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Se le soluzioni ci sono, ma manca la volontà di applicarle, allora il problema non è la sicurezza: ma la politica!

Negli ultimi tre anni, per motivi di lavoro, ho vissuto in Toscana e posso assicurare che, a differenza della mia Sicilia, i controlli – seppur non massicci – erano comunque una presenza costante. 

Già… ho attraversato quotidianamente quel territorio, in lungo e in largo, partendo da Poggibonsi in direzione Siena oppure attraversando Certaldo per raggiungere Empoli e oltre, spingendomi verso l’interno delle colline del Chianti, per passare dinanzi a Volterra e giungere a Cecina, ma non solo, l’Isola d’Elba, Pisa, Lucca, Livorno, Grosseto e altri ancora… 

Quello che più mi colpiva era la presenza costante delle forze dell’ordine: posti di blocco ovunque, pattuglie della Guardia di Finanza, della Polizia Stradale, dei Carabinieri, e nelle città, le auto della Polizia Municipale.

Ammetto che non conosco le modalità con cui vengono organizzati i turni o in quali modi vengono decise le zone da presidiare, ma so bene che l’imprevedibilità è il maggiore ostacolo per chi deve garantire la sicurezza, ma qualcosa mi sfugge… 

Sì… una domanda sorge spontanea: perché in quelle zone, con una conformazione urbana e geografica non dissimile dal resto d’Italia – e con un flusso di persone e veicoli persino minore – i controlli sono così frequenti, mentre in Sicilia, dove la criminalità organizzata è una minaccia concreta e quotidiana, tutto sembra esser lasciato al caso?

Nella mia regione, ad esempio, servirebbe un presidio molto più rigoroso, strategie mirate e un controllo capillare per bilanciare i numerosi fattori di rischio presenti. Eppure, le istituzioni vorrebbero far credere che tutto vada per il meglio…

Ma allora, se il problema è la carenza di organico, perché non impiegare l’esercito? Ditemi, a cosa servono tutti quei militari fermi davanti a quegli uffici istituzionali o impegnati in continue parate sterili, quando potrebbero essere dispiegati in operazioni di controllo del territorio?

Potrebbero ad esempio presidiare gli accessi alle città più critiche – Palermo, Catania, Messina – con un sistema di “cinturazione” e verifiche obbligatorie, formati per affrontare situazioni ad alto rischio e pronti a intervenire rapidamente dove necessario.

Sarebbe uno strumento potente, se usato con serietà. Invece, nella presunzione di avere tutto sotto controllo, alla fine non si controlla nulla! 

Panta rei e ruit hora”: tutto scorre, e il tempo fugge

Intanto, la Sicilia continua a soffrire, e le sue ferite restano aperte…

Ora, a distanza di tempo, il Sindaco di Catania ripropone la stessa idea, chiedendo l’intervento dell’esercito per contrastare la criminalità. Segno che certe esigenze, se ignorate, prima o poi tornano a galla…

Peccato che, nel frattempo, si sia perso altro tempo prezioso.

Perchè Raffaele Cantone è la scelta giusta per la Procura di Napoli Nord!

Napoli Nord aspetta il suo nuovo procuratore, e mentre la politica gioca le sue carte, il Paese sembra dimenticare ancora una volta ciò che davvero conta. 

Si parla di curriculum, di legami, di equilibri di potere, ma quasi nessuno ricorda che una Procura così strategica dovrebbe essere affidata a chi ha dimostrato, sul campo, di saper combattere la criminalità organizzata con coraggio e competenza. 

Raffaele Cantone non è solo un nome, è un magistrato che ha trascorso la sua carriera a inseguire la giustizia, persino quando ciò significava sfidare i boss più temuti. È cresciuto in quel territorio, lo conosce, lo ha vissuto nelle aule di tribunale e nelle indagini che hanno portato agli ergastoli dei capi dei Casalesi. 

Eppure, anche oggi, come accadde con Falcone e Borsellino, c’è il rischio che la politica preferisca nomi diversi, certamente altrettanto validi (premetto di non sapere neppure i loro nomi…), ma quando è la politica ha decidere ho sempre il sospetto che dietro quella scelta, vi sia come sempre la volontà di imporre la loro influenza, ed il motivo per cui solitamente viene scelto il soggetto che possiede un profilo più “allineato”, già… più vicino ai giochi di potere che alla sostanza del servizio pubblico.

Il problema non è solo chi vincerà questa sfida, ma il sistema che la determina. Perché in Italia, troppo spesso, i ruoli chiave vengono assegnati non in base al merito, all’integrità o alla dedizione, ma in base a calcoli di convenienza, a legami personali, a logiche di corrente. 

Ed il motivo per cui mi chiedo perché la politica debba decidere su questa, ma anche su tutte le altre nomina? Ed allora, quanto conta davvero l’indipendenza della magistratura quando i nomi vengono scelti in base alle simpatie di partito?

Eppure, Napoli Nord non è una Procura qualsiasi. È un presidio fondamentale nella lotta alla camorra, in un territorio dove la criminalità organizza affonda le radici nel tessuto sociale ed economico. 

Servirebbe quindi qualcuno che conosca quelle strade, che abbia già dimostrato di non aver paura, che non sia lì per fare carriera ma per servire lo Stato. Cantone ha chiesto di lasciare Perugia con tre anni di anticipo, pur di tornare lì dove è nato, dove potrebbe fare la differenza. 

Ma in questo Paese, purtroppo, le scelte più giuste raramente coincidono con quelle più convenienti per chi governa.

Già… forse, invece di discutere su chi abbia il curriculum migliore, dovremmo chiederci perché un sistema che dovrebbe premiare l’eccellenza finisce per favorire chi sa muoversi meglio tra le pieghe del potere? Perché i Falcone e i Borsellino di oggi vengono scavalcati, mentre chi sa stare al gioco ottiene incarichi prestigiosi? 

Ripeto, non conosco i nomi degli altri candidati, ma avendo potiuto valutare sul campo, l’ottimo lavoro svolto dal Procuratore Cantone quando era Presidente dell’ANAC, beh… ritengo che la Procura di Napoli Nord meriterebbe un procuratore come Cantone!

Ma forse la domanda che ora dovrei chiedere a ciascuno di voi è la seguente: Il nostro Paese è mai stato capace di scegliere i suoi migliori? O continuerà a preferire chi non fa ombra, chi non disturba, chi non rompe gli equilibri? 

Il sottoscritto, conosce bene la risposta (purtroppo…), avendola subita sulla propria pelle!

Dal procuratore Zuccaro a Trantino: sei anni per capire che a Catania serve l’esercito

Già… sono passati ben sei anni da quel lontano 21 aprile 2019, quando riportavo in questo blog un post intitolato: Un’intervista “stranamente” passata in sordina: “A Catania… serve l’esercito”! – link: https://nicola-costanzo.blogspot.com/2019/04/unintervista-stranamente-passata-in.html. 

Allora, il procuratore Carmelo Zuccaro denunciava una situazione drammatica: quartieri degradati, spaccio controllato dalla mafia, reclutamento di giovani come pusher, e un sistema di videosorveglianza gravemente inefficiente. 

La sua proposta? L’impiego dell’esercito in supporto alle forze dell’ordine, un intervento necessario per riprendere il controllo di strade ormai in balia della criminalità.

Eppure, per anni, solo silenzio. Quell’appello cadde nel vuoto, soffocato dall’indifferenza e dalla miopia politica.

Fino ad oggi, già… fino a quando, con sei anni di ritardo, il sindaco Trantino ha riscoperto quell’urgenza che altri avevano già gridato.

Nel suo recente incontro a Palazzo Chigi con la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, ha presentato un dossier in cui chiede proprio questo: un rafforzamento dell’operazione “Strade Sicure“, con militari schierati nelle aree più critiche della città. 

Una richiesta che, se accolta, potrebbe segnare una svolta, ma che arriva con sei anni di ritardo rispetto a quell’allarme lanciato dal procuratore Zuccaro e da me ripreso con insistenza.

Trantino ha parlato anche di altre emergenze, come l’abbandono dei rifiuti e la necessità di misure più severe, ma il cuore della questione resta la sicurezza. La premier, a suo dire, si è mostrata attenta e disponibile. 

Bene… meglio tardi che mai. Peccato, però, che ci sia voluto così tanto per arrivare a questa consapevolezza.

Come scrivevo già lo scorso anno: In Sicilia, ma non solo, c’è bisogno dell’esercito nelle strade!!!https://nicola-costanzo.blogspot.com/2024/01/in-sicilia-ma-non-solo-ce-bisogno.html, la situazione richiedeva da tempo interventi decisi. 0

Ora che anche il primo cittadino lo riconosce, non resta che sperare che le parole si traducano in fatti, senza ulteriori ritardi. 

Perché Catania, e i suoi cittadini, non possono più aspettare.

Sindaci arrestati, uffici corrotti, silenzi assordanti: la solita storia siciliana!

Già… dopo ogni arresto, lo stesso copione. Ed è per questo che in Sicilia non cambierà mai nulla!
Ho letto stamani che è stato arrestato dai carabinieri l’ennesimo “sindaco”, accusato dei reati di turbata libertà degli incanti e falso ideologico, insieme a un consigliere comunale.
Oltre a lui, sono indagati nell’inchiesta della Procura anche il capo dell’ufficio tecnico del Comune e altri due impiegati dello stesso ufficio, che – sempre secondo l’accusa – avrebbero favorito le aggiudicazioni degli appalti nel paese.
Ovviamente, come solitamente accade in questi casi – per chiudere il cerchio – sono stati coinvolti nell’indagine alcuni imprenditori e liberi professionisti, mentre restano sospesi dal servizio i RUP degli appalti incriminati. Le misure sono state notificate con la sospensione dai pubblici uffici per 12 mesi e il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione per altrettanti mesi.
Certo, scoprire che le indagini vertono su appalti per opere pubbliche e affidamenti diretti risalenti al 2019-2020 – quindi a oltre cinque anni fa – mi fa persino temere ciò che possa essere accaduto nel frattempo…
Ma d’altronde, come ripeto spesso, la Sicilia è una terra che non smette mai di raccontare storie. E solitamente si tratta di quelle di ordinaria illegalità, giochi di potere, legami che si stringono nell’ombra.
Come avete potuto leggere, non troverete i nomi degli indagati. Sì… mi sono stancato di riportare quanto è facilmente reperibile sul web. E poi, francamente, non servono né i nomi né i cognomi, perché il meccanismo è sempre lo stesso, ripetuto all’infinito. Già… come un copione scritto.
È vero, i nomi cambiano, così come i volti. Ma sapete bene che, alla fine, il sistema rimane intatto. È proprio il sistema che non funziona o meglio, funziona perfettamente per chi, dall’interno delle istituzioni, si piega al malaffare, abbassa la testa e firma quando serve. Non solo: ci si piega alle regole per trarne vantaggio personale, incuranti di svendere la propria dignità per qualche migliaio di euro o per ottenere un po’ più di potere.
Ecco perché gli appalti truccati, le gare pilotate, le carte falsificate non sono semplici reati. Rappresentano i sintomi di un male molto più profondo. Come ho ripetuto negli anni in questo mio blog, sono la prova che la mafia non sopravvive solo con la violenza, ma grazie alla complicità di chi dovrebbe combatterla.
E ahimè… ci sono tutti: funzionari, impiegati, professionisti, individui che hanno trasformato il pubblico in privato, facendo del bene comune un affare personale. E così, anno dopo anno, nulla cambia!
Sì… le inchieste si susseguono, le manette (quando vengono davvero allacciate ai polsi) scattano, ma il gioco continua incessantemente, perché per ogni arresto c’è già qualcuno pronto a prendere il posto, a ripetere gli stessi gesti, a perpetuare lo stesso sistema.
Non si tratta, quindi, solo di combattere la criminalità organizzata, ma di stravolgere questa mentalità corrotta. Sì… quella mentalità che considera tutto acquistabile, che vede le regole come ostacoli da aggirare, dove la furbizia prevale sulla legalità.
E così… mentre c’è chi lotta, chi rischia in prima persona, chi cerca di cambiare le cose anche attraverso la formazione (pochi individui non ancora compromessi, che possono permettersi – col proprio nome e cognome – di scrivere e denunciare questo infido sistema), c’è chi, seduto alla stessa scrivania da cui dovrebbe servire lo Stato, firma accordi sottobanco, gira la testa dall’altra parte e finge di non vedere (come scrivo nel mio blog: neppure l’elefante nella stanza…).
Eppure, la verità è semplice: finché ci sarà chi, per convenienza o per paura, si piegherà al malaffare, la Sicilia non sarà mai libera!
Non basta, quindi, arrestare un sindaco, non basta sospendere un funzionario. Serve qualcosa di più radicale: la scelta quotidiana di chiunque abbia un ruolo, un potere, una responsabilità, di mettere la coscienza davanti all’interesse.
Perché senza quella, nessuna operazione, nessuna indagine, nessuna legge potrà mai bastare. E continueremo – purtroppo – a vivere in questa terra infetta e corrotta!

Quando la mafia si maschera da normalità: il grido d’allarme di Nicola Gratteri.

Avevo appena finito di leggere un articolo che riportava le parole di un sindaco: «Gratteri a sto giro ci ha fregati» . Era il commento a caldo su un’inchiesta della Dda di Catanzaro, che vedeva coinvolto un ente locale nell’ambito di presunti favori ad una cosca. 

E così… mentre ancora cercavo di metabolizzare quel senso di amarezza, ho proseguito la mia lettura e mi sono imbattuto in un altro articolo – ancora una volta dedicato al procuratore Nicola Gratteri, ospite dell’associazione Terni Domani, guidata da Antonio Giannini. 

Durante l’incontro, Gratteri lascia cadere una frase che sembra pesare come un macigno: “Le mafie sono figlie del nostro tempo. Si adattano alla società, si mimetizzano, crescono dove trovano terreno fertile. E soprattutto, esistono perché ci interagiamo.”

Ecco, questa frase non è solo una constatazione, è una fotografia precisa, spietata, di ciò che siamo diventati. Perché Gratteri non parla mai a caso. Ogni sua parola è il frutto di decenni di lavoro sul campo, di indagini, di confronti diretti con un sistema criminale che non solo resiste, ma si evolve, si integra, diventa quasi invisibile. 

Lo fa insieme ad Antonio Nicaso nel libro “Una Cosa sola – Come le mafie si sono integrate al potere”, un viaggio lucido e doloroso dentro l’anima oscura della criminalità organizzata.

Ma allora chiedo: come nasce questa integrazione? Come riesce la mafia a radicarsi così profondamente nella vita quotidiana, fino a sembrare parte integrante del paesaggio?

Gratteri lo spiega con disarmante semplicità: “Arrivano, comprano un bar, un ristorante, magari un albergo. È lì che inizia tutto. Da quel punto cominciano a costruire rapporti, a offrire lavoro nero, a pagare poco, a radicarsi nel tessuto economico e sociale. E poi, piano piano, arrivano al controllo dei voti. Fanno votare chi decidono loro.”

Non si tratta più solo di violenza o paura. Oggi la mafia si espande attraverso il consenso. E quel consenso lo compra con piccoli gesti: un posto di lavoro, una promessa, un caffè offerto con troppa insistenza. Un dettaglio banale, forse, ma carico di significato: “Io conto, io sono rispettato. Tu devi tenerne conto.”

Così, il famoso “rito del caffè” diventa simbolo di una relazione malata tra mafia e società civile. Quanti ti offrono il caffè, quanti ti salutano con deferenza, quanti abbassano lo sguardo – tutti segnali di quanto potere tu abbia. E di quanto, talvolta, lo accettiamo senza battere ciglio.

Eppure, se la mafia si evolve, anche lo Stato dovrebbe adeguarsi. Ma qui arriva il punto dolente.

Gratteri non usa mezzi termini: “Oggi il punto più avanzato delle mafie è il darkweb. Con un telefonino qualsiasi puoi comprare armi, droga, persone. Puoi acquistare dati sensibili, informazioni compromettenti su politici, imprenditori, figure pubbliche. E usarle per ricattare, per ottenere vantaggi. La cocaina? Basta un click”.

Il web oscuro è diventato il supermercato globale del crimine. E davanti a questo scenario, alcune scelte politiche appaiono sempre più distanti dalla realtà. Quando sento parlare di riduzione delle intercettazioni telefoniche, di ritorno ai pedinamenti tradizionali, non posso fare a meno di chiedermi: ma di quale realtà stiamo parlando?

“Se posso comprare 2mila chili di cocaina con un clic, mi dite chi devo pedinare?” – chiede Gratteri. Una domanda retorica, certo, ma anche una critica diretta, un invito a ragionare sugli strumenti investigativi che, pur costosi, sono fondamentali per colpire la criminalità moderna.

E allora, dice lui, fermiamoci un attimo a guardare i numeri: “Le intercettazioni costano 170 milioni all’anno? E cosa sono, in confronto ai beni confiscati, alle centinaia di arresti, ai milioni di euro recuperati grazie a quelle stesse intercettazioni?

Gratteri non parla per spirito polemico, ma per senso di responsabilità. Dice: “Io lavoro 12 ore al giorno da oltre trent’anni per combattere la mafia. Se vedo qualcosa che non va, non resto zitto. Perché il silenzio è complicità”.

E allora viene spontaneo chiedersi: se lo Stato sa, se conosce le tecniche, gli strumenti, i metodi usati dalle mafie… perché non riesce a sradicarle definitivamente? Perché, specialmente in Sicilia, la mafia continua a condizionare la vita sociale, economica e politica?

Forse perché la mafia non è solo un fenomeno criminale. È un sistema che si alimenta di complicità, di omissioni, di connivenze. E quando i confini tra legale e illegale si fanno sfumati, quando i partiti smettono di rappresentare ideali per diventare mere caselle di scambio di favori, allora la mafia non ha bisogno di sparare: basta che stringa una mano, firmi un contratto, dia un posto di lavoro.

Ecco perché, purtroppo, la battaglia contro la mafia non è solo nelle mani della giustizia. È anche nelle nostre scelte quotidiane, nei silenzi che rompiamo, nelle cose che decidiamo di non accettare più come normali.

Gratteri ce lo ricorda con forza: “La mafia non è né di destra né di sinistra. Sta con chi garantisce favori”!

E finché ci saranno favoreggiatori, indifferenti e complici, essa continuerà a vivere. Nonostante le inchieste, nonostante gli arresti, nonostante i libri come “Una Cosa sola” che provano a svegliare le coscienze.

La vera sfida non è solo quella di perseguire i boss, ma di cambiare il modo in cui guardiamo al potere, al denaro, alla politica. E di capire che, ogni volta che voltiamo lo sguardo, siamo noi stessi a dare loro forza.

E se le Istituzioni conoscono bene il problema, allora non può esserci alibi possibile!

 Il fatto che, dopo tanti anni, la mafia continui a radicare il suo potere in Sicilia non è solo un fallimento operativo. È anche un fallimento culturale, morale, politico. Ed è un fallimento che ci riguarda tutti.

Perché finché non cambieremo il nostro sguardo, finché non smetteremo di tollerare quel caffè offerto con troppa insistenza, quei silenzi che diventano complicità, quelle promesse che sappiamo essere sbagliate ma accettiamo per convenienza… be’, allora non possiamo davvero dire di stare dalla parte della legalità.

Possiamo solo chiederci, onestamente: chi, tra noi, sta ancora permettendo che tutto questo continui?

Nomi noti, potere immutato: l’eterna ombra sulla Sicilia

La Sicilia è un’isola che respira storia, cultura e bellezza, ma anche un luogo dove certe ombre non accennano a dissolversi. 

Sono passati decenni, eppure quelle stesse famiglie, quelle stesse strutture di potere criminale, continuano a governare interi territori con la stessa ferrea determinazione. 

Le istituzioni conoscono i nomi, i cognomi, i movimenti, eppure sembra che ogni sforzo per sradicare questo male sia destinato a svanire nel vento.

C’è una resistenza che sfida il tempo, una capacità di adattarsi, di mutare forma senza perdere la sostanza. Le indagini si susseguono, le operazioni si moltiplicano, ma il risultato è sempre lo stesso: un gioco infinito di gatto e topo. 

Le nuove generazioni ereditano non solo i nomi, ma anche i metodi, mentre i vecchi boss, anche dietro le sbarre, continuano a tirare le fila. È un sistema che si rigenera, che trova sempre nuove strade per infiltrarsi nell’economia legale, nelle istituzioni, nella vita quotidiana di chi vorrebbe solo vivere in pace.

Il pizzo non è un ricordo del passato, ma una realtà che ancora oggi strozza i commercianti. La droga scorre come un fiume inarrestabile, arricchendo chi decide, chi vive e chi muore. E mentre le giovani leve sfoggiano armi e lusso sui social, dimostrando una spregiudicatezza senza regole, la vecchia guardia sorveglia, calcola, pianifica. È una convivenza paradossale, fatta di tensioni e alleanze, dove ogni tregua è solo l’attesa della prossima guerra.

Le istituzioni sanno, hanno sempre saputo. Eppure, non basta. Non basta sequestrare beni, non basta arrestare capi e gregari, perché il problema è più profondo, più radicato. È una questione di potere, di paura, di silenzi complici. Finché ci sarà chi abbassa lo sguardo, chi preferisce pagare piuttosto che denunciare, chi considera la mafia un male inevitabile, nulla cambierà davvero.

La soluzione? Forse non esiste una formula magica, ma solo la necessità di una lotta che non si fermi mai, che coinvolga non solo le forze dell’ordine, ma ogni cittadino, ogni famiglia, ogni scuola. 

Perché la mafia non si combatte solo con le manette, ma con un cambiamento che parta dalle coscienze. E finché ci sarà chi ha il coraggio di alzare la voce, di resistere, di credere in una Sicilia diversa, allora forse, un giorno, quelle ombre potranno davvero dissolversi.

Altro che James Bond: la mafia non ha bisogno di "auto subacquee", quando ha il porto di Catania!

Altro che James Bond, 007, auto trasformabili in sottomarini, la droga entrava nell’isola dal Porto di Catania!

Secondo le indagini e quanto rivelato da alcuni affiliati dei clan mafiosi, e a conferma di quanto avevo riportato quest’anno nel mio post intitolato “Droga a quintali in Sicilia: il controllo del territorio che non c’è!” al link https://nicola-costanzo.blogspot.com/2025/04/droga-quintali-in-sicilia-il-controllo.html a cui faceva seguito un altro post dello scorso anno intitolato “Controllo del territorio in Sicilia??? Manca – secondo il sottoscritto – un serio coordinamento!!!” al link https://nicola-costanzo.blogspot.com/2024/01/controllo-del-territorio-in-sicilia.html ecco che arriva – ahimè – l’ennesima dimostrazione, sì… di quanto i controlli siano spesso un’illusione, una fragile cortina dietro cui si muovono interessi ben più concreti e soprattutto più sporchi.

Perché la mafia non ha bisogno di gadget fantasiosi o di operazioni degne di uno spy movie quando può contare sulla complicità di chi quelle strutture le gestisce davvero, sui silenzi di chi sa e non parla, sulle porte lasciate aperte da chi avrebbe il dovere di vigilare, e allora viene in mente quella frase di Falcone, “dove c’è la natura umana c’è rischio di corruzione“!

Perché è proprio questo il punto, non servono minacce o intimidazioni quando basta un vantaggio, una raccomandazione, un tornaconto personale per far sì che tutto scorra liscio, come l’acqua tra le fessure di un molo, come la cocaina che arriva dal Sud America e passa indisturbata tra container e documenti falsificati, con la regia di chi lavora dentro quel porto e sa esattamente come evitare i controlli…

Già… come cambiare telefono prima che qualcuno possa intercettare, come usare auto intestate ad altri per non lasciare tracce, perché il vero potere della mafia non sta nella violenza ma nella capacità di infiltrarsi nel quotidiano, di normalizzare l’illecito, di far sembrare inevitabile quello che invece è solo il frutto marcio di una società che troppo spesso abbassa la testa e accetta!

Non importa che si tratti di un impiegato che chiude un occhio, di un professionista che sistema le carte, di un cittadino che preferisce non vedere, l’importante è che il sistema regga ai controlli, non grazie alla paura ma grazie alla connivenza, alla rassegnazione, a quella mentalità per cui “tanto è sempre stato così“…

E così, mentre le indagini della Guardia di Finanza portano alla luce arresti e sequestri, milioni di euro e chili di droga, la domanda vera che dovremmo porci è: quanti altri porti funzionano così? Quanti altri traffici scorrono indisturbati? Quanta altra cocaina arriverà prima che qualcuno decida davvero di cambiare le cose? 

Perché la mafia non è un mostro lontano, è qui, tra noi, nelle piccole cose che accettiamo, nelle complicità che non denunciamo, nell’indifferenza che ci rende complici, e forse è proprio questo il vero male, più della droga, più dei soldi sporchi, più delle pistole, quel silenzio che uccide ogni speranza di giustizia.

"La mafia avrà una fine"? Forse, ma non grazie a Voi!

Sì… lo so… la frase corretta avrebbe dovuto essere: “La mafia avrà una fine”? Forse, ma non grazie a noi!

Ho ascoltato le parole pronunciate durante le commemorazioni della strage di Capaci, l’eccidio che costò la vita al magistrato Giovanni Falcone, alla sua collega e compagna Francesca Morvillo, e agli agenti della scorta.

E come accade ogni anno – siamo giunti al 33° anniversario – risuona la solita frase del giudice Falcone: “La mafia, come ogni fatto umano, ha avuto un inizio e avrà anche una fine!”.

Già… lo ripeteva spesso, il giudice. Sollecitando coerenza, impegno educativo, spronando la società a fare la propria parte. Soprattutto gli uomini e le donne delle istituzioni, a ogni livello.

E così, anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha voluto ricordare l’importanza di “tenere sempre alta la vigilanza, coinvolgendo le nuove generazioni nella responsabilità di costruire un futuro libero da costrizioni criminali”. Ha aggiunto: “La mafia ha subìto colpi pesantissimi, ma all’opera di sradicamento va data continuità, cogliendo le sue trasformazioni, i nuovi legami con attività economiche e finanziarie, le zone grigie che si formano dove l’impegno civico cede il passo all’indifferenza”.

Sì… belle parole…

Ma quando osserviamo le riforme approvate dai vari governi, le norme che di fatto tutelano il malaffare invece di contrastarlo…

Quando scopriamo l’assenza di provvedimenti contro funzionari collusi, pubblici ufficiali infedeli, corrotti che lavorano indisturbati a libro paga…

Quando la politica protegge i propri referenti anziché consegnarli alla giustizia…

Quando si mercanteggiano poltrone (parlare di dignità, qui, sarebbe grottesco) in cambio di voti pilotati dalla stessa criminalità che si dice di voler combattere…”

Beh, a sentire tutta questa retorica sterile, capisco perché chi ha davvero combattuto la mafia ne ha pagato il prezzo, mentre chi si è limitato a parlarne è ancora lì, a recitare proclami.

La mafia? È ovunque, e lo sappiamo!

La verità è che la mafia – contrariamente a quanto ci raccontano – è presente in ogni piega della società!

Comincia piazzando i suoi uomini nei consigli comunali, provinciali, regionali, per poi spingerli a livello nazionale. Dirigenti nominati negli enti pubblici, ospedalieri, universitari, ordini, etc… Persino nella magistratura, dove il sistema massonico-clientelare decide chi sale e chi scende.

Ai cittadini restano le briciole. Se stanno zitti, ubbidienti, se rispettano le regole del gioco, se sanno a chi rivolgersi per risolvere i problemi, allora anche quel sistema “parallelo allo Stato” si prende cura di loro.

Il meccanismo è semplice…

Cerchi un lavoro? Non servono curriculum. Ci pensano loro a raccomandarti. Che tu sia competente o totalmente incapace (ormai la norma) non importa. L’importante è che obbedisci, chiudi un occhio (o due), ti sporchi le mani. E se ti comporti bene, arriverà anche la tua bustarella.

Negli appalti aggiudicati ci sono sempre loro, con le loro società “limpide”. Ah, già: quelle società sono controllatissime, figurano persino nella whitelist!

Hai un’urgenza ospedaliera? La fila è per i fessi – come me, te e pochi altri. Gli altri cercano l’amico dell’amico che bypassa il triage, perché le liste d’attesa prioritarie sono solo per chi non ha santi in paradiso.

E lo stesso vale per una pratica protocollata, un nulla osta, un’autorizzazione, una richiesta ufficiale, un parere favorevole, una verifica di documento. Per ogni “pratica in lavorazione”, “approvazione pendente”, “documentazione respinta per motivi formali”, “pratica archiviata”.

Finiamola quindi con i teatrini.

Tutti questi individui – proprio quelli che Falcone esortava a “fare la propria parte” – invece si mettono al servizio del sistema marcio. Sono gli uomini e le donne delle istituzioni, a ogni livello, che permettono tutto questo.

Quindi, basta commemorazioni ipocrite: portiamo vero rispetto ai caduti della lotta alla mafia, ai testimoni di una giustizia che pochi oggi ricordano – e ancora meno hanno il coraggio di praticare!”

La complicità invisibile: abitudine, compromesso, convenienza e soprattutto silenzio!

Cari lettori,

oggi vi propongo una riflessione che non è nata da me, ma che sento profondamente mia. È una riflessione necessaria, urgente, e ahimè ancora troppo attuale.

Per cui, le parole che seguiranno non sono le mie, ma quelle di uomini che hanno dedicato la loro vita alla lotta contro la mafia, pagando spesso con il prezzo più alto. 

Parole di verità pronunciate da Paolo Borsellino, Antonino Caponnetto e Giovanni Falcone, tre figure che ci hanno lasciato un’eredità pesante, fatta di coraggio, lucidità e dolore, verità che ancora oggi faticano ad aprirsi un varco nella nostra coscienza collettiva.

La mafia, lo sappiamo, non è solo sangue e stragi. La mafia è consenso. Ecco cosa intendeva Borsellino quando diceva: “La mafia non dichiara guerra, ma condiziona”. Non ha bisogno di sparare se può corrompere. Non deve minacciare se trova chi, per interesse o convenienza, si piega spontaneamente. Si insinua nelle maglie deboli dello Stato, ne occupa i vuoti, ne prende il posto. E lo fa grazie a chi abbassa lo sguardo, a chi si convince che “tanto non cambierà mai nulla”, a chi addirittura ci guadagna.

Caponnetto ce lo ricordava con forza: la mafia non è solo un fenomeno di periferia. È radicata nelle élite, è parte integrante del potere. Non è più un alleato subordinato, ma un concorrente diretto per il controllo delle istituzioni. E quando lo Stato è fragile, quando la società è distratta, allora la mafia avanza. Silenziosa, invisibile, ma pervasiva.

Ecco perché la mafia resiste. Perché siamo noi a nutrirla. Lo ripeteva Falcone: “Il terrorismo è stato sconfitto perché la società civile si è mobilitata”! Ma con la mafia? Noi reagiamo alle immagini scioccanti, ai cadaveri ammazzati. Ci indigniamo, ci commuoviamo. Poi voltiamo pagina. E continuiamo a tollerare quel sistema di favori, clientelismo, voto di scambio, piccole e grandi illegalità quotidiane. Perché tanto, si sa, “è così dappertutto”. E allora ci adattiamo. Accettiamo il compromesso. Preferiamo il silenzio alla denuncia!

Ma il vero nemico della mafia non è solo chi combatte, è chi sceglie di non arrendersi. Chi ogni giorno decide di non cedere al comodo, al facile, al “così fan tutti”. Chi pretende trasparenza da chi governa, da chi decide, da chi rappresenta. Chi rifiuta di far parte di quel gioco perverso in cui anche il più piccolo accomodamento alimenta un sistema malato.

Perché la mafia non teme le commemorazioni, gli applausi, le lapidi. Teme una società che smette di offrirsi. Che smette di piegarsi. Che smette di tacere.

Ecco, allora, la vera sfida: non aspettare gli eroi. Essere persone normali, ma coerenti. Essere cittadini che ogni giorno, con piccoli gesti, scelgono di stare dalla parte della legalità. Perché la mafia non è solo al Sud. È ovunque esiste qualcuno disposto a barattare il bene comune per un vantaggio personale.

Oggi, come ieri, la scelta è nostra. E su questo, Falcone ci ha lasciato un’ultima, dolorosa verità: “Chi tace e chi piega la testa muore ogni volta che lo fa. Chi parla e chi cammina a testa alta muore una volta sola”.

La criminalità che abita in noi (Parte 1).

Già… spesso pensiamo alla criminalità organizzata come a un corpo estraneo, un cancro da estirpare, un mostro da combattere.

Ma forse è proprio in questa visione che rischiamo di perdere il punto.

La criminalità non è un’escrescenza aliena rispetto alla società: al contrario, è un prodotto della società stessa, figlia di dinamiche storiche, economiche e culturali che ci riguardano da vicino. 

Non sto dicendo che siamo tutti mafiosi – evitiamo facili meccanismi autoflagellatori – ma dobbiamo ammettere di vivere in un tessuto sociale dove l’illegalità, in molte sue forme, è diventata una normalità silenziosa, talmente radicata da non farci più nemmeno accorgere della sua presenza.

Ed è proprio qui che nasce il problema: in questo contesto, la figura dell’affiliato non è più un’anomalia, ma una conseguenza quasi necessaria.

Limitarci alla semplice indignazione, allora, non serve a nulla. E ancor meno quando questa indignazione si manifesta solo occasionalmente, durante quelle “programmate” commemorazioni, senza mai tradursi in analisi profonde o azioni strutturate. Se continuiamo a fermarci alle parole, niente cambierà davvero.

C’è qualcosa che molti fanno finta di non capire: la criminalità non è una struttura immobile. È dinamica, si adatta ai cambiamenti sociali ed economici con una flessibilità impressionante. Ma non basta: da tempo essa si presenta come un modello d’impresa, operante anche su scala globale.

Oggi, infatti, i business sono ben diversi da quelli di una volta. Si va dalla gestione dei finanziamenti pubblici, allo smaltimento illegale dei rifiuti, dagli appalti per le infrastrutture alle costruzioni edilizie, fino alla gestione di attività commerciali legali. A questi si sommano, ovviamente, i traffici illegali tradizionali: droga, prostituzione, tratta di esseri umani, estorsioni. Ma soprattutto, c’è tutta una serie di metodi coercitivi, come il pagamento del pizzo, che non sempre vediamo o denunciamo.

Tutto questo genera un sistema sofisticato, fondamentale per riciclare il denaro sporco e renderlo pulito, legale agli occhi del mondo.

Ecco perché oggi la criminalità non è più quella di una volta: non si tratta più di “quattro pastori” sulle montagne, ma di vere e proprie multinazionali del crimine. Sanno dove investire, quando diversificare, come infiltrarsi nei settori legali con competenze professionali, spesso superiori a quelle di tanti professionisti onesti.

I nuovi mafiosi non sono più boss con la coppola: sono laureati, partecipano a concorsi pubblici, lavorano nella pubblica amministrazione, entrano in politica, si avvicinano alla magistratura. Usano la loro influenza finanziaria per manipolare appalti, associazioni, e soprattutto per orientare la volontà dei cittadini, fino a condizionare le loro scelte elettorali.

Non parliamo più di violenza esplicita, ma di una capacità sottile e pervasiva di normalizzare la propria presenza. Una presenza che non ha bisogno di imporsi con le minacce, perché trova terreno fertile in una società che, spesso senza rendersene conto, le concede spazi enormi.

Ecco perché i cittadini vivono una sorta di doppia appartenenza : da un lato lo Stato, dall’altro la criminalità organizzata. Due sistemi che si alternano nel ruolo di protettore e persecutore, creando una condizione psicologica e sociale profondamente ambigua.

Viene spontaneo chiedersi: da dove nasce questa ambiguità? Quali motivi vanno cercati per contrastare una cultura del successo a ogni costo, la legittimazione della sopraffazione, l’idea diffusa che la furbizia e la faccia tosta siano addirittura virtù?

Ed è proprio questa mentalità, questa idea distorta del “farla franca”, che alimenta il messaggio su cui si basa la cultura criminale. Un messaggio che non urla, non spara, ma si insinua piano piano tra le pieghe della quotidianità, finché non diventa parte integrante del nostro modo di pensare.

(Continua nella seconda parte…)

E’ il silenzio generale che permette alla criminalità organizzata di operare indisturbata!

Quante segnalazioni di usura ed estorsione vengono presentate nella nostra isola? Poche, quasi nulle. I dati parlano chiaro: le denunce calano, mentre i reati crescono in modo esponenziale.

E no, non è merito di uno Stato forte e presente, come qualcuno vorrebbe farci credere. È la paura!

Quella stessa paura che paralizza la gola quando sai che una denuncia potrebbe costarti tutto: la tua attività, la serenità dei tuoi cari, persino la vita…

Ho letto da qualche parte che un prefetto – non ricordo più di quale regione del Sud – ha ammesso numeri da brividi: meno di venti denunce per estorsione, meno di dieci per usura. Su migliaia di imprenditori. Su migliaia di famiglie. Vi rendete conto?

Eppure lo sappiamo bene: quando qualcuno trova il coraggio di parlare, spesso è già troppo tardi. È come quei pentiti di mafia che si ravvedono solo con le manette ai polsi. Troppo comodo. Il vero coraggio sarebbe denunciare prima, collaborare prima, prima che ti schiaccino. Ma come puoi farlo, quando lo Stato ti lascia solo contro un sistema che ha radici più profonde del tuo desiderio di giustizia?

Perché è questo il punto: lo Stato, in questi anni, ha dimostrato di non essere in grado di vincere questa guerra o forse, semplicemente, non ha voluto. Troppi interessi, troppe connivenze, troppe strette di mano con chi dovrebbe essere in galera. E allora l’imprenditore onesto è costretto a una scelta atroce: pagare il pizzo in silenzio o rinunciare a tutto ciò che ha costruito, pur di riprendersi la libertà.

Ma la libertà non dovrebbe essere un lusso. Non dovrebbe essere una scelta tra la rovina e l’umiliazione. Eppure, eccoci qui, nel 2025 – sì, scriviamolo nero su bianco, perché nessuno dimentichi – ancora a contare i nostri morti civili, ancora a far finta di non vedere.

Le nostre urla non vengono ascoltate. Sono come quella canzone di Alessandra Amoroso: “Perchè urlo, ma non mi senti“! E allora basta chiacchiere. Basta manifestazioni di facciata, basta promesse. Se vogliamo davvero cambiare le cose, servono fatti. Servono leggi che proteggano chi denuncia, servono politici che non si vergognino di stare dalla parte giusta.

Altrimenti, questo silenzio resterà l’unico suono che ci accompagnerà. E sarà più assordante di qualsiasi grido.

E allora basta col pronunciare parole sterili: pensate a quell’imprenditore che ieri ha chiuso l’attività, dopo trent’anni di lavoro. Guardate ora a suo figlio, sì… che sogna di andar via, perché qui non c’è alcun futuro!

La loro unica colpa? Aver creduto che la giustizia fosse più forte della paura!

Gratteri ha ragione: in questo Paese la giustizia è solo per i poveri!

Ho ascoltato le parole del magistrato Nicola Gratteri, ospite ad “Accordi&Disaccordi“, il talk condotto da Luca Sommi su Nove con la partecipazione di Marco Travaglio e Andrea Scanzi. Ha parlato di giustizia a due velocità: garantismo per i potenti e sanzioni durissime contro i manifestanti.

A dimostrazione che in questo Paese non si vuole cambiare!
Quante volte l’abbiamo sentito dire, sussurrato nei corridoi, urlato per strada dopo l’ennesimo arresto in flagranza? L’ennesimo funzionario colto con le mani nella cassa, l’ennesimo politico che intasca mazzette come se fossero caramelle… “Sì… ma tanto non succede niente…
E infatti, mentre il Dott. Gratteri – come pochi altri – si consuma in trincea contro la criminalità organizzata (e non solo), il Governo risponde con leggi vergognose: norme che non servono a stroncare l’illegalità, ma a proteggere chi la pratica. Funzionari infedeli, politici corrotti, colletti sporchi di mafia: tutti più al sicuro oggi, grazie a riforme scritte col bilancino, sì… pendenete verso la dorruzione.
Pensateci: arrestano un corrotto con le banconote ancora in tasca, e poi? Il processo si trascina per anni, la prescrizione divora tutto, la carriera prosegue indisturbata. Intanto, chi denuncia rischia il linciaggio, chi indaga viene ostacolato, e lo Stato? Lo Stato abbassa la testa e firma leggi ad hoc!
So bene di cosa si tratta. Io, che ho vissuto in prima persona il contrasto al malaffare e all’illegalità, posso confermare: in tutti questi anni è sempre stato così. E così, ahimè, continua ancora oggi!
E proprio qui sta il tradimento: normalizzare la corruzione è il primo passo per renderla invincibile. Gratteri lo ripete da anni: Se togli gli strumenti alle Procure, non stai combattendo la criminalità. La stai proteggendo.
E allora? Allora serve urlare che questo non è “tolleranza zero”, ma complicità! Che ogni riforma finta, ogni legge scritta col contagocce per i potenti, è un pugno nello stomaco a chi crede ancora nello Stato. Come me.
Perché il problema, come ho scritto proprio in questi giorni, non sono solo le mazzette che passano di mano, è il sistema che le lascia circolare, e poi si gira dall’altra parte.
E io, oggi, sono qui a dirvelo con il cuore gonfio di delusione. Perché dopo anni spesi a lottare per far emergere la legalità dove non c’era, mi ritrovo a constatare che le regole del gioco sono sempre le stesse e chi dovrebbe cambiarle, invece, le sta scrivendo a misura di chi non vuole cambiare nulla.

Quando la mafia siede in Consiglio comunale!

C’è una vergogna che torna ciclicamente a bussare alle porte delle istituzioni, una piaga che non smette di scavare nel tessuto del Paese… 

Ieri, ancora una volta, lo Stato ha dovuto alzare la mano e dichiarare: qui non si governa più!

Quattro realtà locali, disseminate tra Nord e Sud, sono state sciolte per infiltrazioni mafiose. Non è un fulmine a ciel sereno, ma l’epilogo annunciato di storie di connivenze, appalti pilotati, scambi oscuri tra politica e criminalità.

La domanda sorge spontanea: come si arriva a questo punto? Come fa un’intera amministrazione a diventare terreno di conquista per quelle associazioni criminali? 

Le risposte, purtroppo, sono sempre le stesse: silenzi complici, omissioni, quella sottile linea grigia in cui l’interesse pubblico si confonde con affari privati. E quando la situazione sfugge di mano, non resta che l’intervento drastico: commissariamento, diciotto mesi di gestione straordinaria, la speranza di un ripartenza pulita.

C’è chi grida allo scandalo, chi parla di decisioni politiche, chi promette ricorsi. Ma al di là delle polemiche, resta un dato innegabile: quando la criminalità organizzata mette radici nelle stanze del potere locale, è la democrazia stessa a essere ferita. 

Non si tratta solo di sostituire amministratori, ma di restituire fiducia a comunità lasciate in balia di logiche perverse.

Eppure, ogni volta che accade, c’è qualcosa di profondamente sbagliato nel modo in cui reagiamo. 

Perché dietro ogni scioglimento c’è una domanda che non vogliamo farci: come abbiamo fatto ad arrivare fin qui? E, soprattutto, cosa possiamo fare perché non accada di nuovo? 

Già… la colpa è anche vostra. Perché fintanto che la vostra preferenza sarà legata a un tornaconto personale – una raccomandazione, un favore, un posto di lavoro – non potete stupirvi se poi, a Palazzo, siedono gli stessi che hanno fatto dei vostri bisogni un affare.

Quindi, vi prego: non fate finta di non sapere quanto vale il vostro voto. Lo sapete bene.

E c’è chi, purtroppo, quel prezzo lo ha già pagato al posto vostro.


Prezzemolo per tutti: il pizzo è servito (con conto allo Stato).

“Ed allora, quale busta desidera, eh? La uno, la due o la treee?”.
Già, come dimenticare quella celebre frase di Mike Bongiorno che per anni ha fatto sognare gli italiani davanti al televisore. 
Peccato che oggi, in un paese dove tanti faticano persino a comprarsi il pane, c’è chi invece aspetta con ansia un altro tipo di busta: quella mensile, quella illegale, quella che non viene vinta ma pretesa. 
Sì, perché quella che con ipocrisia chiamano “bustarella“, non è altro che un pizzo travestito da burocrazia, una tangente che non viene pagata per paura, ma per convenienza, per affari, per quel sistema marcio che ormai si è insinuato dappertutto, dagli uffici comunali ai ministeri, dagli appalti alle concessioni, dalle licenze ai favori politici.
E mi viene in mente quel ragazzino di Catania, trent’anni fa, che davanti alle telecamere della Rai rispose senza scomporsi a un giornalista che gli chiedeva del pizzo: “Macari cu vinni puddisino pava!” – “Anche chi vende prezzemolo paga!“.

Quella frase mi colpì come un pugno nello stomaco, e da allora non mi ha più abbandonato. Perché è la verità nuda e cruda: tutti pagano, chi più chi meno, chi con qualche centinaio di euro per far sbloccare una pratica, chi con migliaia per aggiudicarsi un appalto, chi con milioni per comprarsi un pezzo di Stato.

E intanto noi, quelli che le tasse le pagano davvero, quelli che si sfiniscono di lavoro per non dover niente a nessuno, riceviamo in cambio servizi che fanno pietà, una burocrazia che ti strozza, un paese che invece di camminare arranca, perché ogni passo è ostacolato da qualcuno che vuole la sua busta.

E lo Stato? Lo Stato fa finta di non vedere. I giornali, spesso finanziati da quel sistema corrotto, sorvolano. I controlli? Una presa in giro. Le denunce? Quasi nessuno ha il coraggio di farle, neanche in anonimo.

E allora tutto continua come prima, con quel meccanismo infernale di favori, raccomandazioni e clientelismo che tiene in ostaggio un intero paese.

Cambiare? Ma quando mai, dicono loro, mentre intascano allegramente la loro busta mensile. E noi? Noi restiamo qui a guardare, a pagare, a subire. 

E intanto quel ragazzino di trent’anni fa aveva ragione: anche chi vende prezzemolo paga, solo che ormai, purtroppo, non siamo più al banchetto del mercato: Già… siamo al supermarket della corruzione!!!

La riforma Nordio sta davvero indebolendo la lotta alla criminalità oppure è necessaria per evitare abusi?

Riprendo una frase riportata dal Procuratore Nicola Gratteri: “Stanno smontando il codice pezzo per pezzo. La riforma Nordio minaccia la legalità”.

Il procuratore Nicola Gratteri lancia l’allarme: la riforma della giustizia del ministro Nordio indebolisce la lotta alla criminalità e mette a rischio i diritti dei cittadini.

In un’intervista a “Il Fatto Quotidiano“, il magistrato, noto per le sue inchieste sulla ‘ndrangheta, ha analizzato punto per punto la riforma, definendola un attacco sistematico agli strumenti di contrasto all’illegalità.

Intercettazioni azzoppate: “Dopo 45 giorni, i criminali parleranno liberamente“.

Uno dei punti più critici è il limite di 45 giorni per le intercettazioni nella maggior parte dei reati. 

Per il Procuratore Gratteri, questa scelta è “incomprensibile e pericolosa“, difatti: “Se un’indagine può durare anche due anni, come si fa a bloccare lo strumento più efficace dopo appena un mese e mezzo? Spesso i reati più gravi emergono solo dopo mesi di ascolti. Con questa norma, rapine, tratta di esseri umani, violenza sulle donne e disastri ambientali rischiano di rimanere impuniti.

Ma il problema non riguarda solo i reati più eclatanti. La riforma rende quasi intoccabili anche i cosiddetti “reati satellite” – estorsioni, falsi in bilancio, traffico di droga minore – che spesso sono il preludio ad attività mafiose più complesse.

Abolizione dell’abuso d’ufficio e Corte dei Conti neutralizzata.

Gratteri denuncia anche altre misure che, a suo avviso, smantellano la legalità: Abolizione del reato di abuso d’ufficio, che lascia spazio a comportamenti illeciti nella Pubblica Amministrazione.

Svuotamento del traffico d’influenze, con il rischio di favorire corruzione e raccomandazioni.

Limitazioni alla pubblicazione delle intercettazioni, che di fatto impediscono ai giornalisti di informare i cittadini.

Ostacoli alla custodia cautelare, rendendo più difficile colpire organizzazioni criminali.

“È un sistema pensato per scoraggiare le indagini, proteggere gli amministratori e zittire i media. Il messaggio è chiaro: l’illegalità conviene.”

Separazione delle carriere: “Il vero obiettivo è controllare i PM”.

Gratteri vede nella separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri un tentativo di assoggettare la magistratura all’esecutivo: “Non si tratta solo di autonomia, ma di democrazia. Se i PM dipenderanno dal governo, chi controllerà davvero il potere?”

La fretta di portare la riforma a referendum entro l’anno, secondo il procuratore, conferma la volontà di cambiare le regole prima che l’opinione pubblica realizzi il pericolo.

“La lotta alla mafia non si fa con le commemorazioni”!!! In occasione dei 30 anni di Libera, Gratteri ha rilanciato un appello: “Non servono solo parole, ma scelte concrete. Ogni volta che parlo in sedi istituzionali, spero in un cambiamento. Invece le decisioni vanno sempre nella direzione sbagliata.”

E conclude con una riflessione amara: “Non sono preoccupato per noi magistrati. Sono preoccupato per i cittadini, per la loro sicurezza, per i loro diritti. La vera vittima di queste riforme non è la giustizia, ma la libertà.”

18 Marzo, un evento dedicato alla memoria del maresciallo dei carabinieri Alfredo Agosta, vittima della lotta alla mafia: Palazzo delle Scienze ospita il convegno "Criminalità organizzata ieri e oggi".

Oggi martedì 18 marzo, presso l’aula magna del Palazzo delle Scienze dell’Università di Catania, si terrà un convegno intitolato “Criminalità organizzata ieri e oggi“, un evento dedicato alla memoria del maresciallo dei Carabinieri Alfredo Agosta, vittima della lotta alla mafia. 
L’iniziativa, organizzata nell’ambito del progetto GRINS (Growth, Innovation and Sustainability), ha riunito istituzioni, forze dell’ordine, accademici e cittadini per riflettere sull’evoluzione della criminalità organizzata e sulle strategie di contrasto adottate nel tempo.
L’iniziativa sarà aperta dai saluti istituzionali del rettore Francesco Priolo, del presidente dell’Associazione nazionale antimafia “Alfredo Agosta” Carmelo La Rosa, del presidente del tribunale Francesco Mannino e del prefetto Maria Carmela Librizzi e rappresenterà un’occasione importante per approfondire il tema della mafia e il suo impatto sulla società. Tra gli interventi, quello del Generale di Brigata Salvatore Altavilla, comandante provinciale dei Carabinieri di Catania, e del procuratore della Repubblica Francesco Curcio, che sottolineranno l’importanza di un impegno costante delle istituzioni e della società civile nella lotta alle attività illegali.
Ma al di là dei dibattiti e delle analisi, il cuore dell’evento è il ricordo di Alfredo Agosta, ucciso barbaramente il 18 marzo 1982 mentre si trovava in un bar di Catania, in via Firenze. Un uomo che, con scrupolo e dedizione, aveva fatto della lotta alla criminalità organizzata una missione, pagando con la vita il prezzo del suo coraggio.
Alfredo Agosta non era solo un militare, ma un investigatore capace di andare oltre le apparenze, di collegare fatti a nomi, di smascherare legami oscuri tra criminalità e politica in un’epoca segnata dall’omertà. La sua storia è una testimonianza di impegno civile e deontologico, un esempio di come il senso del dovere possa trasformarsi in un atto di amore per la comunità.
Purtroppo, in un’epoca in cui i modelli proposti ai giovani spesso si riducono a figure superficiali e banali, diventa ancora più importante ricordare uomini come Agosta. Uomini che hanno saputo guardare oltre, che hanno scelto di non accontentarsi, che hanno fatto della loro professione una missione animata da ideali etici e civili.
Celebrare la memoria di Alfredo Agosta non è solo un dovere, ma un impegno che va oltre l’ambito personale. 
Difatti, questa lealtà e questo senso di giustizia sono i principi che sento di dover portare avanti ogni giorno, sì… denunciando fatti gravi, non solo come individuo o come membro dell’Associazione “Alfredo Agosta“, ma soprattutto come “formatore”. Perché è proprio attraverso l’educazione e l’esempio che possiamo trasmettere alle nuove generazioni quei valori fondamentali – rispetto, onestà, coraggio – gli stessi che possono far migliorare questa nostra terra, ideali che abbiamo visto, hanno guidato uomini proprio come Alfredo Agosta.
Perché solo così possiamo onorare quel loro sacrificio e fare in modo che il loro impegno non sia stato vano, ma diventi una luce per costruire un futuro migliore, libero dalla mafia e dall’ingiustizia!!!
Non bisogna attendere i gesti degli altri, ognuno di noi nel proprio piccolo può fare la differenza, contrastando ogni forma di corruzione e malaffare. Perché la memoria non deve essere relegata a una semplice ricorrenza, ma deve vivere ogni giorno, nelle nostre azioni e nelle nostre scelte.
Grazie, Alfredo Agosta, per averci insegnato che il coraggio e la lealtà sono valori che non passano mai di moda. La tua eredità continua a vivere in chi, come te, crede in un mondo più giusto e onesto.

"Morto un papa, se ne fa un altro": Riflessioni sulle condizioni di salute di Papa Francesco. Un’analisi sul suo operato, le ombre del passato e il futuro della Chiesa.

In questi giorni, l’attenzione di molti è rivolta alle condizioni di salute di Papa Francesco, un pontefice che, a mio parere, ha segnato profondamente la Chiesa cattolica degli ultimi due secoli.

Jorge Mario Bergoglio ha dimostrato con il suo operato un coraggio e una determinazione rari, riuscendo laddove molti suoi predecessori avevano fallito: nel portare alla luce e nel cercare di sanare quelle piaghe che hanno afflitto la Chiesa, comportamenti ignobili e indegni di chi dovrebbe rappresentare un faro di moralità e umanità.

Pensiamo ai silenzi di Pio XII sui crimini del nazismo, alle ombre che hanno avvolto figure come il cardinale Paul Marcinkus, direttore dello IOR (la Banca Vaticana) negli anni ’70 e ’80, un periodo in cui la finanza vaticana si è intrecciata con scandali di portata internazionale. Marcinkus fu coinvolto nello scandalo dei fondi neri destinati a Lech Wałęsa e al sindacato Solidarność, in chiave anti-sovietica, un’operazione che, se da un lato sosteneva la lotta per la libertà in Polonia, dall’altro sollevava interrogativi etici e morali sul ruolo della Chiesa nella guerra fredda.

Ma i legami oscuri non si fermano qui. Il crack del Banco Ambrosiano, con il suo presidente Roberto Calvi trovato impiccato sotto il Ponte dei Frati Neri a Londra nel 1982, è solo la punta dell’iceberg. Calvi, soprannominato “il banchiere di Dio”, aveva stretti legami con lo IOR e con Marcinkus, e la sua morte, ufficialmente archiviata come suicidio, è ancora avvolta nel mistero. Molti sospettano che dietro il suo omicidio ci siano i tentacoli della criminalità organizzata, della loggia massonica P2 e dei servizi segreti italiani, in un intreccio di interessi politici, finanziari e criminali.

E poi c’è la Banda della Magliana, che negli anni ’70 e ’80 ha insanguinato Roma, e i suoi legami con Pippo Calò, il “cassiere” di Cosa Nostra, giunto nella capitale per gestire il monopolio dello spaccio di eroina nell’hinterland romano. Calò, insieme ad altri esponenti della mafia, ha tessuto una rete di complicità che ha coinvolto non solo la criminalità, ma anche pezzi dello Stato e della Chiesa.

E come non ricordare le ombre dei servizi segreti, della P2, del KGB e persino dei Lupi Grigi turchi, coinvolti in rapimenti e sparizioni come quelli di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, due casi che ancora oggi gridano giustizia? Questi fatti, insieme a molti altri, hanno macchiato la storia della Chiesa, lasciando cicatrici profonde della sua credibilità.

Papa Francesco, con la sua umiltà e la sua determinazione, ha cercato di aprire una nuova pagina, affrontando con coraggio scandali che per troppo tempo erano stati nascosti sotto il tappeto. Ma il suo impegno non si è fermato ai confini della Chiesa. Si è prodigato instancabilmente per la pace nel mondo, cercando di mediare in conflitti drammatici come quello ucraino-russo e israelo-palestinese, e denunciando senza sosta le ingiustizie globali, dalla povertà alle migrazioni, dalle disuguaglianze alla crisi climatica.

La sua età avanzata e le sue recenti difficoltà di salute ci ricordano, però, la fragilità umana, anche di chi sembra incrollabile. È comprensibile il dispiacere e la preoccupazione di molti fedeli, ma trovo difficile comprendere quegli atteggiamenti che spingono a pregare per una guarigione che, seppur miracolosa, non farebbe che posticipare di poco l’inevitabile. 

Come dice il proverbio: “Morto un papa, se ne fa un altro“. Una frase cruda, forse, ma che racchiude in sé una verità innegabile: nessuno è indispensabile, nemmeno un uomo straordinario come Papa Francesco.

Questo ovviamente non sminuisce il suo valore o il suo operato, ma ci ricorda che la vita è un ciclo, e che ogni persona, per quanto amata e rispettata, è parte di un disegno più grande. Papa Francesco, quando verrà a mancare, lascerà un’impronta indelebile, ma la Chiesa, come ogni istituzione, andrà avanti.

Ecco perché ritengo che, forse in queste ore, invece di pregare per un miracolo, dovremmo pregare per continuare il suo lavoro, per mantenere viva la sua missione di giustizia, umiltà e amore. Perché il vero miracolo non sarebbe la sua guarigione, ma la capacità di portare avanti il cambiamento che lui ha iniziato.

Già… che il suo esempio ci guidi, sempre. Che la sua voce, così forte nel denunciare le ingiustizie e nel difendere gli ultimi, non si spenga nei nostri cuori. Che il suo messaggio di misericordia e di speranza continui a risuonare in ogni angolo del mondo, anche quando lui non ci sarà più. Perché il vero lascito di un uomo non è nella sua presenza fisica, ma nelle azioni che ispira, nelle vite che tocca e nel bene che semina.

Papa Francesco ci ha mostrato che è possibile cambiare, che è possibile guardare in faccia il male e cercare di riparare i danni, anche quando sembra impossibile. Ci ha insegnato che la pace non è un’utopia, ma un dovere, e che ogni conflitto, per quanto complesso, può essere affrontato con dialogo e compassione.

Che il suo esempio ci guidi, sempre. Non solo nella preghiera, ma nell’azione. Perché il mondo ha bisogno di più “Francesco“, oggi… più che mai!

Siracusa: Mafia e affari sporchi, favori in cambio di voti.

L’inchiesta dei Carabinieri del Nucleo Investigativo di Siracusa, ha portato alla luce un sistema di scambi illeciti tra politica e criminalità organizzata. 

Al centro delle indagini emerge un patto tra esponenti politici e gruppi mafiosi, basato sulla promessa di favori in cambio di sostegno elettorale.

Secondo le ricostruzioni investigative, un ex sindaco avrebbe stretto un accordo con un clan mafioso in vista delle elezioni amministrative. 

In cambio del sostegno elettorale, l’ex primo cittadino avrebbe offerto denaro e favori, tra cui la promessa di interventi per favorire la scarcerazione di un detenuto legato alla cosca e il pagamento delle spese legali necessarie.

Le intercettazioni telefoniche hanno rivelato che l’ex sindaco avrebbe versato del denaro come anticipazione per i voti promessi. Il clan, viceversa, avrebbe supportato la sua candidatura attraverso azioni mirate, come la pressione sugli elettori e la gestione della comunicazione sui social media per contrastare i critici.

Nonostante questi sforzi, la candidatura dell’ex sindaco si è conclusa con una netta sconfitta. Tuttavia, il caso ha messo in luce l’ennesimo meccanismo perverso di scambio tra politica e mafia, che mina alla base la democrazia e la fiducia nelle istituzioni.

Questa vicenda, insieme alle altre che proprio in questi giorni sono state portate alla luce, rappresentano un esempio emblematico di come la criminalità organizzata cerchi di infiltrarsi nelle amministrazioni locali, utilizzando il voto di scambio come strumento per consolidare il proprio potere.

Tuttavia, proprio in questa oscurità, si accende una luce di speranza…

Gli sviluppi futuri delle inchieste potrebbero rivelare ulteriori connessioni, evidenziando la necessità di un impegno costante per contrastare queste forme di corruzione e illegalità. Sì… è proprio nella lotta senza sosta contro queste pratiche illecite che si costruisce un futuro più giusto e trasparente, dove la democrazia possa fiorire libera dalle ingerenze criminali.

Mafia: Un’analisi profonda del potere parallelo.

La mafia non è solo un’organizzazione criminale, già… è molto di più!!!

Alcuni studiosi, seppur in minoranza, sostengono che le organizzazioni mafiose abbiano una natura politica, non limitandosi a semplici rapporti di collusione con la sfera istituzionale. 

Questa visione va oltre l’idea di una mafia che si intreccia con politici corrotti o partiti. Si tratta di una prospettiva che riconosce alle associazioni mafiose un’autonomia e una sovranità tali da porsi quasi su un piano di parità con lo Stato.

Come evidenziato da Mauro Fotia (docente di Scienza Politica nelle Università di Messina e Trieste, per poi passare all’insegnamento di Sociologia Politica presso l’Università di Roma «La Sapienza». Studioso dei rapporti tra classi politiche e masse, ne ha esaminato in particolare i profili legati ai partiti, ai movimenti sociali e alle lobby), le mafie non sono semplici gruppi criminali, ma veri e propri ordinamenti giuridici paralleli. Hanno regole interne, procedure, sanzioni e una struttura che ricorda quella di uno Stato. 

Questo spiega la loro potenza economica e la capacità di imporre le proprie leggi, escludendo quelle statali. La mafia, in questa visione, non è solo un’entità che sfrutta il sistema, ma un soggetto che contende il potere allo Stato, affermando una logica di dominio che si concretizza in un’enorme accumulo di ricchezza.

Ma perché questa interpretazione è così importante? Perché ci aiuta a comprendere la reale portata del fenomeno mafioso. Non si tratta solo di criminalità organizzata, ma di un sistema che si insinua nelle pieghe della società, della politica e dell’economia, creando un vero e proprio Stato nello Stato. Questo spiega anche perché, nonostante decenni di lotta, la mafia continui a resistere e a prosperare.

Tuttavia, non possiamo ignorare l’altra faccia della medaglia: il rapporto tra mafia e politica tradizionale. La collusione tra organizzazioni mafiose e settori delle istituzioni è un dato di fatto, ampiamente documentato. 

Basti pensare alle relazioni della Commissione Parlamentare Antimafia che hanno messo in luce i legami tra mafia e politica in Italia. Questi documenti, insieme al lavoro di magistrati, studiosi e politici, hanno contribuito a delineare un quadro in cui la mafia non agisce solo come entità autonoma, ma come un attore che sfrutta il sistema politico per rafforzare il proprio potere.

E qui entra in gioco un altro aspetto cruciale: l’acquisitività politica.

Si tratta della capacità di utilizzare il potere politico, sia in modo legale che illegale, per raggiungere obiettivi economici. Questo spiega perché la mafia non sia solo un problema di ordine pubblico, ma un fenomeno radicato nelle disuguaglianze sociali ed economiche del Paese. Il sottosviluppo, la povertà, lo sfruttamento e la marginalizzazione del Mezzogiorno non sono solo conseguenze della mafia, ma anche cause che ne alimentano l’esistenza.

In sintesi, la mafia non è solo un “male” da combattere, ma un sintomo di problemi più profondi: un sistema che sfrutta le debolezze di un territorio e di un’economia squilibrata. 

Per sconfiggerla, non basta la repressione. Serve un cambiamento strutturale, che affronti le disuguaglianze e restituisca dignità e opportunità a chi vive in queste aree. Solo così si potrà spezzare il circolo vizioso che alimenta il potere mafioso.

Il problema dei cellulari nelle carceri e il controllo mafioso.

Il procuratore aggiunto Sebastiano Ardita, così come il collega, procuratore di Napoli, Nicola Gratteri, ha recentemente riportato l’attenzione su un problema gravissimo e troppo spesso sottovalutato: la presenza di cellulari all’interno delle carceri. 

Ardita ha sottolineato con fermezza che «un telefono in mano a un boss in carcere è il mezzo con cui si ordina un omicidio». Una dichiarazione che non lascia spazio a dubbi: la possibilità per i detenuti, soprattutto quelli legati alla criminalità organizzata, di avere accesso a dispositivi mobili rappresenta una minaccia concreta non solo per l’ordine pubblico, ma per la sicurezza stessa delle istituzioni.

Già il 28 giugno dello scorso anno, in un post che potete trovare a questo link https://nicola-costanzo.blogspot.com/2024/07/il-procuratore-di-napoli-nicola.html, avevo affrontato questa questione, denunciando la superficialità con cui viene gestita. 

La soluzione, a mio avviso, è semplice e alla portata: basterebbe installare dei disturbatori di frequenza, meglio conosciuti come “jammer”, per impedire l’uso di dispositivi elettronici all’interno dei penitenziari. Questi strumenti bloccherebbero le comunicazioni illegali, impedendo ai detenuti di controllare attività criminali esterne o di impartire ordini.

Tuttavia, quando lo stesso procuratore Gratteri propose questa soluzione, gli fu risposto che non era fattibile perché: come farebbe la polizia penitenziaria a comunicare?. Una risposta che lascia perplessi: i telefoni fissi, forse, sono stati eliminati? E poi, è evidente che la maggior parte degli addetti ai lavori, utilizza i cellulari non tanto per emergenze, ma per connettersi ai social network, giocare online e quindi probabilmente per distrarsi dal proprio compito.

L’ultimo blitz antimafia della DDA di Palermo ha rivelato una realtà sconcertante: i boss detenuti potevano contare su SIM e cellulari introdotti illegalmente nelle celle. Questo solleva una domanda inevitabile: dove sono finiti i controlli? Come è possibile che strumenti così pericolosi riescano a entrare così facilmente in strutture che dovrebbero essere ad alta sicurezza?

Mi stupisce che qualcuno si sorprenda ancora della permeabilità delle carceri italiane. È un problema noto, prevedibile e, purtroppo, sistematico. Le carceri sono ormai sotto il controllo della criminalità organizzata, eppure molti preferiscono far finta di nulla. Basterebbe guardare serie TV come “Il Re“, interpretata da Luca Zingaretti, per rendersi conto di quanto la realtà sia spesso drammaticamente vicina alla finzione. Le scene della serie, girate all’interno di veri istituti di detenzione (ora dismessi), mostrano con crudo realismo le dinamiche di potere, le violenze e le difficoltà che caratterizzano la vita carceraria, non solo per i detenuti ma anche per il personale penitenziario.

In questo contesto, le dichiarazioni del procuratore di Palermo Maurizio De Lucia lasciano ancora più interrogativi. Alla domanda sulle responsabilità della polizia penitenziaria, De Lucia ha risposto: «Al momento non risultano responsabilità». Ma allora, cosa non ha funzionato? Secondo il procuratore, la responsabilità è da attribuire a una «sciagurata scelta di gestione». Con il pretesto del sovraffollamento carcerario, si è deciso di aprire le celle dei mafiosi, permettendo ai detenuti più pericolosi di circolare liberamente e di assumere il controllo dei penitenziari. Una scelta che non solo ha compromesso la sicurezza, ma ha anche portato a un’impennata di reati, atti di autolesionismo e suicidi tra i detenuti più deboli.

In sintesi, quello che sta accadendo nelle carceri italiane è un cedimento strutturale, un’erosione della sicurezza e dei diritti dei detenuti, mascherata dall’alibi della tutela umanitaria. È ora di affrontare il problema con decisione, senza più alibi o superficialità. La posta in gioco è troppo alta: la sicurezza dello Stato e la credibilità delle sue istituzioni.

Mafia in caduta libera: i giovani ripiegano sul racket, i boss rimpiangono i tempi d’oro.

Anche i mafiosi si lamentano delle nuove generazioni… 

Secondo i capi, i giovani che oggi entrano nella criminalità organizzata non rispettano più le vecchie regole, dimostrando poca lealtà e mancando soprattutto di quel “prestigio” che un tempo caratterizzava la mafia.

Già… quella che aveva, e che in parte ancora mantiene, contatti con la politica, gli avvocati, i professionisti e gli imprenditori ed anche con uomini infedeli delle Istituzioni . 

Questo emerge ora da una maxi-operazione della Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo, che ha portato a numerosi arresti, rivelando un’organizzazione in crisi e lontana dal passato splendore.

Tra l’altro, nelle intercettazioni spicca la nostalgia per i tempi d’oro: «Il livello è basso», si sente dire in una conversazione. «Oggi arrestano uno e si fa pentito, poi arrestano un altro e anch’egli si offre di parlare». 

I capi rimpiangono il passato, già… quando la mafia aveva influenza e potere, come in quel noto film “Il Padrino”, una sceneggiatura scritta da Francis Ford Coppola e Mario Puzo, liberamente ispirata al romanzo omonimo di quest’ultimo scritto nel 1969.

Oggi, viceversa, secondo i vecchi boss, questi nuovi affiliati sono come “zingari“, sì… ridotti a compiere per pochi euro traffici miseri: Sì… – ripete un vecchio boss – questi giovani sono enormemente lontani dai business in cui un tempo dominavamo.

E non solo: la nuova criminalità si è abbassata a riprendere attività che durante la pandemia erano state abbandonate, come il pizzo e il racket. Attività considerate “minori” e poco redditizie, ma che ora vengono riproposte per sopravvivere in un contesto sempre più frammentato e privo di controllo.

I giovani, secondo i boss, non vogliono più sottostare alle gerarchie tradizionali. 

«A scuola te ne devi andare», diceva un capo a un novizio, riferendosi alla necessità di costruire relazioni con persone influenti. 

Ma la realtà è diversa: la nuova generazione sembra aver abbandonato i vecchi codici, lasciando i capi a rimpiangere un’epoca che secondo loro, non tornerà più…

Mi viene da piangere per il Procuratore Gratteri…

Non so voi, ma ogni volta che vedo in TV o leggo un articolo sul mio omonimo, il Procuratore Nazionale Nicola Gratteri, mi vien da piangere…

L’altra sera l’ho rivisto su La7 da Lilli Gruber, e ancora una volta ho provato un senso di amarezza profonda.

Penso a chi dedica la propria vita a questo Paese, rischiando tutto, e a chi invece non ha mai mosso un dito, anzi, fa carriera restando nell’ombra, seduto dietro una scrivania.

È così che funziona qui, ed è così che continuerà finché il sistema clientelare e giudiziario resterà colluso, legato a quelle correnti politiche che decidono chi deve avanzare senza merito e chi, invece – come Gratteri – deve essere ostacolato, quasi esiliato, solo perché fa bene il proprio lavoro.

Mi torna in mente la vicenda di Giovanni Falcone, ostacolato nella sua nomina a Consigliere Istruttore del Tribunale di Palermo. Oggi la storia si ripete con Gratteri, escluso dalla Procura Nazionale Antimafia perché non allineato a certe logiche di potere. Lo aveva già previsto, tanto da dichiarare in un’intervista: “Io lo sapevo, ma ho scelto di non iscrivermi a nessuna corrente. Non conosco nemmeno il 50% dei membri del CSM, non li riconoscerei per strada, perché non li frequento“.

Qualcuno ha deciso di sbarrargli la strada. Forse perché ha indagato troppo, su mafia, ‘ndrangheta, camorra… certamente più di tutti loro messi insieme. E questo ha dato fastidio.

Ora, da Procuratore di Napoli, si ritrova sotto attacco: un’inchiesta si sgretola, i reati vanno in prescrizione, le accuse si rivelano inconsistenti, il processo si chiude nel nulla. Con un costo umano, politico e istituzionale, altissimo.

E allora sì, mi viene da piangere. Perché vedo il silenzio della stampa – e chissà, magari qualcuno sotto sotto ride pure. Perché nessuno lo difende???

Certo, Gratteri è un uomo, può sbagliare. Uno, due, tre, quattro, cinque volte.

Ma finché continuerà a indagare con onestà, senza piegarsi a pressioni o interessi di parte, resterà una delle poche figure di cui questo Paese può ancora fidarsi. Ed io, pur comprendendo talune critiche giuste e forse anche costruttive, beh… come dicevo, preferisco sempre un magistrato che, ogni tanto, possa commettere un errore piuttosto che uno che non sbaglia mai… perché in malafede.

La complicità dello Stato: un’illusoria lotta alla criminalità organizzata.

Stasera voglio riprendere un mio vecchio post del 2013. Sono passati 12 anni, ma nulla è cambiato. Anzi, molte cose sono peggiorate, forse troppe…
 
Lotta alla criminalità“. Quante volte abbiamo sentito questa espressione? Eppure, più che una lotta, sembra un’operazione cosmetica, utile a decorare discorsi preconfezionati durante campagne elettorali o celebrazioni ufficiali. Dietro queste parole non c’è la sicurezza dei cittadini, ma un teatrino politico in cui l’interesse reale è tutt’altro.

Ogni giorno, i notiziari riportano rapine, violenze, spaccio, estorsioni e altri crimini che, anziché diminuire, si moltiplicano. E lo Stato? Dove si trova quando la criminalità si evolve e cresce sotto i nostri occhi?

Si dice di non generalizzare, che lo Stato è presente e combatte. Ma i fatti dimostrano il contrario: le azioni si limitano a interventi sporadici, a operazioni dal forte impatto mediatico ma prive di un vero seguito. Nel frattempo, la criminalità si riorganizza, si insinua nei settori economici e istituzionali, trasformando il malaffare in sistema.

Dopo le stragi e le grandi operazioni di facciata, la lotta alla criminalità si è trasformata in compromesso. Non c’è prevenzione, non c’è visione strategica. L’impegno dello Stato sembra più mirato a gestire che a estirpare il problema, lasciando spazio a un sistema che ormai si nutre di collusioni, connivenze e silenzi.

Cosa serve davvero? Un sistema che prevenga il crimine prima che si manifesti? Un impegno reale nel sostenere le famiglie disagiate, educare i giovani, creare opportunità di lavoro? Pene certe, giuste e celeri, senza vie di fuga per i criminali?

Ma tutto questo rimane un miraggio, perché è qui che emerge la vera sconfitta dello Stato. La criminalità organizzata non è solo tollerata: in molti casi, è protetta. Esistono figure istituzionali che, dietro una maschera di rispettabilità, lavorano attivamente per mantenere intatto il sistema. Non per incapacità, ma per volontà.

Il punto più infame è proprio questo: lo Stato che dovrebbe combattere il crimine ne è spesso complice. Non solo con le sue omissioni, ma con le sue azioni. Chi è chiamato a rappresentare la legalità si piega a interessi privati, trasformando le istituzioni in strumenti di potere al servizio di pochi.

Il contrasto alla criminalità organizzata non è una priorità, ma una farsa. Perché cambiare lo status quo significherebbe colpire quegli stessi interessi che alimentano carriere politiche e arricchiscono chi, in teoria, dovrebbe difenderci. Fino a quando questo sistema resterà intoccabile, ogni discorso sulla lotta al crimine sarà solo una recita ben orchestrata.

Ed è questo il vero tradimento dello Stato verso i suoi cittadini: aver abdicato al suo ruolo di garante della giustizia, scegliendo di convivere con il male invece di combatterlo.

Potere e omertà: La politica nelle mani della mafia.

Di poche ore è l’ennesimo processo con rito abbreviato relativo all’inchiesta su presunte infiltrazioni mafiose e casi di corruzione in un Comune alle falde dell’Etna.

In particolare, la Procura ha chiesto la condanna dell’ex sindaco per voto di scambio politico-mafioso e per alcuni presunti episodi di corruzione.

Come già avviene da tempo nelle pagine del mio blog, non intendo entrare nel merito delle inchieste giudiziarie, quelle competono ai Tribunali e ai siti web dedicati alla cronaca. 

Viceversa, come studioso dei comportamenti umani, e in particolare delle condotte che emergono quando fenomeni politici si intrecciano con soggettività mafiose, mi soffermo sugli effetti e sulle gravi conseguenze che tali dinamiche producono non solo nel territorio amministrato, ma anche nella società civile.

Non bisogna mai confondere la posizione di coloro che ricoprono incarichi istituzionali e, al tempo stesso, giustificano il proprio operato infedele attribuendolo a fattori esterni, come le organizzazioni mafiose. Questo atteggiamento permette a tali organizzazioni di stabilire e consolidare un rapporto capace di estendere i propri tentacoli verso la sfera politica e le istituzioni pubbliche.

In questo modo, l’associazione mafiosa acquisisce un carattere di autonomia e sovranità, elevandosi a una posizione di parità rispetto allo Stato. Ciò le consente di imporre le proprie regole, escludendo quelle statuali, e di affermare una logica di dominio che si concretizza nell’accumulazione di ricchezza. Tale ricchezza, a sua volta, le permette di agire come un soggetto sovrano, capace di legare a sé (alcuni) uomini politici o persino intere organizzazioni di potere, come i partiti.

Nel corso degli anni, l’associazione mafiosa ha strutturato un sistema a doppio binario che opera su due fronti paralleli. Da un lato, vi è la manovalanza, impegnata nei traffici illeciti; dall’altro, vi sono i cosiddetti “colletti bianchi”, che si occupano di politica, preferenze elettorali, appalti, raccomandazioni e gestione della manodopera. Si tratta di una struttura dotata di regole, procedure e sanzioni proprie, un vero e proprio ordinamento giuridico parallelo.

Affrontare un problema di tale portata si rivela estremamente complesso… 

Non mancano esempi di illustri studiosi, uomini politici e magistrati che, nonostante anni di impegno e tentativi, non sono riusciti a scardinare questa rete pervasiva. Le continue inchieste giudiziarie sui rapporti tra mafia e politica, regolarmente depositate dai sostituti Procuratori nazionali, rappresentano un drammatico promemoria della profondità e della resilienza di questo sistema. Tuttavia, tali inchieste sono anche un segno che la lotta non è ferma, e che la consapevolezza è il primo passo per costruire un futuro in cui legalità e giustizia possano prevalere.

La mafia Imprenditoriale: Radici profonde, rami ovunque…

È evidente a tutti noi siciliani che gli insediamenti imprenditorial-mafiosi siano decisamente più radicati nella nostra regione rispetto al Nord Italia, non a caso, in Sicilia si contano circa 240 cosche con oltre 7.000 affiliati!!!

Per comprendere meglio l’impatto di questa presenza, basta confrontare questi numeri con quelli della ‘ndrangheta calabrese, oggi considerata la mafia più pericolosa: quest’ultima conta “solo” 160 cosche e circa 5.500 affiliati. 

È chiaro, dunque, quanto Cosa Nostra incida negativamente sul nostro territorio!!!

Va detto, però, che queste associazioni non si limitano a operare nei loro territori d’origine, al contrario, estendono le proprie attività criminali al Centro e al Nord Italia, stabilendo veri e propri “uffici di rappresentanza“. 

Queste, pur mascherati da realtà imprenditoriali legali sotto il profilo giuridico e amministrativo, spesso si trasformano in filiali operative, funzionali a riciclare il denaro proveniente dalla casa madre. In tal modo, riescono a far prosperare il loro business, incrementando a dismisura i profitti.

Non c’è settore dell’economia o della vita civile che sia immune da questa aggressività criminale, inoltre, la prassi consolidata delle imprese a partecipazione mafiosa ha portato molti imprenditori, un tempo onesti, ad adattarsi a queste dinamiche.

Pensare, però, che queste nuove formazioni mafiose siano semplicemente soggetti imprenditoriali è fuorviante. 

Un simile approccio rischia di ridurre la mafia a un insieme di comportamenti isolati, quando in realtà essa opera come una struttura ben definita e radicata, con modalità specifiche e una strategia chiara.

La responsabilità di questa situazione, così come del debole contrasto a essa, risiede principalmente nella mancata comprensione della fenomenologia mafiosa nella sua complessità. 

La politica, spesso, preferisce soprassedere per meri interessi personali, perpetuando un sistema basato sul “do ut des” e questo atteggiamento fa sì che molti scelgano di chiudere un occhio, partecipando indirettamente al sistema, piuttosto che impegnarsi nel contrasto alla mafia.

AMMINISTRATORE GIUDIZIARIO ARRESTATO

Il tema degli amministratori giudiziari è stato affrontato più volte su questo blog (e non solo), con particolare attenzione alle modalità attraverso cui alcune imprese sottoposte a sequestro o confisca sono state, di fatto, gestite senza soluzione di continuità dalle stesse organizzazioni cui erano state sottratte.

E infatti, il nuovo procuratore capo di Messina, Antonio D’Amato, si è distinto, a differenza di altri colleghi che negli anni sembravano aver “dormito” o addirittura “celato” esposti ufficialmente protocollati. 

Ricordo a chi di dovere che tali esposti dovrebbero ancora trovarsi negli archivi del Tribunale e quindi nella disponibilità dei sostituti procuratori che potrebbero ora, finalmente, riprenderli in mano…

Per cui, grazie alle investigazioni condotte attraverso intercettazioni, monitoraggi e, pare, con il contributo di un collaboratore di giustizia, si è scoperto che questa situazione era resa possibile, secondo l’accusa, dalla complicità di un amministratore giudiziario.

Come spesso ripeto, l’antimafia, in questi lunghi anni, è servita a molti, specialmente a coloro incaricati di gestire beni e imprese confiscate. 

Ricordo che parliamo di un patrimonio immenso, spesso a scapito delle imprese stesse e dei loro titolari, sottoposti a provvedimenti interdittivi.

Basti pensare al caso di un magistrato, allora presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, finito sotto processo insieme ad altri imputati. Secondo l’accusa, quel magistrato avrebbe gestito i beni confiscati alla mafia in modo clientelare, creando un vero e proprio “sistema“. Al suo fianco agivano fedelissimi, tra cui commercialisti, professori universitari, amministratori giudiziari, uomini in divisa e persino familiari. Secondo i PM nisseni, questo gruppo rappresentava il “cerchio magico” del presidente.

Ma d’altronde è sufficiente recarsi in alcuni uffici per notare come tra i collaboratori vi siano professionisti, dipendenti e altre figure legate, in qualità di familiari, parenti o amici, a referenti istituzionali. Ed è per questi motivi infatti che questi ultimi, abitualmente, affidano loro quegli incarichi di gestione e amministrazione.

Nel caso specifico, l’impresa in questione era già stata destinataria di diversi provvedimenti giudiziari di sequestro e confisca, divenuti definitivi dopo procedimenti penali e misure di prevenzione. Tuttavia, nonostante l’amministrazione giudiziaria, secondo l’inchiesta in corso, l’impresa continuava a essere gestita dagli stessi soggetti interdetti. Questo sarebbe stato reso possibile grazie alla complicità dell’amministratore giudiziario, completamente asservito.

L’attività investigativa ha permesso di ricostruire il modus operandi degli indagati, finalizzato alla creazione di illeciti guadagni grazie alla complicità dell’amministratore giudiziario. Per tali motivi, il Giudice per le Indagini Preliminari, su richiesta della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Messina – Direzione Distrettuale Antimafia, ha applicato una misura restrittiva nei confronti dell’indagato.

Mi chiedevo – discutendo con un amico – come questa vicenda mettesse ora in evidenza un ulteriore paradosso: lo Stato, a seguito dell’arresto dell’amministratore giudiziario, si ritrova ora nella necessità di nominare un nuovo referente per la gestione dei beni sequestrati. Una situazione che non solo rappresenta un evidente fallimento del sistema, ma che getta un’ombra pesante sulle istituzioni, dimostrando come i loro stessi rappresentanti possano risultare altrettanto corrotti. La fiducia dei cittadini ne risulta gravemente compromessa, poiché ciò che dovrebbe essere garanzia di legalità si trasforma spesso in ulteriore occasione di abusi e malaffare!!!

La criminalità organizzata: una piaga che distrugge il territorio e tradisce i suoi concittadini!

La criminalità organizzata è una piaga che impoverisce tutti, in quanto non porta alcun beneficio nemmeno al proprio territorio d’origine e ancor meno ai propri conterranei!!!
Ed allora viene spontaneo porsi una domanda: che fine fanno i patrimoni illeciti provenienti dalle attività criminali e perché tutto quel denaro accumulato non produce benessere e occupazione nelle proprie regioni?

La risposta è desolante e soprattutto chiara!!! 

I proventi delle attività criminose, spesso frutto di traffici illeciti e racket, vengono di norma trasferiti verso Paesi e mercati offshore, al riparo da controlli e vincoli normativi. Si pensi, ad esempio, alle Antille olandesi, o alle grandi operazioni di riciclaggio che coinvolgono le piazze finanziarie internazionali. Non è un caso che Caracas, un tempo dominio di potenti boss siciliani, sia stata recentemente teatro di un’inchiesta che ha portato alla luce un cartello di cosche calabresi impegnate nel traffico di stupefacenti verso l’Europa. 

Questo spostamento dei capitali determina un impoverimento strutturale delle regioni d’origine, come Sicilia, Calabria, Campania e Puglia, aggravando una già critica condizione economica e sociale.

Il meccanismo è doppiamente distruttivo. Da un lato, le risorse accumulate illegalmente non vengono reinvestite nel territorio, ma esportate verso mercati più sicuri, innescando un ciclo di depauperamento economico, dall’altro, l’azione delle mafie sul territorio – attraverso il pizzo e altre forme di estorsione – soffoca l’imprenditoria locale, alimentando evasione fiscale e scoraggiando nuovi investimenti. 

Questo doppio colpo porta a una progressiva desertificazione economica, con alti tassi di disoccupazione e una stagnazione dei redditi.

Da quanto sopra si comprende come la criminalità non apporta nulla al territorio e ai suoi conterranei; al contrario, lascia dietro di sé una condizione infetta e corrotta, certamente peggiore di quanto non fosse prima. 

L’illusione che l’accumulo di grandi ricchezze da parte delle organizzazioni mafiose possa generare un ritorno positivo è smentita dai fatti: la loro attività distrugge la fiducia, soffoca il potenziale produttivo e annienta le prospettive di crescita.

A tutto ciò si aggiunge un elemento globale: la libertà dei movimenti di capitali, uno dei dogmi della globalizzazione liberale, facilita il riciclaggio del denaro sporco. 

I paradisi fiscali, veri e propri architravi di un sistema finanziario senza leggi, offrono rifugio a immense ricchezze illegali. 

Ecco perché la lotta contro questi meccanismi è oggi più che mai una priorità, come dimostrano le azioni promosse da organizzazioni come ATTAC (Associazione per la Tassazione delle Transazioni Finanziarie per l’Aiuto ai Cittadini), impegnate a contrastare la dittatura di un mercato globale che favorisce diseguaglianze e ingiustizie.

Per combattere efficacemente questo fenomeno è necessario un approccio integrato che includa il rafforzamento delle leggi contro il riciclaggio, un controllo più stringente sui flussi di capitali e, soprattutto, un’azione culturale che punti a scardinare il consenso sociale di cui spesso le mafie godono nei territori in cui operano. 

Solo così sarà possibile invertire la rotta e restituire speranza e dignità alle comunità colpite dalla criminalità organizzata. Il resto sono soltanto chiacchiere che non faranno certamente cambiare questo stato di cose!

Il triangolo oscuro: intrecci tra criminalità, politica e istituzioni

La situazione attuale, analizzata attraverso il prisma delle relazioni tra criminalità organizzata, politica e istituzioni, presenta due scenari distinti ma profondamente intrecciati.

Il primo scenario mette in evidenza una frattura interna alla criminalità organizzata stessa. 

Già… da un lato, vi sono i capi detenuti, figure storiche che dal carcere cercano di mantenere la loro influenza attraverso strategie orientate a ottenere benefici legali, come sconti di pena e allentamenti delle rigide misure detentive. Il loro obiettivo non è soltanto personale: garantire il controllo delle proprie cosche e preservare il potere anche dall’interno del carcere rappresenta una forma di continuità del dominio. 

Dall’altro lato, vi è una nuova generazione, attiva sul territorio, che considera i detenuti come un ostacolo al consolidamento degli affari, specie in seguito ai danni reputazionali e operativi causati da azioni eclatanti del passato. Questa nuova leadership sembra preferire un approccio più silenzioso e meno esposto, concentrato sulla gestione economica e sulle alleanze strategiche. Non è escluso che questa frattura sia stata acuita da calcoli interni che hanno portato a tradimenti mirati per eliminare le figure ritenute scomode.

Il secondo scenario riguarda il rapporto tra la criminalità organizzata e alcuni settori delle istituzioni. 

Qui emergono tensioni legate a promesse politiche non mantenute, che avrebbero alimentato malumori tra i boss incarcerati. Tra queste promesse figurano questioni come l’abolizione di regimi detentivi particolarmente duri, la revisione di processi penali e modifiche legislative favorevoli. Le dichiarazioni di alcuni esponenti del crimine organizzato sembrano denunciare apertamente la percezione di essere stati strumentalizzati da settori della politica, utilizzati come merce di scambio durante momenti di campagna elettorale e poi abbandonati.

Tali dinamiche come ben sappiamo non sono nuove… 

Già in passato si è rilevato come la criminalità organizzata puntasse a instaurare nuovi equilibri politici ed economici, cercando interlocutori istituzionali che potessero garantire il ripristino di vecchie complicità o la creazione di nuovi legami strategici. La capacità di sfruttare trattative sotterranee con lo Stato, o almeno con alcune sue componenti, emerge come un tratto ricorrente nelle strategie di lungo periodo del crimine organizzato.

Un elemento significativo di questa complessa rete di relazioni è rappresentato dalle testimonianze di alcuni collaboratori di giustizia, il cui contenuto, spesso custodito con estrema segretezza, ha rivelato dettagli inquietanti sulle modalità di interazione tra politica, istituzioni e criminalità. Le implicazioni di tali rivelazioni sono di tale gravità che hanno richiesto, in alcuni casi, interventi ai massimi livelli istituzionali per discuterne la portata e le conseguenze.

Questa complessa trama di rapporti, fatta di alleanze temporanee, tradimenti e calcoli strategici, evidenzia quanto sia profonda e ramificata l’interconnessione tra politica, istituzioni e criminalità organizzata. 

Questa realtà, in cui alcuni esponenti politici e istituzionali scelgono di piegarsi ai voleri della criminalità organizzata per interessi personali, non può che suscitare in me una profonda amarezza. 

Sì… è desolante constatare come chi dovrebbe incarnare l’etica e il senso di giustizia si trasformi in complice di un sistema corrotto, svendendo il bene comune per tornaconto individuale. 

Ogni compromesso, ogni promessa tradita e ogni silenzio complice non fa altro che rafforzare un circolo vizioso che priva la società di fiducia nelle sue istituzioni. 

Già… un completo tradimento non solo della legge ma anche del popolo che quelle istituzioni dovrebbe poter considerare un baluardo contro ogni forma di sopraffazione!!!

L’assassinio di Piersanti Mattarella: Un mistero lungo 45 anni.

Sono passati ben 45 anni da quel 6 gennaio del 1980, e ancora oggi non si sa con certezza chi sia stato ad assassinare Piersanti Mattarella.

È vero, secondo le ultime indagini, ad agire furono Antonino Madonia, figlio di Francesco e membro di una delle famiglie mafiose più potenti, insieme a Giuseppe Lucchese. Tuttavia, in questi lunghi anni, entrambi, pur condannati e in carcere per decine di omicidi, non hanno mai rivelato nulla.

E allora, si ricorre nuovamente alle testimonianze di decine di pentiti. Ma quanti di loro sono realmente a conoscenza di ciò che accadde quel giorno? E soprattutto, quale movente spinse eventualmente la cupola corleonese ad assassinare il Presidente della Regione? Questo resta un mistero.

D’altronde, occorre ricordare che il giudice Falcone stava esplorando una pista diversa: quella neofascista, con Giuseppe Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini, due esponenti dei Nar poi assolti.

Io stesso ho sempre nutrito qualche dubbio su questo assassinio. Perché colpire un uomo della Democrazia Cristiana, il cui padre era stato un importante esponente politico, tanto da essere stato cinque volte ministro tra gli anni Cinquanta e Sessanta? Perché la mafia, che in seguito è emerso essere legata a doppio filo proprio con il Partito Democristiano, avrebbe deciso di uccidere Piersanti Mattarella? Parliamo di un partito i cui uomini, come i fratelli Salvo o Vito Ciancimino — già assessore e poi sindaco di Palermo — avevano stretti rapporti con Cosa Nostra. E non dimentichiamo Giulio Andreotti, che secondo Tommaso Buscetta, il pentito le cui rivelazioni avevano mandato in carcere numerosi mafiosi, rappresentava il punto di connessione tra mafia e politica.

Ora, dopo quasi mezzo secolo, si cerca di realizzare un identikit per dare un volto a uno dei due assassini. Si parla dell’“uomo dagli occhi di ghiaccio”, riconosciuto come il sicario che sparò al Presidente Mattarella.

Non so… vedo più ombre che luci in questa vicenda. Ma in fondo, siamo in un Paese dove la verità spesso viene ostacolata. E questo accade anche perché, nel cercarla, si rischia di svelare realtà scomode. Troppe volte, invece di fare luce, si è tentato di insabbiare azioni e comportamenti ignobili compiuti da uomini dello Stato, corrotti e asserviti ai poteri della mafia e della massoneria.

Non ci resta che esprimere il nostro cordoglio e commemorare quel giorno terribile, con la speranza di non dover più vivere anni bui come quelli che hanno costretto il nostro Paese a soccombere a una schiera di delinquenti.
Questo è accaduto solo perché non si è avuto il coraggio di combattere quando si doveva!!!

A Catania cresce l’ombra delle aziende in “odor di mafia”: l’estorsione regna, la denuncia manca!!!

Il fenomeno delle aziende controllate dalla mafia è una realtà sempre più preoccupante nella nostra Sicilia, e in particolare a Catania. Un territorio dove il crimine organizzato non si limita più alle attività illecite tradizionali, ma penetra sempre più profondamente nel tessuto economico legale.

Secondo l’ultimo rapporto dell’Ufficio Studi dell’associazione artigiani e piccole imprese, il volume d’affari annuo delle mafie italiane si attesta attorno ai 40 miliardi di euro. Una cifra impressionante che collocherebbe l’industria del crimine al quarto posto in una ipotetica classifica nazionale, subito dopo colossi come Eni (93,7 miliardi), Enel (92,9 miliardi) e il Gestore dei servizi energetici (55,1 miliardi). Eppure, tale stima è ritenuta sottostimata, poiché non include i proventi derivanti dall’infiltrazione mafiosa nell’economia legale.

Le attività criminali tradizionali, come il narcotraffico, il traffico di armi, lo smaltimento illegale dei rifiuti, le scommesse clandestine, il gioco d’azzardo, l’usura e la prostituzione, continuano a generare profitti ingenti. A queste si aggiungono le infiltrazioni negli appalti pubblici e la gestione opaca delle aziende. 

In Sicilia, oltre 13.000 attività sono considerate a rischio di infiltrazione mafiosa. La situazione è allarmante: secondo recenti analisi, ben il 99% delle imprese locali risulterebbe in qualche modo controllato o condizionato dalle organizzazioni criminali. Chi non si adegua a questo sistema raramente riesce a operare, soprattutto nel settore pubblico o nei grandi appalti, spesso gestiti da “General contractor” legati a società del Nord Italia, ma comunque sotto l’egida mafiosa.

Controlli inefficaci e il fallimento della legalità formale.

Il sistema di controlli, incluso quello delle Prefetture (White list) si rivela inefficace. Basta analizzare le liste delle imprese coinvolte per scoprire come molte di queste, o i loro reali proprietari, abbiano alle spalle procedimenti penali o condanne. Nonostante ciò, queste aziende continuano a operare indisturbate, protette da una rete di connivenze e inefficienze. Si sottoscrivono Protocolli di legalità, si firmano accordi, ma tutto questo rimane sulla carta.

Nel frattempo, sotto gli occhi di tutti, prosperano sistemi fraudolenti resi possibili dalla complicità di funzionari pubblici disonesti. Questi, in cambio di mazzette, chiudono un occhio o facilitano pratiche illecite, garantendo così la perpetuazione del sistema mafioso.

Lavoro nero e violazione delle norme: l’altra faccia del problema.

Un altro aspetto cruciale è il dilagare del lavoro nero e delle pratiche irregolari. Nei cantieri e nelle aziende mancano spesso le minime condizioni di sicurezza, e i processi di qualità e rispetto per l’ambiente vengono sistematicamente ignorati. Tutto questo avviene con la tacita accettazione di una società ormai assuefatta alla corruzione e alla complicità diffusa.

La corruzione: il vero cancro della Sicilia.

Viviamo in una terra contaminata dalla corruzione sistemica, dove molti preferiscono chiudere entrambi gli occhi pur di ottenere un tornaconto personale: una raccomandazione, un posto di lavoro per un familiare, un favore da parte del politico di turno. 

In questo contesto, i valori della legalità e della dignità vengono calpestati, e chi cerca di denunciare o far emergere le verità scomode – come il sottoscritto – si ritrova ahimè isolato, criticato e persino intimidito (senza però ottenere alcun risultato concreto…).

La battaglia per la legalità deve continuare!!!

La situazione è complessa, ma non possiamo rassegnarci. La lotta contro l’illegalità passa anche attraverso la denuncia, la sensibilizzazione e la costruzione di una coscienza collettiva che non tolleri più compromessi. Solo con un impegno condiviso e coraggioso potremo sperare di cambiare davvero le cose.

Catania, come tutta la Sicilia, merita di essere liberata da questa piaga, ma sta a noi cittadini, ognuno nel proprio ruolo, fare la differenza e non cedere mai alla paura e ancor meno all’indifferenza generale.