Dando seguito a quanto alcuni giorni fa avevo scritto sulle società confiscate, un mio lettore, tramite email mi chiedeva la possibilità di pubblicare nel mio Blog, un bellissimo articolo scritto dal giornalista Attilio Bolzoni.
Essendo questo un tema speciale e di grande attualità, ho ritenuto appropriato assecondare la richiesta e pubblicare quanto ricevuto:
Quanto rendono i beni sequestrati alle mafie? Niente!!!
Una di sicuro è quella di Pontecagnano, sulla litoranea che da Salerno scende verso sud.
È un albergo e lì, gli affari vanno sempre bene, come prima…
Fino a quando è un capo della ‘Ndrangheta a mandare avanti il business tutto va a gonfie vele, quando poi arriva lo Stato le imprese affogano nei debiti.
Un esempio? Il famoso Cafè de Paris di Via Veneto, a Roma.
Era affollatissimo al tempo degli Alvaro di Sinopoli, a due anni dalla confisca uno dei locali simbolo della Dolce Vita rischia la chiusura.
I numeri raccontano tutto.
Su 1663 società confiscate dal 1982 – anno primo della legislazione antimafia – solo 35 sono in attivo. E per un soffio. Praticamente soltanto il due per cento.
E troppo il tempo che passa dal sequestro di un bene alla confisca, dalla sua destinazione all’assegnazione definitiva.
Cinque anni, sette, anche nove anni.
Terreni che sono ormai abbandonati.
Tutto funziona perfettamente se è nelle mani dei boss, tutto va in rovina se non ci sono loro.
La punta più alta di confische è in Sicilia: 621 le aziende espropriate ai boss.
In Campania sono 332 e 216 in quella Lombardia che, da qualche anno, si rivela la prima regione lontana dai tradizionali territori dei clan ad avere ricchezze sporche nel suo ventre.
Quali sono le tre cose da fare?
Franco La Torre:
1) la presenza di amministratori giudiziari competenti che siano in grado di fare il loro mestiere fino in fondo e di programmare piani a medio e a lungo termine per le aziende confiscate.
2) sostenere la legge d’iniziativa popolare ( quella che ha lanciato il Sindacato della Cgil ) per la tutela di tutti i dipendenti delle aziende sotto confisca e per garantire loro gli stessi diritti di tutti gli altri lavoratori dei settori in crisi.
3) utilizzare il contante sequestrato e reinvestirlo nelle attività dove si registrano le sofferenze.
L’elenco delle aziende che vanno o sono già andate in malora in pochi anni, o addirittura in pochi mesi, è infinito.
C’è una mappa dei disastri da una parte all’altra dell’Italia.
A Palermo c’è l’hotel San Paolo, in via Messina Marine, al confine fra Brancaccio e il porto di Sant’Erasmo, quasi difronte alla “camera della morte” dove in piena guerra di mafia i boss torturavano i loro nemici di cosca.
Costruito da Giovanni Ienna per conto dei fratelli Graviano (i due, Giuseppe e Filippo, si nascondevano nella suite prima delle stragi del 1992), quest’albergo è famoso per un ascensore esterno di vetro dove i genitori accompagnavano i figli per far vedere Palermo dall’alto e perché lì, nell'”ambiente” dell’hotel e degli amici dei Graviano – nel 1993 – è stato fondato il primo club di Forza Italia in Sicilia. L’albergo oggi accumula debiti spaventosi. Una voragine.
I vecchi proprietari erano i costruttori Piazza di Palermo.
Un’estensione di 713 ettari, campi coltivati a grano e a orzo, uliveti, un bosco, 13 case coloniche, un’antica fornace, una villa padronale, un agriturismo, una riserva di caccia, 200 capi di suini e duemila pecore.
La Pio Center di Bovalino, un pezzo di sanità calabrese fra Locri e Reggio nelle grinfie dei Nirta.
E poi Villa Santa Teresa di Bagheria, sequestrata all’ingegnere Michele Aiello, il re Mida della Sanità privata in Sicilia, quello che è sospettato di aver fatto da prestanome al vecchio Bernardo Provenzano e che ha contributo a trascinare in un gorgo giudiziario e a Rebibbia il governatore della Sicilia Totò Cuffaro.Quando i titolari erano Lorenzo Riela e suo figlio Francesco (condannato all’ergastolo per omicidio), legati tutti e due ai Santapaola, i dipendenti erano 250. Oggi sono 12. I Riela hanno provato a riprendersi la loro società di trasporti con vari prestanome. E facevano tutto dal carcere con la complicità di amministratori giudiziari.
E spiega: Lo Stato ci deve mettere la faccia!!!
Non basta sequestrare e poi gestire burocraticamente un bene, ma quel bene bisogna farlo diventare un buon esempio.
La verità è che queste aziende che erano delle mafie non si possono considerare come tutte le altre, è necessario trattarle come aziende speciali.
A parte le difficoltà di carattere finanziario – i lavoratori vengono messi in regola, si pagano i contributi arretrati ai dipendenti che i boss facevano lavorare al nero – queste imprese operano in contesti estremamente difficili.
Dal sequestro in poi l’intervento su ognuna di queste aziende deve essere fatto con grande attenzione al mercato”.
L’anno scorso Unioncamere e Libera hanno sperimentano un sistema di governance delle aziende confiscate. Un monitoraggio per capire quali sono le emergenze più immediate e soprattutto capire come intervenire. La lista degli interventi necessari: istituire strumenti di finanza agevolata e di incentivazione fiscale, introdurre facilitazioni contributive per il mantenimento dei dipendenti, prevedere un welfare per ricollocare i lavoratori
Ne è venuto fuori un piccolo grande miracolo. Tutto nasce nel 1996 quando al boss tolgono la Calcestruzzi e quattro anni dopo gliela confiscano.Hanno assunto un ingegnere ambientale, una donna per le pulizie, hanno assunto anche un nuovo autista.
Hanno allargato gli uffici e realizzato un nuovo stabilimento per il recupero degli scarti edilizi.
Un piccolo gioiello, già un’anomalia nel panorama dell’Italia che non vuole arricchirsi con i soldi della mafia.
Come quell’albergo confiscato alla camorra sulla strada che porta verso i templi di Paestum. Una clientela molto particolare. Quasi tutte coppie della zona. Molti impiegati, qualche professionista, ogni tanto si vede anche un pensionato. All’Hotel Mare ci vanno per fare l’amore. Nei dintorni di alberghi così – del genere daily use – ce ne sono almeno una dozzina. Ma l’Hotel Mare è l’unico sequestrato alla camorra. Non ci sono angosce a fine mese. Sempre in attivo.I numeri parlano molto chiaro: sono soltanto pochissime imprese quelle che resistono e tutte le altre prima o poi muoiono, questa è una situazione che grida vendetta…
Abbiamo bisogno di cose concrete, abbiamo bisogno di speranza”.
Un articolo di Attilio Bolzoni






