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Le notizie riportate sui social sono come fili invisibili: quando le nostre opinioni non sono davvero nostre!

Oggi più che mai mi ritrovo a pensare a quanto siamo immersi in una rete di condizionamenti sottili e pervasivi che plasmano le nostre opinioni, spesso senza che ce ne accorgiamo. 

Viviamo in un mondo in cui ogni sistema sociale sembra aver imparato a mascherare i propri obiettivi dietro ciò che appare come spontaneo desiderio individuale, quasi come se fossimo guidati da fili invisibili che ci fanno muovere in una direzione precisa. 

Ciò che colpisce è la capacità di queste strutture di farci percepire le loro esigenze come nostre motivazioni personali, convincendoci che ciò che serve al sistema sia in realtà ciò che vogliamo davvero.

A volte questo processo avviene in modo palese, attraverso strumenti che chiamiamo educazione civica o formazione ideologica, dove i valori di un sistema vengono presentati come universali e imprescindibili. 

Altre volte, invece, tutto accade in maniera più subdola, con modelli di comportamento che ci vengono trasmessi indirettamente, quasi per osmosi, finché non diventano parte delle nostre abitudini quotidiane. 

Questi schemi, una volta assimilati, ci portano a risolvere i problemi e a prendere decisioni in modi che favoriscono la stabilità e la riproduzione del sistema stesso, senza che ci poniamo troppe domande sul perché lo facciamo.

Quello che emerge è un quadro inquietante, in cui il confine tra libero arbitrio e condizionamento diventa sempre più sfumato. Riflettendoci, mi chiedo quanto spesso le nostre opinioni siano davvero frutto di un ragionamento autonomo e quanto invece siano influenzate da chi detiene il potere politico o economico. 

È difficile non vedere come le grandi narrazioni, i messaggi mediatici e le tendenze culturali dominanti siano strumenti potentissimi per orientare le masse in una direzione precisa, spesso a nostro discapito. 

Eppure, continuiamo a credere di essere noi gli artefici delle nostre scelte, mentre in realtà siamo spesso pedine inconsapevoli di giochi molto più grandi. Forse è arrivato il momento di fermarci a riflettere su quanto siamo disposti ad accettare passivamente queste influenze. 

Dobbiamo imparare a guardare oltre le apparenze, a interrogarci sulle origini delle nostre convinzioni e a chiederci se davvero rispecchiano ciò che siamo o se sono solo il riflesso di una strategia ben orchestrata per mantenere lo status quo. 

Solo così potremmo cominciare a riprenderci un briciolo di autenticità in un mondo sempre più condizionato da interessi che non coincidono con i nostri.

Ferrovie dello Stato – ‘LAVORA CON NOI’: Sì, ma solo se sei raccomandato!

Alcuni giorni fa ho ricevuto un link per candidarmi a una posizione presso Ferrovie dello Stato. 
Quanto sopra mi ha riportato alla mente un avvenimento che ho vissuto anni fa, esempio lampante di come, spesso, il sistema delle raccomandazioni prevalga sul merito. 

Oggi quindi voglio raccontare quell’esperienza, alla quale purtroppo ho partecipato in prima persona, ma di cui ho sempre avuto forti sospetti. Sin dall’inizio, ho pensato che quanto accaduto fosse stato architettato in modo preciso, quasi “chirurgico”, da qualcuno che voleva evitare la mia presenza a un processo penale in cui ero chiamato come testimone dell’accusa.

E ora vi racconto cosa è successo.

Mi fissano l’appuntamento alle 14:30, ben sapendo che da Catania a Palermo ci vogliono tre ore di auto. Questo orario, ovviamente, mi ha impedito di presenziare al processo.

Avevo già il sospetto che si trattasse di una “stronzata”, e infatti ho chiesto a mia moglie di accompagnarmi. Sì… almeno avrei potuto trascorrere la giornata andando a pranzo insieme, cosa che abbiamo fatto, recandoci al ristorante “Lo Strascino” in Via della Regione (un mio caro amico palermitano mi ha detto l’anno scorso che purtroppo ha chiuso…). La mattinata è quindi passata tra pasta con i ricci, pesce freschissimo e dolci deliziosi.

Comunque, all’orario prestabilito, mi presento. Il “Vigilantes” posto in portineria ahimé non sapeva nulla della convocazione, ma soprattutto non sapeva dove indirizzarmi. Allora ha chiesto in giro ad alcuni impiegati che stavano rientrando dalla pausa pranzo, ma nemmeno loro hanno saputo aiutarlo. Avendo comunque il nominativo dell’ufficio, ho chiesto gentilmente di poter entrare, richiesta che mi è stata concessa.

Inizio a girovagare all’interno di quegli enormi palazzi, quando finalmente trovo una persona che mi indirizza verso l’ufficio riportato nella nota. Raggiungo lo stabile, ma l’ingresso è chiuso e in portineria non c’era nessuno. Suono il citofono e, dopo alcuni minuti, mi risponde una signora che mi apre. Appena salgo le scale, spiego il motivo per cui sono lì, e lei mi chiede di attendere perché non sapeva nulla di quell’appuntamento.

Nel frattempo, sento aprire il portone da cui ero entrato e vedo salire due persone, anch’esse senza sapere dove andare. Spiego loro perché sono in attesa, e mi confermano di essere lì per lo stesso motivo.

Finalmente ritorna la signora di prima, che ci accompagna al quarto piano, dove (forse) un ingegnere – non ricordo il nome – ci riceve. Passa circa mezz’ora, sono quasi le 14:30, e nel frattempo si uniscono al gruppo altre tre persone: due donne e un uomo.

Si inizia a parlare, e alcuni di loro non capiscono perché siano stati chiamati. Ascoltando le loro storie e le mansioni che avevano svolto fino a quel momento, anche io mi sono chiesto: “Nicola, ma cosa cazzo ci fai qui?”.

Erano tutti di Palermo, e l’ingegnere che ci aveva ricevuto sembrava piuttosto sorpreso di vedermi lì. Avevo l’impressione che non si aspettasse la mia presenza, quasi fossi un intruso. Una cosa, però, la sapeva bene: che ero di Catania e che, di conseguenza, avrei dovuto affrontare il rientro in auto. Mi aspettavo, almeno, di essere ricevuto per primo, considerando che ero arrivato prima degli altri. In fondo, sarebbe stato logico, soprattutto per permettermi di ripartire con la luce del giorno e non dover guidare al buio. Invece, con mia grande sorpresa, mi fecero aspettare e fui l’ultimo a essere ricevuto. Una scelta che trovai strana, quasi inspiegabile, e che mi lasciò con un senso di frustrazione.

Nell’attesa, avevo iniziato a chiacchierare con gli altri candidati, scoprendo un po’ delle loro storie. Uno di loro si occupava di cucina, un altro faceva le pulizie, c’era chi era stato disoccupato fino a quel momento e una ragazza che lavorava come badante. Degli altri due, invece, non ricordo nulla di particolare. Mentre ascoltavo le loro esperienze, mi sono ritrovato a pensare: “Nicola, ma cosa cazzo ci fai qui?”. Era una domanda che mi ronzava in testa, un misto di incredulità e disagio, come se fossi finito in un posto che non mi apparteneva.

Finalmente, verso le 18:00, arrivò il mio turno. Durante l’attesa, però, una cosa in particolare aveva catturato la mia attenzione. Tra le 16:00 e le 16:30, mentre aspettavo nella saletta con la porta aperta, notai un continuo viavai di dipendenti che entravano e uscivano da una stanza accanto. Ogni volta che mi vedevano, mi salutavano con educazione, e io ricambiavo con un cenno del capo. Tra tutti, ricordo vividamente una signora che si avvicinò con gentilezza e mi chiese chi stessi aspettando. Le spiegai il motivo della mia presenza, e lei, con un sorriso caloroso, mi disse: “Spero che entri a far parte del Gruppo FS, così potremo collaborare”. Quelle parole, così semplici ma sincere, mi colpirono profondamente. In una giornata che fino a quel momento era stata piuttosto grigia, quella frase fu come un raggio di luce, un momento di calore umano che ancora oggi porto con me.

Sì, dopo tanti anni, di tutto quell’ambiente, ricordo ancora quella sua frase. Perché, per il resto, avevo cancellato dalla mia mente tutto di quella giornata. Ma in qualche modo, la sua gentilezza ha rappresentato l’unica nota positiva di quel contesto arido.

Ah, dimenticavo (parlando della misteriosa stanza): finalmente un impiegato si avvicina e mi conferma che a breve verrò chiamato. D’altronde, ero rimasto l’unico candidato. Alzandomi, gli chiesi se prima di entrare potevo approfittare della stanza accanto per prendermi un caffè. Ed ecco che improvvisamente quell’impiegato – sorridendo – mi apre quella porta, rivelando che all’interno non c’era alcun distributore automatico, ma solo un lettore di badge per convalidare l’orario di lavoro, in entrata e in uscita.

Ah… ora capisco quel viavai di persone intorno alle 16:00: erano lì in fila indiana perché avevano finito il proprio turno!

Mentre attendevo di entrare, ripensavo a quel malinteso, ma soprattutto riflettevo su quanto fosse realmente accaduto. E il mio pensiero non poteva che andare a me stesso, all’incarico che svolgevo in quel periodo come responsabile della Sicurezza, Qualità e Ambiente per un’affidataria di un appalto all’interno del gruppo We Build. Già… Iniziavo in cantiere alle 6:30 e finivo solitamente in ufficio la mia giornata non prima delle 20:00 o 21:00.

E allora, ancora prima di entrare al colloquio, mi sono nuovamente ripetuto: “Nicola, ma cosa cazzo ci fai qui? Lo sai che non è posto per te!”.

Comunque, alla fine, entro, faccio il colloquio, presento il mio CV con le mie qualifiche, referenze ed esperienze nei lavori ferroviari, tra cui alcuni progetti svolti anni prima proprio a Palermo. L’ingegnere con cui colloquio è estremamente sorpreso e, forse per mettermi alla prova, mi chiede con chi avessi collaborato. Gli faccio alcuni nomi, e lui, nel dubbio, mi dice che sono suoi amici intimi. Allora prende il telefono e li chiama. Ovviamente, dall’altra parte del ricevitore, gli interlocutori (di cui non faccio i nomi, ma che ringrazio per le belle parole espresse) non solo confermano quanto dichiarato nel mio CV, ma esprimono sorpresa nel sapere che io fossi lì. Uno di loro scherza persino: “Non credo proprio che verrà… costa troppo!”.

Alla fine, tra saluti e convenevoli di circostanza, qualcuno mi dice che forse sono troppo qualificato per la posizione che avrei dovuto ricoprire e che certamente non era quello che desideravo o che rientrava nelle mie aspettative. In particolare, secondo la persona a cui avrei dovuto eventualmente sottostare, il rischio di affidare a me quel ruolo poteva rivelarsi un boomerang, perché probabilmente avrei potuto dare improvvisamente le dimissioni, costringendo così tutto lo staff a riattivarsi nella ricerca di un nuovo candidato.

Ritorno a casa e, come mi aspettavo, nei giorni seguenti nessuno – a dimostrazione dell’alta professionalità organizzativa – mi ha più fatto sapere nulla: né per iscritto, né tantomeno attraverso vie informali.

La verità? Nessuno voleva che io fossi lì quel giorno! Né chi aveva inviato la convocazione, né quei soggetti che hanno visto in me un potenziale collega difficile da sottomettere e poco disposto a mediare. Soprattutto, non volevano qualcuno disposto a dare a quella società ciò che loro, fino a quel momento, non avevano dato o quantomeno apportato. Del resto, come ripeto spesso, cosa si può chiedere a chi è stato sicuramente “raccomandato“?

Concludo dicendo che questa esperienza mi ha fatto riflettere profondamente su un problema che affligge non solo il mondo del lavoro, ma l’intera nostra società: il sistema delle raccomandazioni. Non è solo un problema per chi cerca lavoro, ma è un cancro che corrode la fiducia nelle istituzioni e nel futuro. Come ha detto qualcuno: “Quando il merito muore, muore anche la speranza di un futuro migliore.

Ci sono individui che godono nell’essere raccomandati, senza rendersi conto del danno che causano. Non solo apportano un basso livello di competenza e professionalità, ma tolgono anche il giusto merito a chi, invece, ha dimostrato di essere migliore attraverso anni di studio, sacrifici e dedizione.

Il raccomandato spesso non ha nulla da offrire se non la propria “impreparazione” e “incompetenza”, e questo crea un circolo vizioso in cui il merito viene messo in secondo piano. È un problema grave che danneggia non solo le aziende private, ma anche gli enti pubblici e quindi l’intera società, perché premia l’ingiustizia e scoraggia chi, viceversa, potrebbe davvero fare la differenza.

E allora, mi chiedo: quando smetteremo di accettare questo sistema infetto? Quando capiremo che il merito deve essere l’unico criterio per accedere a un lavoro o a una posizione?

Perché fintanto che continueremo a tollerare le raccomandazioni, non faremo altro che perpetuare un sistema che premia la mediocrità e penalizza l’eccellenza. E questo, purtroppo, è un problema che va ben oltre Ferrovie dello Stato.

Già… come quella barzelletta: copriamolo quel malaffare, prima che ci venga rovinata la festa!!!"

Quante volte ci siamo chiesti come sia possibile che il malaffare, la corruzione e la criminalità organizzata riescano a prosperare così facilmente?
La risposta, purtroppo, è più semplice di quanto si possa immaginare: perché questo sistema marcio serve a molti!
Sì, serve a tantissimi individui che, in un modo o nell’altro, ne traggono vantaggio, chiudendo un occhio (o entrambi) di fronte all’illegalità e all’immoralità di ciò che accade.
Iniziamo ad esempio con la casta dei politici….
Sì…. quanti di loro, in cambio di favori, licenze, appalti, permessi o quant’altro, ricevono voti? È un gioco sporco, ma purtroppo ben oliato. La criminalità organizzata offre sostegno elettorale, garantendo preferenze e voti di scambio, e in cambio ottiene protezione, appalti pubblici e la possibilità di operare indisturbata. È un circolo vizioso che si autoalimenta, e alla fine chi ci rimette è sempre la collettività.
Poi vi sono i dirigenti, i funzionari, i responsabili, i direttori dei lavori e via discorrendo…

Ditemi, quanti di loro ricevono mensilmente mazzette per chiudere un occhio su irregolarità o per favorire determinate imprese a scapito di altre? Ad esempio, far passare pratiche che altrimenti non passerebbero, oppure, per valutare come corrette esecuzioni di lavori o forniture che ben sappiamo non esserlo. Molti di loro sono ingranaggi fondamentali di questo sistema corrotto, che si arricchisce ahimè sulla pelle dei cittadini onesti.

Ma non dimentichiamo taluni professionisti: Quanti tra loro, pur sapendo di star lavorando per clienti poco “limpidi“, continuano a farlo, ripetendosi, per pulirsi la coscienza: “È semplicemente lavoro”. Nel frattempo, però, tanto per non allontanarsi troppo dalle modalità utilizzate da quei loro particolari clienti, le parcelle non vengono fatturate e le somme vengono riscosse in contanti!
A questi si aggiungono i peggiori: gli ignavi e i corrotti, coloro che si girano dall’altra parte o fingendo di non vedere da dove arrivano i soldi (solitamente “sporchi”) li mettono nelle loro tasche. D’altronde, si sa… i conti correnti bancari sono controllati!
Ed infine, ci sono ahimè anche i cittadini. Ditemi, quanti accettano posti di lavoro offerti dalla malavita, pur sapendo di aver a che fare con individui non certo trasparenti (quantomeno non nei propri “casellari giudiziari” o in quei cosiddetti “carichi pendenti”), ma si sa, pur di portare a casa uno stipendio, chiudono gli occhi. E poi, quando arriva il momento delle elezioni, ecco che si ricambia il favore ricevuto con le preferenze elettorali (proprie e dei loro familiari), distribuite (come da comando impartito da quel loro titolare, il più delle volte celato dietro una “testa di legno”) ai politici di turno: un gioco di scambi che sembra non finire mai!
La circostanza assurda è che sono in molti a ergersi a cittadini onesti o a persone perbene, ma la verità è che viviamo in un sistema colluso e corrotto che si regge, per l’appunto, sulla complicità di tutti!
Già… proprio come la barzelletta che sto per raccontare:
Il marito trova la moglie a letto con l’amante e, preso dall’ira, decide di ucciderli entrambi. Va in soggiorno, prende il fucile con cui va a caccia ed entra in camera da letto. L’amante, nudo e spaventato, chiede perdono, ma il marito è deciso a non fermarsi e punta l’arma. A questo punto, la moglie gli si para davanti e gli dice: “Ma che stai facendo? A chi vuoi sparare? Sei un cretino!”.
Il marito rimane sorpreso e perplesso. “Ah… sarei pure un cretino?”, e ripunta l’arma sull’uomo nudo, ora alle spalle della moglie.
”, dice la moglie, “sei un cretino, e ora ti spiego il motivo! Secondo te, chi ha pagato quest’estate le nostre vacanze al resort a Tenerife?”.
Chi…?”, dice il marito.
Questo signore qua dietro!”, risponde la moglie.
E chi ha comprato il fuoristrada con cui vai a caccia?”.
Chi…?”, chiede di nuovo il marito.
Sempre questo signore!”, dice la moglie.
E chi paga l’affitto della casa, i costi per l’energia e tutte quelle altre spese mensili?”.
Sempre questo signore?”, chiede ora il marito.
Sì, cretino!”, risponde la moglie, “e anche il fucile che hai in mano, lo ha comprato questo signore!!!”.
Ma allora…”, dice ora il marito premuroso, “coprilo prima che si raffreddi!”.
Ecco, questa barzelletta rappresenta perfettamente il meccanismo perverso che si nasconde dietro al malaffare.
Tutti coloro che ne approfittano, che chiudono un occhio, che si voltano dall’altra parte, sono come quel marito: pronti a coprire il sistema corrotto, pur di continuare a godere dei suoi “benefici”. Ma fino a quando? Sì… fino a quando continueremo a permettere che questo sistema ci divori?
È ora di dire basta. È ora di smettere di coprire quel malaffare, prima che sia troppo tardi. Prima che si perda… quantomeno, quel po’ di dignità che ancora resta!

Vi sono notizie che preferirei non leggere…

Purtroppo, quanto temevo è accaduto… 
Sì… una nuova inchiesta, relativa a una maxi-truffa ai danni di una banca, ha portato a un’operazione coordinata dalla Procura della Repubblica e dai finanzieri del Comando Provinciale di Catania. 
Questi hanno eseguito un’ordinanza del Giudice per le Indagini Preliminari, che ha disposto il sequestro preventivo – diretto e per equivalente – di somme e beni per un valore di circa 1,4 milioni di euro. 
Le indagini coinvolgono 15 persone, a vario titolo accusate di associazione per delinquere, truffa e autoriciclaggio aggravato.
Purtroppo, vi sono notizie che preferirei non leggere e questa è una di quelle. Perché? Perché quando trovi il nome di una persona che conosci, qualcuno con cui hai condiviso da ragazzo momenti di spensieratezza, beh… ti assale un senso di impotenza. Ti chiedi se, forse, stargli più vicino avrebbe potuto cambiare il corso della sua vita.
Certo, il più delle volte noi c’entriamo poco con ciò che accade, ognuno d’altronde sceglie la propria strada e decide come vivere e affrontare le sfide della vita. Nessuno può imporre scelte agli altri, né assumersi la responsabilità delle decisioni altrui. 
Eppure, quando leggi di amici o conoscenti che hai perso di vista – magari a causa di incidenti stradali, per l’uso di sostanze stupefacenti, alcol o di altre circostanze tragiche e/o gravi – anche perché la tua professione ti ha condotto lontano dalla tua città, beh… non si può fare a meno di cercare una spiegazione. Una ragione che, purtroppo, sai già non esistere.
Oggi, per me, è uno di quei giorni. Sento un profondo dispiacere per quanto ho letto. La speranza, ovviamente, è che si tratti di un errore di persona, un malinteso. Già… ci si aggrappa a questa possibilità, pur sapendo che, spesso, le cose accadono perché, in qualche modo, sono state cercate.
Ma a chi dare la colpa? Alla società? Al consumismo sfrenato? A quel desiderio insaziabile di possedere sempre di più, anche quando non ve n’è bisogno? Mio padre diceva sempre: “Non serve a nulla, tanto più di questo piatto di pasta non posso mangiare”. E aveva ragione. Eppure, sembra che molti di noi non riescano a fermarsi, spinti da un’insoddisfazione che li porta a cercare sempre qualcosa di più, spesso oltre quel limite consentito dalle leggi.
E allora, cosa fare? Come reagire di fronte a notizie come queste? Forse, l’unica cosa che possiamo fare è riflettere. Riflettere sulle nostre scelte, sui nostri valori, su ciò che davvero conta nella vita. E, forse, cercare di essere presenti per chi ci sta accanto, anche quando sembra non volerlo. Perché a volte, un gesto di vicinanza, una parola di conforto, possono fare la differenza.
Oggi, però, non riesco a non sentire un peso sul cuore. Perché dietro a questa notizia c’è un volto, un nome, una storia che conosco. E non importa quanto cerchi di razionalizzare, il dispiacere rimane.
Forse, il vero messaggio che voglio condividere con voi è questo: non diamo per scontato le persone che abbiamo accanto. Viviamo in un mondo che ci spinge a correre, a raggiungere obiettivi, a possedere sempre di più. Ma alla fine, ciò che conta davvero sono le relazioni, i legami, i momenti condivisi…
E se oggi sono triste per quanto accaduto, è perché so che, in qualche modo, tutti noi abbiamo una responsabilità: quella di prenderci cura gli uni degli altri, anche quando sembra difficile.

Vorrei quindi concludere auspicando che quanto ho letto rappresenti solo un brutto sogno. Spero di svegliarmi e scoprire che tutto è passato, che quell’amico di cui ho letto il nome possa tornare alla sua vita, alla sua famiglia, ai suoi familiari, lasciandosi alle spalle questa brutta esperienza.
So che la realtà è diversa, che le cose non si risolvono magicamente. Ma è proprio in momenti come questi che ci aggrappiamo alla speranza, a quella piccola luce in fondo al tunnel che ci ricorda che, nonostante tutto, c’è sempre la possibilità di un nuovo inizio.
Forse, questo è anche un invito a non arrendersi mai, a credere che anche dopo gli errori più grandi ci sia spazio per il riscatto. E se c’è una cosa che posso fare, è sperare che il mio amico trovi la forza di rialzarsi, di guardare avanti e di ricostruire ciò che è stato compromesso.
Perché alla fine, ciò che conta davvero non è ciò che abbiamo perso, ma ciò che possiamo ancora salvare. E se c’è una lezione che possiamo trarre da tutto questo, è che nessuno dovrebbe essere lasciato solo ad affrontare le proprie battaglie.

Sanremo: il premio della critica a Simone Cristicchi con "Quando sarai piccola", mentre a vincere il Festival è…

Che bel testo! 
Simone Cristicchi ha una capacità straordinaria di toccare le corde più profonde dell’anima con parole semplici ma cariche di significato. 
La sua canzone, dedicata alle madre e alla sua malattia, è un inno all’amore, alla cura e alla memoria, temi universali che risuonano in chiunque abbia vissuto o stia vivendo un’esperienza simile. 
La delicatezza con cui affronta il tema del tempo che passa, della memoria che sfuma e dell’amore che resiste è davvero commovente.
Ora, passando ai possibili finalisti di Sanremo 2025, è interessante notare come il sottoscritto abbia analizzato ogni artista con un occhio critico, ma rispettoso, ed alla fine dopo non poche riflessioni, ho pensato che gli artisti che seguono potrebbero far parte dei vicitori:
Simone Cristicchi: La sua canzone è bellissima ma potrebbe non vincere. Spesso a Sanremo non è solo la qualità della canzone a determinare la vittoria, ma anche l’interpretazione, il carisma dell’artista e il momento giusto. Se cantata da un interprete più “tradizionalmente” potente come Ranieri o Jovanotti, avrebbe forse avuto un impatto diverso, ma Cristicchi ha il merito di essere autentico e sincero, e questo è un valore aggiunto.
Giorgia: Lei è una forza della natura, una delle voci più potenti e riconoscibili della musica italiana. Forse la canzone è un po’ troppo ripetitiva ed assomiglia – forse mi sbaglio – ad una nota canzone del grande Lucio Dalla; questo potrebbe rappresentare un limite, ma la sua classe e il suo carisma dovrebbero comunque portarla lontano. Arisa sarebbe stata un’ottima rivale, ma purtroppo non è in gara quest’anno…
Achille Lauro: Finalmente ha colto bene il suo percorso di crescita artistica. Dopo anni di provocazioni e sperimentazioni, sembra aver trovato un equilibrio, tra stile e sostanza. La sua eleganza e la maturità artistica potrebbero finalmente premiarlo, anche se il testo, avrebbe avuto bisogno di un ritocco in più.
Fedez: Il suo seguito tra i giovani è indiscutibile, e il televoto potrebbe favorirlo. Tuttavia, di presenza la canzone perde qualcosa, mentre viceversa ascoltata su “youtube” migliora molto, forse anche grazie all’uso di autotune e di alcuni effetti speciali che dal vivo non si percepiscono; ciò purtroppo limita e quindi distoglie l’attenzione dalle belle parole della canzone. Fedez ha il potenziale per vincere, ma deve convincere anche il pubblico più tradizionale.
Lucio Corsi: La sua canzone tocca un tema importante e delicato, e il coraggio di affrontarlo con sincerità è ammirevole. 
Permettetemi di aprire una parentesi: la canzone e le parole sono toccanti e affrontano un grave problema tra i giovani; riprendono il comportamento meschino compiuto da taluni soggetti che si ritengono dei “leader” solo perché un gruppo di menomati, uniti sotto il nome di “branco”, si fanno forti quando sono insieme, viceversa, presi ciascuno da soli, si dimostrano dei codardi, evidenziando gravi problemi familiari e soprattutto personali.
Difatti, è solo attraverso la prevaricazione nei confronti dei propri coetanei o di soggetti fragili, che questi  riescono a manifestare tutta la loro violenza fisica e verbale, che sappiamo bene viene caratterizzata con abituali molestie e aggressività di tipo minaccioso.
Corsi in questa sua canzone ha il coraggio di metterci la faccia e soprattutto la propria debolezza, senza nasconderla, esprimendo anche quel desiderio represso di “esser un duro“. La musica è leggera e segue senza pretese una perfetta linearità, proseguendo: come un gioco da ragazzi…
Vincere… non credo sarà facile, ma potrebbe essere certamente una sorpresa inaspettata e direi anche meritata!!!
Comunque, anche se potrebbe non vincere, il suo messaggio lascia un segno profondo, e questo è già una vittoria in sé.
In definitiva, Sanremo è sempre una sorpresa, e spesso la canzone che vince non è necessariamente la più bella, ma quella che riesce a catturare l’attenzione del pubblico e della giuria in quel preciso momento. Chissà, forse quest’anno ci potrebbe anche essere una sorpresa inaspettata…
E allora, nel riportare di seguito le bellissime parole del testo della poesia di Cristicchi, penso che alla fine uno degli artisti citati sopra potrebbe essere il nome del vincitore del Festival di Sanremo 2025.

Quando sarai piccola ti aiuterò a capire chi sei,

ti starò vicino come non ho fatto mai.

Rallenteremo il passo se camminerò veloce,

parlerò al posto tuo se ti si ferma la voce.

Giocheremo a ricordare quanti figli hai,

che sei nata il 20 marzo del ’46.

Se ti chiederai il perché di quell’anello al dito

ti dirò di mio padre ovvero tuo marito.

Ti insegnerò a stare in piedi da sola, a ritrovare la strada di casa.

Ti ripeterò il mio nome mille volte perché tanto te lo scorderai.

Eeee… è ancora un altro giorno insieme a te,

per restituirti tutto quell’amore che mi hai dato

e sorridere del tempo che non sembra mai passato.

Quando sarai piccola mi insegnerai davvero chi sono

a capire che tuo figlio è diventato un uomo.

Quando ti prenderò in braccio

e sembrerai leggera come una bambina sopra un’altalena.

Preparerò da mangiare per cena, io che so fare il caffè a malapena.

Ti ripeterò il tuo nome mille volte fino a quando lo ricorderai.

Rip. ritornello

per restituirti tutto, tutto il bene che mi hai dato.

E sconfiggere anche il tempo che per noi non è passato.

Ci sono cose che non puoi cancellare,

ci sono abbracci che non devi sprecare.

Ci sono sguardi pieni di silenzio

che non sai descrivere con le parole.

C’è quella rabbia di vederti cambiare

e la fatica di doverlo accettare.

Ci sono pagine di vita, pezzi di memoria

che non so dimenticare.

Rip. ritornello

per restituirti tutta questa vita che mi hai dato

e sorridere del tempo e di come ci ha cambiato.

Quando sarai piccola ti stringerò talmente forte

che non avrai paura nemmeno della morte

Tu mi darai la tua mano,

io un bacio sulla fronte

Adesso è tardi, fai la brava

buonanotte.

Dal silenzio del passato all’azione nel presente

Sento in questi mesi paragonare il genocidio della Shoah all’attuale questione palestinese.

Perdonatemi, ma chiunque possieda una mente libera e quindi incondizionata non potrà – leggendo le prossime righe – giungere alle mie stesse riflessioni.

Pensare anche soltanto di paragonare la “soluzione finale” – lo sterminio sistematico e premeditato degli Ebrei in tutta Europa, perpetrato da menti malate naziste – è profondamente sbagliato. Un crimine, per come è stato progettato e perpetrato, disumano, che non colpì solo gli Ebrei, ma anche Rom, persone con disabilità, oppositori politici, scrittori, omosessuali e tanti altri considerati “indesiderabili”. Una ferita indelebile nella storia dell’umanità, un abisso morale da cui non ci siamo mai completamente risollevati e che ha segnato per sempre la nostra coscienza collettiva.

Ciò che accadde allora non può né deve mai essere giustificato. E il solo pensiero di paragonare quella tragedia alla questione palestinese è, a mio avviso, inappropriato.

Sebbene ciò che sta accadendo in questi mesi in Palestina possa essere definito una strage di innocenti, e in alcuni casi un crimine contro l’umanità, trovo pericolosi i parallelismi tra Nakba e Shoah che proprio alcuni illustri storici vorrebbero in queste ore riproporre.

Premesso che ogni violenza, specialmente contro donne e bambini, è sempre abominevole, tuttavia, non si possono mettere sullo stesso piano due tragedie di natura e contesto così diversi. Questo non significa negare la gravità di quanto sta accadendo oggi, ma è essenziale mantenere un linguaggio preciso e rispettoso della storia.

Voglio sottolineare che il mio intento non è sminuire l’una tragedia rispetto all’altra. Entrambe meritano attenzione: la Shoah per l’eredità storica e morale che ci ha lasciato, e la questione palestinese per l’urgenza di una soluzione che tuteli i diritti umani di tutte le persone coinvolte.

Ciò che invece lascia perplessi è l’uso politico della Shoah contro i palestinesi, quando è storicamente noto che quest’ultimi non hanno avuto alcun ruolo in quella tragedia. Non furono responsabili dell’antisemitismo né del Nazismo, eppure oggi si trovano a subire un’oppressione sistematica da parte di chi, più di ogni altro, dovrebbe conoscere il valore del rispetto per la vita umana.

Perché, allora, non imparare dal passato? Sì… diversamente da 80 anni fa, quando si preferì tacere, è nostro dovere intervenire con urgenza per trovare una soluzione, giusta e definitiva, per il popolo palestinese.

FINE PRIMA PARTE 

L’aldilà? È come l’aldiquà!!!

Sono passati millenni, eppure l’uomo è ancora qui a chiedersi cosa ci sia dopo la morte. Abbiamo assistito a innumerevoli tentativi di raggiungere l’oltretomba, costruendo strutture imponenti che dovevano toccare il cielo, e a secoli in cui l’uomo, per colpa delle religioni, si è trovato intrappolato in una rete di falsità, tutte finalizzate a promuovere un’immagine di paradiso.

Il messaggio che è passato è chiaro: il modo in cui avrai vissuto la tua vita su questa terra determinerà il tuo destino dopo la morte. Sarai giudicato e, in base a questo, scoprirai se potrai continuare a vivere in un luogo sublime, meraviglioso, perfetto. Naturalmente, le interpretazioni cambiano da religione a religione, ma il contenuto resta sostanzialmente lo stesso.

E allora, senza poter confermare quanto sto per dire, ma sapendo che nessuno di voi può smentirmi, mi permetto di formulare un’ipotesi. Quello che sto per esporre è semplice da comprendere e si articola in tre possibili scenari, completamente indipendenti dalle narrazioni religiose più comuni.

Prima ipotesi

La prima è la più lineare: morendo, tutto si trasforma in energia e non c’è alcuna vita dopo la morte. La nostra esistenza termina con l’ultimo respiro, e ci fondiamo con il cosmo in una forma impalpabile.

Seconda ipotesi

La seconda ipotesi immagina che, dopo la morte, il nostro spirito vaghi in un luogo di totale oblio. Un posto dove non esiste nulla: non ci si parla, non si ride, non si scherza, non si ama. È un’esistenza sterile, in cui ognuno di noi è come uno zombi, circondato da anime di ogni epoca. È un’eternità vuota, priva di emozioni e interazioni.

Terza ipotesi

La terza ipotesi prevede che tutti, senza distinzioni, vivano insieme in un unico luogo. Non importa come ci si è comportati nella vita terrena: che tu sia stato una bestia feroce o un missionario, ora sei lì, accanto a tutti gli altri. Non ci sono più abusi, violenze o gesti premurosi; tutto è sospeso in un’eterna neutralità.

In questo scenario, potresti incontrare personaggi come Hitler, Stalin o Pol Pot intenti a conversare con Papa Giovanni XXIII o John Lennon, seduto su una panchina con la sua chitarra, accanto al serial killer Jeffrey Dahmer. Nessuno è stato giudicato per le sue azioni: è come se, nell’aldilà, esistesse una forma di riconciliazione universale. Una sorta di tempo infinito per fare i conti con se stessi, al di là del bene e del male.

E allora, forse, è proprio questo ciò che ci aspetta: un aldilà che non è altro che un aldiquà. Un riflesso della vita terrena, senza le illusioni di giudizi divini o promesse ultraterrene. Solo una perpetua coesistenza.

Che sia questa la risposta che cercavamo?

Come la reclusione può scardinare il sistema del silenzio.

La detenzione, soprattutto se improvvisa, rappresenta uno spartiacque nella vita di chi, abituato al comfort del proprio status, si ritrova catapultato in una realtà completamente estranea. 

Pentirsi, raccontare ciò che è accaduto nel corso della propria carriera, elencare i nomi e le dinamiche di un sistema che ha permesso l’ascesa e garantito privilegi: tutto questo diventa un’opzione concreta. Un’opzione dettata non solo dal desiderio di alleggerire la propria posizione giudiziaria, ma anche dalla necessità di ritrovare una libertà che ora appare lontana, irraggiungibile.

La privazione della libertà personale colpisce tutti, ma in maniera più acuta chi non ha mai vissuto a contatto con il crimine o con contesti degradati. 

E quindi, per chi è abituato a una vita fatta di certezze e privilegi, il carcere è un mondo alieno, fatto di spazi limitati, rigide regole e costante esposizione a uno stress emotivo senza precedenti.

Ditfatti, è proprio in questo ambiente, dove la fragilità umana viene messa a nudo, che nasce un bisogno primordiale: uscire!!!

E spesso, il prezzo di questa libertà è la collaborazione. Collaborare significa trasformare il peso della reclusione in una spinta a raccontare, a svelare i retroscena di un sistema che, fino a poco prima, veniva vissuto come normale.

Però… a differenza del delinquente abituale, che vede il carcere quasi come una tappa ciclica della propria esistenza, il “colletto bianco” si sente ingiustamente perseguitato, negando inizialmente ogni responsabilità. Ma con il passare dei giorni, tra il peso delle accuse, la solitudine e il pensiero costante rivolto ai propri cari, si fa strada una nuova consapevolezza. La paura interiore cresce, insieme alla pressione esterna.

Ogni ora trascorsa in prigione diventa un momento di riflessione forzata: le cause che hanno condotto a quella situazione, le dinamiche professionali, i compromessi morali accettati per ottenere vantaggi. Tutto riaffiora con prepotenza, mettendo a nudo non solo le azioni passate, ma anche le fragilità emotive e relazionali di chi si trova a confrontarsi con un ambiente spietato.

E così, da quel conflitto interiore nasce una decisione: collaborare. Non per eroismo o redenzione, ma per necessità. Perché solo attraverso la verità, o una sua versione negoziabile, si può sperare di barattare la reclusione con una via d’uscita. Ed è in quel momento che il sistema trova la sua leva più potente.

E se fosse proprio in quel baratto che si cela l’inizio della fine per i grandi meccanismi di malaffare? Quando un singolo pezzo decide di parlare, il castello, per quanto imponente, può iniziare a vacillare. Ma c’è un’altra faccia della medaglia.

Non tutti, infatti, scelgono di collaborare. Per alcuni, la paura di perdere la posizione privilegiata raggiunta è troppo forte, ma ancor più lo è il terrore di trovarsi invischiati in dinamiche ben più grandi di loro. Collaborare significherebbe esporsi non solo a ripercussioni personali, ma anche a rischi per i propri familiari. Quella scelta, apparentemente salvifica, potrebbe trasformarsi in un pericolo imminente, un passo verso una spirale di minacce e pressioni che mettono a repentaglio tutto ciò che hanno di più caro.

Ed è qui che il silenzio diventa la loro unica arma di difesa. Un silenzio che, spesso, non è una decisione autonoma, ma il frutto di un sistema che, dall’esterno, fa di tutto per proteggerli. Non tanto per l’interesse verso la loro persona, quanto per salvaguardare il proprio equilibrio, garantendo che nessun dettaglio trapeli, che nessuna parola sveli le crepe di un’organizzazione costruita su connivenze e segreti.

La realtà del “non detto” si intreccia così con quella del carcere: un luogo dove il prezzo della verità e quello del silenzio convivono, separati solo dal coraggio o dalla paura di chi si trova a decidere. Alla fine, la vera domanda rimane: quanto siamo disposti a tollerare un sistema che si alimenta del silenzio, e quanto, invece, siamo pronti a lottare per rompere il muro che lo protegge?

Sebastiano Ardita: riflessioni sul coraggio del male.

Il coraggio del male“: un titolo che di per sé evoca un’ombra, una sfida, una lotta interiore e universale…

Di fronte a un tema così potente, avrei desiderato che il procuratore – considerata la sua professione e la sua esperienza nel tessere la tela della giustizia – avesse scelto di affrontare argomenti più legati al suo ruolo e alla realtà che vive quotidianamente. 

Tuttavia, ogni scelta narrativa è una finestra sulla mente e sul cuore dell’autore, e questo libro potrebbe rivelarsi una chiave per comprenderne i pensieri e le emozioni più profonde.

Quindi, prima di esprimere un giudizio definitivo, lascio spazio alla lettura e all’immersione nella sua narrazione; solo così potrò capire se la sua voce entrerà tra quelle che considero davvero indimenticabili.

Il titolo stesso mi spinge a riflettere sul significato del “coraggio del male“, un concetto provocatorio, quasi paradossale, ma affascinante. 

Già…il male, che per definizione rappresenta il lato oscuro dell’umanità, quello che spesso si cela, si teme o si condanna.

Parlare di coraggio in relazione al male è come riconoscere che anche esso richiede una sorta di forza o di audacia, sebbene indirizzata verso scopi distruttivi o moralmente discutibili.

Ma forse il “coraggio del male” non riguarda solo chi lo perpetra; potrebbe essere anche il coraggio di affrontarlo, di guardarlo negli occhi senza distogliere lo sguardo. È una chiamata a confrontarsi con il lato oscuro dell’esistenza, sia fuori che dentro di noi, e a riflettere su come esso plasmi la nostra umanità, le nostre scelte e la nostra visione del mondo.

Questo libro potrebbe rappresentare un viaggio nei territori inesplorati dell’animo umano, un invito a sondare le profondità dove luce e ombra si intrecciano.

Ed è quindi con questa curiosità che mi accingo a leggerlo, pronto a lasciarmi sorprendere e forse anche a mettere in discussione le mie certezze…