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Un sistema che scricchiola: il lungo grido sommerso del popolo iraniano.

Mentre i telegiornali mostrano famiglie iraniane in fuga, attribuendo la loro decisione alla pa1ura di bombe e missili, c’è qualcosa di più profondo che emerge tra le righe. 

Quello che vediamo non è solo una reazione al conflitto, ma l’occasione per molti di lasciarsi alle spalle un regime che per 45 anni ha soffocato libertà e diritti. Le frontiere aperte in questo momento di caos offrono una via di fuga a chi, da tempo, sogna una vita lontana dall’oppressione.

Le donne iraniane, più di tutte, portano il peso di quasi mezzo secolo di privazioni. Dalla caduta dello Scià, le loro vite sono state segnate da imposizioni crudeli, da divieti che hanno spento sogni e spezzato destini. Migliaia di giovani donne hanno pagato con la vita il coraggio di alzare la voce, e oggi, forse, intravedono nella crisi attuale una possibilità di cambiamento. Per loro, questo non è solo un conflitto tra stati, ma lo scricchiolare di un sistema che potrebbe finalmente crollare.

E mentre la gente comune cerca una via d’uscita, i vertici del potere sembrano muoversi nell’ombra. Le voci su un possibile “lasciapassare” richiesto da Khamenei e dalla dirigenza militare alla Russia suonano come un déjà vu. 

È lo stesso copione visto con Assad, lo stesso terrore che ha travolto Saddam Hussein e i suoi fedelissimi quando il loro regime è caduto. La paura di essere braccati, di finire come quei dittatori i cui ritratti sono stati bruciati nelle piazze, è un fantasma che ora perseguita anche Teheran.

La storia si ripete, e i regimi autoritari sembrano condannati allo stesso epilogo: la fuga, la caduta, la resa dei conti. In Iraq, in Siria, e forse presto in Iran, la fine del potere assoluto ha portato con sé un’ondata di violenza, ma anche una flebile speranza di rinascita. Dietro le bombe e le retoriche di guerra, c’è un popolo che sogna da decenni una vita normale, libera dalle catene di un governo che ha imposto le sue regole con il pugno di ferro.

Ma accanto a questa tensione interna si staglia un pericolo ancora più vasto, capace di coinvolgere l’intera regione e ben oltre. Il programma nucleare iraniano, mai interrotto nonostante gli accordi e le promesse, rappresenta una minaccia concreta non solo per Israele, ma per tutta l’area mediorientale e non solo. 

La costruzione di una bomba atomica da parte della Repubblica Islamica non sarebbe soltanto un salto tecnologico, bensì un mutamento radicale degli equilibri geopolitici. Un singolo test nucleare potrebbe innescare una corsa agli armamenti senza precedenti, trascinando Paesi vicini come Arabia Saudita, Turchia ed Emirati Arabi verso un baratro impossibile da controllare.

Questo scenario rende il conflitto ancora più fragile e imprevedibile, perché ogni azione militare, ogni dichiarazione, assume il peso di una potenziale escalation globale. La prospettiva di un’arma nucleare in mano a un regime che nega l’esistenza dello Stato di Israele e sostiene gruppi terroristici in tutto il Medio Oriente non è una semplice ipotesi: è un rischio tangibile, che richiede l’attenzione costante della comunità internazionale.

Forse, in questo momento di fragilità, si nasconde l’opportunità che molti aspettavano. Non è solo una guerra tra nazioni, ma uno scontro tra chi vuole mantenere il controllo e chi, finalmente, intravede la possibilità di riprendersi la propria libertà. 

Sì… la vera posta in gioco non è solo il conflitto, ma il futuro di un intero popolo che ha atteso troppo a lungo.

La memoria tradita: dalla Shoah alla Nakba.

Riprendo nuovamente il tema principale, che ieri avevo momentaneamente sospeso per chiarire alcuni concetti a cui tenevo… 

Torno dunque alla comparazione che, nell’ultimo anno e fino a oggi, si è voluto tracciare tra le esperienze terribili vissute da ebrei e palestinesi in momenti diversi della storia.

In questi mesi, molti si sono posti una domanda: com’è possibile che Israele, in quanto Stato ebraico, possa oggi commettere i crimini che vediamo in televisione ai danni di una parte dei palestinesi, quelli di Gaza? Certamente, si tratta di coercizioni non paragonabili a quelle perpetrate dai carnefici nazisti, ma comunque gravissime dal punto di vista morale e umano.

La verità è che si è cercato di dimenticare in fretta una guerra mostruosa e, soprattutto, un “olocausto” che non sarebbe mai dovuto esistere. La memoria avrebbe dovuto impedirne la ripetizione, eppure il desiderio di ricostruire l’Europa e di pacificare gli Stati coinvolti nel conflitto ha portato a relegare il passato in un angolo. Si doveva dare speranza e un futuro ai profughi ebrei sopravvissuti alla Shoah, ma questo ha generato una conflittualità irrisolta.

La pace doveva fondarsi sulla comprensione della guerra e sull’accettazione dei suoi orrori, ma in questo processo la memoria ha lasciato spazio all’oblio. La massima sottintesa è diventata: «Ricordati di dimenticare la guerra e i suoi olocausti. La guerra è un mostro che non deve svegliarsi, non guardarla».

L’aver osservato in Tv la “Cerimonia di commemorazione dell’80° anniversario della liberazione del campo di concentramento e di sterminio di Auschwitz-Birkenau“, alla presenza di sopravvissuti e di numerosi Capi di Stato e di Governo, mi ha dato più l’impressione di voler allontanare e nascondere il delitto, piuttosto che far penetrare lo sguardo nella matrice profonda del crimine.

La verità è che l’Occidente ha goduto di una lunga pace non perché abbia realmente compreso le due guerre mondiali e la Shoah, ma per semplice paura, per una distensione meccanica seguita al trauma.

Ciò che accade oggi a Gaza non è altro che il proseguimento di una storia già vista. Gli anni della Nakba sono un passaggio di testimone che, pur senza la sistematica pianificazione dello sterminio, prosegue sotto una forma celata di pulizia etnica, mascherata da una presunta civiltà.

Basta osservare come, anche nel nostro Paese, l’attuale governo di destra abbia cercato di liquidare il Fascismo e il Nazismo come “malattie inspiegabili“, catastrofi naturali spuntate dal nulla, macchiando così il candido volto della nostra civiltà.

Questo sistema internazionale di pacificazione, costruito sulle rovine della Seconda guerra mondiale, ha paradossalmente generato una nuova era di democrazia e diritti, mentre riproduce ancora una volta lo sfruttamento e legittima l’oppressione coloniale. In questo contesto, la Nakba viene avallata, e al Sionismo viene garantito riconoscimento politico e impunità, in un territorio che non gli apparteneva.

Invece di trovare una soluzione pacifica e giusta per entrambi i popoli, che permettesse di far valere le proprie ragioni e di convivere, si è preferito imporre condizioni che, in questi 80 anni, hanno dimostrato di non portare alcun cambiamento. Il conflitto continua, e la storia si ripete.

Dal silenzio del passato all’azione nel presente

Sento in questi mesi paragonare il genocidio della Shoah all’attuale questione palestinese.

Perdonatemi, ma chiunque possieda una mente libera e quindi incondizionata non potrà – leggendo le prossime righe – giungere alle mie stesse riflessioni.

Pensare anche soltanto di paragonare la “soluzione finale” – lo sterminio sistematico e premeditato degli Ebrei in tutta Europa, perpetrato da menti malate naziste – è profondamente sbagliato. Un crimine, per come è stato progettato e perpetrato, disumano, che non colpì solo gli Ebrei, ma anche Rom, persone con disabilità, oppositori politici, scrittori, omosessuali e tanti altri considerati “indesiderabili”. Una ferita indelebile nella storia dell’umanità, un abisso morale da cui non ci siamo mai completamente risollevati e che ha segnato per sempre la nostra coscienza collettiva.

Ciò che accadde allora non può né deve mai essere giustificato. E il solo pensiero di paragonare quella tragedia alla questione palestinese è, a mio avviso, inappropriato.

Sebbene ciò che sta accadendo in questi mesi in Palestina possa essere definito una strage di innocenti, e in alcuni casi un crimine contro l’umanità, trovo pericolosi i parallelismi tra Nakba e Shoah che proprio alcuni illustri storici vorrebbero in queste ore riproporre.

Premesso che ogni violenza, specialmente contro donne e bambini, è sempre abominevole, tuttavia, non si possono mettere sullo stesso piano due tragedie di natura e contesto così diversi. Questo non significa negare la gravità di quanto sta accadendo oggi, ma è essenziale mantenere un linguaggio preciso e rispettoso della storia.

Voglio sottolineare che il mio intento non è sminuire l’una tragedia rispetto all’altra. Entrambe meritano attenzione: la Shoah per l’eredità storica e morale che ci ha lasciato, e la questione palestinese per l’urgenza di una soluzione che tuteli i diritti umani di tutte le persone coinvolte.

Ciò che invece lascia perplessi è l’uso politico della Shoah contro i palestinesi, quando è storicamente noto che quest’ultimi non hanno avuto alcun ruolo in quella tragedia. Non furono responsabili dell’antisemitismo né del Nazismo, eppure oggi si trovano a subire un’oppressione sistematica da parte di chi, più di ogni altro, dovrebbe conoscere il valore del rispetto per la vita umana.

Perché, allora, non imparare dal passato? Sì… diversamente da 80 anni fa, quando si preferì tacere, è nostro dovere intervenire con urgenza per trovare una soluzione, giusta e definitiva, per il popolo palestinese.

FINE PRIMA PARTE 

La fine di un’era: il destino del governo iraniano è forse segnato?

Gli eventi recenti in Medio Oriente, dalla Siria al Libano, passando per Gaza, mostrano una realtà sempre più complessa e instabile.

Anche in Iran, la tensione è palpabile: il movimento “Donna, Vita, Libertà“, nato dopo la tragica morte di Mahsa Amini nel 2022, continua a risuonare nei cuori di milioni di persone.

Un grido di giustizia, un appello per la libertà, una richiesta di cambiamento che il regime non può più ignorare. Un suggerimento chiaro per i suoi governanti: agire ora, per evitare la stessa fine dell’ex presidente Assad.

La Guida Suprema Ali Khamenei, nel suo ultimo discorso, ha esortato le donne a resistere a quella che definisce una “guerra morbida” orchestrata dai nemici dell’Iran. Tuttavia, il rinvio della controversa legge sull’hijab e la castità mostra che la pressione, sia interna sia internazionale, sta raggiungendo un punto critico.

Questo rinvio appare come una concessione strategica, ma rivela la crescente fragilità di un sistema incapace di rispondere alle richieste del suo popolo.

L’ipocrisia del regime è evidente: da un lato reprime con violenza ogni forma di dissenso, dall’altro accusa il movimento femminile di essere una marionetta nelle mani di potenze straniere. Ma queste accuse non possono oscurare la realtà: le donne iraniane, con il loro coraggio, stanno sfidando un’intera struttura di potere.

Non possiamo dimenticare le similitudini con altri regimi repressivi caduti sotto il peso della volontà popolare. 

Continuare a lodare la resistenza armata di gruppi come Hezbollah, Hamas e Huthi serve ormai a poco!!!

Il vero fronte da affrontare è quello interno: un popolo esasperato dalla corruzione, dalla repressione e dalla mancanza di libertà.

Il tempo del cambiamento sembra essere arrivato. È possibile che il regime iraniano si trovi presto di fronte al suo momento decisivo, forse attraverso una guerra civile o un’ondata di proteste su scala nazionale.

Tuttavia, a differenza delle democrazie instabili emerse da altre rivoluzioni, il popolo iraniano appare pronto a costruire un futuro diverso, fondato su libertà, uguaglianza e soprattutto sul rispetto dei diritti umani.

Il governo in carica sta facendo di tutto per posticipare l’inevitabile. Ma la storia ci insegna che, quando la voce della libertà si alza, nessun regime può spegnerla più.

Siria: un momento di svolta tra speranze e incubi.

La caduta del regime di Bashar al-Assad rappresenta un punto di svolta nella storia della Siria. 

Già… dopo anni di oppressione, violazioni e guerra civile, il crollo di un sistema autoritario potrebbe apparire come una vittoria per chi ha lottato per la libertà, tuttavia, ciò che accade dopo la caduta di un regime è spesso altrettanto importante di quanto accaduto prima.

La storia ci insegna che il vuoto lasciato da un dittatore non sempre viene riempito da un sistema migliore.

 L’Afghanistan, la Libia e l’Iraq ci offrono tristi esempi di come la caduta di un regime oppressivo possa essere seguita da anni di caos, violenza e nuove forme di oppressione. 

Sì… perché quando al potere emergono figure o movimenti che promettono stabilità a scapito della libertà, i sogni di democrazia e giustizia rischiano di svanire rapidamente.

Ecco perchè la situazione in Siria è ora particolarmente delicata, poichè con il crollo del regime di Assad, il Paese è frammentato e conteso da una miriade di attori: fazioni estremiste, comunità locali, minoranze etniche e potenze regionali e globali che perseguono i propri interessi. 

Tra questi spicca proprio Ha’yat Tahrir al-Sham, che, sebbene cerchi di mostrarsi moderata e di proporsi come forza di governo, porta con sé un passato e una visione politica che difficilmente si conciliano con i principi di pluralismo, diritti umani e inclusività.

Ciò che difatti preoccupa maggiormente è il destino delle minoranze e dei gruppi più vulnerabili. 

Sono molte infatti le comunità – dagli armeni ai cristiani, dai curdi ad altre minoranze religiose – che stanno per lasciare il Paese per timore di persecuzioni. 

Questo esodo riflette in modo chiaro la profonda sfiducia in queste nuove leadership, ma soprattutto impoverisce ulteriormente il tessuto sociale rendendo più difficile immaginare un futuro di pace e convivenza.

Le lezioni del passato ci mostrano che un cambiamento di leadership non può limitarsi a un semplice ricambio al vertice…

La Siria ha bisogno di un processo di transizione che tenga conto delle aspirazioni di tutti i suoi cittadini, inclusi coloro che hanno sofferto sotto il regime di Assad e coloro che temono le nuove fazioni al potere. La comunità internazionale deve assumersi la responsabilità di evitare che questo momento storico si trasformi in un nuovo incubo per il popolo siriano.

Stabilità e sicurezza non devono essere imposte a costo della libertà. Il rischio è quello di assistere alla nascita di un nuovo regime autoritario, che potrebbe essere persino più brutale e repressivo di quello appena caduto. La Siria non può permettersi di ripetere questo ciclo di oppressione.

È fondamentale quindi che si lavori per costruire un futuro in cui la democrazia, il rispetto dei diritti umani e la convivenza pacifica diventino realtà tangibili e non semplici slogan. 

Certo, la strada è lunga e piena di ostacoli, ma non possiamo abbandonare il popolo siriano proprio ora, quando il loro destino è più incerto che mai.

Il senso dell’onore é il coraggio!!! Ma ahimè… è da troppo tempo che non se ne vede più!!!

Come sappiamo l’onore può assumere diversi significati a seconda delle culture e del territorio nel quale essa si manifesti…

Abbiamo visto come l’onore venga spesso associato alla virtù dei forti, al coraggio e alla capacità di perseguire con i propri ideali quei valori morali di eguaglianza e democrazia, nonostante le difficoltà poste in campo da chi esercita costantemente quelle pressanti influenze negative al fine d’imporre le proprie regole di vita, sulla volontà altrui, per ottenere quanto si vuole. 

Ritengo comunque che l’importanza dell’onore sia negli anni diminuita, certamente rispetto al passato, ciò si evince nella mancanza di coraggio della società civile in molti suoi comportamenti, sia individuali che collettivi…. 

D’altronde pensare che l’onore possa in taluni soggetti determinare coraggio è qualcosa di errato, non sempre accade, anzi solitamente si verifica proprio il contrario, peraltro non esiste alcuna correlazione che promuova benessere a giustizia, già per il raggiungimento di una società più equa e rispettosa dei diritti altrui, quando poi vediamo come abitualmente, si viene a manifestare un’esigua solidarietà o ancor peggio la totale mancanza di empatia… 

Auspicare quindi che in questo Paese i cittadini possano per una volta difendere i propri diritti o provare a contrastare le ingiustizie presenti è qualcosa certamente di meraviglioso, ma purtroppo quanto appena espresso, non appartiene al nostro Dna, e quindi, mancando di fatto di queste particolari esperienze, sarà impossibile che un qualche gene risvegli in noi quella capacità di agire con coraggio e determinazione!!!

D’altro canto va detto, le condizioni imposte dai governi con le loro politiche mettono a dura prova la capacità di lottare per i propri diritti o per portare avanti le giuste idee e sono proprio queste condizioni che determinano nei cittadini quelle paure, le stesse che impediscono di agire in modo coraggioso e proattivo.

Ma si sa, il coraggio non è una virtù innata, essa però potrà essere coltivata attraverso l’esperienza e nella continua ricerca di quei valori morali, unici principi fondamentali per divenire finalmente audaci. 

Solo in questo modo potremmo finalmente creare una cultura unica, solidale e rispettosa nei confronti degli altri e sarà grazie a quel cambiamento che vedremo finalmente emergere quella forza interiore e soprattutto quel coraggio, da troppo tempo oppresso e reso muto!!!