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Odessa, la luce che la guerra non potrà spegnere!

Ricordo ancora quella foto scattata tanti anni fa, quando mi recai in Ucraina per i lavori di ristrutturazione dell’ingresso del porto passeggeri di Odessa.
Era un’immagine che catturava un attimo di normalità, di bellezza, di vita. Oggi, guardandola, mi sembra di osservare un mondo perduto.
Quella città, così vibrante e piena di luce, oggi è ferita. Le sue strade, un tempo animate da risate e passi frettolosi, ora risuonano di un silenzio spezzato solo dal boato delle esplosioni.
Odessa era un luogo dove la vita scorreva con un ritmo diverso, più autentico. Ricordo i tram elettrici che solcavano le vie, le facciate color pastello dei palazzi, quelle architetture maestose che raccontavano storie di un passato complesso, a volte doloroso, ma sempre vissuto con dignità.
E poi c’erano loro, le persone. Genuine in ogni gesto, in ogni sorriso. Persone che, nonostante le difficoltà, sapevano trasformare un attimo qualunque in qualcosa di speciale…
Come quella volta in cui vidi una fila ordinata di persone dietro a una cisterna enorme – identica a quelle che da noi trasportano benzina o gasolio – e ciascuno di loro, paziente, aspettava il proprio turno per riempire i bidoni. Avvicinandomi, curioso, chiesi: “Gasoline? Petrolio?”. E tutti, all’unisono, mi risposero ridendo: “No… Vodka!“. Fu una risata collettiva, un lampo di gioia pura che mi insegnò come la felicità possa sbocciare anche nelle circostanze più impensate.
Attraversai l’Ucraina in lungo e in largo, da Čop a Kiev, passando per città che sembravano uscite da un romanzo dell’Est. Paesaggi sconfinati, strade di cemento interminabili, e quella sensazione di libertà che solo i luoghi ancora legati alla terra sanno regalare.
Anche il cibo aveva un sapore diverso, più vero, come se ogni boccone conservasse ancora il profumo del campo. Eppure, non tutto era idilliaco. Dietro le facciate rinnovate dei palazzi si nascondevano storie di fatica quotidiana, di famiglie che dividevano lo stesso spazio angusto, ma che non perdevano mai la speranza né la dignità. I bambini, soprattutto, mi rimasero nel cuore. La loro felicità era semplice, fatta di niente, e forse proprio per questo più autentica di qualsiasi altra cosa avessi mai visto.
Oggi, però, quelle strade sono il teatro di una guerra che non dovrebbe esistere. Odessa, con il suo porto strategico, è diventata un bersaglio. Le bombe cadono, i ricordi si sbriciolano, e quel senso di comunità che tanto mi aveva colpito rischia di svanire sotto le macerie. È straziante pensare che un luogo così ricco di vita e storia possa ridursi a un campo di battaglia. Ancora più atroce è rendersi conto che tutto questo accade per calcoli geopolitici, per confini da tracciare, per brama di potere.
So che la strada per la pace è lunga, che gli interessi in gioco sono molti, e che nessuna soluzione sarà indolore. Ma quando ripenso a quelle risate, a quei sorrisi, a quella vodka distribuita come un bene prezioso, mi chiedo come l’umanità possa permettersi di perdere tutto questo.
Odessa merita di tornare a essere la città che ho conosciuto, merita di rinascere. Perché nessuna guerra, nessun conflitto, potrà mai cancellare la bellezza che ho visto brillare nei suoi occhi. E nessuna bomba potrà spegnere la luce che, testardamente, continua a resistere.

La trappola degli Houthi: come il gruppo yemenita sta trascinando gli USA in una guerra senza uscita!

Donald Trump ha promesso di “annientare completamente gli Houthi“, ma questa dichiarazione, tipica del suo stile diretto e provocatorio, potrebbe scontrarsi con una realtà molto più intricata di quanto sembri. 

Infatti, gli Stati Uniti, nel caso in cui decidessero di intervenire nel Mar Rosso in nome della “libertà di navigazione“, dovranno fare i conti con un arduo avversario, che come abbiamo potuto vedere, nonostante anni di bombardamenti da parte dei sauditi ed un isolamento internazionale, ha dimostrato una resilienza straordinaria.

Quindi… bombardare non basta: vedasi la lezione (mai imparata) delle guerre asimmetriche!

Il New York Times sottolinea un dato cruciale: “raramente nella storia i conflitti sono stati vinti solo con raid aerei”! 

Come riportavo sopra, Gli Houthi, sostenuti dall’Iran (ma con un alto grado di autonomia operativa), hanno resistito a una coalizione guidata dall’Arabia Saudita tra il 2015 e il 2022, nonostante la superiorità militare saudita. Per cui, anche se Washington pensasse di intensificare gli attacchi, difficilmente riuscirebbe a piegarli senza un’occupazione del territorio…

E qui nasce il paradosso: dopo anni di fallimenti in Iraq e Afghanistan, gli USA hanno poco appetito per un nuovo intervento di terra. Nel contempo, le compagnie di navigazione potrebbero preferire rotte alternative (come quella del Capo di Buona Speranza), sicuramente più costose ma meno rischiose, vanificando di fatto l’obiettivo dichiarato del presidente Trump di “proteggere il commercio globale“.

Viene spontaneo chiedersi: Gli Houthi vogliono davvero questa guerra?

Secondo Farea Al-Muslimi, ricercatore yemenita presso Chatham House, gli attacchi statunitensi potrebbero essere esattamente ciò che gli Houthi desiderano: una guerra aperta con gli USA per legittimarsi come resistenza anti-imperialista e innescare un’escalation regionale. Non a caso, proprio in questi giorni, il gruppo militare yemenita ha intensificato i lanci di missili verso Israele, dimostrando una capacità di provocazione che va ben oltre il Mar Rosso.

Va detto inoltre che sebbene Teheran fornisca armi e intelligence agli Houthi, il movimento ha dimostrato di poter agire in modo indipendente, a differenza di Hezbollah in Libano. Quindi, anche se gli USA riuscissero a convincere l’Iran a ridurre il suo sostegno (magari attraverso accordi diplomatici), gli Houthi possiedono reti logistiche e consenso interno che li rendono difficili da sradicare.

Ecco perché ritengo errato da parte degli Usa ripetere gli errori compiuti, mi riferisco a quelle  procedure strategiche adottate nel passato, come i bombardamenti che invece di indebolire il nemico lo hanno rafforzato! Già… obiettivi vaghi (“annientare” un gruppo è più uno slogan che una strategia) e la sottovalutazione della complessità locale. Se gli USA continueranno su questa strada senza un piano chiaro, rischiano di ritrovarsi invischiati in un nuovo pantano mediorientale, con conseguenze imprevedibili per la stabilità regionale.

Concludo confermando che la retorica della “guerra lampo” contro gli Houthi, ignora ahimè tutte le lezioni della storia. Senza una strategia che vada oltre i raid aerei e consideri le dinamiche politiche yemenite, l’unico risultato potrebbe essere un’ulteriore destabilizzazione del Medio Oriente. E, come spesso accade, a pagarne il prezzo più alto sarebbero i civili yemeniti, già stremati da anni di guerra!

Il conflitto in Medio Oriente: tutto si riduce a uno scambio di prigionieri?

Osservando quanto sta accadendo in questi giorni – dopo l’accordo di cessate il fuoco tra Israele e Hamas del 19 gennaio – ho ripensato ai quindici mesi di conflitto in quel territorio. 

Migliaia di civili uccisi, tra cui donne e bambini, la Striscia di Gaza ridotta a un cumulo di macerie, una devastazione totale. 

Mi chiedo: a cosa è servito tutto questo? Qual era, fin dall’inizio, il vero obiettivo di Hamas? Liberare i propri ostaggi (e forse alcuni familiari), sacrificando la popolazione civile?

Questa mattina Hamas ha rilasciato altri due ostaggi israeliani, con il previsto rilascio di un terzo nelle prossime ore: un cittadino con doppia cittadinanza, israeliana e statunitense. In cambio, Israele dovrebbe liberare 183 prigionieri palestinesi. Secondo Hamas, tra questi 18 stanno scontando l’ergastolo mentre 54 hanno condanne a lungo termine; i restanti sono abitanti di Gaza arrestati dopo l’attacco del 7 ottobre 2023.

I tre ostaggi liberati oggi – Bibas, Kalderon e Siegel – sono civili imparentati con altre persone sequestrate in quel tragico giorno. La moglie di Siegel e i figli di Kalderon erano stati liberati durante la breve tregua di novembre 2023. La vicenda della famiglia Bibas, invece, è ancora più drammatica: Yarden Bibas è il padre di Kfir e Ariel, due bambini di nove mesi e quattro anni al momento del rapimento, e marito di Shiri Bibas.

Hamas sostiene che i tre siano stati uccisi in un bombardamento israeliano nel 2023, ma Israele non ha conferme in merito. Secondo i termini dell’accordo, se fossero stati vivi sarebbero dovuti essere rilasciati prima degli uomini, cosa che non è avvenuta. La restituzione dei corpi degli ostaggi morti in prigionia è prevista nelle fasi successive del cessate il fuoco.

Questa volta il rilascio è stato meno caotico rispetto ai precedenti, quando gli ostaggi venivano liberati in mezzo a folle di palestinesi accorsi ad assistere alla scena, creando calche che rallentavano il trasferimento.

Ancora una volta sorge una domanda: la vera battaglia non dovrebbe essere per risolvere i problemi della società civile? Per trovare un modo pacifico di convivere con Israele, per costruire uno Stato Palestinese riconosciuto a livello internazionale? Per adottare processi che portino a una società più democratica e meno armata?

No, nulla di tutto questo. Il bilancio è solo quello di oltre 45.000 vittime civili, trasformate in scudi umani e carne da macello per gli interessi di un gruppo militare che si fa portavoce della liberazione di un popolo, ma che in realtà persegue solo il potere e la liberazione di alcuni suoi affiliati.

Quindici mesi di conflitto che hanno infiammato tutto il Medio Oriente: dal pogrom all’invasione di Gaza, dagli attacchi dei ribelli yemeniti alla crisi in Siria. Ma per cosa, esattamente?

Già…il dramma di Gaza: vite sacrificate per uno scambio di prigionieri…