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Il ritorno del re dei paparazzi: Corona scatena il caos con un nuovo scandalo.

Nel 2014 parlando di Fabrizio Corona concludevo un post con questa frase: La legge non può rendere giustizia… quando colui che detiene il potere (esecutivo) tiene in mano anche la legge!!!

Ed ora dopo tanti anni, questo mio coetaneo ed anche amico/conoscente (non so se si ricorda delle serate trascorse insieme da ragazzo nelle tante discoteche di Catania, Recanati (Giardini Naxos) ed anche Taormina, quando il sottoscritto organizzava come PR…), ha deciso nuovamente di far parlare di sé, tornando alla ribalta con le sue solite rivelazioni esplosive.

Sappiamo bene come, alcuni anni fa, durante il periodo più buio della sua vita, già… quando si trovava rinchiuso in un penitenziario (ricordiamolo: senza aver ucciso nessuno), sia stato costretto a pagare caro per alcune dichiarazioni che coinvolgevano uno dei membri di una delle famiglie più potenti d’Italia. Una famiglia che, da sempre, ha avuto un’influenza enorme sulle sorti del Paese, muovendo come fossero pedine, i protagonisti della nostra politica nazionale.

In quell’occasione, Corona fu messo a tacere e sono stati in molti, forse per paura o per non restare coinvolti, ad avergli voltato le spalle, già… quasi che egli avesse la peste; non il sottoscritto che viceversa ha sempre preso le sue difese, basti rivedere alcuni post scritti sin dal 2014:

– http://nicola-costanzo.blogspot.com/2014/05/fabrizio-corona-non-tutti-gli-uomini.html

– http://nicola-costanzo.blogspot.com/2015/06/fabrizio-corona-finalmente-libero.html

– http://nicola-costanzo.blogspot.com/2018/06/non-e-larena-fabrizio-corona-non-tutti.html

Ho sempre pensato (ed il sottoscritto, forse, avrebbe fatto lo stesso…) che, per poter uscire da quella situazione critica, egli abbia dovuto firmare qualche liberatoria, sì… rinunciando di parlare pubblicamente su quanto accaduto quella notte a un noto “rampollo”, ma soprattutto, a non divulgare le prove di cui è sicuramente ancora in possesso.

Ora che è finalmente uscito da quel tunnel, ha deciso di riprendersi ciò che gli spetta, tornando a immergersi nell’ambiente in cui un tempo brillava: quello dei social media.

E così, il “re dei paparazzi” è tornato alla carica!!!

Dopo aver pubblicato il “Libro Nero” su Totti e Ilary Blasi e quello dedicato ai Ferragnez, ha ora deciso di accendere i riflettori su un nuovo caso che coinvolge nientemeno che il Presidente del Senato, Ignazio La Russa, e la Ministra del Turismo, Daniela Santanchè.

In occasione della presentazione del suo libro alla Mondadori a Milano, Corona ha rivelato di aver ricevuto una telefonata da La Russa, il quale gli avrebbe chiesto di non diffondere il nome di un’amica di suo figlio, coinvolta in una presunta storia di tradimento.

Di per sé, la notizia potrebbe sembrare di poco conto, ma assume un peso diverso se a chiedere il favore è il Presidente del Senato. Questo, naturalmente, solleva non poche riflessioni…

Da parte degli ambienti vicini al presdente La Russa, ovviamente, arriva una netta smentita: nessun contatto con Corona. 

Lui, però, insiste sulla sua versione e promette di rivelare altri dettagli.

Staremo a vedere come andrà a finire…

CONTINUA

Tratta di esseri umani: un crimine inaccettabile, soprattutto nel 2025!

La tratta di esseri umani priva le vittime di dignità, libertà e diritti fondamentali. In Europa si contano almeno 15.000 vittime, ma il numero reale è probabilmente molto più alto. 

Le donne e le ragazze sono le più colpite dallo sfruttamento sessuale, mentre gli uomini subiscono principalmente il lavoro forzato. I minori, soprattutto migranti non accompagnati, e persone vulnerabili come individui LGBTIQ, con disabilità o appartenenti a minoranze etniche, sono particolarmente esposti a questo crimine.

I trafficanti approfittano delle disuguaglianze sociali e della povertà, aggravate dalla pandemia. Per contrastarli, la strategia dell’UE punta su prevenzione, protezione delle vittime e pene più severe. 

Tra le misure previste: criminalizzazione dell’uso dei servizi offerti dalle vittime, contrasto allo sfruttamento lavorativo e campagne informative. Fondamentale è anche il supporto psicologico e sociale per il reinserimento delle vittime.

Serve un’adeguata formazione per forze dell’ordine, operatori sanitari e pubblici ufficiali, affinché le vittime possano denunciare senza paura. 

Inoltre, la cooperazione con i Paesi di origine e transito delle vittime è cruciale per garantire protezione e assistenza.

Perchè fermare la tratta di esseri umani non è solo un dovere morale, ma una battaglia per la giustizia e i diritti umani.

Come smantellare il modello operativo della criminalità organizzata?

Sì… per smantellare il modello operativo della criminalità organizzata, è necessario un approccio più articolato e soprattutto su più livelli. 
Innanzitutto, le forze dell’ordine debbono essere dallo Stato sostenute affinchè possano rafforzare le indagini per smantellare le strutture delle organizzazioni criminali e contrastare così tutte quelle attività ad alta priorità, mettendo in atto altresì la cooperazione transnazionale tra gli Stati membri dell’UE.

Un altro aspetto cruciale infatti riguarda l’eliminazione delle risorse finanziarie della criminalità organizzata! 

Bisogna colpire i profitti generati dai gruppi criminali attraverso il rafforzamento delle leggi sul sequestro e la confisca dei beni illeciti. Inoltre, un attento monitoraggio delle operazioni finanziarie consentirà di individuare e bloccare i flussi di denaro sospetti, prevenendo così il riciclaggio. E’ fondamentale la collaborazione con il settore privato, incluse banche e imprese, diventa quindi essenziale per intercettare transazioni anomale e spezzare i circuiti di finanziamento illecito.

Parallelamente, occorre prevenire l’infiltrazione della criminalità organizzata nell’economia legale. L’acquisizione di aziende in difficoltà da parte di gruppi criminali rappresenta una minaccia concreta e, per contrastare questo fenomeno, è necessario potenziare la vigilanza sugli investimenti sospetti e introdurre misure di supporto per le imprese in crisi, così da sottrarle all’influenza delle organizzazioni malavitose.

Un altro pilastro essenziale riguarda la protezione delle istituzioni e della società civile. 

La corruzione, strumento principale della criminalità organizzata, deve essere combattuta con politiche di trasparenza più rigorose, maggiore protezione per i whistleblower e controlli stringenti sui funzionari pubblici. Inoltre, diventa prioritario sensibilizzare la cittadinanza sui rischi della criminalità organizzata e promuovere una cultura della legalità, a partire dall’educazione nelle scuole, per giungere fin dentro le case degli italiani, attraverso messaggi in Tv per diffondere e incentivare l’assunzione di responsabilità del singolo verso la collettività .

Infine, l’uso della tecnologia rappresenta una leva strategica per il contrasto alla criminalità. L’intelligenza artificiale e le tecnologie avanzate offrono strumenti efficaci per individuare schemi di riciclaggio, monitorare il dark web e prevenire attacchi informatici. Le istituzioni devono investire in soluzioni digitali per migliorare l’efficienza delle indagini e garantire una risposta rapida ed efficace alle minacce emergenti.

Certo, la lotta alla criminalità organizzata richiede un grande impegno, coordinato e costante, già… non basta semplicemente perseguire i singoli reati:, ma occorre agire a livello strutturale per interrompere i flussi finanziari illeciti, rafforzare la trasparenza nelle istituzioni e impedire l’infiltrazione nell’economia legale.

Solo con un approccio sistemico e una forte cooperazione internazionale sarà possibile smantellare il modello operativo della criminalità organizzata e restituire ai cittadini quella fiducia e sicurezza, che oggi vedono ahimè molto distante.

Mi viene da piangere per il Procuratore Gratteri…

Non so voi, ma ogni volta che vedo in TV o leggo un articolo sul mio omonimo, il Procuratore Nazionale Nicola Gratteri, mi vien da piangere…

L’altra sera l’ho rivisto su La7 da Lilli Gruber, e ancora una volta ho provato un senso di amarezza profonda.

Penso a chi dedica la propria vita a questo Paese, rischiando tutto, e a chi invece non ha mai mosso un dito, anzi, fa carriera restando nell’ombra, seduto dietro una scrivania.

È così che funziona qui, ed è così che continuerà finché il sistema clientelare e giudiziario resterà colluso, legato a quelle correnti politiche che decidono chi deve avanzare senza merito e chi, invece – come Gratteri – deve essere ostacolato, quasi esiliato, solo perché fa bene il proprio lavoro.

Mi torna in mente la vicenda di Giovanni Falcone, ostacolato nella sua nomina a Consigliere Istruttore del Tribunale di Palermo. Oggi la storia si ripete con Gratteri, escluso dalla Procura Nazionale Antimafia perché non allineato a certe logiche di potere. Lo aveva già previsto, tanto da dichiarare in un’intervista: “Io lo sapevo, ma ho scelto di non iscrivermi a nessuna corrente. Non conosco nemmeno il 50% dei membri del CSM, non li riconoscerei per strada, perché non li frequento“.

Qualcuno ha deciso di sbarrargli la strada. Forse perché ha indagato troppo, su mafia, ‘ndrangheta, camorra… certamente più di tutti loro messi insieme. E questo ha dato fastidio.

Ora, da Procuratore di Napoli, si ritrova sotto attacco: un’inchiesta si sgretola, i reati vanno in prescrizione, le accuse si rivelano inconsistenti, il processo si chiude nel nulla. Con un costo umano, politico e istituzionale, altissimo.

E allora sì, mi viene da piangere. Perché vedo il silenzio della stampa – e chissà, magari qualcuno sotto sotto ride pure. Perché nessuno lo difende???

Certo, Gratteri è un uomo, può sbagliare. Uno, due, tre, quattro, cinque volte.

Ma finché continuerà a indagare con onestà, senza piegarsi a pressioni o interessi di parte, resterà una delle poche figure di cui questo Paese può ancora fidarsi. Ed io, pur comprendendo talune critiche giuste e forse anche costruttive, beh… come dicevo, preferisco sempre un magistrato che, ogni tanto, possa commettere un errore piuttosto che uno che non sbaglia mai… perché in malafede.

Dal silenzio del passato all’azione nel presente

Sento in questi mesi paragonare il genocidio della Shoah all’attuale questione palestinese.

Perdonatemi, ma chiunque possieda una mente libera e quindi incondizionata non potrà – leggendo le prossime righe – giungere alle mie stesse riflessioni.

Pensare anche soltanto di paragonare la “soluzione finale” – lo sterminio sistematico e premeditato degli Ebrei in tutta Europa, perpetrato da menti malate naziste – è profondamente sbagliato. Un crimine, per come è stato progettato e perpetrato, disumano, che non colpì solo gli Ebrei, ma anche Rom, persone con disabilità, oppositori politici, scrittori, omosessuali e tanti altri considerati “indesiderabili”. Una ferita indelebile nella storia dell’umanità, un abisso morale da cui non ci siamo mai completamente risollevati e che ha segnato per sempre la nostra coscienza collettiva.

Ciò che accadde allora non può né deve mai essere giustificato. E il solo pensiero di paragonare quella tragedia alla questione palestinese è, a mio avviso, inappropriato.

Sebbene ciò che sta accadendo in questi mesi in Palestina possa essere definito una strage di innocenti, e in alcuni casi un crimine contro l’umanità, trovo pericolosi i parallelismi tra Nakba e Shoah che proprio alcuni illustri storici vorrebbero in queste ore riproporre.

Premesso che ogni violenza, specialmente contro donne e bambini, è sempre abominevole, tuttavia, non si possono mettere sullo stesso piano due tragedie di natura e contesto così diversi. Questo non significa negare la gravità di quanto sta accadendo oggi, ma è essenziale mantenere un linguaggio preciso e rispettoso della storia.

Voglio sottolineare che il mio intento non è sminuire l’una tragedia rispetto all’altra. Entrambe meritano attenzione: la Shoah per l’eredità storica e morale che ci ha lasciato, e la questione palestinese per l’urgenza di una soluzione che tuteli i diritti umani di tutte le persone coinvolte.

Ciò che invece lascia perplessi è l’uso politico della Shoah contro i palestinesi, quando è storicamente noto che quest’ultimi non hanno avuto alcun ruolo in quella tragedia. Non furono responsabili dell’antisemitismo né del Nazismo, eppure oggi si trovano a subire un’oppressione sistematica da parte di chi, più di ogni altro, dovrebbe conoscere il valore del rispetto per la vita umana.

Perché, allora, non imparare dal passato? Sì… diversamente da 80 anni fa, quando si preferì tacere, è nostro dovere intervenire con urgenza per trovare una soluzione, giusta e definitiva, per il popolo palestinese.

FINE PRIMA PARTE 

L’ombra della mafia sulle imprese e sui fondi pubblici

Mentre continua a gestire e ampliare i propri traffici illeciti, come droga, prostituzione, racket ed usura – tutti settori che generano enormi profitti – la mafia rivolge il suo interesse verso un obiettivo più subdolo e strategico: il controllo delle attività imprenditoriali attraverso il riciclaggio di denaro. Questo meccanismo non solo le consente di nascondere i guadagni illeciti, ma anche di consolidare il proprio potere economico e sociale.

Recentemente, durante la relazione di inaugurazione dell’anno giudiziario, il presidente della Corte d’Appello di Palermo, Matteo Frasca, ha lanciato un allarme chiaro: nonostante i colpi inferti negli ultimi anni, la mafia continua a essere una forza criminale attiva, con l’obiettivo di penetrare nell’economia legale e intercettare i fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr). Frasca ha sottolineato come la capacità della mafia di infiltrarsi sia strettamente legata alla persistenza di collusioni con settori politico-amministrativi, che fungono da ponte per il controllo del territorio e per l’accesso alle risorse pubbliche.

Un aspetto cruciale è rappresentato dalla capacità della mafia di rinnovarsi. Anche dopo arresti e processi che hanno decapitato i vertici delle organizzazioni, queste riescono rapidamente a ricostituire le proprie strutture di comando, mantenendo vive le regole mafiose tradizionali e trovando nuovi alleati per rafforzare la propria influenza.

Tra gli obiettivi principali dell’organizzazione spiccano le opere pubbliche realizzate sul territorio. Attraverso atti estorsivi, la mafia esercita pressioni su imprese affidatarie, fornitori e subappaltatori, sfruttando ogni opportunità per trarre vantaggi economici. Questo modus operandi non sarebbe possibile senza la complicità di imprenditori senza scrupoli, che accettano di collaborare con l’organizzazione criminale per ottenere favori o protezione, diventando parte integrante del sistema mafioso senza subirne direttamente le conseguenze.

Questa situazione richiede una risposta ferma e coordinata da parte della società civile, delle istituzioni e delle forze dell’ordine. Combattere la mafia significa non solo colpire i suoi esponenti principali, ma anche spezzare la rete di complicità e connivenze che ne garantisce la sopravvivenza.

Solo attraverso un impegno congiunto si potrà impedire che la mafia continui a infiltrarsi nell’economia legale, compromettendo il futuro di intere comunità. Il messaggio deve essere chiaro: non c’è spazio per chi antepone i propri interessi personali al bene comune.

La complicità dello Stato: un’illusoria lotta alla criminalità organizzata.

Stasera voglio riprendere un mio vecchio post del 2013. Sono passati 12 anni, ma nulla è cambiato. Anzi, molte cose sono peggiorate, forse troppe…
 
Lotta alla criminalità“. Quante volte abbiamo sentito questa espressione? Eppure, più che una lotta, sembra un’operazione cosmetica, utile a decorare discorsi preconfezionati durante campagne elettorali o celebrazioni ufficiali. Dietro queste parole non c’è la sicurezza dei cittadini, ma un teatrino politico in cui l’interesse reale è tutt’altro.

Ogni giorno, i notiziari riportano rapine, violenze, spaccio, estorsioni e altri crimini che, anziché diminuire, si moltiplicano. E lo Stato? Dove si trova quando la criminalità si evolve e cresce sotto i nostri occhi?

Si dice di non generalizzare, che lo Stato è presente e combatte. Ma i fatti dimostrano il contrario: le azioni si limitano a interventi sporadici, a operazioni dal forte impatto mediatico ma prive di un vero seguito. Nel frattempo, la criminalità si riorganizza, si insinua nei settori economici e istituzionali, trasformando il malaffare in sistema.

Dopo le stragi e le grandi operazioni di facciata, la lotta alla criminalità si è trasformata in compromesso. Non c’è prevenzione, non c’è visione strategica. L’impegno dello Stato sembra più mirato a gestire che a estirpare il problema, lasciando spazio a un sistema che ormai si nutre di collusioni, connivenze e silenzi.

Cosa serve davvero? Un sistema che prevenga il crimine prima che si manifesti? Un impegno reale nel sostenere le famiglie disagiate, educare i giovani, creare opportunità di lavoro? Pene certe, giuste e celeri, senza vie di fuga per i criminali?

Ma tutto questo rimane un miraggio, perché è qui che emerge la vera sconfitta dello Stato. La criminalità organizzata non è solo tollerata: in molti casi, è protetta. Esistono figure istituzionali che, dietro una maschera di rispettabilità, lavorano attivamente per mantenere intatto il sistema. Non per incapacità, ma per volontà.

Il punto più infame è proprio questo: lo Stato che dovrebbe combattere il crimine ne è spesso complice. Non solo con le sue omissioni, ma con le sue azioni. Chi è chiamato a rappresentare la legalità si piega a interessi privati, trasformando le istituzioni in strumenti di potere al servizio di pochi.

Il contrasto alla criminalità organizzata non è una priorità, ma una farsa. Perché cambiare lo status quo significherebbe colpire quegli stessi interessi che alimentano carriere politiche e arricchiscono chi, in teoria, dovrebbe difenderci. Fino a quando questo sistema resterà intoccabile, ogni discorso sulla lotta al crimine sarà solo una recita ben orchestrata.

Ed è questo il vero tradimento dello Stato verso i suoi cittadini: aver abdicato al suo ruolo di garante della giustizia, scegliendo di convivere con il male invece di combatterlo.

Come è possibile che ancora oggi, nel 2025, si continuino a commettere reati come quelli che sto per descrivere?

Mi chiedo se sia normale trovarsi ad ascoltare inchieste giudiziarie che rivelano sempre gli stessi scenari: militari dei comandi provinciali della Guardia di Finanza che, attraverso indagini accurate, portano alla luce un inquietante panorama fatto di emissioni di fatture per operazioni inesistenti, dichiarazioni omesse e mancati versamenti dell’IVA.

Sono meccanismi complessi, messi in atto con l’intento di produrre fatture false per decine e decine di milioni di euro, utilizzate poi per evadere imposte sui redditi e sul valore aggiunto. Un modus operandi consolidato, che sembra ripetersi quasi come una prassi.

E così, a fatti compiuti e con il denaro ormai volatilizzato, si procede con sequestri preventivi e confische, mentre si effettuano arresti di quegli “imprenditori” – o meglio, “prenditori” – che per anni hanno costruito un sistema basato su violazioni fiscali. Al momento opportuno, queste stesse persone riescono a ottenere la chiusura d’ufficio delle società coinvolte, sottraendosi così ulteriormente alle proprie responsabilità.

Certamente, l’obiettivo dello Stato è recuperare quanto più possibile le somme illecitamente sottratte e smantellare gli schemi fraudolenti, ma la realtà ci mostra un sistema di controllo e garanzia che spesso si rivela inefficace.

E quando a questo si aggiunge l’ulteriore beffa di incaricare “Amministratori giudiziari” che, durante il loro mandato, commettono a loro volta atti fraudolenti o comunque infedeli – come raccontano le cronache di questi giorni – viene naturale pensare che il problema non sia circoscritto a pochi casi isolati. Si tratta di un sistema profondamente malato, che sembra resistere a ogni tentativo di cambiamento.

Ma perché? C’è forse una volontà latente di mantenere le cose come stanno? Un equilibrio che avvantaggia sia chi froda il sistema sia chi, in teoria, dovrebbe vigilare, ma si accontenta di raccogliere i frutti di incarichi ispettivi ben retribuiti?

Siamo di fronte a un “cane che si morde la coda“, dove chi dovrebbe rappresentare la giustizia e la legalità finisce per alimentare lo stesso sistema che dovrebbe combattere.

Se non si interviene con una revisione radicale delle procedure, dei controlli e delle responsabilità, il rischio è che questo ciclo di frodi, indagini e inadempienze continui senza fine. Serve un sistema che non solo sanzioni, ma soprattutto prevenga. Un sistema che metta al centro trasparenza, tecnologia e meritocrazia, capace di smantellare le reti di complicità e corruzione.

Eppure, resta un dubbio amaro: si vuole davvero cambiare o tutto questo serve a garantire il perpetuarsi di un sistema che, in fondo, fa comodo a troppi?

Se continuiamo a tollerare questa situazione, non sarà solo lo Stato a perdere; saremo tutti noi, cittadini onesti, a pagare il prezzo più alto!!!

Criminalità giovanile: un futuro diverso è possibile se diamo ai giovani una vera alternativa.

Basta leggere qualsiasi studio sul fenomeno della criminalità per capire come i giovani siano i più vulnerabili a scivolare nell’illegalità. 

Le statistiche parlano chiaro: la delinquenza è più diffusa tra i giovani e raggiunge il picco tra i 20 e i 25 anni, per poi diminuire gradualmente con l’età. 

Questa tendenza evidenzia come l’attività criminale inizi spesso precocemente, alimentata dall’immaturità, dall’inesperienza e dalla difficoltà nel riconoscere i pericoli, inclusi i soggetti che spingono verso il malaffare.

I giovani, in questa fase della vita, sono più inclini a comportamenti impulsivi, ribelli e meno conformisti. 

Questi fattori, insieme a una maturità sociale non ancora pienamente sviluppata, contribuiscono a renderli più esposti alle attività illecite. Ed è proprio per questo che è essenziale intervenire: sostenere i ragazzi nel loro percorso di crescita psicologica e sociale è la chiave per allontanarli dalle lusinghe della criminalità.

Osservando in questi lunghi anni il mondo lavorativo posso affermare, senza alcuna incertezza, che i giovani coinvolti in attività criminali svolgano ruoli marginali, spesso i più rischiosi e facilmente identificabili, come furti o rapine. 

Al contrario, le attività criminali più sofisticate, come quelle nel mondo economico o ai vertici delle organizzazioni mafiose, sono riservate a chi ha raggiunto una posizione consolidata con l’età. Questo scenario rende ancora più urgente offrire ai giovani opportunità alternative che possano dare loro un senso di appartenenza e realizzazione senza dover ricorrere al crimine.

Laddove la disoccupazione e l’esclusione sociale sono più forti, l’adesione a una “cosca” spesso appare come l’unica via per ottenere promozione sociale e affermazione personale.

E allora, cosa possiamo fare? Lo Stato ha il dovere di offrire ai ragazzi percorsi di formazione, lavoro e crescita che li aiutino a dire “NO” alla criminalità, anche in contesti difficili. Dare loro una vera alternativa significa sottrarli alla morsa della criminalità organizzata, offrendo un futuro migliore non solo a loro, ma anche alla nostra società.

Se vogliamo davvero contrastare la criminalità giovanile, dobbiamo smettere con le chiacchiere sterili e investire seriamente in programmi che mettano i giovani al centro, perché ogni ragazzo salvato dal crimine è un passo verso una società più giusta e sicura per tutti.

Potere e omertà: La politica nelle mani della mafia.

Di poche ore è l’ennesimo processo con rito abbreviato relativo all’inchiesta su presunte infiltrazioni mafiose e casi di corruzione in un Comune alle falde dell’Etna.

In particolare, la Procura ha chiesto la condanna dell’ex sindaco per voto di scambio politico-mafioso e per alcuni presunti episodi di corruzione.

Come già avviene da tempo nelle pagine del mio blog, non intendo entrare nel merito delle inchieste giudiziarie, quelle competono ai Tribunali e ai siti web dedicati alla cronaca. 

Viceversa, come studioso dei comportamenti umani, e in particolare delle condotte che emergono quando fenomeni politici si intrecciano con soggettività mafiose, mi soffermo sugli effetti e sulle gravi conseguenze che tali dinamiche producono non solo nel territorio amministrato, ma anche nella società civile.

Non bisogna mai confondere la posizione di coloro che ricoprono incarichi istituzionali e, al tempo stesso, giustificano il proprio operato infedele attribuendolo a fattori esterni, come le organizzazioni mafiose. Questo atteggiamento permette a tali organizzazioni di stabilire e consolidare un rapporto capace di estendere i propri tentacoli verso la sfera politica e le istituzioni pubbliche.

In questo modo, l’associazione mafiosa acquisisce un carattere di autonomia e sovranità, elevandosi a una posizione di parità rispetto allo Stato. Ciò le consente di imporre le proprie regole, escludendo quelle statuali, e di affermare una logica di dominio che si concretizza nell’accumulazione di ricchezza. Tale ricchezza, a sua volta, le permette di agire come un soggetto sovrano, capace di legare a sé (alcuni) uomini politici o persino intere organizzazioni di potere, come i partiti.

Nel corso degli anni, l’associazione mafiosa ha strutturato un sistema a doppio binario che opera su due fronti paralleli. Da un lato, vi è la manovalanza, impegnata nei traffici illeciti; dall’altro, vi sono i cosiddetti “colletti bianchi”, che si occupano di politica, preferenze elettorali, appalti, raccomandazioni e gestione della manodopera. Si tratta di una struttura dotata di regole, procedure e sanzioni proprie, un vero e proprio ordinamento giuridico parallelo.

Affrontare un problema di tale portata si rivela estremamente complesso… 

Non mancano esempi di illustri studiosi, uomini politici e magistrati che, nonostante anni di impegno e tentativi, non sono riusciti a scardinare questa rete pervasiva. Le continue inchieste giudiziarie sui rapporti tra mafia e politica, regolarmente depositate dai sostituti Procuratori nazionali, rappresentano un drammatico promemoria della profondità e della resilienza di questo sistema. Tuttavia, tali inchieste sono anche un segno che la lotta non è ferma, e che la consapevolezza è il primo passo per costruire un futuro in cui legalità e giustizia possano prevalere.

Come la reclusione può scardinare il sistema del silenzio.

La detenzione, soprattutto se improvvisa, rappresenta uno spartiacque nella vita di chi, abituato al comfort del proprio status, si ritrova catapultato in una realtà completamente estranea. 

Pentirsi, raccontare ciò che è accaduto nel corso della propria carriera, elencare i nomi e le dinamiche di un sistema che ha permesso l’ascesa e garantito privilegi: tutto questo diventa un’opzione concreta. Un’opzione dettata non solo dal desiderio di alleggerire la propria posizione giudiziaria, ma anche dalla necessità di ritrovare una libertà che ora appare lontana, irraggiungibile.

La privazione della libertà personale colpisce tutti, ma in maniera più acuta chi non ha mai vissuto a contatto con il crimine o con contesti degradati. 

E quindi, per chi è abituato a una vita fatta di certezze e privilegi, il carcere è un mondo alieno, fatto di spazi limitati, rigide regole e costante esposizione a uno stress emotivo senza precedenti.

Ditfatti, è proprio in questo ambiente, dove la fragilità umana viene messa a nudo, che nasce un bisogno primordiale: uscire!!!

E spesso, il prezzo di questa libertà è la collaborazione. Collaborare significa trasformare il peso della reclusione in una spinta a raccontare, a svelare i retroscena di un sistema che, fino a poco prima, veniva vissuto come normale.

Però… a differenza del delinquente abituale, che vede il carcere quasi come una tappa ciclica della propria esistenza, il “colletto bianco” si sente ingiustamente perseguitato, negando inizialmente ogni responsabilità. Ma con il passare dei giorni, tra il peso delle accuse, la solitudine e il pensiero costante rivolto ai propri cari, si fa strada una nuova consapevolezza. La paura interiore cresce, insieme alla pressione esterna.

Ogni ora trascorsa in prigione diventa un momento di riflessione forzata: le cause che hanno condotto a quella situazione, le dinamiche professionali, i compromessi morali accettati per ottenere vantaggi. Tutto riaffiora con prepotenza, mettendo a nudo non solo le azioni passate, ma anche le fragilità emotive e relazionali di chi si trova a confrontarsi con un ambiente spietato.

E così, da quel conflitto interiore nasce una decisione: collaborare. Non per eroismo o redenzione, ma per necessità. Perché solo attraverso la verità, o una sua versione negoziabile, si può sperare di barattare la reclusione con una via d’uscita. Ed è in quel momento che il sistema trova la sua leva più potente.

E se fosse proprio in quel baratto che si cela l’inizio della fine per i grandi meccanismi di malaffare? Quando un singolo pezzo decide di parlare, il castello, per quanto imponente, può iniziare a vacillare. Ma c’è un’altra faccia della medaglia.

Non tutti, infatti, scelgono di collaborare. Per alcuni, la paura di perdere la posizione privilegiata raggiunta è troppo forte, ma ancor più lo è il terrore di trovarsi invischiati in dinamiche ben più grandi di loro. Collaborare significherebbe esporsi non solo a ripercussioni personali, ma anche a rischi per i propri familiari. Quella scelta, apparentemente salvifica, potrebbe trasformarsi in un pericolo imminente, un passo verso una spirale di minacce e pressioni che mettono a repentaglio tutto ciò che hanno di più caro.

Ed è qui che il silenzio diventa la loro unica arma di difesa. Un silenzio che, spesso, non è una decisione autonoma, ma il frutto di un sistema che, dall’esterno, fa di tutto per proteggerli. Non tanto per l’interesse verso la loro persona, quanto per salvaguardare il proprio equilibrio, garantendo che nessun dettaglio trapeli, che nessuna parola sveli le crepe di un’organizzazione costruita su connivenze e segreti.

La realtà del “non detto” si intreccia così con quella del carcere: un luogo dove il prezzo della verità e quello del silenzio convivono, separati solo dal coraggio o dalla paura di chi si trova a decidere. Alla fine, la vera domanda rimane: quanto siamo disposti a tollerare un sistema che si alimenta del silenzio, e quanto, invece, siamo pronti a lottare per rompere il muro che lo protegge?

La mafia Imprenditoriale: Radici profonde, rami ovunque…

È evidente a tutti noi siciliani che gli insediamenti imprenditorial-mafiosi siano decisamente più radicati nella nostra regione rispetto al Nord Italia, non a caso, in Sicilia si contano circa 240 cosche con oltre 7.000 affiliati!!!

Per comprendere meglio l’impatto di questa presenza, basta confrontare questi numeri con quelli della ‘ndrangheta calabrese, oggi considerata la mafia più pericolosa: quest’ultima conta “solo” 160 cosche e circa 5.500 affiliati. 

È chiaro, dunque, quanto Cosa Nostra incida negativamente sul nostro territorio!!!

Va detto, però, che queste associazioni non si limitano a operare nei loro territori d’origine, al contrario, estendono le proprie attività criminali al Centro e al Nord Italia, stabilendo veri e propri “uffici di rappresentanza“. 

Queste, pur mascherati da realtà imprenditoriali legali sotto il profilo giuridico e amministrativo, spesso si trasformano in filiali operative, funzionali a riciclare il denaro proveniente dalla casa madre. In tal modo, riescono a far prosperare il loro business, incrementando a dismisura i profitti.

Non c’è settore dell’economia o della vita civile che sia immune da questa aggressività criminale, inoltre, la prassi consolidata delle imprese a partecipazione mafiosa ha portato molti imprenditori, un tempo onesti, ad adattarsi a queste dinamiche.

Pensare, però, che queste nuove formazioni mafiose siano semplicemente soggetti imprenditoriali è fuorviante. 

Un simile approccio rischia di ridurre la mafia a un insieme di comportamenti isolati, quando in realtà essa opera come una struttura ben definita e radicata, con modalità specifiche e una strategia chiara.

La responsabilità di questa situazione, così come del debole contrasto a essa, risiede principalmente nella mancata comprensione della fenomenologia mafiosa nella sua complessità. 

La politica, spesso, preferisce soprassedere per meri interessi personali, perpetuando un sistema basato sul “do ut des” e questo atteggiamento fa sì che molti scelgano di chiudere un occhio, partecipando indirettamente al sistema, piuttosto che impegnarsi nel contrasto alla mafia.

AMMINISTRATORE GIUDIZIARIO ARRESTATO

Il tema degli amministratori giudiziari è stato affrontato più volte su questo blog (e non solo), con particolare attenzione alle modalità attraverso cui alcune imprese sottoposte a sequestro o confisca sono state, di fatto, gestite senza soluzione di continuità dalle stesse organizzazioni cui erano state sottratte.

E infatti, il nuovo procuratore capo di Messina, Antonio D’Amato, si è distinto, a differenza di altri colleghi che negli anni sembravano aver “dormito” o addirittura “celato” esposti ufficialmente protocollati. 

Ricordo a chi di dovere che tali esposti dovrebbero ancora trovarsi negli archivi del Tribunale e quindi nella disponibilità dei sostituti procuratori che potrebbero ora, finalmente, riprenderli in mano…

Per cui, grazie alle investigazioni condotte attraverso intercettazioni, monitoraggi e, pare, con il contributo di un collaboratore di giustizia, si è scoperto che questa situazione era resa possibile, secondo l’accusa, dalla complicità di un amministratore giudiziario.

Come spesso ripeto, l’antimafia, in questi lunghi anni, è servita a molti, specialmente a coloro incaricati di gestire beni e imprese confiscate. 

Ricordo che parliamo di un patrimonio immenso, spesso a scapito delle imprese stesse e dei loro titolari, sottoposti a provvedimenti interdittivi.

Basti pensare al caso di un magistrato, allora presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, finito sotto processo insieme ad altri imputati. Secondo l’accusa, quel magistrato avrebbe gestito i beni confiscati alla mafia in modo clientelare, creando un vero e proprio “sistema“. Al suo fianco agivano fedelissimi, tra cui commercialisti, professori universitari, amministratori giudiziari, uomini in divisa e persino familiari. Secondo i PM nisseni, questo gruppo rappresentava il “cerchio magico” del presidente.

Ma d’altronde è sufficiente recarsi in alcuni uffici per notare come tra i collaboratori vi siano professionisti, dipendenti e altre figure legate, in qualità di familiari, parenti o amici, a referenti istituzionali. Ed è per questi motivi infatti che questi ultimi, abitualmente, affidano loro quegli incarichi di gestione e amministrazione.

Nel caso specifico, l’impresa in questione era già stata destinataria di diversi provvedimenti giudiziari di sequestro e confisca, divenuti definitivi dopo procedimenti penali e misure di prevenzione. Tuttavia, nonostante l’amministrazione giudiziaria, secondo l’inchiesta in corso, l’impresa continuava a essere gestita dagli stessi soggetti interdetti. Questo sarebbe stato reso possibile grazie alla complicità dell’amministratore giudiziario, completamente asservito.

L’attività investigativa ha permesso di ricostruire il modus operandi degli indagati, finalizzato alla creazione di illeciti guadagni grazie alla complicità dell’amministratore giudiziario. Per tali motivi, il Giudice per le Indagini Preliminari, su richiesta della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Messina – Direzione Distrettuale Antimafia, ha applicato una misura restrittiva nei confronti dell’indagato.

Mi chiedevo – discutendo con un amico – come questa vicenda mettesse ora in evidenza un ulteriore paradosso: lo Stato, a seguito dell’arresto dell’amministratore giudiziario, si ritrova ora nella necessità di nominare un nuovo referente per la gestione dei beni sequestrati. Una situazione che non solo rappresenta un evidente fallimento del sistema, ma che getta un’ombra pesante sulle istituzioni, dimostrando come i loro stessi rappresentanti possano risultare altrettanto corrotti. La fiducia dei cittadini ne risulta gravemente compromessa, poiché ciò che dovrebbe essere garanzia di legalità si trasforma spesso in ulteriore occasione di abusi e malaffare!!!

La criminalità organizzata: una piaga che distrugge il territorio e tradisce i suoi concittadini!

La criminalità organizzata è una piaga che impoverisce tutti, in quanto non porta alcun beneficio nemmeno al proprio territorio d’origine e ancor meno ai propri conterranei!!!
Ed allora viene spontaneo porsi una domanda: che fine fanno i patrimoni illeciti provenienti dalle attività criminali e perché tutto quel denaro accumulato non produce benessere e occupazione nelle proprie regioni?

La risposta è desolante e soprattutto chiara!!! 

I proventi delle attività criminose, spesso frutto di traffici illeciti e racket, vengono di norma trasferiti verso Paesi e mercati offshore, al riparo da controlli e vincoli normativi. Si pensi, ad esempio, alle Antille olandesi, o alle grandi operazioni di riciclaggio che coinvolgono le piazze finanziarie internazionali. Non è un caso che Caracas, un tempo dominio di potenti boss siciliani, sia stata recentemente teatro di un’inchiesta che ha portato alla luce un cartello di cosche calabresi impegnate nel traffico di stupefacenti verso l’Europa. 

Questo spostamento dei capitali determina un impoverimento strutturale delle regioni d’origine, come Sicilia, Calabria, Campania e Puglia, aggravando una già critica condizione economica e sociale.

Il meccanismo è doppiamente distruttivo. Da un lato, le risorse accumulate illegalmente non vengono reinvestite nel territorio, ma esportate verso mercati più sicuri, innescando un ciclo di depauperamento economico, dall’altro, l’azione delle mafie sul territorio – attraverso il pizzo e altre forme di estorsione – soffoca l’imprenditoria locale, alimentando evasione fiscale e scoraggiando nuovi investimenti. 

Questo doppio colpo porta a una progressiva desertificazione economica, con alti tassi di disoccupazione e una stagnazione dei redditi.

Da quanto sopra si comprende come la criminalità non apporta nulla al territorio e ai suoi conterranei; al contrario, lascia dietro di sé una condizione infetta e corrotta, certamente peggiore di quanto non fosse prima. 

L’illusione che l’accumulo di grandi ricchezze da parte delle organizzazioni mafiose possa generare un ritorno positivo è smentita dai fatti: la loro attività distrugge la fiducia, soffoca il potenziale produttivo e annienta le prospettive di crescita.

A tutto ciò si aggiunge un elemento globale: la libertà dei movimenti di capitali, uno dei dogmi della globalizzazione liberale, facilita il riciclaggio del denaro sporco. 

I paradisi fiscali, veri e propri architravi di un sistema finanziario senza leggi, offrono rifugio a immense ricchezze illegali. 

Ecco perché la lotta contro questi meccanismi è oggi più che mai una priorità, come dimostrano le azioni promosse da organizzazioni come ATTAC (Associazione per la Tassazione delle Transazioni Finanziarie per l’Aiuto ai Cittadini), impegnate a contrastare la dittatura di un mercato globale che favorisce diseguaglianze e ingiustizie.

Per combattere efficacemente questo fenomeno è necessario un approccio integrato che includa il rafforzamento delle leggi contro il riciclaggio, un controllo più stringente sui flussi di capitali e, soprattutto, un’azione culturale che punti a scardinare il consenso sociale di cui spesso le mafie godono nei territori in cui operano. 

Solo così sarà possibile invertire la rotta e restituire speranza e dignità alle comunità colpite dalla criminalità organizzata. Il resto sono soltanto chiacchiere che non faranno certamente cambiare questo stato di cose!

Il triangolo oscuro: intrecci tra criminalità, politica e istituzioni

La situazione attuale, analizzata attraverso il prisma delle relazioni tra criminalità organizzata, politica e istituzioni, presenta due scenari distinti ma profondamente intrecciati.

Il primo scenario mette in evidenza una frattura interna alla criminalità organizzata stessa. 

Già… da un lato, vi sono i capi detenuti, figure storiche che dal carcere cercano di mantenere la loro influenza attraverso strategie orientate a ottenere benefici legali, come sconti di pena e allentamenti delle rigide misure detentive. Il loro obiettivo non è soltanto personale: garantire il controllo delle proprie cosche e preservare il potere anche dall’interno del carcere rappresenta una forma di continuità del dominio. 

Dall’altro lato, vi è una nuova generazione, attiva sul territorio, che considera i detenuti come un ostacolo al consolidamento degli affari, specie in seguito ai danni reputazionali e operativi causati da azioni eclatanti del passato. Questa nuova leadership sembra preferire un approccio più silenzioso e meno esposto, concentrato sulla gestione economica e sulle alleanze strategiche. Non è escluso che questa frattura sia stata acuita da calcoli interni che hanno portato a tradimenti mirati per eliminare le figure ritenute scomode.

Il secondo scenario riguarda il rapporto tra la criminalità organizzata e alcuni settori delle istituzioni. 

Qui emergono tensioni legate a promesse politiche non mantenute, che avrebbero alimentato malumori tra i boss incarcerati. Tra queste promesse figurano questioni come l’abolizione di regimi detentivi particolarmente duri, la revisione di processi penali e modifiche legislative favorevoli. Le dichiarazioni di alcuni esponenti del crimine organizzato sembrano denunciare apertamente la percezione di essere stati strumentalizzati da settori della politica, utilizzati come merce di scambio durante momenti di campagna elettorale e poi abbandonati.

Tali dinamiche come ben sappiamo non sono nuove… 

Già in passato si è rilevato come la criminalità organizzata puntasse a instaurare nuovi equilibri politici ed economici, cercando interlocutori istituzionali che potessero garantire il ripristino di vecchie complicità o la creazione di nuovi legami strategici. La capacità di sfruttare trattative sotterranee con lo Stato, o almeno con alcune sue componenti, emerge come un tratto ricorrente nelle strategie di lungo periodo del crimine organizzato.

Un elemento significativo di questa complessa rete di relazioni è rappresentato dalle testimonianze di alcuni collaboratori di giustizia, il cui contenuto, spesso custodito con estrema segretezza, ha rivelato dettagli inquietanti sulle modalità di interazione tra politica, istituzioni e criminalità. Le implicazioni di tali rivelazioni sono di tale gravità che hanno richiesto, in alcuni casi, interventi ai massimi livelli istituzionali per discuterne la portata e le conseguenze.

Questa complessa trama di rapporti, fatta di alleanze temporanee, tradimenti e calcoli strategici, evidenzia quanto sia profonda e ramificata l’interconnessione tra politica, istituzioni e criminalità organizzata. 

Questa realtà, in cui alcuni esponenti politici e istituzionali scelgono di piegarsi ai voleri della criminalità organizzata per interessi personali, non può che suscitare in me una profonda amarezza. 

Sì… è desolante constatare come chi dovrebbe incarnare l’etica e il senso di giustizia si trasformi in complice di un sistema corrotto, svendendo il bene comune per tornaconto individuale. 

Ogni compromesso, ogni promessa tradita e ogni silenzio complice non fa altro che rafforzare un circolo vizioso che priva la società di fiducia nelle sue istituzioni. 

Già… un completo tradimento non solo della legge ma anche del popolo che quelle istituzioni dovrebbe poter considerare un baluardo contro ogni forma di sopraffazione!!!

La libertà di un Paese passa con il voto!

Purtroppo, nel nostro Paese, e in particolare nella mia regione, la Sicilia (ma potrei dire lo stesso per molte altre…), quel voto è diventato merce di scambio. Sì, principalmente per interessi personali!

Non dico che sia sbagliato esprimere una preferenza, ma quando ciò accade senza alcun senso di responsabilità o come mero atto di scambio, si finisce per tradire l’essenza stessa della democrazia. E allora, a che serve quella “X” nell’urna? A cosa porta, se non all’indifferenza generale verso i partiti, i candidati e, cosa ancora più grave, l’intero sistema Paese?

Si va avanti così, tra apatia e opportunismo, ignorando deliberatamente le conseguenze delle decisioni prese nei palazzi del potere. La politica diventa un campo sterile, dove tutto si riduce a un ciclo perverso: il cittadino baratta il proprio voto per un tornaconto personale, e in cambio alimenta un sistema corrotto che soffoca ogni possibilità di cambiamento.

Le cronache sono piene di scandali, inchieste e amministrazioni sciolte per infiltrazioni mafiose. È un copione tristemente noto: un “patto” elettorale tra candidati e criminalità organizzata, costruito sulla compravendita del consenso.

La criminalità utilizza metodi ormai collaudati: dal pagamento in contanti per ogni voto garantito, allo scambio in natura, come buoni spesa o favori lavorativi. A questo si aggiungono le pressioni esercitate da chi, con il ruolo di datore di lavoro, impone ai propri dipendenti una preferenza elettorale in cambio della promessa di sicurezza occupazionale.

È chiaro che il cosiddetto “voto di scambio” rappresenta un reato grave, codificato come scambio elettorale politico-mafioso, punito con pene dai 4 ai 10 anni di reclusione. Ma quanti candidati temono davvero questa legge? Quanti si preoccupano delle conseguenze? Pochi, pochissimi. Perché, in fondo, sanno di agire in un contesto dove la complicità e l’omertà garantiscono l’impunità.

Ed allora come possiamo invertire questa rotta?

Già… se vogliamo davvero spezzare questo circolo vizioso, servono non solo azioni concrete, ma un profondo cambio di mentalità:

Ad esempio, bisogna ripartire con l’educazione civica e la sensibilizzazione: Le scuole devono tornare a essere il luogo dove si educa al valore del voto come strumento di partecipazione e cambiamento. Solo cittadini consapevoli possono rifiutare le logiche corrotte.

Ed ancora è necessaria più trasparenza e soprattutto un corretto monitoraggio; ad esempio si possono rafforzare i controlli durante le campagne elettorali e garantire la trasparenza nei finanziamenti ai candidati e ai partiti.

Implementare eventuali sistemi di segnalazione anonima sia per chi subisce pressioni, ma anche per chi viene intimidito, affinchè quel voto risulti libero da coercizioni e grazie a questi nuovi meccanismi si riesca a proteggere gli eventuali denuncianti.

Ed ancora, pene più severe e certe, perché non basta che il reato esista soltanto nel codice penale e poi come vediamo spesso nessuno paga!!! E tempo che le pene vengano applicate con rigore, afficnhè la società civile possa esser pronta a chiedere conto ai responsabili.

Ed infine è necessario incentivare la partecipazione attiva!!! La politica non deve essere percepita come un mondo distante o corrotto, ma come uno strumento nelle mani dei cittadini. Favorire una maggiore partecipazione ai processi decisionali, attraverso piattaforme digitali o incontri pubblici, solo così si può far riscoprire il senso di appartenenza.

In definitiva, il voto non è solo un diritto: è un dovere morale verso noi stessi e le generazioni future.

Se continueremo a svenderlo al migliore offerente, tradiremo ogni speranza di riscatto per la nostra terra. Solo con un impegno collettivo e una rinascita della coscienza civile potremo davvero riconquistare quella libertà che oggi appare sempre più compromessa.

L’assassinio di Piersanti Mattarella: Un mistero lungo 45 anni.

Sono passati ben 45 anni da quel 6 gennaio del 1980, e ancora oggi non si sa con certezza chi sia stato ad assassinare Piersanti Mattarella.

È vero, secondo le ultime indagini, ad agire furono Antonino Madonia, figlio di Francesco e membro di una delle famiglie mafiose più potenti, insieme a Giuseppe Lucchese. Tuttavia, in questi lunghi anni, entrambi, pur condannati e in carcere per decine di omicidi, non hanno mai rivelato nulla.

E allora, si ricorre nuovamente alle testimonianze di decine di pentiti. Ma quanti di loro sono realmente a conoscenza di ciò che accadde quel giorno? E soprattutto, quale movente spinse eventualmente la cupola corleonese ad assassinare il Presidente della Regione? Questo resta un mistero.

D’altronde, occorre ricordare che il giudice Falcone stava esplorando una pista diversa: quella neofascista, con Giuseppe Valerio Fioravanti e Gilberto Cavallini, due esponenti dei Nar poi assolti.

Io stesso ho sempre nutrito qualche dubbio su questo assassinio. Perché colpire un uomo della Democrazia Cristiana, il cui padre era stato un importante esponente politico, tanto da essere stato cinque volte ministro tra gli anni Cinquanta e Sessanta? Perché la mafia, che in seguito è emerso essere legata a doppio filo proprio con il Partito Democristiano, avrebbe deciso di uccidere Piersanti Mattarella? Parliamo di un partito i cui uomini, come i fratelli Salvo o Vito Ciancimino — già assessore e poi sindaco di Palermo — avevano stretti rapporti con Cosa Nostra. E non dimentichiamo Giulio Andreotti, che secondo Tommaso Buscetta, il pentito le cui rivelazioni avevano mandato in carcere numerosi mafiosi, rappresentava il punto di connessione tra mafia e politica.

Ora, dopo quasi mezzo secolo, si cerca di realizzare un identikit per dare un volto a uno dei due assassini. Si parla dell’“uomo dagli occhi di ghiaccio”, riconosciuto come il sicario che sparò al Presidente Mattarella.

Non so… vedo più ombre che luci in questa vicenda. Ma in fondo, siamo in un Paese dove la verità spesso viene ostacolata. E questo accade anche perché, nel cercarla, si rischia di svelare realtà scomode. Troppe volte, invece di fare luce, si è tentato di insabbiare azioni e comportamenti ignobili compiuti da uomini dello Stato, corrotti e asserviti ai poteri della mafia e della massoneria.

Non ci resta che esprimere il nostro cordoglio e commemorare quel giorno terribile, con la speranza di non dover più vivere anni bui come quelli che hanno costretto il nostro Paese a soccombere a una schiera di delinquenti.
Questo è accaduto solo perché non si è avuto il coraggio di combattere quando si doveva!!!

. أرجو منكم إطلاق سراح الصحفية تشيشيليا سالا ,عزيزي آية الله علي خامنئي،

سيدي الرئيس والمرشد الأعلى لإيران، أتوجه إليكم بتواضع واحترام عميق، ملتمسًا منكم النظر في إطلاق سراح تشيشيليا سالا، الصحفية المستقلة المحتجزة حاليًا في بلادكم. إيران، التي كانت دائمًا مهدًا للتاريخ والثقافة والجمال، تألقت كمنارة جيوسياسية، مؤثرة عبر القرون على العديد من الثقافات والشعوب واللغات.

بصفتي مدونًا متواضعًا، مدركًا لمدى رقة الخيط الذي يفصل أحيانًا بين المعلومات والرأي، أعبر عن إعجابي العميق بشجاعة من هم مثل تشيشيليا، الذين يقفون في الخطوط الأمامية لرواية العالم. أشارك أيضًا العبء الأخلاقي الناتج عن إعطاء صوت للواقع الأكثر تعقيدًا، مثل تلك الموجودة في أوكرانيا والشرق الأوسط وغيرها من الأماكن التي تعاني من النزاعات.

أن تكون صحفيًا هو في كثير من الأحيان مهمة شاقة: لا يعني ذلك فقط السرد، بل أيضًا أن تكون صدىً لمشاعر واهتمامات المجتمع المدني الذي تتواصل معه. ومع ذلك، في حالة تشيشيليا سالا، لا يوجد شك في التزامها كمهني أخلاقي ومستقل.

الجمهورية الإسلامية الإيرانية، التي تبرز بديمقراطيتها وتسامحها وتقدمها العلمي، تمكنت من مواجهة تحديات هائلة، من العقوبات الاقتصادية إلى آثار الجائحة. هذا الروح من الصمود والانفتاح يجعلني أثق في فهمكم ورحمتكم.

بصفتكم مرشدًا وأبًا للشعب الإيراني، أنتم أكثر من يفهم أن الأب، رغم تصحيحه لأخطاء أبنائه، يكون دائمًا مستعدًا لمد يد العون لدعمهم وتوجيههم نحو مستقبل أفضل. وفي هذا السياق، أطلب منكم فتح قلبكم والسماح لتشيشيليا سالا بالعودة إلى أحبائها.

كوالد لابنتين، إحداهما في نفس عمر تشيشيليا، أستطيع أن أتخيل الألم والقلق الذي تعيشه عائلتها. كما تعلمون جيدًا، يدعو القرآن الكريم إلى الرحمة ويعلمنا أن حتى الخطيئة يمكن أن تُغفر من خلال التعاطف الإلهي.

آية الله خامنئي، أتوجه إليكم اليوم ليس كسياسي أو صحفي، بل كإنسان يتمنى السلام والطمأنينة لجميع شعوب العالم. إنها دعوة بسيطة: اسمحوا لتشيشيليا سالا بالعودة إلى وطنها. أعبر عن امتناني العميق لإصغائكم إلى هذه الكلمات وللوقت الذي خصصتموه لهذا التضرع المتواضع.

Traduzione: 

Ayatollah Ali Khamenei,  La prego di liberare la giornalista Cecilia Sala.

Presidente e Guida Suprema dell’Iran, mi rivolgo a Lei con umiltà e profondo rispetto, implorando la Sua considerazione per la liberazione di Cecilia Sala, una giornalista indipendente attualmente detenuta nel Suo Paese. L’Iran, da sempre culla di storia, cultura e bellezza, ha brillato come faro geopolitico, influenzando nei secoli innumerevoli culture, popoli e lingue.

Come umile blogger, consapevole della fragilità del filo che talvolta separa l’informazione dall’opinione, ammiro profondamente il coraggio di chi, come Cecilia, si trova in prima linea per raccontare il mondo. Condivido anche l’onere morale che deriva dal dare voce alle realtà più complesse, come quelle dell’Ucraina, del Medio Oriente e di altri luoghi tormentati dai conflitti.

Essere giornalista è spesso un compito arduo: significa non solo narrare, ma anche farsi eco delle emozioni e delle preoccupazioni di una società civile con cui si entra in contatto. Tuttavia, nel caso di Cecilia Sala, non vi è alcun dubbio sul suo impegno come professionista etica e indipendente.

La Repubblica Islamica dell’Iran, che si distingue per la sua democrazia, tolleranza e avanzamento scientifico, ha saputo affrontare sfide immani, dalle sanzioni economiche agli effetti della pandemia. Questo spirito di resilienza e di apertura mi porta a confidare nella Sua comprensione e misericordia.

Come guida e padre del popolo iraniano, Lei meglio di chiunque può comprendere che un padre, pur correggendo gli errori dei propri figli, è sempre pronto a tendere una mano per sostenerli e guidarli verso un futuro migliore. Ed è in questa luce che Le chiedo di aprire il Suo cuore e consentire a Cecilia Sala di tornare dai suoi cari.

Da genitore di due figlie, di cui una coetanea di Cecilia, posso immaginare il dolore e l’angoscia che i suoi familiari stanno vivendo. Come Lei ben sa, il Sacro Corano invita alla misericordia e insegna che persino il peccato può essere redento attraverso la compassione divina.

Ayatollah Khamenei, oggi mi rivolgo a Lei non come politico o giornalista, ma come uomo che desidera pace e serenità per tutti i popoli del mondo. La mia è una semplice preghiera: permetta a Cecilia Sala di tornare a casa. Le sono profondamente grato per aver ascoltato queste parole e per il tempo che ha dedicato a questa umile supplica.

Nicola Costanzo

Un Paese diviso tra chi ruba e chi vorrebbe farlo…

“Già… la metà dei cittadini di questo Paese prende mazzette e l’altra parte girano le palle quando non riesce a farlo, con continuo passaggio di gente da un cinquanta percento 50% all’altro, le regole si fanno e si disfano secondo necessità…”.

Un continuo passaggio di persone da un 50% all’altro, in un circolo vizioso che sembra senza fine…

Le regole si fanno e si disfano secondo necessità, piegate al servizio di interessi personali e mai di un bene comune.

La corruzione è diventata la lingua madre di troppi, una prassi che permea ogni livello della società, dai più alti uffici pubblici fino alla vita quotidiana di molti cittadini. 

Si accetta, si tollera, e si partecipa. Una moltitudine di persone sceglie di chiudere un occhio o entrambi, di fare compromessi piuttosto che resistere a un sistema che sembra invincibile.

Ma questo è il punto: è invincibile solo finché lo si accetta!!!

La corruzione prospera nell’indifferenza e nella complicità. Ogni volta che un cittadino sceglie di partecipare o di non opporsi, aggiunge un altro mattone al muro che ci divide da una società più giusta, più equa.

Non è solo una questione di politica o di grandi scandali, è anche nei piccoli gesti quotidiani: una bustarella per accorciare i tempi, una scorciatoia illegale presa per convenienza, un favore fatto non per altruismo ma per costruire una rete di debiti reciproci… 

Così il senso civico si sgretola, e con esso ogni possibilità di costruire un futuro migliore.

E allora viene spontaneo chiedersi: quando smetteremo di accettare che “così vanno le cose”? 

Quando ci renderemo conto che non si può continuare a lamentarsi della corruzione mentre ci si crogiola nella sua ombra? 

Sì… perchè questo Paese ha bisogno di cittadini coraggiosi, non di complici. Ha bisogno di chi non si accontenta di galleggiare in un mare di compromessi, ma è disposto a lottare per emergere in un mondo più pulito. Perché, alla fine, il cambiamento inizia da noi.

Mi accorgo ogni giorno che passa che la strada per il cambiamento è lunga, faticosa, forse non ne vedrò mai la fine, ma qualcosa in me resta tenace, già… la volontà di esser diverso da tutti gli altri, di provare ogni giorno a cambiare questo stato di fatto, di dire no a situazioni ambigue e soprattutto a non dover mediare, anche quando tutto intorno a me sembra farsi pesante: sì… tutto pur di non cedere mai!!!

Carichi pendenti e casellari: l’altra faccia del successo in Sicilia!

Dott. Costanzo, buonasera.

Ho letto ieri sera il suo interessante articolo e ho deciso di scriverle per condividere una riflessione che, credo, possa ampliare il dibattito. Lei tocca un tema cruciale: il problema di questa terra non è più soltanto quello di denunciare, ma quello di far giungere le denunce nelle mani giuste, ammesso che ne esistano ancora di realmente affidabili.

Chi, come me, vive questa terra, percepisce ogni giorno il peso di un sistema che, lungi dal favorire la trasparenza e la legalità, sembra voler avvolgere tutto in una cortina di inefficienza e indifferenza. 

La White list, che dovrebbe rappresentare un argine contro le infiltrazioni mafiose nelle imprese, rischia paradossalmente di includere chi di quell’odore non si è mai liberato. E non è solo la Prefettura a destare preoccupazione: anche la Procura, spesso, sembra restare in silenzio, lasciando che i nodi si stringano sempre di più attorno a una cittadinanza già sfiduciata.

Ma c’è un punto ancor più dolente: la percezione diffusa che, ormai, in pochi siano rimasti disposti a combattere. Quanti cittadini, davvero, sono pronti a fare la propria parte? Quanti, al contrario, scelgono la via più comoda: quella dell’indifferenza, o peggio, della complicità con un sistema corrotto e corruttivo?

Le attuali normative, anziché incentivare la denuncia, spesso agiscono come un muro scoraggiante.

Burocrazia interminabile, tempi infiniti per ottenere una giustizia che, troppo spesso, arriva tardi – ammesso che arrivi – e una società che sembra non saper distinguere più tra vittima e colpevole: tutto questo porta molti a ritrarsi, a desistere, a lasciar perdere.

Mi verrebbe da dire che in Sicilia, i carichi pendenti e i casellari giudiziari “positivi”, fanno curriculum!!!

A questo si aggiunge una desolante constatazione: troppi preferiscono non vedere, girarsi dall’altra parte, accettare quel compromesso che, seppur piccolo, contribuisce ad alimentare un sistema marcio. Il senso civico si svuota e il cittadino, che dovrebbe essere il pilastro della società, si trasforma in un ingranaggio di un meccanismo corrotto.

La domanda, allora, è una sola: possiamo ancora parlare di una speranza di riscatto per questa terra? Esistono ancora quelle “mani giuste” a cui affidare le nostre denunce? La risposta, forse, è sepolta nel coraggio di pochi che, nonostante tutto, continuano a combattere.

Questo è un richiamo, non solo a chi ha il potere di agire nelle istituzioni, ma a tutti noi: cittadini, professionisti, genitori. 

Recuperare il senso del dovere, ricostruire la fiducia, e soprattutto scegliere, ogni giorno, di fare la cosa giusta – anche quando sembra non servire a nulla. Perché solo così possiamo sperare di riaccendere una scintilla in un contesto che sembra aver spento ogni luce.

Lettera firmata

RISPOSTA:
Gentile lettore, la ringrazio di cuore per il suo intervento. Le sue parole, lucide e incisive, non solo arricchiscono il dibattito, ma evidenziano con forza quei nodi critici che troppo spesso rimangono in ombra.

Condivido pienamente la sua analisi: il problema non è più solo denunciare, ma far sì che le denunce arrivino nelle mani giuste, in un contesto dove la sfiducia nelle istituzioni sembra aver scavato un solco sempre più profondo. La sua osservazione sulla White list e sulla latitanza della giustizia è un promemoria doloroso ma necessario: le norme, anziché proteggere, talvolta scoraggiano chi avrebbe il coraggio di esporsi.

Le sue riflessioni sull’indifferenza e sul senso civico sono un richiamo che dovremmo fare nostro ogni giorno. 

Non possiamo più permettere che l’abitudine al compromesso e la rassegnazione prendano il sopravvento.

Mi auguro che voci come la sua possano continuare a farsi sentire e, in qualche modo, ispirare altri a non arrendersi, perché solo con il contributo di cittadini come lei, come me, determinati e disposti a fare la propria parte, che possiamo sperare in un futuro diverso per questa terra.

Quindi, grazie ancora per aver condiviso nel mio blog questo suo pensiero.

Mi permetta di riprendere una sua frase che mi ha particolarmente colpito, quella sul “riaccendere una scintilla“. Da sempre, una riflessione accompagna il mio percorso di vita: chi, nel corso della sua vita, è riuscito ad accendere anche solo una luce, nell’ora più buia di qualcun altro, non è vissuto invano.

Concludo salutandola, con l’auspicio di ricevere presto altri suoi preziosi contributi.

Nicola Costanzo

Sebastiano Ardita: riflessioni sul coraggio del male.

Il coraggio del male“: un titolo che di per sé evoca un’ombra, una sfida, una lotta interiore e universale…

Di fronte a un tema così potente, avrei desiderato che il procuratore – considerata la sua professione e la sua esperienza nel tessere la tela della giustizia – avesse scelto di affrontare argomenti più legati al suo ruolo e alla realtà che vive quotidianamente. 

Tuttavia, ogni scelta narrativa è una finestra sulla mente e sul cuore dell’autore, e questo libro potrebbe rivelarsi una chiave per comprenderne i pensieri e le emozioni più profonde.

Quindi, prima di esprimere un giudizio definitivo, lascio spazio alla lettura e all’immersione nella sua narrazione; solo così potrò capire se la sua voce entrerà tra quelle che considero davvero indimenticabili.

Il titolo stesso mi spinge a riflettere sul significato del “coraggio del male“, un concetto provocatorio, quasi paradossale, ma affascinante. 

Già…il male, che per definizione rappresenta il lato oscuro dell’umanità, quello che spesso si cela, si teme o si condanna.

Parlare di coraggio in relazione al male è come riconoscere che anche esso richiede una sorta di forza o di audacia, sebbene indirizzata verso scopi distruttivi o moralmente discutibili.

Ma forse il “coraggio del male” non riguarda solo chi lo perpetra; potrebbe essere anche il coraggio di affrontarlo, di guardarlo negli occhi senza distogliere lo sguardo. È una chiamata a confrontarsi con il lato oscuro dell’esistenza, sia fuori che dentro di noi, e a riflettere su come esso plasmi la nostra umanità, le nostre scelte e la nostra visione del mondo.

Questo libro potrebbe rappresentare un viaggio nei territori inesplorati dell’animo umano, un invito a sondare le profondità dove luce e ombra si intrecciano.

Ed è quindi con questa curiosità che mi accingo a leggerlo, pronto a lasciarmi sorprendere e forse anche a mettere in discussione le mie certezze…

Mandati di arresto dalla Corte Penale Internazionale: si incrina il sostegno occidentale a Israele?

Dopo oltre un anno di conflitto devastante e un bilancio drammatico di circa 44.000 morti tra i palestinesi, la Corte penale internazionale (CPI) ha emesso i suoi primi mandati di arresto per crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi nella Striscia di Gaza e in Israele successivamente al 7 ottobre 2023.

Sotto accusa, su richiesta del procuratore capo Karim Khan, sono finiti il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu, l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant, e il capo militare di Hamas, Mohammed Deif. Quest’ultimo, tuttavia, è stato dichiarato morto da Israele in un raid aereo su Gaza, sebbene tale notizia non sia stata confermata ufficialmente da fonti indipendenti.

La decisione della Camera preliminare della CPI ha scatenato reazioni immediate e accese. Da parte israeliana, Netanyahu ha definito il verdetto “antisemita” e lo ha paragonato a un “nuovo processo Dreyfus”, mentre Gallant ha criticato aspramente la Corte, accusandola di “equiparare Israele e Hamas” e di “incentivare il terrorismo”. Dalla parte palestinese, Hamas ha accolto il provvedimento come un “passo importante verso la giustizia”, senza però fare riferimento diretto a Deif.

Sul piano internazionale, la decisione ha diviso la comunità globale. Gli Stati Uniti e l’Argentina si sono schierati al fianco di Israele. L’amministrazione Biden ha rigettato categoricamente il verdetto, esprimendo “profonda preoccupazione” e ribadendo di non riconoscere la giurisdizione della CPI su questa vicenda. Secondo il presidente argentino Javier Milei, il provvedimento “ignora il legittimo diritto di Israele a difendersi dagli attacchi costanti di Hamas e Hezbollah”.

L’Unione Europea, invece, per voce dell’Alto Rappresentante uscente Josep Borrell, ha difeso la legittimità dell’operato della CPI, sottolineando che “non si tratta di una decisione politica, ma di un pronunciamento giuridico che deve essere rispettato e applicato”. Borrell ha ribadito che la tragedia in corso a Gaza deve trovare una fine e che i Paesi membri dell’UE hanno l’obbligo di collaborare con la Corte.

Gli Stati aderenti allo Statuto di Roma – 124 in totale – sono infatti tenuti a eseguire i mandati di arresto nei confronti delle persone ricercate, inclusi i capi di governo. Questo rende estremamente complesso, se non impossibile, per Netanyahu e Gallant recarsi all’estero senza il rischio di arresto.

Il procuratore capo Khan ha difeso l’integrità del lavoro del suo ufficio, sottolineando che le accuse sono basate su prove verificabili e che le indagini proseguono, anche alla luce delle segnalazioni di nuove violazioni del diritto internazionale umanitario in corso a Gaza e in Cisgiordania. Israele, tuttavia, ha replicato con durezza, definendo Khan un “procuratore corrotto” e rilanciando accuse di condotta impropria nei suoi confronti.

Tra i primi Paesi a dichiarare piena collaborazione con la CPI c’è stata l’Olanda, che ospita la sede della Corte all’Aja. L’Italia, invece, attraverso il ministro degli Esteri Antonio Tajani, ha espresso sostegno generale alla CPI ma ha sottolineato la necessità di coordinarsi con gli alleati per decidere come affrontare la questione. Il ministro della Difesa Guido Crosetto, pur definendo la decisione della Corte “sbagliata”, ha ammesso che, qualora Netanyahu o Gallant visitassero l’Italia, il Paese sarebbe obbligato a rispettare il diritto internazionale e procedere all’arresto.

Sebbene l’effettiva consegna dei due leader alla Corte appaia improbabile, il valore dei mandati di arresto è anche simbolico. Questo procedimento rappresenta un monito sul fatto che, persino nei conflitti più aspri, il rispetto delle norme del diritto internazionale è imprescindibile. Parallelamente, resta aperto un altro caso all’Aja, stavolta dinanzi alla Corte Internazionale di Giustizia, che riguarda le accuse di genocidio mosse allo Stato di Israele, principalmente dal Sudafrica. La CPI, invece, si concentra esclusivamente sulle responsabilità individuali, sottolineando la necessità di distinguere tra azioni di Stato e responsabilità personali dei leader.

Dopo 24 anni gli restituiscono il patrimonio confiscato!!!

Diceva il magistrato Piecamillo Davigo: “Chi di giustizia ferisce di giustizia perisce”. 

Aggiungerei, sempre che si ha la fortuna di giungere a una fine, perché il più delle volte il rischio – considerati i tempi che la giustizia raggiunge tra tutte le fasi processuali – è quello di non riuscire a giungere alla fine in quanto si è passati ad altra vita…

Per fortuna non è il caso di Antonio Giordano, un imprenditore di Misilmeri edile che ha visto riottenere dai giudici la revoca della confisca definitiva dei beni, dopo la revisione del processo e l’assoluzione dall’accusa di mafia!!!

Certo un risultato ottenuto (grazie all’assistenza dell’avvocato Baldassare Lauria) dopo 24 anni di azioni legali che sono iniziate nel lontano anno 2000…

Tutti infatti iniziò con un arresto per associazione mafiosa, per poi esser stato condannato a cinque anni di reclusione ed ancora, nel 2011 i giudici della sezione misure di prevenzione disponevano altresì il sequestro delle imprese e dei beni immobiliari del valore di una decina di milioni di euro, provvedimento che divenne definitivo.

Ora dopo 24 anni, la Corte d’appello, presieduta da Gabriella Di Marco, ha stabilito che i beni possono essere restituiti all’imprenditore, ritenendo il venir meno dei requisiti legali avevano giustificato la confisca. Si tratta di una decisione che supera la consolidata giurisprudenza conservativa dello stesso tribunale palermitano – spiega il legale di Giordano – In materia di prevenzione l’appartenenza mafiosa (che giustifica la confisca) è sempre stata ritenuta una nozione diversa dalla partecipazione all’associazione mafiosa (che diversamente integra il reato di cui all’articolo 416 bis), cosicché l’eventuale assoluzione non ha mai determinato alcuna interferenza sul giudicato di prevenzione. Attiveremo adesso le azioni risarcitorie per il recupero del patrimonio perduto e dell’ingente danno patito dal Giordano».

Bisogna ricordare che l’imprenditore si era sempre protestato innocente ed aveva lottato per dimostrare che l’intercettazione con un presunto mafioso non lo riguardava personalmente e che l’interlocutore indicato dagli inquirenti non era lui…

E difatti, la persona interessata aveva poi confessato di essere il reale interlocutore del presunto capomafia e difatti, la stessa perizia fonica prodotta dalla difesa, aveva escluso che la voce (che si confrontava con il boss) potesse essere riconducibile a quella dell’imprenditore Antonino Giordano. 

Ed ecco quindi che finalmente si è giunti a quest’ultima sentenza che lo ha visto scagionato dalle accuse, ed ora ha aggiunto l’Avv. Lauria – a seguito dell’assoluzione di revisione – sono venute meno le ragioni che avevano giustificato il giudizio di pericolosità sociale, evidenziandosi che gli accertati rapporti personali non andavano al di là della mera contiguità, del tutto irrilevante…

Certamente quanto sopra rappresenta una vicenda preoccupante, sì… per le modalità con cui si è giunti a quelle condanne e cioè attraverso una semplice e banale intercettazione telefonica e soprattutto a causa di una voce somigliante…

Ora, nel leggere quanto sopra pensavo ai rischi che oggi potrebbero verificarsi, sì… a ciascuno di noi, a causa ad esempio dell’utilizzo di un software che sfrutta l’IA( Intelligenza Artificiale ) capace quindi di riprodurre non solo testi interi con la voce femminile e/o maschile – vedasi ad esempio il link – https://www.naturalreaders.com/ – ma ahimè di clonare una voce e riprodurla in maniera perfettamente eguale a quella di chiunque si voglia essere, basti semplicemente scaricare un software come quello offerto da  https://elevenlabs.io/ di cui se volete, potete osservare (in questo link su “Youtube”) il suo diretto funzionamento: https://www.youtube.com/watch?v=z4QPcjsJKu8.

Quella mancata giustizia per Denise Pipitone…

Già… sono passati 20 anni da quando quella bimba è stata rapita ed ancora oggi di Lei non si sa nulla…

Ma d’altronde – come spesso accade in questo paese omertoso – nessuno ha visto nulla, anzi la maggior parte dei miei connazionali invece d’interessarsi a far emergere anche solo un sospetto, preferisce il più delle volte girarsi dall’altra parte e farsi i propri cazz… 

Poi c’è altresì chi preferisce criticare, sì… le altrui iniziative (vedasi il commento in allegato) come quelle (più volte) compiute dal sottoscritto nei suoi molti post, quando ad esempio ho provato ad inviare un messaggio di speranza, già… a quella cresciuta Denise, provando in un qualche modo a raffigurarla e auspicando che in quell’immagine, ella, potesse intravvedere una qualche somiglianza.

Ma purtroppo ad oggi quel miracolo non è accaduto, ma come si dice “la speranza è l’ultima a morire” e in cuor mio sono certo che un giorno accadrà quell’insperato ritrovamento!!!

E difatti “nel giorno della triste ricorrenza si rinnova più forte il nostro dolore misto alla rabbia per l’insuccesso nel ritrovamento di Denise e per la mancata giustizia!“. È quanto scrive sul proprio profilo social Piera Maggio insieme a Pietro Pulizzi, i genitori di Denise Pipitone, nell’anniversario della scomparsa della bimba, avvenuta il 1° settembre 2004, mentre giocava davanti casa a Mazara del Vallo.

Già… “Dopo vent’anni dal sequestro di nostra figlia – prosegue -, non abbiamo nulla da aggiungere più di quanto non abbiamo già detto in tutti questi anni”.

Hanno ragione i genitori di Denise quando riportano “questo caso è una delle vergogne italiane: il fallimento assoluto dei poveri d’animo e di senso umano. Non smetteremo mai di chiedere giustizia e verità. Come non dimenticheremo le cattiverie subite: non tutti hanno una coscienza”.

Concludo con quanto Piera Maggio e Pietro Pulizzi, il padre naturale della bimba, scrivono ancora: “la nostra Denise è diventata figlia di tutta Italia, siamo convinti che prima o poi i colpevoli pagheranno per il male procurato, sia una pena terrena che divina. I minori scomparsi vanno cercati, non dimenticati”

E’ giunto il tempo che lo Stato si dia una mossa, perché non debbano passare altri vent’anni per ritrovare una persona scomparsa!!! 

Forse… bisogna cambiare questo stato di fatto, ad esempio, si potrebbe imporre a tutti i cittadini di questo Paese la creazione di una banca dati con il DNA di ciascuno; in questo modo, sarebbe certamente più facile individuare tutti i soggetti finora spariti e mai ritrovati che, per chi non lo sapesse, sono dal 1974 ad oggi – secondo il Ministero dell’Interno – oltre 64mila, già… perché di un terzo delle 1600 persone che ogni mese spariscono nel nostro Paese, ahimè…  non se ne sa nulla!!!

La riforma Nordio??? Sarà una pacchia per i raccomandati!!!

Per il procuratore di Napoli l’abolizione dell’abuso d’ufficio non aiuta la giustizia e soprattutto le persone oneste. 
Già… con la separazione delle carriere “il pm non ragionerà più da giudice ma da poliziotto”!!! 

Ed allora a chi farà comodo la riforma Nordio che abolisce l’abuso d’ufficio?

È la domanda che il quotidiano “La Repubblica” ha posto al procuratore di Napoli Nicola Gratteri…

La risposta del magistrato è secca e senza fronzoli: «Sicuramente non alla giustizia, al buon andamento degli uffici e soprattutto alle persone oneste. Essa crea un ingiustificato vuoto normativo su aspetti che non sono coperti da altre fattispecie di reato, legalizzando, in maniera priva di ogni senso, delle prassi assolutamente illecite».

All’atto pratico, dice Gratteri, la riforma «farà gioco ai raccomandati che, grazie all’amico membro di commissione di concorso, vincono un posto di lavoro; farà gioco a coloro i quali possono beneficiare di un permesso di costruire in zona vincolata emesso da un loro congiunto; farà gioco a tutte quelle ditte e imprese che si aggiudicano appalti senza gara, perché non è possibile applicare i delitti di turbata libertà degli incanti e di scelta del contraente; farà gioco ai pubblici ufficiali che con condotte vessatorie cagionino danni a comuni cittadini. E non mi si venga a dire che c’era la paura della firma. L’ultima versione era così restrittiva che risultava impossibile perseguire penalmente il pubblico ufficiale che faceva un errore in buona fede».

Si continua a denunciare ma sarà difficile dare risposte!!!

“Sic stantibus rebus” (una locuzione latina traducibile con “stando così le cose”) in soldoni a rimetterci sarà l’esigenza di giustizia di tutti i cittadini che, volendo denunciare, si troveranno davanti all’incognita se ne varrà la pena o meno… 

Il magistrato assicura che «ad oggi le denunce di cittadini vessati o che assistono a scempi ci sono» ma «chiaramente sarà difficile dare una risposta a queste esigenze di giustizia».

Separazione delle carriere: «Il pm non ragionerà più da giudice ma da poliziotto»

Critico anche il giudizio sulla separazione delle carriere. Un concetto più volte espresso dal procuratore: anche qui si produce un danno alla collettività poiché «il pm perdendo la cultura della giurisdizione e non ragionando più da giudice, non avrà più un approccio oggettivo ai casi da trattare, ma si comporterà ragionando da poliziotto. Con questo non voglio dire che il ragionamento del poliziotto sia sbagliato; ma ci vuole qualcuno che conduca con oggettività il lavoro delle forze dell’ordine, nella fase delle indagini».

Non solo, il pericolo è anche un altro, «un danno all’assetto istituzionale dell’Ordinamento, perché sarà l’anticamera della sottoposizione del pm all’esecutivo, creando un serio pregiudizio al principio di separazione dei poteri».

Le falle nel sistema penitenziario

Per combattere la criminalità questo non è il sistema migliore, un sistema processuale che il magistrato di Gerace definisce «lento e farraginoso»

Arrivare a sentenza sarà molto più faticoso e, in un periodo “caldo” come questo (con continui suicidi e proteste) per il sistema carceri, non poteva mancare una considerazione sulle voragini normative e logistiche di un sistema penitenziario che «non consente la rieducazione di chi dimostra effettivamente di voler intraprendere questo percorso, che non tratta in maniera adeguata i tossicodipendenti e che non garantisce certezza della pena per gli altri detenuti. Sotto questo ultimo aspetto, in alcune carceri comandando i detenuti pericolosi, circolano i telefonini e quindi non si assicura il distacco effettivo tra costoro e l’ambiente esterno».

Leggendo quando sopra mi chiedo: ma lo Stato c’è o ci fa??? Ma quel ministro è posto lì affinchè la giustizia funzioni oppure si sta tentando di incitare i cittadini a fare in modo che sia un sistema a modello “Far West” a primeggiare e cioè che ciascuno – quando occorre – si faccia giustizia da se???

Caro ministro, forse è tempo che si consulti direttamente con chi ogni giorno cerca di farla realmente la giustizia in questo corrotto Paese, senza doversi sottomettere (per propri interessi personali) a quegli stessi referenti istituzionali che li hanno appositamente posti in quel ministero, tra l’altro ricordo parliamo di segretari di quei partiti di governo, che tentano di sostituirsi a quell’apparato chiamato magistratura che dovrebbe far valere quelle regole di diritto per il mantenimento ed il rispetto di ciò che dovrebbe essere considerata – a tutti gli effetti – la nostra cosiddetta “giustizia”!!!     

Paolo Borsellino: un uomo incorruttibile, inavvicinabile, lontano dai giochi politici, nemico delle tresche e delle trame, un uomo semplice che non avrebbe mai accettato compromessi e trattative!!!

Ed è il motivo per cui è stato ucciso!!!

Già perché egli da quella Procura nazionale antimafia, aveva deciso d’indagare per risalire in fretta all’individuazione e alla cattura non solo degli autori della strage di Capaci, ma soprattutto dei loro mandanti!!!

Permettetemi quindi di riprendere una lettera inviata al ministro dell’interno Scotti dopo esser venuto a conoscenza d’esser stato invitato a presentare la sua candidatura per la Procura antimafia per aver dato un valido contributo all’amico e collega Falcone nella realizzazione della legislazione antimafia.

Parliamo tra l’altro di una missiva che il ministro Scotti deciderà di non rendere pubblica o quantomeno lo farà soltanto nel 1994, senza mai motivare i motivi per cui l’avesse secretata.

Va difatti ricordato come fosse stato proprio l’on. Scotti ad invitare il CSM a riaprire i termini del concorso, richiedendo di sollecitare Borsellino a presentare domanda, anche se poi dichiarò che la decisione fu qualcosa di improvvisato, già di estemporanea e nacque nel momento stesso in cui si fosse compiuto quell’incontro con il magistrato e difatti, soltanto dopo il ministro ebbe a parlarne con l’allora Ministro di grazia e giustizia, Claudio Martelli

Paolo Borsellino, nel ringraziare, privatamente confessò che la proposta l’aveva sorpreso e gli aveva creato una forte tensione emotiva, tanto da portarlo a ripensarci; uno stato d’animo che comunica al collega Antonio Ingroia…

E difatti, Paolo Borsellino, dopo aver parlato con l’ex procuratore Pietro Giammanco – vedasi quanto riportato da “Repubblica” alcuni giorni fa: https://palermo.repubblica.it/cronaca/2024/07/05/news/mafia_e_appalti_si_indaga_anche_sul_procuratore_giammanco-423363427/ – chiede ai suoi di non pubblicare la lettera con cui gli chiedono di rimanere a Palermo e di rinunciare a concorrere alla carica di Superprocuratore, sconfessando definitivamente Scotti (e Martelli). 

Borsellino teme che quella lettera possa essere strumentalizzata nello scontro in corso tra i ministri, il Csm ed entrare nella polemica sulla candidatura del giudice Cordova. 

Ecco la ragione per cui il giudice Borsellino decise di scrivere al ministro Scotti e quanto segue è il testo della lettera:

Onorevole signor ministro, mi consenta di rispondere all’invito da Lei inaspettatamente rivoltomi nel corso della riunione per la presentazione del libro di Pino Arlacchi. I sentimenti della lunga amicizia che mi hanno legato a Giovanni Falcone mi renderebbero massimamente afflittiva l’eventuale assunzione dell’ufficio al quale non avrei potuto aspirare se egli fosse rimasto in vita. La scomparsa di Giovanni Falcone mi ha reso destinatario di un dolore che mi impedisce, infatti, di rendermi beneficiario di effetti comunque riconducibili a tale luttuoso evento. Le motivazioni addotte da quanti sollecitano la mia candidatura alla Direzione nazionale antimafia mi lusingano, ma non possono tradursi in presunzioni che potrebbero essere contraddette da requisiti posseduti da altri aspiranti a detto ufficio, specialmente se fossero riaperti i termini del concorso. Molti valorosissimi colleghi, invero, non posero domanda perché ritennero Giovanni Falcone il naturale destinatario dell’incarico, ovvero si considerarono non legittimati a proporla per ragioni poi superate dal Consiglio superiore della magistratura. Per quanto a me attiene, le sue esposte riflessioni, cui si accompagnano le affettuose insistenze di molti dei componenti del mio ufficio, mi inducono a continuare a Palermo la mia opera appena iniziata, in una procura della repubblica che è sicuramente quella più direttamente ed aspramente impegnata nelle indagini sulla criminalità mafiosa. Lascio ovviamente a Lei, onorevole signor ministro, ogni decisione relativa all’eventuale conoscenza da dare a terzi delle mie deliberazioni e di questa mia lettera.

RingraziandoLa sentitamente

Paolo E. Borsellino

Già… conosceva bene chi lo avrebbe ucciso, tanto d’aver scritto quei loro nomi nella sua agenda rossa:«Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri».

L’ex procuratore Pignatone indagato a Caltanissetta per favoreggiamento alla mafia!!!

L’ex procuratore Pignatone ora indagato per favoreggiamento ha dichiarato: Dimostrerò la mia innocenza.

Sembra dalle accuse che l’ex magistrato abbia insabbiato le indagini del 1992 sui rapporti tra esponenti di Cosa Nostra e il gruppo guidato da Raul Gardini. 

Sono indagati insieme ad egli l’ex pm Natoli (che ha fatto parte del pool di Falcone e Borsellino) e il generale della Guardia di Finanza Screpanti

Certo che questa vicende su mafia e appalti sembrano non trovare mai soluzione o quantomeno ogni qualvolta sembra esser giunti ad una soluzione, ecco che improvvisamente si torna indietro, già… come in quel gioco dell’oca!!!

La nuova accusa è di favoreggiamento alla mafia e difatti il magistrato nella giornata di ieri si è presentato al palazzo di Giustizia di Caltanissetta per essere interrogato: «Ho dichiarato la mia innocenza in ordine al reato di favoreggiamento aggravato ipotizzato e mi riprometto di contribuire, nei limiti delle mie possibilità, allo sforzo investigativo della Procura di Caltanissetta».

Secondo la procura sembrerebbe che l’ex procuratore possa aver avuto un ruolo – in concorso con gli altri due indagati e con l’allora procuratore Pietro Giammanco (deceduto nel 2018) – nell’insabbiamento delle indagini su mafia e appalti, su cui Paolo Borsellino iniziò a lavorare nel 1992 dopo la morte di Giovanni Falcone. 

In particolare sono i presunti rapporti tra i mafiosi Buscemi e Bonura ed il gruppo guidato da Raul Gardini ad interessare oggi la procura nazionale di Caltanissetta, ma non solo si sospetta anche che gli indagati abbiano insabbiato un’indagine della procura di Palermo di cui si chiese l’archiviazione. 

Certamente una situazione difficile quella che negli ultimi anni ha colpito gran parte della magistratura e soprattutto taluni suoi referenti ed in ciò, anche noi semplici cittadini troviamo alquanto difficile comprendere ciò che è reale da quanto rappresenta una finzione, già… fin dove possiamo fidarci di questo Stato e soprattutto di quegli individui posti lì a rappresentare la giustizia e quindi a fare in modo che le inchieste giudiziarie giungano ad un soluzione senza dimostrarsi ogni giorno che passa farlocche o quantomeno compromesse!!!

Sì ditemi… dove sta la verità, perché mi sembra di esser come nella foto allegata!!! 

Se questo è esser genitori: già… si comprende il perché accadono ogni giorno tragedie come quelle che purtoppo andiamo vivendo!!!

Esser genitori è una cosa difficile, forse rappresenta una di quelle situazioni che solo pochi riescono a mettere in pratica…

Sì… perché non si tratta semplicemente di volerli i figli e quindi cercare di metterli al mondo, per questo (più o meno) siamo bravi tutti, il problema è farli crescere in maniera moralmente sana, cercando di far privilegiare sempre quei principi morali con cui dovranno tutta la vita condividere…

Quindi si tratta di creare quei presupposti affinché un soggetto non oltrepassi quella corretta razionalità per far emergere una personalità istintiva, irrazionale o per meglio far comprendere, una pazzia che soltanto un folle può evidenziare!!!

Non so dirvi se questa sia insita nel soggetto, se si tratta di un qualche Dna che si ha ancor prima di nascere, certamente qualcosa in quell’ambiente familiare non funziona o quantomeno non ha mai funzionato e a leggere certe notizie mi convinco che sia proprio così!!!

Sento giustificare alcuni genitori su quanto compiuto dai propri figli, parliamo ad esempio di un omicidio efferato compiuto con oltre settanta coltellate nei confronti di una ragazzina ed incredibilmente i propri genitori giustificano quell’azione inumana, anche se va detto che gli animali nella loro ferocia non attuano mai comportamenti sadici come quelli compiuti da certi barbari!!!

Si vorrebbe tra l’altro paragonare quella crudeltà con le azioni compiute dai mafiosi o da qualche terrorista, la chiamano “debolezza“, uno stato d’animo che va a sommarsi con tutti gli altri “femminicidi” compiuti in questo nostro Paese…

Si prova in quel colloquio a minimizzare quel crimine commesso dal figlio, evidenziando in quel comportamento una mancanza di lucidità, quasi vi fosse una personalità bipolare che ne abbia preso il sopravvento e che la parte sana (vorrei conoscere dove questa si trovi in quell’individuo) sia viceversa responsabili e abbia motivo di ricevere quella giusta comprensione…

Sapete come penso dopo aver letto quella intercettazione pubblicata sul web che se una situazione come quella fosse capitata ad un genitore “mafioso, criminale, terrorista”, beh… non credo proprio che quei “genitori” (se così si potessero definire…)  avrebbero ancora un figlio con cui andare a dialogare, ma siccome dall’altra parte vi è una famiglia perbene, con dei genitori sani… ecco questo è il risultato!!!

D’altronde leggendo l’intercettazione il messaggio che passa da quei cosiddetti “genitori” (in generale…non solo quindi per quel loro figlio…) è che chiunque commetta in questo Paese un reato (e parliamo di un omicidio…), prima o poi potrà beneficiare di tutta una serie di riduzioni della pena, a cui poi si sommeranno benefici per buona condotta, permessi di libera uscita, già… per lo studio, per andare al lavoro, per giungere anche ad una libertà condizionale…

Ma in un tutto ciò la giustizia dov’é??? Come sanno bene i miei lettori vi sono circostanze – proprio come quella sopra rappresentata – che mi convincono sempre di più a restare fedele a quel principio del “Contrappasso”!!!

Le mafie oggi: Dal crimine violento all’Infiltrazione economica.

I reati delle mafie sono strettamente legati all’economia: frodi, bancarotte, riciclaggio di denaro e reati fiscali sono diventati i principali strumenti attraverso cui le organizzazioni criminali operano. In passato, la criminalità organizzata era principalmente associata a reati violenti, come omicidi, estorsioni e traffico di droga, ma oggi la sua natura si è evoluta, adottando modalità più sottili e sofisticate. 

Le mafie, infatti, si sono infiltrate nelle strutture economiche legali, cercando di ottenere il controllo di attività imprenditoriali e risorse finanziarie attraverso metodi che non lasciano tracce evidenti di violenza, ma che possono avere un impatto devastante sull’economia e sulla società nel suo complesso.

Il cambiamento dell’oggetto della criminalità organizzata è evidente: mentre un tempo le mafie esercitavano il loro potere principalmente tramite l’intimidazione e la violenza, ora il loro raggio d’azione si è ampliato nell’ambito delle transazioni economiche. 

Le infiltrazioni mafiose nelle imprese, nei contratti pubblici e nella gestione dei fondi sono spesso difficili da individuare, ma altrettanto dannose per la competitività del mercato e per la crescita sana delle attività imprenditoriali. La criminalità economica legata alle mafie si manifesta anche attraverso l’accesso illecito al credito, la manipolazione dei bilanci aziendali e la gestione fraudolenta delle risorse.

Alcuni reati, definiti “spia”, possono essere indicatori della presenza di infiltrazioni mafiose. Tra questi, i reati fiscali sono tra i più rilevanti. Le frodi fiscali e le bancarotte fraudolente, ad esempio, possono nascondere dietro di sé operazioni di riciclaggio di denaro o il tentativo di mascherare il flusso illecito di fondi provenienti da attività criminali. Anche se non sempre è automatico, la presenza di determinati crimini può fungere da segnale per avviare indagini più approfondite e scoprire le radici di operazioni illegali più complesse. Un caso emblematico è rappresentato da operazioni giudiziarie recenti, come quelle legate a indagini sul riciclaggio e sulle frodi aziendali, che hanno portato all’apertura di processi rilevanti.

Il caso del processo Aemilia ha segnato una tappa importante nella lotta contro la criminalità economica. Non si è trattato però di un punto di arrivo, ma piuttosto di un inizio: questo processo ha aperto la strada a ulteriori indagini, alcune delle quali hanno condotto a nuovi procedimenti, come quello denominato 

Perseverance, che ha evidenziato ulteriori dinamiche di infiltrazione mafiosa in ambiti economici precedentemente considerati immuni. La costante evoluzione delle tecniche mafiose richiede un’attenzione rinnovata e un impegno continuo nell’adattare le indagini ai nuovi scenari, per prevenire il consolidamento di strutture criminali che, sotto le sembianze di attività legittime, operano in modo sotterraneo, ma altrettanto pericoloso.

La lotta contro la mafia oggi non si limita solo a combattere la violenza, ma richiede una visione globale e multidimensionale, che comprenda l’intercettazione dei flussi finanziari illeciti, la protezione delle imprese sane e il rafforzamento delle capacità investigative nell’area economica. 

Solo con un approccio integrato e in costante evoluzione sarà possibile contrastare efficacemente l’infiltrazione mafiosa nei settori produttivi e mantenere l’integrità del sistema economico e sociale.