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Pio la Torre: se dovessimo applicare in modo analitico quella sua legge, molti suoi connazionali oggi starebbero in carcere!!!

Era il 30 Aprile 1982 quando il segretario del “Partito Comunista Italiano” in Sicilia, Pio la Torre, veniva ucciso dalla mafia.

Fu lui a introdurre nel codice penale la previsione del reato di “associazione di tipo mafioso” e la confisca dei beni, una legge che permise di colpire la mafia su ciò che egli riteneva più importante e cioè il denaro…

Era il disegno di legge 1581, “Norme di prevenzione e di repressione del fenomeno della mafia e costituzione di una commissione parlamentare permanente di vigilanza e di controllo” nella quale veniva definita l’associazione di tipo mafioso quando, coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali.

Ed allora leggendo quanto sopra, ma soprattutto, osservando ciò che accade quotidianamente, la sensazione ahimè avvertita dal sottoscritto e che egli (insieme alle altre vittime di mafia) sia morto invano!!!

Mi dispiace dover manifestare questo pensiero, ma purtroppo la realtà ha evidenziato come questo Stato e ancor più le Istituzioni, abbiano concretamente realizzato sì quella legge, ma nel metterla in pratica, ci si è appositamente dimenticati di colpire coloro che pur non legati a quel cosiddetto vincolo “mafioso” sono perennemente predisposti nel compiere, insieme ad altri loro colleghi, quella gestione controllo di molte attività economiche, in cui vi è la necessità di ottenere concessioni, autorizzazioni, assegnazione di appalti o di servizi pubblici con la cnseguenza di realizzare ovviamente profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri legati proprio a quella forma di vincolo associativo… 

D’altronde vorrei ricordare come l’articolo 416 bis del codice penale stabilisce che chiunque fa parte di un’associazione (non solo di tipo mafioso) formata da tre o più persone, è punito con la reclusione da dieci a quindici anni e coloro che promuovono, dirigono o organizzano l’associazione siano puniti con la reclusione da dodici a diciotto anni, a cui segue in entrambi i casi la confisca dei beni!!!

Ora ditemi, ad esclusioni dei mafiosi chi sono coloro che hanno in questi lunghi anno pagato??? 

Mi riferisco a quelle migliaia di soggetti tra uomini/donne dello Stato, a quanti tra essi svolgono la funzione di parlamentari o rappresentano un qualsivoglia organo esecutivo territoriale locale, ad esempio regionali, provinciali o anche comunale e cosa dire di quegli amministratori giudiziari, dei dirigenti di Enti e di tutti quei funzionari o semplici dipendenti delle pubbliche amministrazioni??? 

Ecco se a questi poi sommiamo coloro che operano in altri settori  pubblici importanti come la Sanità, l’Università, la Scuola, gli Enti previdenziali, i Consorzi, le Partecipate etc… è emerso come dalle numerose inchieste giudiziarie e da un approfondimento dettagliato di di quei soggetti, il numero di coloro che di fatto appartengono a quel “vincolo associativo” sia numeroso e consistente, rappresentando la vera infezione grave a cui questo nostro Paese dovrebbe porre da sempre rimedio!!! 

Mi chiedo quindi: se chì commette quei delitti è le stesso che dovrebbe fare in modo che questi non si realizzino, come si può pensare di risolvere il problema quando la stessa legge “Rognoni-La Torre” non viene mai applicata a questi particolari soggetti, in quanto – se pur essi profondamente indegni – non risultano ahimè censiti all’interno di quelle note famiglie mafiose…

Già… come si dice: fatta la legge, trovato l’inganno!!!

8 luglio 1960 – Via Maqueda: Un periodo storico di cui nessuno più si ricorda…

L’8 luglio di 60′ anni fa, fu indetto uno sciopero, una manifestazione di protesta non soltanto per i morti dei giorni prima di alcuni operai, ma per un forte senso di giustizia sociale, quel desiderio di voler equiparare i salari degli operai del Sud con quelli del Nord, una situazione che dopo tutti questi anni possiamo dire che sia rimasta inalterata… 

E’ passato tanto tempo e ci si è dimenticati di quel giorno, ore nelle quali gli operai siciliani decisero di scendere in strada per protestare, andando contro le direttive della mafia che allora (come oggi…) controllava il territorio, se pur quello era un periodo fortemente violento, in quanto si sparava per prendere il potere e aggiudicarsi gli appalti…
Uno sciopero generale si mobilitò per dire basta, fu una partecipazione spontanea e numerosa, portavano magliette a strisce, simbolo della rivolta…
A iniziare il comizio fu Pio La Torre, ma riuscire a parlare poco poiché la folla inizio a sfilare in corteo, nel frattempo i reparti mobili che presidiavano la zona fin dalla mattina presto, inizio a caricare i presenti… i quali risposero a quelle provocazioni.
A quel punto la reazione degli agenti fu quella si tirare fuori le armi da fuoco e sparare ad altezza d’uomo!!!
Tra i molti feriti vi furono ahimè quattro morti!!!
A commemorare quei Caduti della strage di Stato è stata inaugurata un’iniziativa dal titolo “Porta anche tu un fiore sui luoghi dell’8 luglio”… 
Ci s’incontra in Via Maqueda, dinnanzi a quella lapide, dove vennero colpiti quei Caduti: Andrea Cangitano, diciannovenne operaio edile e dirigente sindacale del partito comunista, stava cercando di placare i manifestanti; Giuseppe Malleo un ragazzino di 15 anni; Francesco Vella aveva 45 anni, mentre Rosa La Barbera, una signora di 53 anni, morì mentre stava chiudendo la finestra di casa….
Un giorno di guerra contro civili inermi a Palermo, senza che poi la polizia riuscì a sciogliere la manifestazione…
Ci fu anche un morto a Catania, Salvatore Novembre, un giovane disoccupato, massacrato prima dai manganelli della polizia e poi finito con un colpo di pistola….
Come sempre accade nel nostro Paese nessuno pagò per quei morti e i responsabili locali dell’ordine pubblico non vennero mai processati, anzi si provò ad infangare la manifestazione sostenendo che fu la mafia ad aver sobillato la manifestazione mandando in piazza i giovani per distruggere tutto…
Passano gli anni, mai i corsi e ricorsi storici di questa terra sembrano ripetersi sempre nella stessa maniera… già si ha come l’impressione che quando qualcosa stia cambiando, ecco che si ritorna nuovamente al punto di partenza!!!

Se la mafia viene considerata più forte dello Stato… la colpa è principalmente delle Istituzioni!!!

Secondo un’indagine condotta dall’Associazione “Centro Studi Pio La Torre”, i ragazzi di cento scuole, che hanno aderito al progetto educativo “antimafia”, hanno espresso risultati di grande sfiducia nei confronti della politica, in particolare di quei suoi esponenti nazionali, rappresentati dal 82% di disistima, scetticismo che comunque si applica anche nei confronti dei politici locali…
Ma ancor più grave è il giudizio della mafia, che viene ritenuta per quasi il 44% più forte dello Stato!!!
La percezione inoltre, tiene conto di questi due poteri, strettamente interconnessi, in quanto il più delle volte legati tra essi, e difatti il 25% di quei ragazzi, considera impossibile sconfiggere definitivamente la mafia, a causa del forte legame che quest’ultima ha con la politica!!!
D’altronde come dare torto a questi giovani… quando essi per primi hanno compreso che la mafia ha ormai il polso della situazione del nostro sistema economico e sociale e dove la politica e le istituzioni, evidenziano gravi lacune a causa  di tutti quei cavilli giurisprudenziali, che solitamente ribaltano l’ottimo lavoro compiuti dalle Procure nazionali!!!
Alla presentazione dell’indagine report è intervenuto anche il giornalista, più volte minacciato dalla mafia.
Paolo Borrometi (Presidente di Articolo 21), che ha dichiarato: “La mia generazione è stata segnata dal colore rosso dell’asfalto per il sangue versato da molti uomini che hanno dato la vita per combattere la mafia. La Sicilia è una terra di cinque milioni di abitanti soggiogati da settemila mafiosi, e purtroppo molti di quelli che oggi sono considerati eroi, in vita erano ritenuti dei “rompiscatole'” Non ci vuole coraggio, né atti di eroismo, ma semplicemente fare il proprio dovere da cittadino”!!!
Ecco, forse in queste parole è racchiuso quell’essere intimo di sentirsi siciliani… 
In particolare quando con quelle proprie azioni, vengono a concretizzarsi tutti quei comportamenti, che si sa essere, collusivi e servili, compiuti solitamente per ricevere qualcosa in cambio…
Si è vero… lo Stato in questi anni qualcosa ha fatto, mi riferisco al periodo post stragista di cosa- nostra, ha ripulito quella parte più crudele e sanguinaria ed ha arrestando quei suoi boss, facendo cessare definitivamente il sangue per le strade…
Di contro però ha lasciato ad essa il controllo finanziario e sociale, ha permesso che essa potesse agire in maniera indisturbata, stravolgendo l’economia del paese e garantendo ai suoi uomini un livello d’impunità, ma soprattutto la possibilità di inserire nella politica, nelle PA ed anche nelle istituzioni, molti suoi giovani professionisti, i quali se pur non direttamente affiliati, hanno potuto operare in maniera celata, contribuendo con quelle loro informazioni, alla sopravvivenza stessa di quell’associazione criminale…  

A.R.S.: Scusate, ma sono ancora vivi???

In questi giorni mi sono collegato al sito istituzionale dell’Assemblea della Regione Siciliana, per leggere quali lavori d’aula erano in programma o se il calendario delle convocazioni riportava qualcosa d’interessante, già, se vi fossero comunicati, atti di controllo, interrogazioni, interpellanze, ecc… 
Beh. dopo un attenta ricerca ho scoperto che non vi è nulla… niente di niente, come si dice: “il silenzio assoluto”!!!  
Già in questi giorni abbiamo letto dell’Assessore Figuccia e del problema “morale” che si era posto con l’eliminazione dei tetti alle retribuzioni dei dipendenti dell’Ars, si è sentito parlare di emergenza dei rifiuti, di trasferirli fuori dall’isola e così mentre altre nazioni diventano ricche con quella raccolta e con l’eventuale energia prodotta trasformandoli, noi cosa facciamo, cerchiamo a chi darli e li paghiamo pure affinché se li prendano…
Minch… ma in questa terra, abbiamo dei veri geni!!!
Sì… non si riescono ad affrontare i problemi reali dell’isola, ed allora si procede in silenzio, tenendo un basso profilo…
Nel frattempo la regione continua ad essere sotto il monopolio mafioso, con un livello di corruzione ancor più alto di quello presente attualmente in Colombia, con una economia sommersa che la fa da padrone ed una evasione fiscale che alimenta un giro d’affari in contanti, meglio conosciuto come “nero”, che produce quella nota “sperequazione” finanziaria!!!  
Ecco, in un territorio come quello sopra descritto, la logica condurrebbe a contrastare tutto questo  malcostume, ad esempio, sovvenzionando le associazioni antimafia o quelle antiracket… 
Ed invece cosa fa la nostra regione, taglia i contributi a quelle fondazioni, a quei centri antimafia, tra cui ad esempio il centro “Pio La Torre” o la Fondazione “Falcone”. 
Pensate che proprio il Centro Pio la Torre, dopo aver svolto un ampio programma e soprattutto iniziative a sostegno della legalità, con una richiesta documentata nel 2017 di 279.900 euro, si ritrova assegnato un contributo dalla regione di 16.800 euro!!!
Neppure il 6% di quanto richiesto…  nel frattempo però il presidente Miccichè, parla d’aumentare gli stipendi…
Ora dopo 32 anni di attività, si chiedono in quel centro, in cosa hanno sbagliato… 
Forse -come dicono in quella loro nota- hanno sbagliato nella difesa di una memoria antimafia, come quella di Pio La Torre, orgoglio di Sicilia -secondo Vincenzo Consolo- legata strettamente e sempre all’impegno sociale e civile di cambiamento? A chi ha dato fastidio questa libertà di pensiero e d’iniziativa portata a livello nazionale e internazionale col contributo di tanti volontari, col sostegno di tanti intellettuali siciliani e italiani, con la partecipazione della scuola italiana?”.
La verità è che non si vuole che si sviluppi una educazione verso la legalità,  non vi è alcun interesse a diffondere consapevolezza nei bambini, nei giovani di questa terra, facendo comprendere loro che quanto si vede nelle fiction non possiede alcun fattore positivo, che non vi è nulla da prendere in quegli insegnamenti criminali e malavitosi, che i veri uomini non si nascondono nel branco, non hanno bisogno di fare i forti insieme al gruppo, non minacciano con la forza e la violenza, ma sono coraggiosi pur stando da soli e possono distruggere chiunque… con le loro parole!!!
Le nuove generazioni devono ricevere la consapevolezza che soltanto con una coscienza anti-mafiosa si potrà essere degni di definirsi siciliani… il resto, quanto ci fanno vedere, sono solo cazzate!!!
Riporta bene la sorella del giudice assassinato dalla mafia, Maria Falcone, presidente della Fondazione che porta il nome del fratello: “Troviamo francamente grave che l’attività che da un quarto di secolo portiamo avanti sia stata sottovalutata proprio da chi, come la Regione che della fondazione è socio fondatore, ne conosce l’importanza”.
“Le parole del presidente Musumeci, che ha esplicitamente fatto riferimento a una iniquità nelle ripartizioni delle risorse stabilite dal governo precedente -aggiunge Maria Falcone- ci rendono tuttavia fiduciosi che si possa trovare una soluzione per il presente e che si torni comunque nel futuro a criteri di valutazione giusti e rispondenti al reale lavoro e allo sforzo che quotidianamente la Fondazione svolge nelle scuole di tutto il Paese e nella società civile”.
Chissà, forse la verità va ricercata in altri contesti, quelli nei quali si muove l’associazione criminale, in particolare quando le viene richiesto di raccogliere voti per i propri esponenti di partito, preferenze che ovviamente vengono raccattate, affinché successivamente, gli stessi, adottino tutta una serie di provvedimenti a favore dell’illegalità e certamente meno restrittivi nei loro confronti o di quelli dei loro affiliati!!!   
E così… mentre l’antimafia soffre, la mafia… “gongola”!!!

I beni confiscati non rendono nulla!!!

Dando seguito a quanto alcuni giorni fa avevo scritto sulle società confiscate, un mio lettore, tramite email mi chiedeva la possibilità di pubblicare nel mio Blog, un bellissimo articolo scritto dal giornalista Attilio Bolzoni.
Essendo questo un tema speciale e di grande attualità, ho ritenuto appropriato assecondare la richiesta e pubblicare quanto ricevuto:
Quanto rendono i beni sequestrati alle mafie? Niente!!!

Le aziende che una volta erano dei boss non ce la fanno a sopravvivere e le eccezioni sono rare, rarissime.
Una di sicuro è quella di Pontecagnano, sulla litoranea che da Salerno scende verso sud.
È un albergo e lì, gli affari vanno sempre bene, come prima…
Quella “roba” strappata con tanta fatica a Corleonesi e Casalesi non produce quasi mai ricchezza, l’antimafia non riesce ancora a far soldi, anzi al contrario genera perdite…, sempre garantite.
Fino a quando è un capo della ‘Ndrangheta a mandare avanti il business tutto va a gonfie vele, quando poi arriva lo Stato le imprese affogano nei debiti.
Un esempio? Il famoso Cafè de Paris di Via Veneto, a Roma.
Era affollatissimo al tempo degli Alvaro di Sinopoli, a due anni dalla confisca uno dei locali simbolo della Dolce Vita rischia la chiusura.
I numeri raccontano tutto.

Su 1663 società confiscate dal 1982 – anno primo della legislazione antimafia – solo 35 sono in attivo. E per un soffio. Praticamente soltanto il due per cento.

Troppa burocrazia, troppa indolenza, troppo disinteresse.
E troppo il tempo che passa dal sequestro di un bene alla confisca, dalla sua destinazione all’assegnazione definitiva.
Cinque anni, sette, anche nove anni.
Terreni che sono ormai abbandonati. 
Aziende finite inesorabilmente fuori mercato. Dipendenti a spasso. 
Con banche che revocano i fidi, assicurazioni che non assicurano più, fornitori che chiedono il rientro immediato dei loro crediti. È il fallimento italiano della (vera) lotta alla mafie.
Tutto funziona perfettamente se è nelle mani dei boss, tutto va in rovina se non ci sono loro.
È il crac delle confische, delle ricchezze portate via a uomini della Cupola o del Sistema, ristoranti, fabbriche, impianti minerari, fattorie, allevamenti di polli, supermercati, agriturismi, distributori di benzina, cantine, serre, trattorie, discoteche, residence, ottiche, gelaterie, società immobiliari, centri sportivi, pescherecci, stabilimenti balneari e anche castelli… 

La punta più alta di confische è in Sicilia: 621 le aziende espropriate ai boss.
In Campania sono 332 e 216 in quella Lombardia che, da qualche anno, si rivela la prima regione lontana dai tradizionali territori dei clan ad avere ricchezze sporche nel suo ventre.

Cosa si può fare per proteggere questo tesoro e far guadagnare le imprese non più di mafia?
“Tre cose”, risponde Franco La Torre, presidente di Flare ( la rete europea di associazioni contro il crimine organizzato) e figlio di Pio, il deputato del Partito comunista italiano ucciso nell’aprile del 1982 giù a Palermo per la sua grande battaglia per una Sicilia libera dai boss, artefice di quella legislazione antimafia che porta il suo nome e che ancora oggi – dopo trent’anni – resta un esempio in tutto il mondo.
Quali sono le tre cose da fare? 
Franco La Torre:
1) la presenza di amministratori giudiziari competenti che siano in grado di fare il loro mestiere fino in fondo e di programmare piani a medio e a lungo termine per le aziende confiscate
2) sostenere la legge d’iniziativa popolare ( quella che ha lanciato il Sindacato della Cgil ) per la tutela di tutti i dipendenti delle aziende sotto confisca e per garantire loro gli stessi diritti di tutti gli altri lavoratori dei settori in crisi. 
3) utilizzare il contante sequestrato e reinvestirlo nelle attività dove si registrano le sofferenze.

L’elenco delle aziende che vanno o sono già andate in malora in pochi anni, o addirittura in pochi mesi, è infinito.
C’è una mappa dei disastri da una parte all’altra dell’Italia.
A Palermo c’è l’hotel San Paolo, in via Messina Marine, al confine fra Brancaccio e il porto di Sant’Erasmo, quasi difronte alla “camera della morte” dove in piena guerra di mafia i boss torturavano i loro nemici di cosca.
Costruito da Giovanni Ienna per conto dei fratelli Graviano (i due, Giuseppe e Filippo, si nascondevano nella suite prima delle stragi del 1992), quest’albergo è famoso per un ascensore esterno di vetro dove i genitori accompagnavano i figli per far vedere Palermo dall’alto e perché lì, nell'”ambiente” dell’hotel e degli amici dei Graviano – nel 1993 – è stato fondato il primo club di Forza Italia in Sicilia. L’albergo oggi accumula debiti spaventosi. Una voragine.

Stessa sorte per l’azienda agricola Suvignano di Monteroni D’Arbia, in provincia di Siena.
I vecchi proprietari erano i costruttori Piazza di Palermo.

Un’estensione di 713 ettari, campi coltivati a grano e a orzo, uliveti, un bosco, 13 case coloniche, un’antica fornace, una villa padronale, un agriturismo, una riserva di caccia, 200 capi di suini e duemila pecore. 

In rosso permanente anche gli 80 distributori di benzina sparsi fra il beneventano, l’avellinese, il casertano e il basso Lazio, tutti sequestrati ai Salzillo, quelli del “petrolio della camorra”. E ancora, tanti altri beni-azienda in perdita totale. La Delfino Srl di Gioia Tauro, rottami e rifiuti nel regno dei Piromalli e dei Molè.
La Pio Center di Bovalino, un pezzo di sanità calabrese fra Locri e Reggio nelle grinfie dei Nirta.
E poi Villa Santa Teresa di Bagheria, sequestrata all’ingegnere Michele Aiello, il re Mida della Sanità privata in Sicilia, quello che è sospettato di aver fatto da prestanome al vecchio Bernardo Provenzano e che ha contributo a trascinare in un gorgo giudiziario e a Rebibbia il governatore della Sicilia Totò Cuffaro.
Uno dei casi più clamorosi resta sempre quello della Riela Group di Catania, all’epoca della confisca – nel 1999 – la quattordicesima azienda più florida di tutta la Sicilia con un fatturato di 30 milioni di euro.
Quando i titolari erano Lorenzo Riela e suo figlio Francesco (condannato all’ergastolo per omicidio), legati tutti e due ai Santapaola, i dipendenti erano 250. Oggi sono 12. I Riela hanno provato a riprendersi la loro società di trasporti con vari prestanome. E facevano tutto dal carcere con la complicità di amministratori giudiziari.
Come è possibile che una “famiglia” si possa riappropriare del bene che gli è stato sottratto dallo Stato?
“Questa della Riela Group è forse l’esempio più negativo in assoluto”, dice Enrico Fontana, presidente di Libera Terra Mediterraneo, il consorzio delle cooperative che gestisce le proprietà agricole confiscate in Sicilia, Campania, Calabria e Puglia.

E spiega: Lo Stato ci deve mettere la faccia!!! 
Non basta sequestrare e poi gestire burocraticamente un bene, ma quel bene bisogna farlo diventare un buon esempio. 
La verità è che queste aziende che erano delle mafie non si possono considerare come tutte le altre, è necessario trattarle come aziende speciali. 
A parte le difficoltà di carattere finanziario – i lavoratori vengono messi in regola, si pagano i contributi arretrati ai dipendenti che i boss facevano lavorare al nero – queste imprese operano in contesti estremamente difficili. 
Dal sequestro in poi l’intervento su ognuna di queste aziende deve essere fatto con grande attenzione al mercato”.

Ma come può un amministratore giudiziario nominato da un Tribunale fare impresa come un vero imprenditore?
Il più delle volte la gestione si rivela una sciagura. Di quelle 1663 aziende confiscate in via definitiva dal 1982 quasi la totalità sono destinate alla disfatta, alla liquidazione e alla cancellazione dai registri camerali e tributari. C’è da fare tanto. Lo Stato deve cambiare marcia. Non serve solo applicare la legge e poi abbandonare le aziende, lasciarle in mezzo ai guai economici, prigioniere degli istituti di credito, sotto ricatto, sotto minaccia della concorrenza della porta accanto, i boss ancora sul mercato.

L’anno scorso Unioncamere e Libera hanno sperimentano un sistema di governance delle aziende confiscate. Un monitoraggio per capire quali sono le emergenze più immediate e soprattutto capire come intervenire. La lista degli interventi necessari: istituire strumenti di finanza agevolata e di incentivazione fiscale, introdurre facilitazioni contributive per il mantenimento dei dipendenti, prevedere un welfare per ricollocare i lavoratori

in caso di chiusura dell’attività, sostenere con aiuti la nascita di cooperative, destinare una quota del Fondo nazionale di garanzie per le piccole e medie imprese anche alle associazioni che gestiscono beni confiscati alla criminalità. 
È proprio tutto nero (e in rosso) il mondo dell’imprenditoria dal passato mafioso?
“L’esperienza più virtuosa è quella della Calcestruzzi ericina”, ricorda ancora Enrico Fontana mentre racconta “le perfette coincidenze” avvenute una decina e passa di anni fa a Trapani, dopo che avevano sequestrato l’impianto al capo mandamento della provincia Vincenzo Virga. Un prefetto attentissimo ( Fulvio Sodano ), un amministratore giudiziario molto preparato e appassionato, una cooperativa con soci capaci.
Ne è venuto fuori un piccolo grande miracolo. Tutto nasce nel 1996 quando al boss tolgono la Calcestruzzi e quattro anni dopo gliela confiscano.
Qualcuno ha provato a boicottarlo l’impianto, la mafia ha provato a riconquistarlo.
Ma poi le cose hanno preso un’altra piega. Per la prima volta – la vicenda non ha precedenti – l’Unipol ha concesso un mutuo ventennale di 700 mila euro senza garanzie e poi è cominciata l’avventura.
“Noi ci siamo ingranditi, è la prova che se tutti lavorano bene ce la possiamo fare”, dice Giacomo Messina, il presidente della nuova Calcestruzzi. Quando era di Vincenzo Virga, i dipendenti erano 11, dopo tanto tempo e con l’antimafia i dipendenti sono diventati 14.
Hanno assunto un ingegnere ambientale, una donna per le pulizie, hanno assunto anche un nuovo autista.
Hanno allargato gli uffici e realizzato un nuovo stabilimento per il recupero degli scarti edilizi.
Un piccolo gioiello, già un’anomalia nel panorama dell’Italia che non vuole arricchirsi con i soldi della mafia.
Come quell’albergo confiscato alla camorra sulla strada che porta verso i templi di Paestum. Una clientela molto particolare. Quasi tutte coppie della zona. Molti impiegati, qualche professionista, ogni tanto si vede anche un pensionato. All’Hotel Mare ci vanno per fare l’amore. Nei dintorni di alberghi così – del genere daily use – ce ne sono almeno una dozzina. Ma l’Hotel Mare è l’unico sequestrato alla camorra. Non ci sono angosce a fine mese. Sempre in attivo.
“Così vincono loro, non vinciamo noi”. E’ l’allarme di don Luigi Ciotti, fondatore e presidente di Libera. “Così vincono loro”, ripete mentre controlla i numeri sui beni confiscati in Italia dal 1982 e 1.663 Le aziende confiscate alle associazioni criminali al 1 luglio 2012, di cui solo 35 risultano in attivo o in pareggio 88 nel settore agricolo 164 alberghi e ristoranti 24 attività finanziarie 137 attività immobiliari, noleggio, informatica, servizi alle imprese 35 attività manifatturiere 462 commercio, riparazione veicoli, beni personali, casa 23 estrazioni minerali 15 pesca, pescicultura e servizi connessi 6 produzione e distribuzione energia elettrica, gas, acqua 19 assistenza sociale 60 trasporti, magazzinaggio I numeri delle confische quelli delle aziende in sofferenza perenne.
Don Luigi, cosa non ha funzionato?
I numeri parlano molto chiaro: sono soltanto pochissime imprese quelle che resistono e tutte le altre prima o poi muoiono, questa è una situazione che grida vendetta… 

Ma è lo Stato che non ha fatto quello che doveva fare in tutti questi anni?

“Dentro lo Stato ci sono stati anche uomini che si sono spesi e a volte anche strutture che hanno funzionato. Sono mancati gli strumenti giusti, è mancata in generale un’aggressione mirata alla questione dei beni confiscati. E poi ci sono state reti di complicità, ci sono stati ritardi, ci sono stati silenzi. E qualcuno che doveva metterci la testa su queste cose, la testa non ce l’ha messa. Per questo oggi è giusto dire che è una situazione che grida vendetta”.
Quali interventi si sarebbero dovuti prevedere per non arrivare a questo fallimento?
“Si sarebbe dovuto seguire il modello delle cooperative che sono nate sui terreni confiscati con bando pubblico e con il coinvolgimento dei giovani del territorio. In questi casi è sempre stato riconsegnato il maltolto, i beni sottratti alle mafie sono stati restituiti all’uso sociale e alla collettività grazie alle reti economiche che si sono messe in gioco. Anche per le aziende bisogna inventare un nuovo meccanismo che porti a risultati.
Abbiamo bisogno di cose concrete, abbiamo bisogno di speranza”.
Un articolo di Attilio Bolzoni