli dei capi dei Casalesi. 

Eppure, anche oggi, come accadde con Falcone e Borsellino, c’è il rischio che la politica preferisca nomi diversi, certamente altrettanto validi (premetto di non sapere neppure i loro nomi…), ma quando è la politica ha decidere ho sempre il sospetto che dietro quella scelta, vi sia come sempre la volontà di imporre la loro influenza, ed il motivo per cui solitamente viene scelto il soggetto che possiede un profilo più “allineato”, già… più vicino ai giochi di potere che alla sostanza del servizio pubblico.

Il problema non è solo chi vincerà questa sfida, ma il sistema che la determina. Perché in Italia, troppo spesso, i ruoli chiave vengono assegnati non in base al merito, all’integrità o alla dedizione, ma in base a calcoli di convenienza, a legami personali, a logiche di corrente. 

Ed il motivo per cui mi chiedo perché la politica debba decidere su questa, ma anche su tutte le altre nomina? Ed allora, quanto conta davvero l’indipendenza della magistratura quando i nomi vengono scelti in base alle simpatie di partito?

Eppure, Napoli Nord non è una Procura qualsiasi. È un presidio fondamentale nella lotta alla camorra, in un territorio dove la criminalità organizza affonda le radici nel tessuto sociale ed economico. 

Servirebbe quindi qualcuno che conosca quelle strade, che abbia già dimostrato di non aver paura, che non sia lì per fare carriera ma per servire lo Stato. Cantone ha chiesto di lasciare Perugia con tre anni di anticipo, pur di tornare lì dove è nato, dove potrebbe fare la differenza. 

Ma in questo Paese, purtroppo, le scelte più giuste raramente coincidono con quelle più convenienti per chi governa.

Già… forse, invece di discutere su chi abbia il curriculum migliore, dovremmo chiederci perché un sistema che dovrebbe premiare l’eccellenza finisce per favorire chi sa muoversi meglio tra le pieghe del potere? Perché i Falcone e i Borsellino di oggi vengono scavalcati, mentre chi sa stare al gioco ottiene incarichi prestigiosi? 

Ripeto, non conosco i nomi degli altri candidati, ma avendo potiuto valutare sul campo, l’ottimo lavoro svolto dal Procuratore Cantone quando era Presidente dell’ANAC, beh… ritengo che la Procura di Napoli Nord meriterebbe un procuratore come Cantone!

Ma forse la domanda che ora dovrei chiedere a ciascuno di voi è la seguente: Il nostro Paese è mai stato capace di scegliere i suoi migliori? O continuerà a preferire chi non fa ombra, chi non disturba, chi non rompe gli equilibri? 

Il sottoscritto, conosce bene la risposta (purtroppo…), avendola subita sulla propria pelle!

Dal procuratore Zuccaro a Trantino: sei anni per capire che a Catania serve l’esercito

Già… sono passati ben sei anni da quel lontano 21 aprile 2019, quando riportavo in questo blog un post intitolato: Un’intervista “stranamente” passata in sordina: “A Catania… serve l’esercito”! – link: https://nicola-costanzo.blogspot.com/2019/04/unintervista-stranamente-passata-in.html. 

Allora, il procuratore Carmelo Zuccaro denunciava una situazione drammatica: quartieri degradati, spaccio controllato dalla mafia, reclutamento di giovani come pusher, e un sistema di videosorveglianza gravemente inefficiente. 

La sua proposta? L’impiego dell’esercito in supporto alle forze dell’ordine, un intervento necessario per riprendere il controllo di strade ormai in balia della criminalità.

Eppure, per anni, solo silenzio. Quell’appello cadde nel vuoto, soffocato dall’indifferenza e dalla miopia politica.

Fino ad oggi, già… fino a quando, con sei anni di ritardo, il sindaco Trantino ha riscoperto quell’urgenza che altri avevano già gridato.

Nel suo recente incontro a Palazzo Chigi con la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, ha presentato un dossier in cui chiede proprio questo: un rafforzamento dell’operazione “Strade Sicure“, con militari schierati nelle aree più critiche della città. 

Una richiesta che, se accolta, potrebbe segnare una svolta, ma che arriva con sei anni di ritardo rispetto a quell’allarme lanciato dal procuratore Zuccaro e da me ripreso con insistenza.

Trantino ha parlato anche di altre emergenze, come l’abbandono dei rifiuti e la necessità di misure più severe, ma il cuore della questione resta la sicurezza. La premier, a suo dire, si è mostrata attenta e disponibile. 

Bene… meglio tardi che mai. Peccato, però, che ci sia voluto così tanto per arrivare a questa consapevolezza.

Come scrivevo già lo scorso anno: In Sicilia, ma non solo, c’è bisogno dell’esercito nelle strade!!!https://nicola-costanzo.blogspot.com/2024/01/in-sicilia-ma-non-solo-ce-bisogno.html, la situazione richiedeva da tempo interventi decisi. 0

Ora che anche il primo cittadino lo riconosce, non resta che sperare che le parole si traducano in fatti, senza ulteriori ritardi. 

Perché Catania, e i suoi cittadini, non possono più aspettare.

Trump vs Musk: una rottura che nessuno aveva previsto, ma tutti auspicavano!

Trump non ha mai nascosto di saper fiutare i rapporti d’interesse meglio di chiunque altro e ora sembra aver deciso di voltare pagina, o quantomeno di rinegoziare gli accordi. 

La sua recente mossa di voler revisionare i contratti governativi con Elon Musk segna un passaggio significativo, una sorta di distacco ufficiale da quel sodalizio che fino a poco tempo fa appariva solido come un patto di sangue. 

Eppure, era chiaro a tutti che si trattava di un accordo strategico più che di una sincera alleanza. 

Già… quando ti serve qualcuno per vincere, lo abbracci forte, mentre quando non ti serve più, lo guardi con distacco, quasi con fastidio. 

Ed è proprio questo il punto: certi legami nascono già con la data di scadenza incorporata!

Quando faceva comodo mostrare unità, visione comune, spirito innovativo, Musk e Trump hanno camminato insieme, a braccetto, davanti alle telecamere del mondo intero, ora però il vento è cambiato e Trump non esita a definire Musk “pazzo”, “drogato”, “instabile”.

Parole pesanti, certo, ma anche molto funzionali, pronunciate probabilmente per allontanare l’immagine del magnate da quella del presidente, soprattutto in vista di nuove alleanze e di un panorama politico sempre più instabile. I collaboratori parlano sottovoce, il New York Times riporta, i social commentano. Ma forse, sotto quelle accuse, c’è semplicemente la fine di un affare che non rende più come prima.

Musk non ci sta e reagisce. Lo fa sostenendo apertamente l’impeachment di Trump, un gesto non casuale, anzi molto eloquente. Poi promuove un post su X in cui si indica J.D. Vance come possibile successore, quasi a dire che il vecchio alleato ormai non rappresenta più la direzione giusta. 

Non contento, lancia un sondaggio: bisogna fondare un nuovo partito? Serve una voce diversa? Cinque milioni di persone votano e l’80% risponde sì. Musk commenta con una frase che sa di profezia autoavverante: “Il popolo ha parlato, è destino”. Peccato però che lo stesso popolo, non tanto tempo fa, avesse parlato anche per Trump, eleggendolo e sostenendolo con forza. Allora chi ha ragione? Nessuno, forse. Perché quando i sentimenti si mascherano da ideali, diventa difficile distinguere il vero dal conveniente.

C’è chi cerca di ridimensionare il tutto, come Sergei Markov, che sostiene che Musk non abbia alcun peso politico reale e che Trump non sia realmente arrabbiato, quanto piuttosto infastidito da un atteggiamento che considera capriccioso, quasi infantile. Secondo questa lettura, non ci sarebbe nulla di drammatico, solo un battibecco tra adulti che giocano a fare i grandi. 

Il motivo del contendere? Soldi, naturalmente. Tesla chiedeva un’eccezione, un vantaggio speciale, e Trump ha detto no. Fine della storia, se non fosse che dietro a quel no si intravede ben altro. Non c’entra neanche la Russia, almeno non direttamente, perché qui si muove una partita minore, fatta più di ego e dividendi che di geopolitica.

Ora non resta che aspettare e vedere cosa succederà. Perché quando si rompe un rapporto come questo, non è mai solo questione di carattere o di incomprensione momentanea. È che gli obiettivi non coincidono più, i vantaggi si sono esauriti e non c’è più motivo di fingere. Senza un fine comune, non può esserci alleanza. 

E quando l’illusione cade, rimane solo la guerra. Non quella armata, forse, ma quella delle parole, delle scelte, dei colpi bassi sparati attraverso tweet, dichiarazioni, alleanze improvvisamente ribaltate. Un amore che finisce, insomma, ma non per dolore, ma solo perché non serve più.

Sindaci arrestati, uffici corrotti, silenzi assordanti: la solita storia siciliana!

Già… dopo ogni arresto, lo stesso copione. Ed è per questo che in Sicilia non cambierà mai nulla!
Ho letto stamani che è stato arrestato dai carabinieri l’ennesimo “sindaco”, accusato dei reati di turbata libertà degli incanti e falso ideologico, insieme a un consigliere comunale.
Oltre a lui, sono indagati nell’inchiesta della Procura anche il capo dell’ufficio tecnico del Comune e altri due impiegati dello stesso ufficio, che – sempre secondo l’accusa – avrebbero favorito le aggiudicazioni degli appalti nel paese.
Ovviamente, come solitamente accade in questi casi – per chiudere il cerchio – sono stati coinvolti nell’indagine alcuni imprenditori e liberi professionisti, mentre restano sospesi dal servizio i RUP degli appalti incriminati. Le misure sono state notificate con la sospensione dai pubblici uffici per 12 mesi e il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione per altrettanti mesi.
Certo, scoprire che le indagini vertono su appalti per opere pubbliche e affidamenti diretti risalenti al 2019-2020 – quindi a oltre cinque anni fa – mi fa persino temere ciò che possa essere accaduto nel frattempo…
Ma d’altronde, come ripeto spesso, la Sicilia è una terra che non smette mai di raccontare storie. E solitamente si tratta di quelle di ordinaria illegalità, giochi di potere, legami che si stringono nell’ombra.
Come avete potuto leggere, non troverete i nomi degli indagati. Sì… mi sono stancato di riportare quanto è facilmente reperibile sul web. E poi, francamente, non servono né i nomi né i cognomi, perché il meccanismo è sempre lo stesso, ripetuto all’infinito. Già… come un copione scritto.
È vero, i nomi cambiano, così come i volti. Ma sapete bene che, alla fine, il sistema rimane intatto. È proprio il sistema che non funziona o meglio, funziona perfettamente per chi, dall’interno delle istituzioni, si piega al malaffare, abbassa la testa e firma quando serve. Non solo: ci si piega alle regole per trarne vantaggio personale, incuranti di svendere la propria dignità per qualche migliaio di euro o per ottenere un po’ più di potere.
Ecco perché gli appalti truccati, le gare pilotate, le carte falsificate non sono semplici reati. Rappresentano i sintomi di un male molto più profondo. Come ho ripetuto negli anni in questo mio blog, sono la prova che la mafia non sopravvive solo con la violenza, ma grazie alla complicità di chi dovrebbe combatterla.
E ahimè… ci sono tutti: funzionari, impiegati, professionisti, individui che hanno trasformato il pubblico in privato, facendo del bene comune un affare personale. E così, anno dopo anno, nulla cambia!
Sì… le inchieste si susseguono, le manette (quando vengono davvero allacciate ai polsi) scattano, ma il gioco continua incessantemente, perché per ogni arresto c’è già qualcuno pronto a prendere il posto, a ripetere gli stessi gesti, a perpetuare lo stesso sistema.
Non si tratta, quindi, solo di combattere la criminalità organizzata, ma di stravolgere questa mentalità corrotta. Sì… quella mentalità che considera tutto acquistabile, che vede le regole come ostacoli da aggirare, dove la furbizia prevale sulla legalità.
E così… mentre c’è chi lotta, chi rischia in prima persona, chi cerca di cambiare le cose anche attraverso la formazione (pochi individui non ancora compromessi, che possono permettersi – col proprio nome e cognome – di scrivere e denunciare questo infido sistema), c’è chi, seduto alla stessa scrivania da cui dovrebbe servire lo Stato, firma accordi sottobanco, gira la testa dall’altra parte e finge di non vedere (come scrivo nel mio blog: neppure l’elefante nella stanza…).
Eppure, la verità è semplice: finché ci sarà chi, per convenienza o per paura, si piegherà al malaffare, la Sicilia non sarà mai libera!
Non basta, quindi, arrestare un sindaco, non basta sospendere un funzionario. Serve qualcosa di più radicale: la scelta quotidiana di chiunque abbia un ruolo, un potere, una responsabilità, di mettere la coscienza davanti all’interesse.
Perché senza quella, nessuna operazione, nessuna indagine, nessuna legge potrà mai bastare. E continueremo – purtroppo – a vivere in questa terra infetta e corrotta!

Quando la mafia si maschera da normalità: il grido d’allarme di Nicola Gratteri.

Avevo appena finito di leggere un articolo che riportava le parole di un sindaco: «Gratteri a sto giro ci ha fregati» . Era il commento a caldo su un’inchiesta della Dda di Catanzaro, che vedeva coinvolto un ente locale nell’ambito di presunti favori ad una cosca. 

E così… mentre ancora cercavo di metabolizzare quel senso di amarezza, ho proseguito la mia lettura e mi sono imbattuto in un altro articolo – ancora una volta dedicato al procuratore Nicola Gratteri, ospite dell’associazione Terni Domani, guidata da Antonio Giannini. 

Durante l’incontro, Gratteri lascia cadere una frase che sembra pesare come un macigno: “Le mafie sono figlie del nostro tempo. Si adattano alla società, si mimetizzano, crescono dove trovano terreno fertile. E soprattutto, esistono perché ci interagiamo.”

Ecco, questa frase non è solo una constatazione, è una fotografia precisa, spietata, di ciò che siamo diventati. Perché Gratteri non parla mai a caso. Ogni sua parola è il frutto di decenni di lavoro sul campo, di indagini, di confronti diretti con un sistema criminale che non solo resiste, ma si evolve, si integra, diventa quasi invisibile. 

Lo fa insieme ad Antonio Nicaso nel libro “Una Cosa sola – Come le mafie si sono integrate al potere”, un viaggio lucido e doloroso dentro l’anima oscura della criminalità organizzata.

Ma allora chiedo: come nasce questa integrazione? Come riesce la mafia a radicarsi così profondamente nella vita quotidiana, fino a sembrare parte integrante del paesaggio?

Gratteri lo spiega con disarmante semplicità: “Arrivano, comprano un bar, un ristorante, magari un albergo. È lì che inizia tutto. Da quel punto cominciano a costruire rapporti, a offrire lavoro nero, a pagare poco, a radicarsi nel tessuto economico e sociale. E poi, piano piano, arrivano al controllo dei voti. Fanno votare chi decidono loro.”

Non si tratta più solo di violenza o paura. Oggi la mafia si espande attraverso il consenso. E quel consenso lo compra con piccoli gesti: un posto di lavoro, una promessa, un caffè offerto con troppa insistenza. Un dettaglio banale, forse, ma carico di significato: “Io conto, io sono rispettato. Tu devi tenerne conto.”

Così, il famoso “rito del caffè” diventa simbolo di una relazione malata tra mafia e società civile. Quanti ti offrono il caffè, quanti ti salutano con deferenza, quanti abbassano lo sguardo – tutti segnali di quanto potere tu abbia. E di quanto, talvolta, lo accettiamo senza battere ciglio.

Eppure, se la mafia si evolve, anche lo Stato dovrebbe adeguarsi. Ma qui arriva il punto dolente.

Gratteri non usa mezzi termini: “Oggi il punto più avanzato delle mafie è il darkweb. Con un telefonino qualsiasi puoi comprare armi, droga, persone. Puoi acquistare dati sensibili, informazioni compromettenti su politici, imprenditori, figure pubbliche. E usarle per ricattare, per ottenere vantaggi. La cocaina? Basta un click”.

Il web oscuro è diventato il supermercato globale del crimine. E davanti a questo scenario, alcune scelte politiche appaiono sempre più distanti dalla realtà. Quando sento parlare di riduzione delle intercettazioni telefoniche, di ritorno ai pedinamenti tradizionali, non posso fare a meno di chiedermi: ma di quale realtà stiamo parlando?

“Se posso comprare 2mila chili di cocaina con un clic, mi dite chi devo pedinare?” – chiede Gratteri. Una domanda retorica, certo, ma anche una critica diretta, un invito a ragionare sugli strumenti investigativi che, pur costosi, sono fondamentali per colpire la criminalità moderna.

E allora, dice lui, fermiamoci un attimo a guardare i numeri: “Le intercettazioni costano 170 milioni all’anno? E cosa sono, in confronto ai beni confiscati, alle centinaia di arresti, ai milioni di euro recuperati grazie a quelle stesse intercettazioni?

Gratteri non parla per spirito polemico, ma per senso di responsabilità. Dice: “Io lavoro 12 ore al giorno da oltre trent’anni per combattere la mafia. Se vedo qualcosa che non va, non resto zitto. Perché il silenzio è complicità”.

E allora viene spontaneo chiedersi: se lo Stato sa, se conosce le tecniche, gli strumenti, i metodi usati dalle mafie… perché non riesce a sradicarle definitivamente? Perché, specialmente in Sicilia, la mafia continua a condizionare la vita sociale, economica e politica?

Forse perché la mafia non è solo un fenomeno criminale. È un sistema che si alimenta di complicità, di omissioni, di connivenze. E quando i confini tra legale e illegale si fanno sfumati, quando i partiti smettono di rappresentare ideali per diventare mere caselle di scambio di favori, allora la mafia non ha bisogno di sparare: basta che stringa una mano, firmi un contratto, dia un posto di lavoro.

Ecco perché, purtroppo, la battaglia contro la mafia non è solo nelle mani della giustizia. È anche nelle nostre scelte quotidiane, nei silenzi che rompiamo, nelle cose che decidiamo di non accettare più come normali.

Gratteri ce lo ricorda con forza: “La mafia non è né di destra né di sinistra. Sta con chi garantisce favori”!

E finché ci saranno favoreggiatori, indifferenti e complici, essa continuerà a vivere. Nonostante le inchieste, nonostante gli arresti, nonostante i libri come “Una Cosa sola” che provano a svegliare le coscienze.

La vera sfida non è solo quella di perseguire i boss, ma di cambiare il modo in cui guardiamo al potere, al denaro, alla politica. E di capire che, ogni volta che voltiamo lo sguardo, siamo noi stessi a dare loro forza.

E se le Istituzioni conoscono bene il problema, allora non può esserci alibi possibile!

 Il fatto che, dopo tanti anni, la mafia continui a radicare il suo potere in Sicilia non è solo un fallimento operativo. È anche un fallimento culturale, morale, politico. Ed è un fallimento che ci riguarda tutti.

Perché finché non cambieremo il nostro sguardo, finché non smetteremo di tollerare quel caffè offerto con troppa insistenza, quei silenzi che diventano complicità, quelle promesse che sappiamo essere sbagliate ma accettiamo per convenienza… be’, allora non possiamo davvero dire di stare dalla parte della legalità.

Possiamo solo chiederci, onestamente: chi, tra noi, sta ancora permettendo che tutto questo continui?

Res Publica? No, Res Privata! L’ipocrisia del 2 giugno.

C’è una cosa che più di tutte mi rivolta lo stomaco…

È l’ipocrisia stampata sulle facce dei nostri governanti quando si presentano davanti alle telecamere in occasione di certi anniversari. 

Si atteggiano a custodi di valori morali che la nostra democrazia ha smarrito da tempo, eppure sono proprio loro la prova vivente di quel degrado. 

L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro, la sovranità appartiene al popolo“. Leggiamo e rileggiamo l’articolo 1 della Costituzione, ma quelle parole sembrano ormai un epitaffio, non una realtà. 

Si celebra la Repubblica, ma la “res publica” è diventata una “res privata“!

Un affare di dinastie politiche, di nomine opache, di poltrone che resistono a scandali e condanne. L’elettività e la temporaneità delle cariche sono principi svuotati, ridotti a formalismi mentre famiglie e clan si alternano al potere da decenni. Eppure nessuno sembra accorgersi del paradosso. Festeggiamo la Repubblica mentre essa viene svuotata giorno dopo giorno, legge dopo legge, privilegio dopo privilegio.

I partiti decidono per noi, scegliendo candidati tra corrotti, inquisiti, personaggi da operetta. Ci parlano di democrazia rappresentativa, ma è una finzione: qui non c’è rappresentanza, c’è occupazione. 

E mentre loro brindano al 2 giugno, i cittadini si allontanano sempre più dalle urne, disillusi, disgustati. Come si può festeggiare un Paese dove la corruzione è sistemica, dove gli appalti sono truccati, dove il clientelismo è la vera moneta corrente?

Qualcuno si rifiuta di partecipare alla farsa, dicendo che non c’è nulla da celebrare. Ha ragione, ma è solo un altro modo per fare retorica. Intanto, i soliti noti sfilano con il tricolore sul petto, sorridono alle telecamere, recitano il copione del patriottismo. 

E domani? Domani torneranno a legiferare per sé stessi, a scavare fossati tra il popolo e i suoi diritti.

Forse Roberto Benigni aveva visto giusto: non sono nemmeno da condannare, sono da compatire. Perché la politica, ormai, è l’unico mestiere in cui l’incompetenza non è un limite, ma un requisito. 

E allora buon 2 giugno, signori della casta. Festeggiate pure. Noi, intanto, contiamo i giorni che mancano alla prossima commemorazione vuota.

"Donne che odiano le donne"!

Ero rimasto ai romanzi della serie Millennium dello scomparso Stieg Larsson, in particolare a quel suo primo, potente titolo: “Uomini che odiano le donne”.

Eppure, incredibilmente, la realtà che osservo oggi è capovolta. Perché ciò che accade non è solo assurdo, ma tragicamente emblematico: il sesso femminile, invece di proteggere il proprio genere, spesso lo ostacola. Sì, avete letto bene. E la politica, quella siciliana in particolare, ne è la prova più grottesca.

Non è un caso isolato. I numeri parlano chiaro, e ciò che dicono è spietato. Prendiamo il tema della rappresentanza di genere: la Commissione Affari Istituzionali ha inserito norme che impongono il 40% di presenza femminile nelle Giunte delle Città Metropolitane e dei Liberi Consorzi. Una misura lodevole, in teoria. Ma quando si scava nei dati, emerge una verità scomoda: le donne non votano le donne.

Prendiamo come esempio le ultime Elezioni provinciali di Catania, svoltesi con un sistema di voto riservato ai consiglieri comunali e ai sindaci. Nonostante un’elevata partecipazione femminile tra gli elettori – il corpo elettorale era composto da 760 unità, pari al 94,64% degli aventi diritto – il risultato è stato sorprendentemente squilibrato: su 18 eletti, solo 3 sono donne.

Questo dato evidenzia una clamorosa discrepanza tra la rappresentanza femminile nell’elettorato attivo e quella negli eletti, sollevando interrogativi sulle dinamiche che hanno portato a questo esito.

Ma d’altronde, come dimenticare le elezioni regionali siciliane di qualche anno fa? Su 4.606.564 elettori – con una maggioranza femminile di oltre 132.000 unità, solo 15 donne sono riuscite a farsi eleggere in Consiglio Regionale. Gli uomini? Ben 55…. e la disparità non si ferma lì: sindaci, assessori, consiglieri, dirigenti di partito… le donne sono una goccia in un oceano di potere maschile.

La colpa? Certamente del sistema, di quella casta politica che da generazioni si tramanda le poltrone come eredità di famiglia, lasciando poco spazio a chi cerca di entrarci, figuriamoci se è una donna.

Hanno provato a correggere la rotta con il voto di trascinamento, un meccanismo che dovrebbe favorire le candidate. Ma è solo un palliativo, un trucco per far credere che qualcosa cambi. Intanto, il vero problema rimane: un sistema elettorale marcio, che svuota di senso il voto dei cittadini. Non è un caso se l’astensionismo cresce.

E a chi sta seduto su quelle poltrone da decenni, cosa importa? Nulla. Assolutamente nulla. Lo dimostrano ogni giorno, gestendo questo Paese con lo stesso vecchio copione: clientelismo, malaffare, corruzione, voto di scambio. Abusi di potere che distruggono ogni fiducia nella politica.

E le donne? Purtroppo, molte di loro, invece di rompere questo circolo vizioso, lo alimentano. E il paradosso diventa tragedia.

Sicilia: quando la burocrazia diventa una tassa sul futuro!

Qualche giorno fa vi ho raccontato dei numeri che gridano ingiustizia. 

Lo stesso ho visto che ha fatto Il Sole 24 Ore che ha messo nero su bianco quanto avevo riportato: la Sicilia non è solo un’eccezione, è un autogol annunciato. 
E così, mentre il resto d’Italia semplifica, qui moltiplichiamo ostacoli. Già… mentre altrove si incentiva, qui si tassa persino l’intenzione di investire.

Ed allora analizziamo i conti che non tornano (o dovrei aggiungere: che uccidono le imprese).
Difatti, la LR 1/2025 non è un aggiornamento, è un salasso mascherato da progresso:
+1.900% per una “valutazione preliminare” (da 300 a 6.000 €).
  • Fino a 20 volte il costo di altre regioni per la stessa procedura.
  • 12.000 € solo per dimostrare di aver rispettato le regole (le famigerate verifiche di ottemperanza a 4.000 € a fase).

Ma almeno i controlli sono migliori”

No. Come ha denunciato il Dott. Alfio Grassi, Presidente del Consorzio Pietra Lavica, questi oneri sono solo un bancomat per l’autofinanziamento della burocrazia. Il paradosso? In Lombardia un’impresa virtuosa paga meno. In Sicilia, più rispetti l’ambiente, più ti puniscono.

C’è poi la beffa delle “nuove voci”…
Nove nuove tasse nate dal nulla. Come il “supplemento Sicilia” per il recupero ambientale: paghi per estrarre, poi paghi per riparare, e infine paghi per dimostrare che hai riparato. Un circolo vizioso che trasforma il ripristino ecologico in un lusso per pochi.

Il confronto che brucia:
Via/Paur: 30.000 € in Sicilia, 2.000-9.000 € in Piemonte o Campania.

– Verifica di assoggettabilità: da noi il 2‰ del valore dell’opera, in Toscana lo 0,25‰, in Lombardia addirittura lo 0,05‰.

– Ottemperanza: qui 4.000 € a fase; altrove, gratis.

E poi qualcunio dei nostri governanti regionali e aggiungerei nazionali si chiede: “perché le imprese siciliane scappano?“.
Ahimè… la verità è nota a tutti, soprattutto ai miei connazionali, che purtroppo continuano a sostenere (per proteggere i propri interessi…) chi, invece, meriterebbe ben altro trattamento.

Perché non è (soltanto) una questione di soldi, è un segnale politico chiaro: la Sicilia preferisce dissuadere anziché attrarre. Mentre le altre regioni concorrenti usano tariffe ragionevoli come leva per lo sviluppo, qui da noi viceversa, alziamo muri. 
Il risultato? Semplice,  400 imprese da 400 milioni di fatturato, rischiano di diventare un ricordo…

C’è sempre una domanda comunque che resta sospesa: Perché accettiamo di essere il fanalino di coda delle politiche ambientali? Perché trasformiamo l’ecologia in un privilegio per ricchi invece che in un’opportunità per tutti?

Sì…  mi fa piacere aver letto che anche il “Sole 24 Ore” mi dà ragione. Ma puntroppo non basta…
Serve una revisione immediata di questa legge, prima che il danno diventi irreparabile, perché il vero “costo ambientale” è quello di uccidere il futuro della Sicilia!

Tutto come al solito: un altro sindaco con le mani nel sacco!

C’è qualcosa di marcio, come sempre, dietro la facciata pulita della politica.

L’ennesima prova arriva da un’operazione che ha scoperchiato un sistema fatto di mazzette, favori e giochi sporchi, dove il confine tra istituzioni e malaffare diventa sempre più sottile, quasi invisibile. 

Un sindaco, un tempo considerato una promessa, colto in flagrante mentre intascava denaro in un ristorante. Soldi che – secondo l’inchiesta – rappresentavano solo l’ultima tranche di un accordo più grande, una tangente pattuita per garantire appalti, per assicurarsi che tutto girasse come doveva girare.

E non è solo lui. Intorno, una rete di collaboratori, imprenditori, faccendieri, ognuno con il suo ruolo in questa macchina ben oliata. Soldi nascosti ovunque: nelle tasche, dentro un panettone, persino dentro un tavolo da biliardo! 

Come se il denaro sporco potesse davvero sparire, svanire nel nulla, invece di lasciare tracce ovunque. Eppure, stranamente, questi soggetti continuano a farlo, come se fossero immuni, come se la legge non li riguardasse, come se il rischio di essere scoperti fosse solo un dettaglio trascurabile rispetto al guadagno, al potere, alla certezza di poter comprare tutto, anche la giustizia.

Poi c’è il fiduciario, quello che fa da tramite, quello che sa muoversi nell’ombra, quello che forse credeva davvero di poter sfuggire al controllo, di poter nascondere l’evidenza in un mobile, in un gesto, in un silenzio. Ma i soldi hanno un odore, lasciano una scia. E quando il sistema decide di far crollare il castello, tutto viene fuori, anche ciò che sembrava sepolto.

E intanto, mentre qualcuno finisce in carcere e qualcun altro trema nell’ombra, la domanda rimane sospesa nell’aria: quanti altri sono ancora lì, nascosti, intoccabili, pronti a ripetere le stesse trame, gli stessi abusi, le stesse manovre che avvelenano la politica?

Perché alla fine, come ho sempre detto, il problema resta lo stesso: quando la politica si piega al denaro, smette di servire il pubblico e comincia a servire solo se stessa. E quel male, quello vero, che divora le comunità, che legittima la corruzione e alimenta la criminalità, continua a crescere indisturbato, silenzioso ma implacabile.

Io, da parte mia, resto in attesa della prossima inchiesta che porterà alla luce altri nomi, altre verità, altri sindaci. Non ci vorrà molto, ne sono certo. Perché il cerchio… si sta per chiudere. E quando accadrà, spero che saremo pronti a guardare in faccia la realtà e a chiederci: cosa abbiamo fatto per cambiarla? Cosa faremo per impedire che accada ancora? 

Il sistema che non tace: dimissioni, appalti e verità nascoste…

Giorni fa avevo pubblicato un post intitolato: Il vento della giustizia: perché molti politici stanno abbandonando in queste ore?

Lo trovi qui: https://nicola-costanzo.blogspot.com/2025/03/dimissioni-in-massa-giustizia-alle-porte.html

Successivamente, il 21 marzo scorso, avevo scritto un altro intervento dal titolo: Dimissioni in massa: giustizia alle porte?

Puoi leggerlo a questo link: https://nicola-costanzo.blogspot.com/2025/03/dimissioni-in-massa-giustizia-alle-porte.html

In quel secondo contributo, chiudevo con una domanda aperta: E tu, cosa ne pensi? Credi che sia solo coincidenza o che ci sia qualcosa di più sotto la superficie?

Oggi, però, una notizia firmata da Saul Caia, pubblicata su “Il Fatto Quotidiano”, sembra dare una risposta tangibile a quel dubbio. L’inchiesta della Procura di Agrigento sta facendo emergere dettagli inquietanti su presunte tangenti legate a pubbliche forniture, coinvolgendo figure di spicco del panorama politico siciliano.

L’articolo è disponibile qui: https://www.ilfattoquotidiano.it/2025/05/21/agrigento-

Riprendendo quindi quanto espresso nei miei precedenti post, non posso fare a meno di collegare quelle riflessioni all’attualità dei fatti. Il sospetto che dietro le dimissioni di tanti esponenti politici si celassero avvisaglie di inchieste in corso, oggi appare sempre più fondato.

Già… il vento della giustizia, forse, sta iniziando a soffiare forte!

In queste settimane, da nord a sud del Paese, assistiamo a un fenomeno che lascia molti cittadini perplessi, scettici e talvolta persino indifferenti. Politici, dirigenti di assessorati, funzionari pubblici e figure di spicco delle istituzioni stanno rinunciando ai propri incarichi, spesso senza fornire spiegazioni convincenti o addirittura con comunicazioni fredde e formali. Dimissioni improvvise, apparentemente sincronizzate, che sembrano suggerire che qualcosa di significativo stia accadendo dietro le quinte del potere. Ma cosa si nasconde davvero dietro queste uscite? È possibile che si tratti solo di coincidenze, o c’è qualcosa di più profondo?

C’è chi parla di un semplice ricambio generazionale, chi di scelte personali dettate da motivazioni private, e chi invece vede in queste dimissioni un segnale di cambiamento, forse perfino l’inizio di un’epurazione silenziosa. Indagini giudiziarie, inchieste giornalistiche e pressioni esterne potrebbero aver costretto alcune figure a fare un passo indietro prima di essere travolte da scandali. Si fa strada l’ipotesi che qualcuno o qualcosa stia portando alla luce scheletri nell’armadio, notizie compromettenti che spingono questi personaggi a farsi da parte prima che sia troppo tardi. Ma è davvero così semplice?

Prendiamo ad esempio quanto emerso di recente a proposito di un ex assessore all’energia e industria della Sicilia, ora indagato nell’ambito di un’inchiesta della Procura di Agrigento. L’accusa è pesante: associazione per delinquere finalizzata al reperimento e alla distrazione di risorse pubbliche, attraverso meccanismi spartitori di appalti, progettazioni e incarichi amministrativi. Secondo gli inquirenti, egli avrebbe agito in concorso con pubblici funzionari e imprenditori compiacenti, orchestrando un sistema che ha permesso di aggiudicarsi lavori milionari. 

Un sistema che, secondo l’accusa, non solo ha favorito interessi privati, ma ha anche contribuito a creare un intreccio di corruzione e condizionamento che coinvolgeva dirigenti, progettisti e funzionari pubblici. Non si tratta solo di un caso isolato, ma di un esempio lampante di come la politica possa diventare terreno fertile per interessi malsani, che vanno ben oltre il semplice clientelismo.

È difficile non vedere in tutto questo un meccanismo perverso, un circolo vizioso che lega politica e imprenditoria in un abbraccio mortale. Da una parte, ci sono imprenditori che foraggiano la politica per ottenere favori, appalti e privilegi; dall’altra, ci sono politici che utilizzano il proprio potere per alimentare questo sistema, garantendo vantaggi a pochi a discapito di molti. 

E non parliamo solo di criminalità organizzata, anche se quella gioca certamente un ruolo importante. Parliamo di un sistema che permea una parte dell’apparato istituzionale, dalla classe politica fino alla struttura pubblica, dove funzionari e dirigenti possono essere coinvolti in pratiche che compromettono la trasparenza e la correttezza dell’amministrazione. Un sistema che, purtroppo, sembra resistere nel tempo, adattandosi alle circostanze e mutando forma, ma sempre pronto a riemergere quando le condizioni lo permettono.

Ma allora, queste dimissioni rappresentano davvero un passo verso la giustizia? O sono solo un tentativo di salvare la faccia, lasciando intatti i meccanismi di potere che hanno permesso certi comportamenti? È una domanda difficile, e la risposta non è scontata. Da un lato, c’è chi spera che queste uscite siano il segno di un cambiamento in atto, un segnale che la magistratura e l’opinione pubblica stanno mettendo sotto pressione chi, fino a ieri, sembrava intoccabile. Dall’altro, c’è il timore che si tratti solo di una manovra per evitare il peggio, un modo per far tacere scandali senza affrontare le vere cause del problema.

Una cosa è certa: il cittadino osserva, aspetta e pretende risposte. Perché ogni dimissione non è solo un addio, ma un’opportunità per riflettere su come vogliamo che siano gestiti i nostri interessi e su chi merita davvero di rappresentarci. 

Dietro ogni politico che si dimette, c’è una storia che va oltre la persona stessa. C’è un sistema che spesso premia chi sa navigare tra interessi privati e pubblici, chi riesce a muoversi in quel confine grigio dove le regole sembrano elastiche e i principi negoziabili. Ma c’è anche una società che, forse lentamente, sta iniziando a chiedere conto di tutto questo. Una società che vuole trasparenza, giustizia e responsabilità.

E tu ora, in virtù anche di quanto emerso,cosa ne pensi? Credi che queste dimissioni siano solo coincidenze, o che nascondano qualcosa di più profondo? Rifletti su questo: fino a quando non cambieremo il modo in cui guardiamo alla politica e al potere, sarà difficile spezzare quel meccanismo perverso che continua a favorire pochi a discapito di molti. 

Forse è arrivato il momento di pretendere di più, di chiedere verità e di non accontentarci di risposte superficiali, perché solo così possiamo sperare di costruire un futuro migliore, per noi e per le generazioni che verranno.

Riflessione sull’imprenditoria opaca e il sistema che alimenta crimine e potere!

C’è qualcosa di profondamente perverso in quel meccanismo che, sotto una facciata di legalità e operosità, nasconde invece un ingranaggio ben oliato di connivenze, complicità, favori e silenzi…

Già… dietro un’imprenditoria che a prima vista sembra limpida (con le sue partite Iva in regola, i bilanci apparentemente perfetti e quelle loro sedi luccicanti), si muove un sistema parallelo che non solo nutre la criminalità organizzata, ma tiene in piedi un’intera struttura di potere, fatta di politica compiacente, burocrazia venduta e istituzioni che, troppo spesso, fingono di non vedere.

Gli imprenditori “affiliati“, quelli che potremmo definire i veri pilastri di questo sistema, agiscono come in un gioco di specchi: formalmente estranei l’uno all’altro, senza apparenti legami diretti, eppure perfettamente coordinati. 

È un’illusione costruita ad arte, una scenografia che serve a depistare, a far sì che nessun controllo –per quanto poi quest’ultimo risulti realmente approfondito – riesca mai a ricostruire il filo che li unisce; eppure, quel filo esiste, ed è robusto quanto quello che tiene insieme un clan mafioso! 

Non serve quindi che si conoscano personalmente, non serve che si siedano allo stesso tavolo: ciò che conta è che ognuno, nel proprio ruolo, faccia girare il sistema.

Prendiamo, ad esempio, quell’imprenditore che paga puntualmente il suo “contributo“, assume chi gli viene indicato, garantisce voti e sostegno economico a un certo candidato. Ecco, questo soggetto non è necessariamente un mafioso – nel senso classico del termine – ma è parte di una rete in cui il confine tra lecito e illecito si sfuma volutamente. 

Lui ad esempio non ha mai visto in faccia il capo, non conosce i dettagli di quelle cosiddette operazioni sporche, eppure sa – quantomeno è certo che egli debba sapere – che quel denaro liquido che improvvisamente riempie le casse della sua azienda non viene da un miracolo contabile o da una sua strategia imprenditoriale innovativa, ma da una “famiglia”, già… da un’organizzazione che seppur stando dietro le quinte, si aspetta in cambio silenzio, lealtà, ma soprattutto continuità.

E qui entra in gioco l’architettura più subdola del sistema: la gerarchia! 

Proprio come nella criminalità organizzata, vi sono livelli, intermediari, figure che fanno da scudo. Gli imprenditori di alto rango – quelli con le giuste amicizie, quelli che possono permettersi di non sporcarsi direttamente le mani – sono di fatto intoccabili, protetti non solo dall’ombra della mafia, ma anche dal loro status, dalla rispettabilità che li avvolge. Sono quest’ultimi a godere dei contratti pubblici, delle gare truccate, delle agevolazioni che sembrano cadere dal cielo, e se qualcosa va storto, ci sarà sempre qualcuno più in basso a prendersi la colpa, un prestanome, un fallito, un anello debole sacrificabile.

Intanto, la politica – quella che dovrebbe vigilare, quella che dovrebbe essere garante della trasparenza – spesso è complice! Non sempre in modo eclatante, non necessariamente con bustarelle che passano di mano. A volte basta un’omertà, un favore, un occhio chiuso su un appalto sospetto. 

Perché il vero potere di questo sistema sta nella sua capacità di normalizzare l’illegalità, di farla sembrare una prassi accettabile, quasi inevitabile. “È così che funziona”, si dice. E così, mentre l’imprenditore “pulisce” il denaro sporco con fatture false o investimenti fasulli, lo Stato, sì… attraverso i suoi rappresentanti corrotti o semplicemente indifferenti, offre una copertura perfetta: l’apparenza della legalità!

Eppure, la cosa più agghiacciante è quanto tutto questo sia ordinario, quasi banale. 

Basti leggere quotidianamente quanto accade, già nulla… è tutto (per fortuna) estramente diverso da quanto accadeva ahimè alcuni anni fa: nessuna violenza, nessuna sparatorie, nessuna faida eclatante: solo pratiche commerciali, strette di mano in uffici eleganti, scartoffie firmate con sorrisi di circostanza. 

È questa la forza del sistema: la sua capacità di mimetizzarsi, di far sembrare normale ciò che normale non è. E mentre tutto questo accade, la società – quella che dovrebbe indignarsi, quella che dovrebbe pretendere trasparenza e conti chiari – rimane spesso immobile, incastrata tra il salvaguardare il proprio orticello, la rassegnazione di chi pensa che, tanto, nulla cambierà mai, ed in alcuni casi (certamente esigui…), la paura di denunciare! 

Ma è proprio questa rassegnazione che tiene in vita il meccanismo, perché finché ci sarà chi accetta le regole del gioco, finché ci sarà chi crede che “l’unico modo per fare affari sia così“, il sistema continuerà a prosperare. 

E allora la domanda è: dove finisce la connivenza e inizia la complicità? E soprattutto, quanta parte di questo gioco siamo disposti ad accettare prima di dire basta?

C’era un tempo in cui la gente scendeva in piazza, alzava la voce, lottava per qualcosa in cui credeva…

Già… ora si preferisce pubblicare un commento anonimo lasciato nel buio di un social network.
Una società che di fronte agli scandali più vergognosi, politici corrotti, istituzioni infiltrate dalla criminalità, fondi pubblici svenduti agli amici degli amici, reagisce con un sospiro e poi cambia canale. 
Non è più nemmeno rassegnazione, è peggio: è normalità!

Ci siamo abituati a vivere in un sistema che funziona solo se accetti le sue regole perverse: il clientelismo che ti fa ottenere un posto, l’evasione che ti tiene aperta l’attività, il silenzio che ti protegge. 
E così, mentre i potenti si spartiscono tutto, il cittadino comune rimane inchiodato alla sua paura o, forse, alla sua complicità. 
Perché alla fine, se anche tu (in piccolo…) hai bisogno di quel favore, di quella raccomandazione, di quella furbata per sopravvivere, come puoi pretendere di alzare la testa?
Una volta c’era chi scendeva in piazza, chi rischiava la pelle per un ideale, chi credeva che la democrazia fosse una lotta quotidiana. Oggi no. Oggi prevale il calcolo: “Tanto cosa cambia?“. 
E allora restiamo inerti, osservando ipocriti i politici che si mangiano il futuro di tutti, mentre noi ci consoliamo con la battuta sarcastica sul gruppo WhatsApp o con lo sfogo sotto un post, sempre rigorosamente in incognito.
Ma la verità è che il tempo delle rivolte è finito. Non perché manchino le ingiustizie, anzi, tutt’altro, è perché abbiamo smesso di credere di poterle combattere. Abbiamo scambiato la libertà con l’illusione del quieto vivere, e ora ci ritroviamo prigionieri di un sistema che ci divora, mentre fingiamo di non vedere. Perché è più comodo. Perché è più sicuro. Perché, in fondo, abbiamo già deciso che non vale la pena.
E forse è proprio questo il tradimento più grande: non quello dei politici ladri, ma il nostro!
Perché quando rinunciamo perfino a pretendere giustizia, diventiamo complici del male che denunciamo a denti stretti, solo quando nessuno ci sente.

La criminalità che abita in noi (Parte 1).

Già… spesso pensiamo alla criminalità organizzata come a un corpo estraneo, un cancro da estirpare, un mostro da combattere.

Ma forse è proprio in questa visione che rischiamo di perdere il punto.

La criminalità non è un’escrescenza aliena rispetto alla società: al contrario, è un prodotto della società stessa, figlia di dinamiche storiche, economiche e culturali che ci riguardano da vicino. 

Non sto dicendo che siamo tutti mafiosi – evitiamo facili meccanismi autoflagellatori – ma dobbiamo ammettere di vivere in un tessuto sociale dove l’illegalità, in molte sue forme, è diventata una normalità silenziosa, talmente radicata da non farci più nemmeno accorgere della sua presenza.

Ed è proprio qui che nasce il problema: in questo contesto, la figura dell’affiliato non è più un’anomalia, ma una conseguenza quasi necessaria.

Limitarci alla semplice indignazione, allora, non serve a nulla. E ancor meno quando questa indignazione si manifesta solo occasionalmente, durante quelle “programmate” commemorazioni, senza mai tradursi in analisi profonde o azioni strutturate. Se continuiamo a fermarci alle parole, niente cambierà davvero.

C’è qualcosa che molti fanno finta di non capire: la criminalità non è una struttura immobile. È dinamica, si adatta ai cambiamenti sociali ed economici con una flessibilità impressionante. Ma non basta: da tempo essa si presenta come un modello d’impresa, operante anche su scala globale.

Oggi, infatti, i business sono ben diversi da quelli di una volta. Si va dalla gestione dei finanziamenti pubblici, allo smaltimento illegale dei rifiuti, dagli appalti per le infrastrutture alle costruzioni edilizie, fino alla gestione di attività commerciali legali. A questi si sommano, ovviamente, i traffici illegali tradizionali: droga, prostituzione, tratta di esseri umani, estorsioni. Ma soprattutto, c’è tutta una serie di metodi coercitivi, come il pagamento del pizzo, che non sempre vediamo o denunciamo.

Tutto questo genera un sistema sofisticato, fondamentale per riciclare il denaro sporco e renderlo pulito, legale agli occhi del mondo.

Ecco perché oggi la criminalità non è più quella di una volta: non si tratta più di “quattro pastori” sulle montagne, ma di vere e proprie multinazionali del crimine. Sanno dove investire, quando diversificare, come infiltrarsi nei settori legali con competenze professionali, spesso superiori a quelle di tanti professionisti onesti.

I nuovi mafiosi non sono più boss con la coppola: sono laureati, partecipano a concorsi pubblici, lavorano nella pubblica amministrazione, entrano in politica, si avvicinano alla magistratura. Usano la loro influenza finanziaria per manipolare appalti, associazioni, e soprattutto per orientare la volontà dei cittadini, fino a condizionare le loro scelte elettorali.

Non parliamo più di violenza esplicita, ma di una capacità sottile e pervasiva di normalizzare la propria presenza. Una presenza che non ha bisogno di imporsi con le minacce, perché trova terreno fertile in una società che, spesso senza rendersene conto, le concede spazi enormi.

Ecco perché i cittadini vivono una sorta di doppia appartenenza : da un lato lo Stato, dall’altro la criminalità organizzata. Due sistemi che si alternano nel ruolo di protettore e persecutore, creando una condizione psicologica e sociale profondamente ambigua.

Viene spontaneo chiedersi: da dove nasce questa ambiguità? Quali motivi vanno cercati per contrastare una cultura del successo a ogni costo, la legittimazione della sopraffazione, l’idea diffusa che la furbizia e la faccia tosta siano addirittura virtù?

Ed è proprio questa mentalità, questa idea distorta del “farla franca”, che alimenta il messaggio su cui si basa la cultura criminale. Un messaggio che non urla, non spara, ma si insinua piano piano tra le pieghe della quotidianità, finché non diventa parte integrante del nostro modo di pensare.

(Continua nella seconda parte…)

"TikTok": l’esodo è iniziato.

Qualche giorno fa mi sono imbattuto in una notizia che, in fondo, sapevo sarebbe arrivata presto. 

Eppure, leggerla nero su bianco mi ha fatto per un momento riflettere…
Negli Stati Uniti, sempre più utenti stanno abbandonando TikTok e non è solo una questione di trend che muoiono o algoritmi che cambiano: è un vero e proprio esodo, dettato da timori legati alla privacy, pressioni politiche e quel senso di precarietà che ormai avvolge ogni piattaforma social.
La scadenza del 19 gennaio 2025 – quella in cui “ByteDance” avrebbe dovuto cedere TikTok a un acquirente americano – è slittata, come spesso accade quando i giganti del tech e la politica si scontrano. 
Ma c’è una differenza rispetto al solito: questa volta, gli utenti non stanno ad aspettare, in particolare gli influencer che hanno troppo da perdere tra follower, collaborazioni e anni di lavoro costruito. E così, mentre a Washington si discute, loro hanno già iniziato a migrare.
Dove vanno? beh… la risposta potrebbe anche sorprenderti…
Tra le alternative che stanno emergendo, spicca “Xiaohongshu“, conosciuta anche come “Little Red Book”, una piattaforma cinese che unisce il visual appeal di Instagram alla logica di scoperta di Pinterest, e nelle ultime ore ha visto un’impennata di milioni di iscritti, molti dei quali ovviamente in fuga da TikTok.
Ma Xiaohongshu sarà davvero il nuovo TikTok? La risposta è più complicata di un semplice sì o no.
Da un lato, il potenziale c’è: l’interfaccia è intuitiva, il modello di contenuti è simile, e soprattutto, c’è un’intera generazione di creator pronti a ricostruirsi un pubblico. 
Dall’altro, però, ci sono ostacoli non da poco, ad esempio la barriera linguistica: la maggior parte dei contenuti è ancora in cinese, e senza una versione localizzata per il mercato occidentale, molti utenti potrebbero desistere.
La questione censura: Xiaohongshu opera sotto le regole di Pechino, il che significa limitazioni su temi che altrove sono considerati innocui (dalla politica ai diritti civili). Per molti creator, abituati alla relativa libertà di TikTok, potrebbe essere uno shock.
E poi c’è il paradosso più grande: se Xiaohongshu crescesse a sufficienza da sostituire TikTok, non finirebbe presto nel mirino degli stessi legislatori americani? Le preoccupazioni su controllo dei dati, sicurezza nazionale e influenza geopolitica sono identiche.
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È qui che il discorso si fa più ampio. Il problema non è TikTok in sé, ma il sistema in cui operano questi colossi. Ogni volta che una piattaforma viene messa sotto torchio, migliaia di persone sono costrette a trasferirsi, a ricominciare da zero. Ma esiste davvero un posto neutrale, dove creatori e utenti possano esprimersi senza doversi preoccupare di confini, leggi o algoritmi dettati da logiche esterne?
Forse no. O forse, la soluzione è diversa: smettere di cercare un rifugio perfetto e imparare a navigare questa instabilità, accettando che nel mondo digitale, l’unica costante sia il cambiamento.
E tu, hai già pensato a dove atterreresti se TikTok dovesse chiudere?

Gratteri ha ragione: in questo Paese la giustizia è solo per i poveri!

Ho ascoltato le parole del magistrato Nicola Gratteri, ospite ad “Accordi&Disaccordi“, il talk condotto da Luca Sommi su Nove con la partecipazione di Marco Travaglio e Andrea Scanzi. Ha parlato di giustizia a due velocità: garantismo per i potenti e sanzioni durissime contro i manifestanti.

A dimostrazione che in questo Paese non si vuole cambiare!
Quante volte l’abbiamo sentito dire, sussurrato nei corridoi, urlato per strada dopo l’ennesimo arresto in flagranza? L’ennesimo funzionario colto con le mani nella cassa, l’ennesimo politico che intasca mazzette come se fossero caramelle… “Sì… ma tanto non succede niente…
E infatti, mentre il Dott. Gratteri – come pochi altri – si consuma in trincea contro la criminalità organizzata (e non solo), il Governo risponde con leggi vergognose: norme che non servono a stroncare l’illegalità, ma a proteggere chi la pratica. Funzionari infedeli, politici corrotti, colletti sporchi di mafia: tutti più al sicuro oggi, grazie a riforme scritte col bilancino, sì… pendenete verso la dorruzione.
Pensateci: arrestano un corrotto con le banconote ancora in tasca, e poi? Il processo si trascina per anni, la prescrizione divora tutto, la carriera prosegue indisturbata. Intanto, chi denuncia rischia il linciaggio, chi indaga viene ostacolato, e lo Stato? Lo Stato abbassa la testa e firma leggi ad hoc!
So bene di cosa si tratta. Io, che ho vissuto in prima persona il contrasto al malaffare e all’illegalità, posso confermare: in tutti questi anni è sempre stato così. E così, ahimè, continua ancora oggi!
E proprio qui sta il tradimento: normalizzare la corruzione è il primo passo per renderla invincibile. Gratteri lo ripete da anni: Se togli gli strumenti alle Procure, non stai combattendo la criminalità. La stai proteggendo.
E allora? Allora serve urlare che questo non è “tolleranza zero”, ma complicità! Che ogni riforma finta, ogni legge scritta col contagocce per i potenti, è un pugno nello stomaco a chi crede ancora nello Stato. Come me.
Perché il problema, come ho scritto proprio in questi giorni, non sono solo le mazzette che passano di mano, è il sistema che le lascia circolare, e poi si gira dall’altra parte.
E io, oggi, sono qui a dirvelo con il cuore gonfio di delusione. Perché dopo anni spesi a lottare per far emergere la legalità dove non c’era, mi ritrovo a constatare che le regole del gioco sono sempre le stesse e chi dovrebbe cambiarle, invece, le sta scrivendo a misura di chi non vuole cambiare nulla.

Quando la mafia siede in Consiglio comunale!

C’è una vergogna che torna ciclicamente a bussare alle porte delle istituzioni, una piaga che non smette di scavare nel tessuto del Paese… 

Ieri, ancora una volta, lo Stato ha dovuto alzare la mano e dichiarare: qui non si governa più!

Quattro realtà locali, disseminate tra Nord e Sud, sono state sciolte per infiltrazioni mafiose. Non è un fulmine a ciel sereno, ma l’epilogo annunciato di storie di connivenze, appalti pilotati, scambi oscuri tra politica e criminalità.

La domanda sorge spontanea: come si arriva a questo punto? Come fa un’intera amministrazione a diventare terreno di conquista per quelle associazioni criminali? 

Le risposte, purtroppo, sono sempre le stesse: silenzi complici, omissioni, quella sottile linea grigia in cui l’interesse pubblico si confonde con affari privati. E quando la situazione sfugge di mano, non resta che l’intervento drastico: commissariamento, diciotto mesi di gestione straordinaria, la speranza di un ripartenza pulita.

C’è chi grida allo scandalo, chi parla di decisioni politiche, chi promette ricorsi. Ma al di là delle polemiche, resta un dato innegabile: quando la criminalità organizzata mette radici nelle stanze del potere locale, è la democrazia stessa a essere ferita. 

Non si tratta solo di sostituire amministratori, ma di restituire fiducia a comunità lasciate in balia di logiche perverse.

Eppure, ogni volta che accade, c’è qualcosa di profondamente sbagliato nel modo in cui reagiamo. 

Perché dietro ogni scioglimento c’è una domanda che non vogliamo farci: come abbiamo fatto ad arrivare fin qui? E, soprattutto, cosa possiamo fare perché non accada di nuovo? 

Già… la colpa è anche vostra. Perché fintanto che la vostra preferenza sarà legata a un tornaconto personale – una raccomandazione, un favore, un posto di lavoro – non potete stupirvi se poi, a Palazzo, siedono gli stessi che hanno fatto dei vostri bisogni un affare.

Quindi, vi prego: non fate finta di non sapere quanto vale il vostro voto. Lo sapete bene.

E c’è chi, purtroppo, quel prezzo lo ha già pagato al posto vostro.


Prezzemolo per tutti: il pizzo è servito (con conto allo Stato).

“Ed allora, quale busta desidera, eh? La uno, la due o la treee?”.
Già, come dimenticare quella celebre frase di Mike Bongiorno che per anni ha fatto sognare gli italiani davanti al televisore. 
Peccato che oggi, in un paese dove tanti faticano persino a comprarsi il pane, c’è chi invece aspetta con ansia un altro tipo di busta: quella mensile, quella illegale, quella che non viene vinta ma pretesa. 
Sì, perché quella che con ipocrisia chiamano “bustarella“, non è altro che un pizzo travestito da burocrazia, una tangente che non viene pagata per paura, ma per convenienza, per affari, per quel sistema marcio che ormai si è insinuato dappertutto, dagli uffici comunali ai ministeri, dagli appalti alle concessioni, dalle licenze ai favori politici.
E mi viene in mente quel ragazzino di Catania, trent’anni fa, che davanti alle telecamere della Rai rispose senza scomporsi a un giornalista che gli chiedeva del pizzo: “Macari cu vinni puddisino pava!” – “Anche chi vende prezzemolo paga!“.

Quella frase mi colpì come un pugno nello stomaco, e da allora non mi ha più abbandonato. Perché è la verità nuda e cruda: tutti pagano, chi più chi meno, chi con qualche centinaio di euro per far sbloccare una pratica, chi con migliaia per aggiudicarsi un appalto, chi con milioni per comprarsi un pezzo di Stato.

E intanto noi, quelli che le tasse le pagano davvero, quelli che si sfiniscono di lavoro per non dover niente a nessuno, riceviamo in cambio servizi che fanno pietà, una burocrazia che ti strozza, un paese che invece di camminare arranca, perché ogni passo è ostacolato da qualcuno che vuole la sua busta.

E lo Stato? Lo Stato fa finta di non vedere. I giornali, spesso finanziati da quel sistema corrotto, sorvolano. I controlli? Una presa in giro. Le denunce? Quasi nessuno ha il coraggio di farle, neanche in anonimo.

E allora tutto continua come prima, con quel meccanismo infernale di favori, raccomandazioni e clientelismo che tiene in ostaggio un intero paese.

Cambiare? Ma quando mai, dicono loro, mentre intascano allegramente la loro busta mensile. E noi? Noi restiamo qui a guardare, a pagare, a subire. 

E intanto quel ragazzino di trent’anni fa aveva ragione: anche chi vende prezzemolo paga, solo che ormai, purtroppo, non siamo più al banchetto del mercato: Già… siamo al supermarket della corruzione!!!

La "silenziosa" tempesta finanziaria: Trump, i mercati e lo spettro del 1929!

Già… ho come l’impressione che le mosse di Donald Trump – apparentemente aggressive e senza freni – nascondano in realtà una corsa contro il tempo. 

Sì… un percorso per evitare ciò che nessuno vuole annunciare: l’arrivo di una crisi economica di proporzioni storiche, forse paragonabile solo al crollo del 1929.

Questo mio semplice ragionamento nasce da un dato: in queste settimane, gli investitori stanno svendendo i titoli del Tesoro americano a un ritmo preoccupante.

Non si tratta di una semplice fluttuazione di mercato, ma di un alquanto segnale chiaro, anzi… troppo evidente!!!

Sì… da quando i “Treasury bonds” – da sempre considerati dagli investitori “porto sicuro” – hanno iniziato a perdere appeal; ciò significa che la fiducia nel sistema vacilla e se vacilla lì… dove il sistema dovrebbe essere più solido, allora il problema è più profondo di quanto vogliano farci credere!

Il motivo di questa fuga? Le politiche di Trump, certo…

I dazi imposti a raffica, le tensioni commerciali, l’incertezza che si è diffusa come un veleno nei mercati globali, ma c’è sicuramente dell’altro!

Mi riferisco al debito pubblico statunitense, quel mostro da 36 trilioni di dollari che incombe come un’ombra sull’economia americana; la mia sensazione, ma credo che sia anche quella più diffusa ora tra gli investitori, che proprio gli Stati Uniti potrebbero non essere più in grado di onorare i propri impegni nel lungo periodo.

E così, mentre le borse crollano, anziché rifugiarsi nei “Treasury“, epr come d’altronde hanno sempre fatto in passato, ecco che viceversa, i grandi capitali mondiali, scappano da tutto: azioni, obbligazioni, epersino i titoli di Stato! Un movimento finanziario certamente innaturale, che rompe ogni schema finora conosciuto, ed allora mi sono chiesto: quando i mercati si comportano in modo irrazionale, non è perché forse sta succedendo qualcosa di grosso? Sì… qualcosa che i media non stanno raccontando?

Trump lo ha capito bene… ed è per questo che ha annunciato – solo dopo ore aver firmato dinnanzi ai fotografi con quel suo pennarello nero – una tregua di 90 giorni sui dazi più pesanti. Non lo ha fatto per generosità, ma per mera necessità! Perché se i rendimenti dei Treasury continuano a salire, il costo del debito diventerà insostenibile e le banche, le imprese, ed anche – ahimè – i cittadini comuni, si troveranno strozzati da tassi più alti, ed allora sì che il default non sarà più un’ipotesi remota, ma uno scenario concreto!

Ma la cosa più inquietante è secondo il sottoscritto: IL SILENZIO!

Il silenzio in Europa e ancor più… nel nostro Paese, basti osservare i media, Tg nazionali, quotidiani, social nessuno parla di questa emorragia di fiducia, sì… nessuno spiega perché gli investitori stiano abbandonando persino i beni rifugio.

Ed allora mi sono chiesto: non è che forse perché, se la gente iniziasse a capire, inizierebbe anche a muoversi. A ritirare i soldi dalle banche. A disfarsi delle obbligazioni. A cercare vie di fuga che, in un sistema finanziario già fragile, potrebbero innescare il panico.

E allora viene da chiedersi se siamo davvero sull’orlo di un nuovo 1929? La storia non si ripete mai allo stesso modo, ma spesso fa rima con se stessa. E oggi, come allora, i segnali ci sono. Sono lì, nelle curve dei rendimenti, nei bilanci delle banche, nel nervosismo dei mercati, sta quindi a noi vedere, ascoltare e capire.
Sì… prima che sia troppo tardi.

Quali vantaggi avranno le mafie quando arriveranno i dazi?

Un mio lettore potrebbe chiedermi: “Scusa Nicola, ma cosa c’entrano le mafie con i dazi?”.

E allora stasera voglio spiegare come le mafie trasformeranno i dazi in un’opportunità. Perché loro, a differenza degli operatori legali, già controllano pezzi chiave dell’economia, sia legale che illegale. Hanno rapporti con la politica, con le istituzioni finanziarie, e soprattutto sanno muoversi dove gli altri devono rispettare le regole.
Con l’arrivo dei dazi, l’aumento delle tasse su molti prodotti farà esplodere il contrabbando. E chi è già pronto a vendere quelle merci a prezzi più bassi, aggirando i costi aggiuntivi? Loro. Approfitteranno dell’instabilità economica per muovere ancora più soldi illeciti e infiltrarsi ancora più a fondo nei mercati legali.
Pensate al commercio all’ingrosso, ai prodotti alimentari, ma non solo. Anche le merci vendute online diventeranno terreno di conquista, perché le mafie sanno già come operare nell’ombra del web, evitando i dazi con metodi sempre più sofisticati. E mentre loro guadagneranno, gli Stati perderanno entrate, perché evasione fiscale, riciclaggio e contrabbando sono il loro pane quotidiano.
Le dogane proveranno a fermarli, ma sarà una battaglia impari. Le mafie studiano da anni come bypassare i controlli, e i dazi non faranno che rendere più redditizie le loro operazioni. Meno soldi per lo Stato, più denaro sporco reinvestito nell’economia pulita. Per loro, sarà un affare perfetto.
Possiamo fermarli del tutto? No. Ma possiamo limitarli, con controlli più serrati alle frontiere, tracciando i movimenti sospetti di denaro, e soprattutto rafforzando la cooperazione internazionale tra polizie e magistrati. Perché il vero problema è che le mafie ormai sono ovunque: corrompono colletti bianchi, imprenditori, professionisti, e persino pezzi delle istituzioni – https://nicolacostanzo.blog/2025/04/03/il-nemico-invisibile-quando-la-corruzione-resiste-piu-della-mafia
Se non ci prepariamo con leggi più severe e una lotta senza quartiere alla corruzione, rischiamo di ritrovarci con un nemico ancora più potente e invisibile. Pronto a sfruttare ogni debolezza del sistema per espandersi e dominare, sempre pronto a sfruttare la debolezza del sistema e della natura umana, per potersi espanderse e dominare!!!

Contrastare l’evasione: abolire il contante è davvero la soluzione?

Il sottoscritto è da sempre convinto che l’eliminazione del contante sia l’unico modo per combattere efficacemente l’evasione e, di conseguenza, la corruzione dilagante. Tuttavia, so bene che questa idea suoni utopistica a molti.

Del resto, di utopie ne siamo pieni, soprattutto quando si parla di politica. Prendiamo il Green Deal: l’Europa ha imposto la fine dei motori a combustione, promuovendo l’elettrico come soluzione miracolosa all’inquinamento. Peccato che il problema ambientale sia globale, mentre la transizione forzata ha creato crisi industriali, fabbriche in difficoltà e un mercato impreparato. Risultato? Un disastro annunciato.

Ora, forse per distogliere l’attenzione dai veri problemi economici, si punta il dito contro il contante. L’idea è semplice: meno denaro fisico in circolazione significa più pagamenti tracciati e meno evasione. Sulla carta, è inappuntabile. Ma nella realtà? Le cose si complicano…

Da un lato, chi come me sostiene la moneta elettronica la vede come un’arma fondamentale contro evasione e riciclaggi, dall’altro, i critici osservano che questo sistema avvantaggi soprattutto le banche, che lucrano su commissioni e costi aggiuntivi.

E non dimentichiamo il contesto attuale: incertezza politica, economica e persino territoriale, con la guerra Russia-Ucraina alle porte. A ciò si aggiunge la sicurezza informatica: dati bancari, finanziari e istituzionali sono costantemente sotto attacco. Non a caso, mentre molti Stati europei spingono per abolire il contante, paesi come Svezia e Norvegia – pionieri di questa transizione – stanno facendo marcia indietro. Perché? Perché in caso di conflitto o cyberattacco, un sistema basato solo sul digitale potrebbe collassare, lasciando i cittadini senza mezzi di pagamento.

Ironia della sorte, oggi gli stessi che predicavano la fine del contante consigliano di tenere denaro fisico per le emergenze. Un paradosso che dimostra quanto la questione sia complessa.

Ed allora, cosa fare?

Se da un lato il contante favorisce l’evasione, dall’altro i pagamenti digitali ci rendono vulnerabili a crisi e cyber-minacce. Serve una soluzione equilibrata. Ad esempio, si potrebbe contrastare l’evasione coinvolgendo direttamente i cittadini: trasformarli in “controllori volontari” dell’Agenzia delle Entrate, incentivandoli a inviare scontrini e fatture in cambio di un rimborso (5-10% della spesa) da utilizzare in detrazioni fiscali.

Nessuno ha la bacchetta magica, ma è cruciale affrontare il problema con pragmatismo, evitando rivoluzioni ideologiche che spesso creano più problemi di quelli che risolvono.

E voi, cosa ne pensate? Siete pronti a rinunciare del tutto al contante? O preferite un approccio più graduale? Il sottoscritto resta convinto che solo abolendolo si possa davvero colpire l’evasione, ma riconosco che la strada è ancora lunga e piena di sfide.

Già… come quella barzelletta: copriamolo quel malaffare, prima che ci venga rovinata la festa!!!"

Quante volte ci siamo chiesti come sia possibile che il malaffare, la corruzione e la criminalità organizzata riescano a prosperare così facilmente?
La risposta, purtroppo, è più semplice di quanto si possa immaginare: perché questo sistema marcio serve a molti!
Sì, serve a tantissimi individui che, in un modo o nell’altro, ne traggono vantaggio, chiudendo un occhio (o entrambi) di fronte all’illegalità e all’immoralità di ciò che accade.
Iniziamo ad esempio con la casta dei politici….
Sì…. quanti di loro, in cambio di favori, licenze, appalti, permessi o quant’altro, ricevono voti? È un gioco sporco, ma purtroppo ben oliato. La criminalità organizzata offre sostegno elettorale, garantendo preferenze e voti di scambio, e in cambio ottiene protezione, appalti pubblici e la possibilità di operare indisturbata. È un circolo vizioso che si autoalimenta, e alla fine chi ci rimette è sempre la collettività.
Poi vi sono i dirigenti, i funzionari, i responsabili, i direttori dei lavori e via discorrendo…

Ditemi, quanti di loro ricevono mensilmente mazzette per chiudere un occhio su irregolarità o per favorire determinate imprese a scapito di altre? Ad esempio, far passare pratiche che altrimenti non passerebbero, oppure, per valutare come corrette esecuzioni di lavori o forniture che ben sappiamo non esserlo. Molti di loro sono ingranaggi fondamentali di questo sistema corrotto, che si arricchisce ahimè sulla pelle dei cittadini onesti.

Ma non dimentichiamo taluni professionisti: Quanti tra loro, pur sapendo di star lavorando per clienti poco “limpidi“, continuano a farlo, ripetendosi, per pulirsi la coscienza: “È semplicemente lavoro”. Nel frattempo, però, tanto per non allontanarsi troppo dalle modalità utilizzate da quei loro particolari clienti, le parcelle non vengono fatturate e le somme vengono riscosse in contanti!
A questi si aggiungono i peggiori: gli ignavi e i corrotti, coloro che si girano dall’altra parte o fingendo di non vedere da dove arrivano i soldi (solitamente “sporchi”) li mettono nelle loro tasche. D’altronde, si sa… i conti correnti bancari sono controllati!
Ed infine, ci sono ahimè anche i cittadini. Ditemi, quanti accettano posti di lavoro offerti dalla malavita, pur sapendo di aver a che fare con individui non certo trasparenti (quantomeno non nei propri “casellari giudiziari” o in quei cosiddetti “carichi pendenti”), ma si sa, pur di portare a casa uno stipendio, chiudono gli occhi. E poi, quando arriva il momento delle elezioni, ecco che si ricambia il favore ricevuto con le preferenze elettorali (proprie e dei loro familiari), distribuite (come da comando impartito da quel loro titolare, il più delle volte celato dietro una “testa di legno”) ai politici di turno: un gioco di scambi che sembra non finire mai!
La circostanza assurda è che sono in molti a ergersi a cittadini onesti o a persone perbene, ma la verità è che viviamo in un sistema colluso e corrotto che si regge, per l’appunto, sulla complicità di tutti!
Già… proprio come la barzelletta che sto per raccontare:
Il marito trova la moglie a letto con l’amante e, preso dall’ira, decide di ucciderli entrambi. Va in soggiorno, prende il fucile con cui va a caccia ed entra in camera da letto. L’amante, nudo e spaventato, chiede perdono, ma il marito è deciso a non fermarsi e punta l’arma. A questo punto, la moglie gli si para davanti e gli dice: “Ma che stai facendo? A chi vuoi sparare? Sei un cretino!”.
Il marito rimane sorpreso e perplesso. “Ah… sarei pure un cretino?”, e ripunta l’arma sull’uomo nudo, ora alle spalle della moglie.
”, dice la moglie, “sei un cretino, e ora ti spiego il motivo! Secondo te, chi ha pagato quest’estate le nostre vacanze al resort a Tenerife?”.
Chi…?”, dice il marito.
Questo signore qua dietro!”, risponde la moglie.
E chi ha comprato il fuoristrada con cui vai a caccia?”.
Chi…?”, chiede di nuovo il marito.
Sempre questo signore!”, dice la moglie.
E chi paga l’affitto della casa, i costi per l’energia e tutte quelle altre spese mensili?”.
Sempre questo signore?”, chiede ora il marito.
Sì, cretino!”, risponde la moglie, “e anche il fucile che hai in mano, lo ha comprato questo signore!!!”.
Ma allora…”, dice ora il marito premuroso, “coprilo prima che si raffreddi!”.
Ecco, questa barzelletta rappresenta perfettamente il meccanismo perverso che si nasconde dietro al malaffare.
Tutti coloro che ne approfittano, che chiudono un occhio, che si voltano dall’altra parte, sono come quel marito: pronti a coprire il sistema corrotto, pur di continuare a godere dei suoi “benefici”. Ma fino a quando? Sì… fino a quando continueremo a permettere che questo sistema ci divori?
È ora di dire basta. È ora di smettere di coprire quel malaffare, prima che sia troppo tardi. Prima che si perda… quantomeno, quel po’ di dignità che ancora resta!

Dimissioni in massa: giustizia alle porte?

In questi ultimi mesi, un’ondata di dimissioni ha colpito figure di spicco delle nostre istituzioni: politici, dirigenti di assessorati, enti pubblici e uffici statali sembrano abbandonare i propri incarichi in modo quasi sincronizzato. Cosa sta succedendo?

C’è chi vede in queste dimissioni un segnale di cambiamento, un’epurazione silenziosa dettata da indagini giudiziarie, inchieste giornalistiche o pressioni esterne. Altri parlano di un semplice ricambio generazionale o di scelte personali. Ma è possibile che dietro queste uscite si nasconda qualcosa di più profondo?

Si fa strada l’ipotesi che qualcuno o qualcosa stia portando alla luce notizie compromettenti, scheletri nell’armadio che spingono queste figure a farsi da parte prima di essere travolte da scandali. 

In un’epoca in cui l’informazione viaggia alla velocità della luce e la trasparenza è diventata un’esigenza irrinunciabile, è difficile nascondere verità scomode.

Ma queste dimissioni rappresentano davvero un passo verso la giustizia o sono solo l’ennesimo tentativo di evitare il peggio, lasciando intatti i meccanismi di potere che hanno permesso certi comportamenti?

Una cosa è certa: il cittadino osserva, aspetta e pretende risposte. Perché ogni dimissione non è solo un addio, ma un’opportunità per riflettere su come vogliamo che siano gestiti i nostri interessi e su chi merita davvero di rappresentarci.

E tu, cosa ne pensi? Credi che sia solo coincidenza o che ci sia qualcosa di più sotto la superficie?

Il vento della giustizia: perché molti politici stanno in queste ore abbandonando?

In queste ore, da nord a sud del Paese, assistiamo a un fenomeno che sta lasciando molti cittadini perplessi e, in alcuni casi, persino scettici. 
Un numero crescente di politici sta rinunciando ai propri incarichi, spesso senza fornire spiegazioni chiare o convincenti. 
Dimissioni improvvise, annunciate con fredde comunicazioni ufficiali, che lasciano intuire che qualcosa di significativo stia accadendo dietro le quinte del potere.
Cosa si nasconde dietro queste uscite?
Le ipotesi, ovviamente, sono molte. Ma una sembra prevalere: il “vento della giustizia” sta soffiando più forte del solito. 
Indagini giudiziarie, inchieste anticorruzione, pressioni della magistratura e, forse, anche un cambio di rotta nell’atteggiamento dell’opinione pubblica stanno mettendo in difficoltà chi, fino a ieri, sembrava intoccabile. 
Parliamo di politici che hanno costruito le proprie carriere su appoggi familiari, clientelari o, in alcuni casi, su legami con ambienti criminali. Ora, questi stessi personaggi si trovano di fronte a un bivio: resistere e rischiare di essere travolti, oppure abbandonare la scena prima che sia troppo tardi.
Credo che quanto stia accadendo dipenda principalmente da un fattore: la società civile è diventata più consapevole e intollerante verso i privilegi e le ingiustizie. I social media, le inchieste giornalistiche e, in particolare, il lavoro instancabile di blogger indipendenti hanno contribuito a creare un clima di maggiore trasparenza e responsabilità. Questi cosiddetti “cani sciolti” della nostra sosietà, spesso operando in condizioni difficili e rischiose, hanno portato alla luce scandali e irregolarità che altrimenti sarebbero rimasti sepolti nel silenzio.
A tutto questo si aggiunge la pressione delle istituzioni europee e internazionali, che stanno esercitando un controllo sempre più stringente per garantire che i Paesi membri rispettino standard etici e legali più elevati. L’Europa, in particolare, non sembra più disposta a chiudere un occhio di fronte a pratiche opache e illegali.
Ora però… se da un lato queste dimissioni potrebbero rappresentare un segnale positivo di cambiamento, dall’altro è legittimo chiedersi se non siano solo un modo per “salvarsi il c…”, ovvero per evitare conseguenze più gravi. 
Molti credono che queste uscite rappresentino l’inizio di un processo di rinnovamento della classe politica, ma io resto scettico. Temo che quanto stia avvenendo sia soltanto un’operazione di facciata, una manovra per proteggere il sistema esistente e garantire che, una volta passata la tempesta, tutto possa tornare come prima.
In questo contesto, diventa quindi fondamentale mantenere alta l’attenzione e continuare a pretendere trasparenza e rispetto delle procedure da parte dei nostri rappresentanti. La partecipazione attiva alla vita politica non può più essere un optional: è un dovere civico. 
Dobbiamo sostenere le iniziative anticorruzione, diffondere una cultura della legalità e fare pressione affinché le istituzioni agiscano nell’interesse pubblico, non di pochi privilegiati.
Solo così possiamo garantire che questo “vento della giustizia” non si trasformi in una semplice brezza passeggera, ma diventi finalmente una forza duratura, capace di portare a un cambiamento definitivo. 
Il futuro del nostro Paese dipende da noi, dalla nostra capacità di non abbassare la guardia e di lottare per un sistema più giusto e trasparente.

Certe inchieste non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano…

Sì, come la canzone di Antonello Venditti, anche la Giustizia fa lo stesso. E come riporta quel testo, “ma amici mai“, infatti non ci si dimentica. Proprio come quell’amore, prima o poi ritorna.
C’è una verità che spesso viene sottovalutata: nessuna storia d’amore può considerarsi al sicuro per sempre. Già, perché c’è sempre qualcosa, qualcuno che può ribaltare quella certezza.
La stessa cosa vale per le inchieste giudiziarie. Sì, anche quelle che ci sembrano concluse possono improvvisamente riaprirsi, riportando alla luce fatti e responsabilità che si credevano sepolti.
Nuove prove emergono, testimonianze inedite vengono alla luce, errori procedurali vengono corretti, e ciò che sembrava un punto finale può trasformarsi in un nuovo inizio.
La giustizia è come un fiume che scorre: a volte lento, troppo lento, a volte impetuoso. Ma una cosa è certa: non si ferma mai!
Per cui, chi è stato assolto in passato non può dormire sonni tranquilli, perché la legge ha una memoria lunga, ma soprattutto, è chi pensa di essere al di sopra di ogni sospetto che dovrebbe ricordare: nessuno è veramente al sicuro finché la verità non ha fatto completamente il suo corso.
Certo, per esperienza posso affermare che la giustizia può metterci tempo. Può sembrare distratta, distaccata, a volte persino indifferente. Ma prima o poi, ecco che ritorna. E quando lo fa, non guarda in faccia a nessuno.
Ecco perché nessuno può considerarsi definitivamente tranquillo. Basta osservare quanto sta accadendo in questi giorni: quel “dire non dire“, quei messaggi subliminali, mi sembra di essere dentro al testo di Venditti: “fanno dei giri immensi e poi ritornano“. 
E qui sembra la stessa cosa: la giustizia ha deciso di bussare nuovamente a quella porta!

Siracusa: Mafia e affari sporchi, favori in cambio di voti.

L’inchiesta dei Carabinieri del Nucleo Investigativo di Siracusa, ha portato alla luce un sistema di scambi illeciti tra politica e criminalità organizzata. 

Al centro delle indagini emerge un patto tra esponenti politici e gruppi mafiosi, basato sulla promessa di favori in cambio di sostegno elettorale.

Secondo le ricostruzioni investigative, un ex sindaco avrebbe stretto un accordo con un clan mafioso in vista delle elezioni amministrative. 

In cambio del sostegno elettorale, l’ex primo cittadino avrebbe offerto denaro e favori, tra cui la promessa di interventi per favorire la scarcerazione di un detenuto legato alla cosca e il pagamento delle spese legali necessarie.

Le intercettazioni telefoniche hanno rivelato che l’ex sindaco avrebbe versato del denaro come anticipazione per i voti promessi. Il clan, viceversa, avrebbe supportato la sua candidatura attraverso azioni mirate, come la pressione sugli elettori e la gestione della comunicazione sui social media per contrastare i critici.

Nonostante questi sforzi, la candidatura dell’ex sindaco si è conclusa con una netta sconfitta. Tuttavia, il caso ha messo in luce l’ennesimo meccanismo perverso di scambio tra politica e mafia, che mina alla base la democrazia e la fiducia nelle istituzioni.

Questa vicenda, insieme alle altre che proprio in questi giorni sono state portate alla luce, rappresentano un esempio emblematico di come la criminalità organizzata cerchi di infiltrarsi nelle amministrazioni locali, utilizzando il voto di scambio come strumento per consolidare il proprio potere.

Tuttavia, proprio in questa oscurità, si accende una luce di speranza…

Gli sviluppi futuri delle inchieste potrebbero rivelare ulteriori connessioni, evidenziando la necessità di un impegno costante per contrastare queste forme di corruzione e illegalità. Sì… è proprio nella lotta senza sosta contro queste pratiche illecite che si costruisce un futuro più giusto e trasparente, dove la democrazia possa fiorire libera dalle ingerenze criminali.